Kyōgen, l'antica farsa giapponese - cenni storici
Il significato di kyōgen
Il termine kyōgen 狂言 è solitamente tradotto come ‘parole folli’ ed è composto dal carattere 狂 [kyō] che vuol dire ‘pazzo’ e dal carattere 言 [gen] che significa ‘parole’; altri studi propongono invece il significato di ‘essere ubriaco di parole’, sottolineando l’importanza del dialogo nell'ambito della dinamica teatrale.
Kyōgen, attualmente, indica una forma comica del teatro tradizionale giapponese che, da circa seicento anni, è stata tramandata per generazioni. Infatti, dal secondo dopoguerra, il kyōgen ha sviluppato una nuova consapevolezza della sua importanza ed unicità come genere di teatro classico ed ha proseguito il suo percorso in maniera autonoma dal teatro nō能, con nuovi studi ed esperimenti, spettacoli originali ed insegnamenti all'estero.
Ben più antico del teatro kabuki o bunraku, il kyōgen in origine era nato parallelamente al teatro nō ed era eseguito fra le diverse rappresentazioni previste in un programma nō come intervallo comico tra drammi. L’insieme delle due forme del teatro tradizionale è definito nōgaku 能楽 ed ancora oggi è possibile che in un programma nō siano eseguite entrambe.
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Dai contenuti semplici, il kyōgen inscena comuni situazioni umane usando il linguaggio popolare, ma lo fa tramite movimenti e schemi vocali altamente complessi, organizzati, strutturati e minuziosamente stilizzati. In questa forma di teatro non ci sono significati simbolici o esoterici e i copioni stessi sono sufficienti per una piena comprensione delle profonde sfumature delle commedie. Tema tipico del kyōgen è l’uomo comune e le sue relazioni con l’ambiente che lo circonda; l’uomo della strada che, nelle situazioni di tutti i giorni, agisce proprio nel modo in cui ognuno di noi vorrebbe comportarsi, scevro da doveri e costrizioni sociali.
I personaggi del kyōgen si muovono in un contesto storico inquadrabile nel periodo Muromachi室町, ma il loro spirito è universale, atemporale, non legato a luoghi specifici, ossia in grado di trasmettere emozioni e sensazioni condivisibili dallo spettatore di qualunque epoca e di qualsivoglia luogo, senza distinzioni di sorta.
In ciò risiede forse la forza del kyōgen, il motivo per cui l’anima di questo teatro è rimasta pura ed intatta e tale rimarrà per lungo tempo a venire.
Il kyōgen nei secoli: cenni storici
Per conoscere le origini del kyōgen dobbiamo risalire al sarugaku 猿楽, versione giapponese delle varie arti performative importate dalla Cina e conosciute col nome di sangaku 散楽. Il sarugaku divenne una forma a se stante di teatro durante la metà del periodo Heian平安 (794-1185), quando la famiglia Fujiwara 藤原 era al culmine del suo potere alla Corte Imperiale. Le sue numerose tipologie di performance sono catalogate nello Shin sarugaku ki 新猿楽記 (Cronache del nuovo sarugaku), scritto intorno al 1060 da Fujiwara no Akihira 藤原明衡 (989-1066), il quale descrive spettacoli così divertenti da far “slogare le mascelle” di tutti gli spettatori. Anche nel Genpei seisui ki源平盛衰記 (Cronache dell’ascesa e della caduta dei clan Genji e Heike), scritto intorno al 1300, il sarugaku era descritto come un tipo di teatro dove le frasi comiche erano recitate costantemente per far ridere la gente. Fino a questo periodo, quindi, il sarugaku rimaneva uno spettacolo divertente e comico interpretato per tutta la popolazione senza avere la pretesa di rappresentare tematiche auliche.
