monte-fuji
La veste di foschia
che indossa la primavera
ha trame sottili:
al vento di montagna
sembra si sciolga a squarci
Haru no kiru
kasumi no koromo
nuki o usumi
yamakaze ni koso
midaruberanare
春のきる
霞の衣
ぬきを薄み
山風にこそ
みだるべらなれ
Anonimo
DA HEISEI A REIWA : COSA C'È IN UN NOME
Lo scorso 1° aprile alle 11:40 il Capo di Gabinetto Yoshihide Suga ha annunciato al mondo che Reiwa (令和) sarà il nome della nuova era (gengō). I criteri con cui il nome viene selezionato furono stabiliti nel 1979:
1) Ha un significato che possa ispirare positivamente i cittadini
2) È composto da due kanji
3) È facile da scrivere e da leggere
4) Non è mai stato usato in precedenza
5) Non è generalmente usato nella lingua comune
(source CNN)
Tradizionalmente il nome viene annunciato dopo l’ascesa di un nuovo imperatore. Tuttavia il governo ha deciso di renderlo pubblico prima della successione che avverrà il 30 aprile quando l’Imperatore Akihito abdicherà in favore del figlio, il Principe Naruhito, anche questo un evento che non si ripeteva da quasi 200 anni. Il Primo Ministro Shinzo Abe ha sottolineato come sia la prima volta che il nome è stato scelto dalla poesia giapponese e non da un classico cinese. Inoltre ha aggiunto che questi caratteri sono stati selezionati per esprimere “una cultura che nasce e viene cresciuta da persone che si uniscono tutte insieme meravigliosamente.”
L’opera in questione è il Man'yōshū (万葉集 - Raccolta delle 10.000 foglie), la più antica raccolta poetica giapponese costituitasi spontaneamente attorno alla metà del VII secolo nel periodo Nara. Non è tuttora chiaro chi sia stato a mettere insieme le varie poesie (circa 4500 in totale) anche perché i compositori furono molteplici e provenienti da diverse classi sociali (molti sono persino anonimi). Inoltre le poesie attraversano varie tematiche e molto probabilmente appartengono a epoche diverse. Per quanto riguarda il linguaggio, come del resto in molti altri classici della letteratura giapponese, troviamo un uso semantico e fonetico dei caratteri cinesi per riprodurre il giapponese orale. Infatti originariamente non esisteva in Giappone un sistema di scrittura proprio e per questo nel V secolo circa vennero introdotti i caratteri cinesi, ovvero i Kanji. Solo in seguito vennero creati i fonogrammi (kana) di Hiragana e Katakana.
Il passaggio che ha inspirato Reiwa è un poema scritto come introduzione a una serie di poemi dedicati all’ume (梅), l’albicocco giapponese. In particolare ‘Rei’ è usato in ‘Reigetsu’ ovvero ‘mese propizio mentre ‘Wa’ descrive la calma pacifica di una brezza primaverile.
「時、初春の令月にして、氣淑く風和ぎ、梅は鏡前の粉を披き、蘭は珮後の香を薫す。」
Traduzione: All’inizio della primavera nel mese propizio, il vento soffia piacevolmente con delicatezza. I fiori dell’ume stanno sbocciando bianchi come molte donne che si applicano la cipria bianca sul viso, la fragranza delle orchidee si diffonde come quella degli abiti profumati di incenso (letteralmente dei sacchetti profumati tipici). *
(source JAPAN Forward)
La scelta di ‘Rei’ ha inizialmente sorpreso non pochi visto che molti giapponesi associano 令 a 命令 (meirei), ovvero ordine, comando. Abe ha invece sottolineato come Reiwa stia a rappresentare il sogno di un Giappone dove tutti possano raggiungere le loro aspirazione e dove “ogni giapponese può avere i propri fiori che sbocciano con le loro speranze del domani come fiorisce l’ume, il quale sboccia in tutta la sua gloria dopo un duro inverno e diventa il precursore dell’arrivo della primavera.” In aggiunta, sembra anche che un’altra delle ragioni che hanno spinto Abe e gli altri membri del Gabinetto a scegliere Reiwa sia stata l’intenzione di distanziarsi dalla letteratura cinese, la fonte tradizionale dei nomi delle precedenti ere, a seguito di un senso crescente di rivalità con la Cina. Tuttavia secondo gli esperti, il poema del Man'yōshū si basava su un classico poema cinese di Zhang Heng (78-139) che molto probabilmente era ben conosciuto in Giappone.