Durante il periodo Kamakura 鎌倉 (1185-1336), poi, il sarugaku si divise in due arti, conosciute come ‘l’arte principale’ e ‘l’arte raffinata’. La prima, mantenendo lo humour originale del sarugaku, amalgamato con gli spettacoli tenuti durante le festività Scintoiste, il sanbasō 三番叟 e il dengaku 田楽, e sottoposta a processi d’alterazione e razionalizzazione, divenne ciò che noi oggi conosciamo come kyōgen; l’altra, con canto e danza come suoi fondamenti più importanti e temi tragici presi dalla storia e dalle leggende come suoi materiali principali, divenne il nō. In questo modo nacquero due forme di teatro così diverse, ma in fondo così correlate.
Nel suo Kyōgen no michi 狂言の道(La via del kyōgen), Nomura Manzō 野村万蔵 scrive:
L’alto gusto raffinato dell’audience medievale chiedeva una separazione organica dei vari aspetti del sarugaku; musica e danza da una parte, mimica e umorismo dall'altra, declamarono la nascita di queste arti ‘gemelle’: il nō e il kyōgen. Se immaginiamo di vedere questi gemelli come dei colori, saranno così diversi da sembrare il rosso e il bianco, fino al più profondo aspetto delle loro differenze strutturali di simbolismi e semplicità, ed in questo modo non saranno mai scambiati l’uno con l’altro. Ma quando la personalità yin del nō e la personalità yang del kyōgen sono messe fianco a fianco, l’effetto di mutuo riflesso produrrà un’armonia sublime.
Molti studiosi sono spesso riluttanti nel definire precisamente l’anzianità tra queste arti gemelle. In ogni caso, se consideriamo l’idea comune che il lavoro di teorizzazione e sistematizzazione del nō è stato attuato dal gruppo padre-figlio di Kan’ami 観阿弥 e Zeami 世阿弥 tra il 1320 e il 1420, dobbiamo anche notare che il monaco Genei (1269-1350), conosciuto come il primo commediografo kyōgen ed autore di cinquantanove delle commedie dell’odierno repertorio, morì quando Kan’ami e Zeami cominciarono appena i loro lavori. Nel suo Shūdōsho 習道書 (Scritti sulla Via dell’insegnamento), scritto nel 1430, Zeami stesso parla “degli alti risultati ottenuti dall’attore kyōgen del passato conosciuto come Tsuchidayu”. Tali prove indicano che il kyōgen raggiunse un apprezzabile livello di perfezione artistica nel periodo precedente a Zeami e alla sua creazione del nō come la sublime arte che conosciamo oggi.
Il nuovo progetto teatrale "Italo Kyogen", mira alla divulgazione del kyōgen classico e alla creazione di un nuovo paradigma nel panorama teatrale italiano, fondendo le strutture classiche della farsa giapponese, con testi moderni in italiano creati ad hoc e successi moderni giapponesi in traduzione, per far vivere al pubblico italiano un’esperienza quanto più immersiva nel teatro comico giapponese tradizionale.
Penne del Sol Levante - Il Paese dei Desideri di Hara Tamiki
Benvenuti alla rubrica Penne del Sol Levante, dove parliamo di libri, scrittori e letteratura nipponica. L’argomento di oggi sarà una raccolta di racconti molto particolari, Il Paese dei desideri di Hara Tamiki, il massimo esponente della letteratura atomica.
Testimone diretto dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto del 1945, questo autore ha cercato a lungo di risolvere le questioni morali relative alle conseguenze tragiche di quell’evento attraverso i suoi scritti, profondi e intimistici. Alle riflessioni sul quel giorno d’agosto si intrecciano, con impeto, quelle legate al dolore per la morte della moglie tanto amata, risalente a qualche mese prima. Questi due sono i cardini attorno a cui vengono costruiti questi racconti, di non semplice lettura. Servono infatti attenzione, pazienza, concentrazione e umiltà per affrontare la mente di Hara Tamiki.
I cinque scritti che ci propone (Labbra di fuoco, Sulle rive di una morte meravigliosa, Requiem, Il Paese dei desideri, Verde infinito) narrano di uomini persi, con mogli in fin di vita, circondati da figure senza contorni precisi, devastati dal dolore e dalla mancata comprensione del genere umano. Sono tantissime le domande che si accavallano nella narrazione inflessibile e ininterrotta di Tamiki: il mondo proseguirà nonostante la disumanità di eventi così tragici? Cosa sono gli uomini? Cosa significa sopravvivere? E’ davvero possibile farlo? Il mondo merita di andare avanti? Come si fa a sperare nel futuro, lasciandosi tutto alle spalle? Cos’è l’umanità? Come possono coesistere nel mondo bellezza e distruzione?
Questi interrogativi coinvolsero la coscienza e la mente di Tamiki davvero in profondità e lo tormentarono per tutto il resto della sua vita dopo la bomba, sino al suicidio nel 1951. Tentò in tutti i modi di rispondere a queste domande attraverso i suoi scritti e fu uno dei più grandi esaminatori della situazione dei sopravvissuti e della questione morale insita nello sgancio della bomba nel 1945. Questo libro è una prova tangibile dell’incoscienza dell’essere umano, e del suo naturale bisogno di comprendere.
Se volete saperne di più venite a leggere la recensione completa sul blog Penne d’Oriente. Buona giornata lettori!
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Il libro del ramen: Intervista a Stefania Viti
Abbiamo incontrato Stefania Viti, giornalista ed esperta di Giappone contemporaneo, per parlare del suo ultimo successo editoriale Il libro del ramen pubblicato da Gribaudo-Feltrinelli.
Come nasce l’idea di scrivere un libro sul ramen?
L’idea nasce all’interno di un percorso che sto facendo insieme alla casa editrice Gribaudo-Feltrinelli avviato nel 2013. Per Feltrinelli ho curato il volume Il Sushi, uscito nella collana Real Cinema insieme al DVD Jiro e l’arte del sushi, nel 2015 con Gribaudo ho pubblicato L’arte del sushi, edizione ampliata, aggiornata e illustrata del primo volume e nel 2016 ho chiuso questa trilogia con Il sushi tradizionale. Ora abbiamo deciso di approfondire un altro piatto simbolo della cucina giapponese, il ramen, che in questo periodo sta godendo di grande popolarità, prova ne è anche il fatto che questo libro, uscito nel novembre 2017, già nel febbraio 2018 è andato in ristampa!
Com’è strutturato il libro?
Il libro segue quella che mi piacerebbe diventasse la mia cifra stilistica di raccontare la cultura giapponese. Nei miei libri c’è infatti sempre molta cultura, che diventa la chiave di lettura per raccontare un paese. La prima parte introduce la storia del ramen e le curiosità a essa legate. Il ramen è un piatto declinato localmente, per questo numerose pagine sono dedicate alla geografia di questo piatto e dunque alla scoperta delle varie regioni del Giappone. Il libro porta così a scoprire un intero Paese e il ramen è una sorta di filo rosso di tutto il viaggio. Anche se in modo diverso rispetto al sushi, anche quella del ramen è una ricetta molto complessa. Ho inserito quindi una parte propedeutica che introduce gli ingredienti di base, per proseguire con una seconda parte riservata alle ricette di base per fare i brodi. Nella terza parte si arriva presento i piatti realizzati dagli chef di alcuni famosissimi ristoranti giapponesi. Il libro si avvale della collaborazione di Ramen Expo, uno dei maggiori eventi dedicati al ramen in Giappone, che qui presenta numerose ricette originali. A queste si aggiungono altre ricette di tre Ramenya (ristoranti specializzati in ramen) italiane, che propongono, ciascuna, un tipo diverso di ramen.
Racconti di come il ramen rappresenti “il Giappone in una ciotola” e ogni zona o regione del paese siano caratterizzate da una particolare ricetta. Quali sono le preparazioni di base e quali le specialità?