(source JAPAN Forward)
A tale proposito, Kenji Yamazaki, professore di Letteratura Giapponese alla Meiji University, sostiene che è quasi impossibile trovare una parola puramente giapponese utilizzabile come gengō vista la natura ibrida del sistema di scrittura. Ma è proprio la natura ibrida anche del Man'yōshū stesso che suggerisce una via per la nuova era che non è certamente nuova al Giappone: creare qualcosa di nuovo e ‘giapponese’ a partire da qualcosa che proviene dall’esterno, dall’altro.
Dello stesso parere è anche Asao Kure, professore associato della Kyoto Sangyo University, che evidenzia l’assoluta novità di prendere il nome da un testo letterario dedicato alla natura. Infatti mentre i nomi delle ere precedenti derivavano da principi politici (per esempio Heisei è traducibile come ‘raggiungere la pace’), Reiwa esprime una diversa filosofia sociale “che si focalizza di più sull’armonia dei rapporti tra gli individui per creare una società variegata invece di mettere avanti un principio specifico.”
Non possiamo certo stabilire con certezza cosa ci riserverà Reiwa solo interpretandone il significato perché sono in primo luogo le persone a forgiare il futuro, Reiwa è il risultato delle aspirazioni dei giapponesi a seguito di un presente pieno di incertezze. Se queste aspirazioni si concretizzeranno soltanto il tempo potrà dircelo.
*Traduzione dal giapponese moderno https://sweetie-pie.net/archives/5009#i-6 adattata dall'autore in italiano (il testo originale è scritto in un giapponese che non corrisponde più a quello corrente)
Erika Micozzi
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Ad ogni primavera
lo specchio della corrente
pare fiorito,
e per il ramo che coglier non posso
si bagnerà la mia manica.
Haru goto ni
nagaruru kawa wo
hana to mite
orarenu mizu ni
sode ya nurenamu
春ごとに
ながるる河を
花とみて
おられぬ水に
袖やぬれなむ
Ise
Il Giappone al Fuorisalone 2019
Anche quest'anno il design giapponese è uno dei protagonisti del Fuorisalone di Milano.
Usate la nostra mappa per scoprire le iniziative più interessanti legate al Giappone!
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Pur entro l'anno che se ne va,
ecco, è arrivata la primavera.
Come chiamerei quest'anno ancora in corso,
l'anno passato
o l'anno nuovo?
Toshi no uchi ni
haru wa kinikeri
hitotose o
kozo to ya iwamu
kotoshi to ya iwamu
年の内に春は来にけり
ひととせを去年とやいはむ
今年とやいはん
Ariwara No Motokata
Okaa Sama - Mostra fotografica personale di Luca Vecchi
Okaa Sama
Mostra fotografica personale di Luca Vecchi
a cura di Paola Aloisio
Luca Vecchi (Roma, 1985) è volto noto al grande pubblico come sceneggiatore, regista e attore comico; cofondatore di The Pills, collettivo ironico e scanzonato con all'attivo oltre otto anni di attività su cinema, web e tv, Vecchi coltiva parallelamente una variegata gamma di interessi, fra cui spicca da sempre la passione per l’arte e la cultura giapponese.
La fotografia lo accompagna fin dagli anni degli studi in Tv e Cinematografia ed è come sintesi di questi due percorsi che l’artista propone al pubblico OKAA-SAMA // Onorevole Madre, la sua prima personale di fotografia, che è stata inaugurata martedì 12 marzo alle ore 17.30 presso la Fondazione Marco Besso, che ha sostenuto l’esposizione mettendo a disposizione la splendida cornice della location di Largo di Torre Argentina, 11.