La preparazione del ramen non ha delle regole fisse, ma esistono quattro tipologie classiche di brodi: il miso ramen, lo shio (sale) ramen, lo shōyu (soia) ramen e il tonkotsu ramen (fatto con le ossa di maiale). Il ramen è così raccontato attraverso il suo brodo. Col tempo queste tipologie si sono mescolate, contaminate. Nella parte delle ricette dei ristoranti giapponesi molte vanno sotto l’etichetta di “Brodi misti”, perché ottenuti dalla mescolanza di vari tipi di brodo. Per esempio, nelle ricette di Casa Ramen si arriva alla completezza del brodo mescolandone tre diversi tipi.
Esiste un vero e proprio galateo del ramen. Hai qualche aneddoto in merito?
Il galateo del ramen procede al contrario rispetto al nostro. Uno degli aspetti più curiosi è il fatto che i popoli asiatici quando mangiano la pasta lunga fanno rumore, sia come segno di apprezzamento, sia per favorire il raffreddamento della pietanza. Questo non è visto come una cosa sconveniente o maleducata, anzi… Un’altra “regola” è che prima di iniziare a mangiare si assaggi il brodo. Solo dopo si va a “distruggere” l’armonia di colori e forme. Il brodo dà il timbro del gusto, da esso si capisce la qualità del piatto.
Nel libro ti soffermi sul legame tra ramen, letteratura, cinema e manga. Com’è diventato così popolare questo piatto?
In Giappone il ramen è sempre stato un piatto popolare, ma davvero nel senso etimologico del termine: un piatto per il popolo. Nonostante sia un piatto ricco di ingredienti, sostanzioso, completo, mantiene un prezzo abbordabile. Caratteristica che per il sushi non è sempre vera, dato che esistono sushiya molto care ma anche i kaitenzushi dove il sushi è ancora a buon prezzo. Il sushi è nato come cibo di strada, ma con la Seconda Guerra Mondiale è diventato un cibo di élite, mangiato di nascosto, anche perché non c’era il riso. Parlo del sushi perché è sempre stato una sorta di “antagonista” del ramen. Il sushi è diventato un simbolo alto, raffinato, portatore di un’estetica zen, della filosofia del “less is more”. Negli anni Ottanta ha fatto proseliti nella cultura culinaria internazionale, mentre il ramen è rimasto nei confini del Giappone. Negli anni Ottanta e Novanta l’immagine delle pentole di ramen non si confaceva all’immagine internazionale del Giappone che si stava diffondendo. Il ramen è però rimasto presente in tutta la cultura underground, nei manga, negli anime (Doraemon per esempio mangia i ramen). Poi è arrivato Jūzō Itami con il film Tampopo che nel 1985 ha segnato una riscoperta del ramen. Jūzō fa una specie di “spaghetti western” ambientato in una locanda di ramen. Il ramen diventa simbolo di un Giappone autentico da difendere dall’assalto della controparte occidentale. Il nemico è rappresentato simbolicamente dagli “spaghetti” appartenenti a una cultura lontana. L’Occidente è in quel momento un mondo poco definito per il Giappone tanto che la scena degli spaghetti è girata in un ristorante francese. Il film comunque più che la storia delle gang locali racconta l’artigianalità del ramen, la sua preparazione e l’esperienza della degustazione. Nel 1988 Yoshimoto Banana in Kitchen fa diventare il ramen il fulcro del racconto, un’esperienza quasi spirituale. Per arrivare al boom di oggi fino al boom di oggi grazie anche all’azione di promozione e valorizzazione portata avanti dai primi anni 2000 da Food Japan.
Come è stato accolto il ramen in Italia?
Oggi è accolto benissimo! Addirittura diverse testate giapponesi mi hanno intervistata proprio per capire come io vedessi successo e diffusione di questo piatto nel nostro Paese. D’altra parte da noi è già ben radicata la cultura della pasta lunga. Inoltre, il ramen è un piatto molto più facile da mangiare rispetto al sushi perché non c’è il pesce crudo.