Un primo passo, dunque, verso un approfondimento del proprio profilo artistico personale che vedrà Luca Vecchi continuare a proporsi come interprete originale
della scena romana, accanto all’impegno con i colleghi e OKAA-SAMA // Onorevole Madre.
Per secoli le donne, nel corso dello sviluppo della civiltà, sono state confinate nell'unico ruolo che il corpo, completamente in gestione a una società patriarcale, imponeva loro: quello di procreatrici. Dopo molti anni, in cui tante hanno combattuto per uscire da una condizione subalterna e per riappropriarsi dei propri diritti fondamentali, un importante traguardo è stato raggiunto, anche se per una sparuta minoranza: oggi le donne sono libere di scegliere se essere madri o meno. Una scelta che rende consapevoli di un percorso che, come un guerriero, si è pronte ad affrontare con devozione.
In Okaa-sama Lucca Vecchi veste le sue Madri di un’armatura, la Yoroi, come un antico guerriero giapponese, instaurando un parallelo tra la scelta del Samurai e la scelta che porta una donna a diventare Madre. Le Yoroi, imitando le fisionomie animali, erano concepite con lo scopo d’incutere terrore nell’avversario per penalizzarlo nello scontro: gli occhi e la bocca oscurati dal Kabuto (elmo) e dal Menpo (la maschera d’acciaio) contribuivano alla spersonalizzazione del guerriero, trasfigurandolo in una sorta di demone.
Nel lavoro di Vecchi, da queste terribili corazze emergono, delicate, forme femminili di diverse costituzioni ed età, colte nel momento dell’attesa. Le curvature dei soggetti, visti di profilo seguono alla perfezione la forma della spina dorsale o del grembo, come fossero una logica prosecuzione di essi. Un corpo investito di potere e nello stesso tempo di profonda vulnerabilità. Un corpo esposto. Il corpo nudo della donna in attesa rivela la fragilità e la maestosità dell’essere umano in una chiave che non vuole essere seduttiva, se non per il fascino che un essere superiore incute, ma celebrativa. Celebrativa di una condizione che come abbiamo detto: è voluta. Le modelle appaiono come statue nella loro severa compostezza che ispira rispetto e soggezione, immobili nell'attimo che precede la battaglia infinita che le coinvolgerà per il resto della vita. Il figlio/la spada che nascerà, potrà essere istruito/utilizzata dalla madre/ samurai per scopi morali o immorali: a fin di bene, o per conseguire il male.
Ed è per questo che il ruolo della madre/samurai è fondamentale. Le armature scelte dall’artista sono rappresentative di ogni status e vanno da quelle più povere, fino alle armature dei guerrieri più facoltosi. Allo stesso modo le madri che hanno collaborato ad Okaa-sama provengono da diverse situazioni e ceti sociali, da diversi percorsi di vita i cui segni sono visibili sui loro corpi nudi.
Okaa-sama è dunque una visone collettiva che vuole celebrare una condizione, raccontandola con teatralità e trasgressione, con immagini forti e nell'insieme stranianti. Una condizione prettamente femminile che Vecchi interpreta
attraverso la figura del samurai e del rapporto con la sua spada.
L’artificio della ricostruzione delle armature e la scelta delle pose in studio riprendono concettualmente il lavoro di Marcelin Flandrin e la tradizione delle fotografie a banco ottico dei primi etnografi ed esploratori. Il linguaggio fotografico di Vecchi, però, è legato alle visoni ritrattistiche di Nadar e Robert Mapplethorpe, al rapporto emozionale di Richard Avedon con i suoi soggetti in un connubio tra armonia classica e caricatura grottesca, ma anche all’estetica pop dei manga giapponesi.
Un progetto fotografico audace quello di Luca Vecchi che, attraverso un percorso per immagini, coinvolgenti ed evocative ma allo stesso tempo disturbanti, conduce ad una interpretazione epica ed eroica della maternità: una visione personalissima che vuole riproporre in un certo senso l’archetipo della dea madre, culto primigenio di ogni civiltà.
La mostra è composta da 4 trittici, 8 dittici e scatti singoli fra cui una foto già premiata con il Mono Award; le opere sono proposte al pubblico in formato espositivo e a disposizione per l’acquisto in tiratura limitata.
Per informazioni
lucavecchi.press@gmail.com
3386765100 (Tc)
La principessa trecentenaria - La storia dietro l'opera
All’inizio del IX secolo la principessa Nakanohime si reca verso Yoshino, per visitare la tomba di sua madre. Per caso scorge la figura di spalle di un eremita che si affretta e si innamora perdutamente di lui. Genjo, questo il nome dell’eremita, è un componente del tempio Tengio sul monte Omine, e sta seguendo le pratiche religiose dei mille giorni. Il 999° giorno, Genjo prova a salvare un vecchio viandante che sta per morire, e deve rinunciare a completare le pratiche. Keishu, il vecchio viandante, è un bonzo cinese di grande saggezza, e gli insegna che rinunciare è il giusto gesto da compiere. Genjo, che deve togliersi la vita per non aver completato le pratiche religiose, riceve in dono da Keishu l’elisir di eterna giovinezza ed immortalità, e si salva dall’obbligo religioso. Dopo tre anni, Nakanohime e Genjo si incontrano casualmente a Kyoto. Entrambi credono che l’incontro sia segno del destino, ed iniziano a vivere insieme sul monte Omine, incuranti del divieto d’accesso alle donne sulla montagna. Gli dèi della montagna non accettano la loro scelta, e la principessa cade gravemente malata. In punto di morte, Genjo le fa prendere l’elisir dell’immortalità. Ha inizio così l’angoscia per Nakanohime che ha ottenuto la vita eterna. A causa di una frana, è costretta a dividersi da Genjo e dal figlio Chisho. Dopo 50 anni, Nakanohime incontra un bel ragazzo, Sojun, che assomiglia a Genjo. Dal loro amore nasce un bambino, ma Nakanohime scopre che in realtà Sojun è figlio di Chisho, e sconvolta dal proprio peccato scappa. Durante il suo viaggio trova la principessa Sannohime, sua sorella minore, e trova temporaneamente la pace.
Tormentata dal destino, Nakanohime scala il monte Fuji per parlare con la dea Konohanasakuyahime. Dal monte arriva il rombo di una eruzione. Fra la gente che fugge via, Nakanohime decide di sfidare il destino e prosegue la scalata, pensando “Se gli dèi vorranno che io sopravviva, faranno piovere”. Con una grande boato, il monte Fuji erutta lava, e contemporaneamente inizia a piovere e compaiono dei bellissimi boschi. Nakanohime ha salva la vita. Vagando senza meta, giunge al lago Oshino, dove si specchia sulla superficie del lago e sente una voce che le sussurra “Nakanohime, hai vissuta a sufficienza!” e subito dopo viene inghiottita dal lago. Nella sua vita successica, Nakanohime si reincarna in una carpa, e passando da Oshino verso il mare arriva in al bacino di una cascata sul monte Omine, dove viveva con Genjo.
Venite a scoprire quest'opera lirica giapponese in due atti il giorno 22 marzo, alle ore 19:00, presso il Teatro Rosetum di via Pisanello 1 a Milano (M1 Gambara). Tra i due atti verrà offerto un rinfresco a base di sakè a tutti i partecipanti.
Sia l'opera che il rinfresco sono a entrata libera e gratuita!
Alita – Angelo della Battaglia: le nuove frontiere del genere umano tra uomini e cyborg
L’anno era il 1990, appena due anni dopo l’uscita di "Akira" che aveva portato alla ribalta internazionale l’animazione giapponese. Esce in quell’anno 銃夢 ("Ganmu", contrazione di “Gun’s Dream”), tradotto in italiano come "Alita – Angelo della Battaglia" di Yukito Kishiro e di cui lo scorso 14 Febbraio è uscito l’adattamento cinematografico.