Chi sono i più importanti chef di Ramenya in Italia? Come hai sviluppato la collaborazione con alcuni di loro per il libro?
Il libro non vuole essere una guida, non illustra un panorama generale. Ho scelto tre diversi chef i cui ristoranti propongono tre diverse tipologie di ramen: Misoya perché fa ramen al miso, Casa Ramen per il tonkotsu, Niko Niko Ramen & Sake fa shio ramen. Sono storie e varietà differenti, non si sovrappongono tra loro.
Dopo il sushi e il ramen, continuerai in questo percorso di promozione e valorizzazione in Italia della cucina giapponese?
Sì certo. Stiamo già lavorando ai prossimi argomenti da trattare. Se il pubblico continua a seguirci proseguiremo sicuramente: c’è ancora tanto da dire e da raccontare! È importante avere testi in Italia che non siano semplici traduzioni da altre lingue. È il momento giusto perché gli studiosi italiani possano essere valorizzati. L’Italia è molto sensibile all’arte culinaria. Abbiamo specialità, nicchie, eccellenze. Noi italiani possiamo essere quelli giusti per raccontare una cucina e una cultura culinaria così sofisticate, come quelle del Giappone. E poi, magari, saranno i nostri libri a essere tradotti!
Parli tanto di cucina nei tuoi libri, ma tu sai cucinare?
In realtà cucino poco… O non cucino affatto. Però mi piace mangiare! Il mestiere degli chef è quello di fare cose buone, il nostro mestiere – di giornalisti e scrittori - è quello di saperle riconoscere e raccontare. Credo il mio compito sia proprio quello di raccontare le ricette e contestualizzare la cultura gastronomica di cui si parla: operazione che ritengo estremamente necessaria quando parliamo di paesi, piatti e culture molto distanti e diverse dalle nostre. Quindi, lasciamo cucinare i cuochi e lasciamo scrivere gli scrittori!
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Penne del Sol Levante - Il segreto del lago di Keigo Higashino
Benvenuti alla rubrica settimanale di Penne del Sol Levante, oggi vi presento il maestro del thriller giapponese Keigo Higashino. Il suo romanzo Il segreto del lago ci trasporta in una situazione davvero particolare. Tutto inizia con quattro coppie di genitori apprensivi che decidono di passare l’estate in una villa sul lago, per permettere ai figli di studiare e prepararsi adeguatamente agli esami d’ammissione alla scuola superiore. Con loro c’è anche un insegnante privato che seguirà le lezioni giornaliere. La storia si svolge sulla riva del lago Himegami.
La villa, appartenente a una delle famiglie, è permeata da subito dall’ansia dei genitori per il successo dei figli e per le preoccupazioni dovute a un loro eventuale fallimento. L’intera vita professionale e il futuro di questi ragazzi sembrano dipendere dall’inserimento in una prestigiosissima scuola cittadina. Ogni conversazione e ogni pensiero ruotano intorno a questo grande evento, atteso sul finire della stagione estiva. C’è solo una persona a cui tutto ciò non interessa per nulla: Shunsuke Namiki.
L’uomo infatti è deciso a lasciare la moglie per la giovane segretaria con cui ha una relazione affettiva. Quando la donna si presenta alla villa con il pretesto di portargli documenti di lavoro che aveva dimenticato in ufficio l’uomo ne rimane profondamente sconvolto ed è assai imbarazzato. Decide così di darle appuntamento in un hotel poco distante dal lago, così da liberarsi della presenza ingombrante della moglie, dei ragazzi e degli altri genitori. Con una scusa lascia la villa e la raggiunge, ma quando arriva di lei non c’è traccia. Sconfortato, ritorna dalla compagnia e piomba in un incubo inaspettato: il corpo della sua amante giace sul pavimento della camera da letto ed è proprio sua moglie a confessare di averla uccisa. A questa situazione estrema e paradossale si aggiunge il comportamento anomalo delle altre coppie, tutti sono decisi ad aiutare la donna e dimenticarsi del tremendo misfatto. Com’è possibile? Shunsuke si ritrova inghiottito nelle tenebre più oscure e districarsene non sarà facile.
Lo stile di questo autore è semplice, con frasi che vanno dritte al punto, descrizioni ben dosate e non ci fa mancare i momenti di suspence. Una scrittura molto piacevole, voltiamo pagina senza neanche accorgercene.
Se volete saperne di più venite a leggere la recensione completa su Penne d’Oriente! Buona lettura a tutti.
Trent'anni di Akira, il capolavoro di Otomo
Era il 1988, quando nelle sale uscì, per la prima volta, Akira, trasposizione cinematografica del manga omonimo di Katsuhiro Otomo. Il film ebbe un successo straordinario: con 50 milioni di dollari di incasso, è considerato oggi uno dei migliori film di science fiction di sempre, accanto a pietre miliari come Blade Runner.
Il manga fece il suo debutto nel 1982 sulla rivista Yangu Magajin, consacrando il suo autore come uno dei più influenti fumettisti del mondo intero. Fin da giovanissimo, Otomo coltiva tre grandi passioni: il cinema, la scrittura e il disegno. Nei suoi primi lavori come mangaka affronta generi differenti, ma da subito emerge la sua cifra stilistica: l'attenzione dedicata all'introspezione psicologica dei personaggi e le influenze del cinema occidentale (da Hopper a Kubrick).
Akira è il punto d'incontro tra il linguaggio cinematografico occidentale e lo stile dei manga: se il ritmo del racconto e le inquadrature ricordano i classici film di fantascienza americani, l'immaginario di riferimento è propriamente nipponico. In esso ricorrono temi cari a buona parte dell'animazione seriale giapponese, come il rapporto tra l'uomo e la macchina, sfruttato in numerosi anime e manga anche recentissimi (da Astro boy e i robot giganti di Go Nagai come Jeeg, fino ai più recenti Gundam, Neon Genesis Evangelion, Eureka Seven), con qualche incursione nel cinema in carne e ossa (Tetsuo the iron man).
Nel 1988 dunque esce il film in sala. Otomo rielabora personalmente il manga, adattandolo alle esigenze del grande schermo. Ottiene uno storyboard di circa 700 pagine: le numerose sottotrame e la ricca caratterizzazione dei personaggi vengono parzialmente sacrificate. Oltre alla contaminazione tra generi (dalla fantascienza al road movie), già presente nella trama originale, il film si mostra come ibrido anche a livello tecnico, mescolando appunto tradizione nipponica con suggestioni e innovazioni occidentali, ad esempio nella tecnica di doppiaggio. Tutto ciò rende Otomo uno dei mangaka meno "giapponesi", e il film un capolavoro fuori dal tempo che merita di essere (ri)scoperto.
E potete riscoprirlo proprio al cinema il 18 aprile.
L'addio a Takahata Isao, il co-fondatore dello Studio Ghibli
Ci ha lasciati nella giornata di ieri, 5 aprile 2018, Takahata Isao (高畑 勲), famoso regista d'animazione giapponese e co-fondatore dello Studio Ghibli insieme a Miyazaki Hayao.
Nato nel 1935, inizia la carriera nel mondo dell'animazione nel 1959, debuttando come aiuto regista e lavorando a numerosi anime sia cinematografici che televisivi. Il suo amore per il cinema lo porta a scoprire un modello alternativo all'animazione disneyana, all'epoca dominante. Influenzato dalle opere del francese Grimault e dalla rivoluzione seriale televisiva, Takahata sensei diventa, nel giro di pochi anni, uno dei nomi più celebri e amati del mondo dell'animazione.