In un futuro distopico il Dr. Daisuke Ido ritrova in mezzo ai rottami la testa e il petto ancora intatti di un cyborg che ribattezza Alita in onore della figlia scomparsa una volta ricomposto il suo corpo (nel manga prende spunto dal nome del suo gatto in quanto la trama della figlia perduta è stata aggiunta nel film per sottolineare maggiormente il legame padre-figlia tra Alita e Ido). Alita, che non ricorda nulla del suo passato, si ritrova così a vivere nella “Città Discarica”, letteralmente una città situata al di sotto della ben più ricca città fluttuante di Salem a cui funge da discarica a cielo aperto. Qui Alita si ritroverà ben presto a fare i conti con una realtà fatta di violenza, pericolose gare di Motorball e spietati cyborg cacciatori di taglie.
Alita è solo l’ultimo di una lunga produzione legata al mondo del cyberpunk sia in Occidente che in Oriente. Nato sulla scia della science fiction degli anni ’60, negli anni ’80 raggiunge grandiosi apici creativi uscendo dai limiti del romanzo. Ad esempio il già citato Akira, ma anche Blade Runner (1982) per quanto riguarda l’Occidente. Pur nelle loro similitudini, la declinazione che il cyberpunk ha in Giappone è inevitabilmente legata alla storia e alla cultura di questo paese. Se in linea generale nel cyberpunk convergono tutti i timori e le ansie legate allo sviluppo tecnologico, queste paure sono sostanzialmente diverse. Il punto comune di partenza è il paradosso per cui ad un avanzamento tecnologico non solo non corrisponde un miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo, ma anzi l’iper-industrializzazione finisce per opprimere l’umanità. Il conseguente disagio sociale sfocia in sempre maggiori disparità tra classi, violenza e spesso anche fughe dalla realtà nel mondo virtuale che finisce per sostituirsi a quello reale.
Tuttavia in Giappone un tema che diventa ben presto caro all’immaginario popolare è quello della metamorfosi del corpo umano. Queste ibridazioni tra uomo e macchina sono terribili e spaventose: in Akira Tetsuo alla fine del film subisce una trasformazione che rischia di inghiottire la città stessa. In Tetsuo, The Iron Man (1989) di Tsukamoto Shinya, la metamorfosi del protagonista sembra voler quasi richiamare un film horror. Certamente nel folklore giapponese sono molte le storie di metamorfosi di dei e esseri umani, ma dopo l’orrore post-atomico le trasformazioni diventano terrificanti. Basti pensare a Godzilla, un mostro ibrido che si risveglia a causa della bomba atomica.
Non sempre però la metamorfosi assume caratteri negativi. Ad esempio in Ghost in the Shell (1995) di Mamoru Oshii tutti gli uomini hanno parti cibernetiche e persino la memoria stessa diventa una simulazione che può essere inserita in un contenitore, per l’appunto uno shell. In altre parole tutto quello che definisce l’identità individuale diventa irrilevante e frammentato. Il vero io è definito da carne e sangue o forse è più reale il nostro io digitale fatto di informazioni e dati? La risposta a cui giunge il film non è però la totale distruzione della tecnologia nemica né tantomeno la sua sublimazione in caratteri umani, ma bensì l’accettazione del cambiamento completo. Uomo e macchina diventano insieme una nuova identità che supera il vecchio dualismo uomo vs macchina. Si diventa così post-umani in quanto l’essenza di un essere umano è slegata dalla sua forma corporea e rimane intatta se trasferita in un altro contenitore. Allo stesso modo Alita è un cyborg ma questo non la rende meno umana. Infatti oltre alle abilità fisiche che la rendono una combattente formidabile, i veri punti di forza di Alita sono l’amore e il coraggio di combattere per le persone a lei care senza arrendersi mai, caratteristiche queste che sono solitamente concepite come umane.
Cosa ci riserva quindi il futuro? Solo il domani potrà dircelo. Quello che è certo però è che siamo già dei nuovi prototipi di esseri umani. La tecnologia al di fuori del nostro corpo è ormai parte integrante della nostra identità frammentata. È sufficiente pensare a come il solo smartphone abbia radicalmente le nostre abitudini rispetto a 20 anni fa. E il cambiamento avanza inesorabile e veloce come una notizia gettata in pasto alla rete. Forse quasi senza realizzarlo, oggi siamo tutti un po' cyborg ma non per questo dobbiamo dimenticarci di essere umani.
Articolo di Erika Micozzi
La rivolta giapponese di San valentino
Il 14 febbraio è la festa degli innamorati, momento più atteso dalle coppie per festeggiare il proprio amore. Gli uomini innamorati durante questa festa omaggiano le proprie "Valentine" con bigliettini zuccherosi, fiori e tanti cuori. Si tratta di una tradizione che si tramanda da anni, ma lo sapevate che per le donne giapponesi questa festa rappresenta un vero e proprio incubo? Proprio così, nel Paese del Sol Levante non esiste la consuetudine tra gli innamorati di celebrare il proprio amore a lume di candela, ruota tutto in torno alla cioccolata. Vi chiederete cosa ci sia di tanto terribile nel ricevere un cioccolatino a forma di cuore avvolto in una luccicante stagnola rossa? Le ragazze giapponesi sono le più coraggiose al mondo perchè la tradizione vuole che siano loro a prendere l' iniziativa, a raccogliere il proprio coraggio e dichiararsi al ragazzo segretamente amato.
Esistono tre diversi tipi di cioccolata:
-la giri-choko (義理チョコ), "cioccolata dell'obbligo", si tratta di semplice cioccolata, comprata nei negozi e regalata dalle ragazze ai propri compagni di classe o colleghi di lavoro.
-tomo-choko (友チョコ), "cioccolata dell'amico", è un regalo più sincero, regalato agli amici a cui si vuole bene davvero, talvolta anche tra ragazze;
-la honmei-choko (本命チョコ), "cioccolata del prediletto", viene regalata alla persona che si ama, quindi al proprio fidanzato o marito, o a qualcuno di cui si è innamorati e a cui ci si vuole dichiarare o comunque far capire i propri sentimenti. Questa cioccolata viene preferibilmente preparata in casa con le proprie mani e confezionata con cura.
Ma i tempi sono cambiati e le donne non vogliono più sottostare a questa tradizione che le costringe da anni a fare il primo passo e hanno deciso di boicottare la "cioccolata del prediletto" e quella "dell'obbligo". Alcune aziende hanno addirittura deciso di vietare nei loro uffici questo scambio di cioccolato come segno di solidarietà verso tutte le donne.
La rivolta femminista ha addirittura deciso di introdurre un nuovo tipo di cioccolata: "la cioccolata al contrario" che per la prima volta deve essere acquistata da un uomo e regalata alla propria amata.
Insomma quest'anno tutte le donne in Giappone si unisconi in un solo grido: "LA CIOCCOLATA LA COMPRO PER ME!"
Recensione mostra fotografica "Il mio Giappone"
Una foto per essere bella, deve trasmettere emozioni.
E questo, a mio parere, è quello che si vive in questi giorni presso la Fondazione
Matalon a Milano, che ospita la mostra fotografica di Alberto Moro, Presidente
dell’Associazione Culturale Giappone in Italia.
Durante il percorso espositivo, si respirano l’armonia, la pace e il silenzio che
caratterizzano la cultura nipponica. Si comincia il percorso con la sezione dedicata
alla tradizione, per poi entrare nella modernità e terminare in uno spazio più intimo
del Giappone, che è quello della cerimonia del tè.