Tra i suoi capolavori, ricordiamo Una tomba per le lucciole (Hotaru no haka, 1988), Pioggia di ricordi (Omohide poro poro, 1991), Pom Poko (Heisei tanuki gassen Ponpoko, 1994), I miei vicini Yamada (Hōhokekyo tonari no Yamada-kun , 1999) e La storia della principessa splendente (Kaguya-hime no monogatari, 2013).
Kintsugi, corso di tecnica tradizionale a Milano
Sono Chiara Lorenzetti, restauratrice. Il mio lavoro consiste nel riparare oggetti importanti per le persone, nascondendone rotture e difetti. Qualche anno fa, però, ho scoperto che non interessa a tutti che una crepa sia ben nascosta, ho scoperto che a volte le crepe sono la cosa che aggiunge valore, storia e significato a un oggetto.
Ho scoperto l’arte del Kintsugi, un’antica tecnica giapponese, nata alla fine del quindicesimo secolo, che consiste nel riparare oggetti in ceramica mettendo in evidenza le crepe con polvere d’oro. Dopo un periodo di studio ed esperimenti ho incontrato l’Associazione Giappone in Italia e, assieme, abbiamo deciso di proporre un corso di Kintsugi con la tecnica tradizionale giapponese, quella originale. Infatti, al posto delle resine epossidiche usate in Occidente, il Kintsugi originale prevede l’impiego della lacca autoctona Urushi. Insegnare ad altri è sempre una grande responsabilità ma, al contempo, trasmettere la propria passione ad altre persone è appagante e, come nel caso del primo corso tenuto a Milano, permette sia a chi insegna che a chi apprende di aprire se stesso a nuove esperienze.
Durante le quattro settimane di corso i sei allievi, tutti provenienti da realtà diverse, hanno imparato come rompere e riparare un oggetto in ceramica, hanno sperimentato l’uso di materiali antichi come la lacca Urushi e hanno applicato la ricchezza dell’oro alle fratture nell’oggetto. Oltre a questo, però, ciascuno di essi ha vissuto un esperienza, artigianale e umana, che lo ha portato più vicino al sé artistico.
Ognuno degli allievi ha vissuto il corso in un modo personale, chi focalizzandosi più sull’aspetto tecnico e chi su quello filosofico e umano. Anche per l’insegnante questo corso è stata un’esperienza importante. La soddisfazione espressa dagli allievi rispecchia quella dell’insegnante che, per quattro settimane, ha seguito e incoraggiato, corretto e suggerito a sei persone desiderose di apprendere di più su una tecnica di restauro e su se stessi.
Forse è con le loro parole che il successo del corso si esprime al meglio.
[blockquote align="none" author="Annamaria"]"È stato un bellissimo corso, mi sono trovata molto bene con te e tutto il gruppo.
Le ore sono volate anche per l’argomento interessante."
[/blockquote]
[blockquote align="none" author="Raffaella"]"Il corso per me è stata una piacevole sorpresa, alla prima lezione non sapevo esattamente cosa aspettarmi, […] ma la tua professionalità e passione insieme all'armonia creatasi nel gruppo si è trasformata in una bellissima esperienza e crescita costante."[/blockquote][blockquote align="none" author="Melania"]"Nelle 4 settimane in cui siamo stati insieme mi hai insegnato infatti, con la tua arte, a dilatare il tempo. […] La cosa di cui ora sono compiaciuta è che mi hai insegnato tra le altre cose a sorridere di fronte ad un oggetto rotto…"[/blockquote]
[blockquote align="none" author="Maurizio"]Grazie a te per il corso che hai organizzato. Mi è piaciuto tantissimo ed era quello di cui avevo bisogno. Ho imparato tanto da te e mi sono divertito.[/blockquote]
[blockquote align="none" author="Ilaria"]"È stata veramente una bella esperienza, finalmente ho imparato questa affascinante tecnica che rincorrevo da anni! Ho trovato un arricchimento sia a livello formativo sia a livello umano, conoscendo te ed i miei compagni di corso, tutte belle persone con le quali ho percepito subito una sintonia, al di là delle età differenti, delle diverse città di provenienza e delle professioni di ognuno. "[/blockquote]
[blockquote align="none" author="Fiorenza"]"Ho trovato il corso molto interessante e stimolante. Mi sono avvicinata al kinsugi pensando sia di poter aggiungere nuove competenze al mio bagaglio tecnico di restauratrice, imparando le basi di questa antichissima arte, che di poter dare un valore aggiunto alla mia creatività […].Un ulteriore punto di forza è stato l'ottimo rapporto che si è creato immediatamente tra tutti i componenti del corso."[/blockquote]
Al termine di questa esperienza mi sento di dire grazie ai miei allievi. E buon lavoro!