La tradizione è rappresentata dalle foto dei vari quartieri di Kyoto, come ad esempio
il quartiere di Gion con il suo santuario di Yasaka o il tempio di Kodai-Ji, illuminato
in una splendida serata di luna. Sono quartieri silenziosi e rilassanti, lontani dalla
frenesia della vita metropolitana. Il quartiere di Gion è luogo di incontro tra le geisha
e gli uomini d’affari, ma nella foto non ne compare nessuna. Alberto Moro ci spiega
che per rispetto non è possibile fotografarle, ma quando si vedono in giro bisogna
rispettarle. Nella foto, quindi, non compaiono, possiamo solo immaginarle, come
ragazze colte e raffinate, che entrano ed escono dalle case con le loro complicate
pettinature e il trucco elaborato, strette nei loro sgargianti kimono.
La modernità è rappresentata dagli scatti fotografici delle vie di Tokyo. Noi siamo
abituati a pensare a Tokyo come una città sovraffollata e frenetica, ma le fotografie
raccontano momenti di quotidianità di giovani, uomini d’affari, operai, teenagers che
danno un taglio più umano all’ atmosfera metropolitana.
Con questa mostra, Alberto Moro esprime la sua passione verso la cultura giapponese
e si definisce un fotografo/pescatore. A differenza di un fotografo/cacciatore, più
invadente, è discreto e rispettoso: si ferma in un determinato luogo che considera
particolare e aspetta con pazienza che passi un soggetto interessante per catturarlo in
uno scatto. Notiamo questa sua squisita attitudine guardando la foto fatta nel quartiere
di Shinjuku, dove in un vicoletto buio ferma in un’istantanea il passaggio di un
uomo esattamente nell’unico cono di luce esistente.
Salendo al primo piano arriviamo all’ultima sezione della mostra, quella sul Chadō,
la Via del tè. E’ la saletta cosiddetta “più intima”, dove le foto dei bollitori, delle
fruste in bambù per mescolare il tè in polvere con l’acqua bollente e dei contenitori
raffinati rappresentano le varie fasi della cerimonia e danno un’atmosfera domestica e
familiare alla sala espositiva. Le foto comunicano quella serenità e quella quiete tanto
care ai giapponesi, ma soprattutto ci trasmettono quella particolare cura
nell’accogliere l’ospite che a sua volta dimostra riconoscimento e gratitudine verso
l’ospitante, con i tipici movimenti di riverenza in un reciproco scambio di inchini. Mi
ha colpito molto la fotografia dell’artista Jumco Sophie Okimoto. E’ inginocchiata
col suo kimono celeste e, mentre il viso rimane volutamente fuori dall’obiettivo, in primo piano vediamo le mani che con estrema delicatezza, circondano la ciotola che
le viene offerta.
Nella sala è presente una calligrafia che determina lo spirito dell’incontro: ICHIGO
ICHIE “ogni incontro è irripetibile”. Ogni cosa che viviamo è unica e irripetibile, per
questo deve essere vissuta con grande intensità. Come l’ultima goccia di tè catturata
nel tempestivo scatto di Alberto Moro.
Le mie due foto preferite sono quelle dell’artista Junko Sophie Okimoto che si
trovano all’ingresso.
E’ una donna giapponese immortalata in modo incantevole in due momenti diversi. In
uno, a casa, inginocchiata sul tatami tiene in mano una ciotola del the. Nell’altra è
sempre inginocchiata ma fuori, nel giardino del tempio di Geshin-ji, che è la sua
casa. Ha un atteggiamento amoroso e dolce. Il suo sguardo non è mai perso nel vuoto,
perché, composta nella tipica posizione inginocchiata, è determinata nel promuovere
la tradizione del suo paese. Sembra una foto calata in una realtà fiabesca, lontana dal
nostro tempo, dalla quale traspirano l’armonia, la pace interiore e il silenzio che
caratterizzano la cultura nipponica.
L’intera esposizione è un’emozionante sintesi di quello che è lo spirito del Giappone,
catturato in una bella raccolta di suggestive fotografie. Una mostra che consiglio di
visitare a tutti, appassionati e non.
Margherita Ciociano