Se volete maggiori informazioni o desiderate sapere se ci saranno nuovi corsi, non esitate a contattare l’associazione. Per saperne di più sull'arte del Kintsugi, cliccate qui
Penne del Sol Levante - Tokyo Express di Matsumoto Seicho
Bentornati alla rubrica settimanale Penne del Sol Levante! Oggi vi incanterò con la storia di un romanzo appena uscito in libreria per Adelphi, Tokyo Express. Un giallo in piena regola, risalente al 1958 e denso di atmosfera.
I corpi di Sayama Ken'ichi e della giovane Otoki vengono ritrovati a Kashii, precisamente sulla spiaggia del promontorio che affaccia sulla baia di Hakata. Sono distesi su una lastra di roccia scura, i vestiti smossi dal freddo vento marino. Dai primi rilievi della polizia è subito chiaro che i due si sono suicidati e le analisi di poco successive confermeranno l'uso del cianuro, anche contenuto in una bottiglietta vuota di succo di frutta posta a fianco dei cadaveri. il caso viene subito etichettato come il suicidio amoroso di due tristi amanti. Iniziano le ricerche per scoprire l'identità dei due corpi e da subito, agli occhi del vecchio ispettore Torigai Jutaro, qualcosa non quadra in quella scena apparentemente perfetta
A dargli manforte arriva da Tokyo un giovane poliziotto della seconda sezione investigativa, quella che si occupa dei casi di corruzione. Pare infatti che la vittima, l’uomo, lavorasse in un ministero coinvolto in un grosso scandalo. Anche per il detective, Mihara Kiichi, quella storia ha qualcosa di sospetto ed entrambi sembrano non darsi pace. I loro dubbi sembrano confermati da strane incongruenze nelle testimonianze di alcuni conoscenti della giovane Otoki. Infatti due ragazze che lavoravano con lei in un locale della capitale e uno dei loro clienti più assidui testimoniano di averla vista, in compagnia di un uomo, salire sull’espresso che da Tokyo porta ad Hakata. Questo e altri indizi porteranno i poliziotti a svolgere una lunga indagine.
In questo romanzo i colpi di scena non mancano, il finale è inaspettato e originale. Si tratta di un classico giallo in piena regola, molto godibile e ottimamente narrato. C’è solo da sperare di imbattersi in qualche altro scritto di Matsumoto Seicho per poter godere nuovamente della sua prosa. Ma se volete saperne di più venite a leggere la recensione completa su Penne d’Oriente!
Buona lettura!
Nagura, le pietre giapponesi per l'affilatura di lame e katana
I Maestri armaioli giapponesi, abbigliati con costumi immacolati, creano katana in uno stato di totale concentrazione, per creare spade che "non si spezzano, non si piegano e tagliano con precisione”. Tale capacità e qualità di taglio è dovuta anche all'affilatura, praticata con pietre naturali. Tra i Maestri vi era anche Kousuke Iwasaki. Il suo libro Sulle lame (刃物 の 見方) è ancora considerato una delle opere principali di forgiatura giapponese, costruzione rasoi e affilatura. Ci soffermeremo proprio sul discorso dell'affilatura e gli strumenti per attuarla in maniera impeccabile.