IL GIOCO DEL DESTINO E DELLA FANTASIA (Gūzen to sōzō, 2021), Ryūsuke Hamaguchi
di Marcella Leonardi
L'articolo è tratto dal blog di cinema giapponese classico e contemporaneo NUBI FLUTTUANTI
Da tre racconti di Ryūsuke Hamaguchi: Magia (o qualcosa di meno rassicurante) - Porta spalancata - Ancora una volta. Il film è in streaming su Raiplay.
Per chi scrive, Il gioco del destino e della fantasia è forse il più bel film di Hamaguchi. Un’opera che instaura un contatto intimo e intenso con lo spettatore, una “specie di magia”, come vuole il titolo del primo episodio; o una “porta spalancata” sull’animo dei personaggi, le cui vicende ed emozioni si ripercuotono sulla nostra esperienza.
Il primo episodio è focalizzato sulla giovane Meiko e sui sentimenti contrastanti nel confronti dell’ ex Kazu, che ora frequenta la sua migliore amica Tsugumi. Durante una corsa in taxi l’ignara Tsugumi racconta a Meiko dell’incontro; ed è meraviglioso come Hamaguchi trasformi un semplice spostamento in automobile in una discesa nel segreto, quasi un’immersione nella psiche. Mentre le due amiche parlano, la strada scorre illuminata nella notte, si addentra in sottopassi, si attorciglia in infiniti percorsi lungo la città. Le luci si riflettono sui volti delle donne e la conversazione diviene rivelazione profonda. Hamaguchi gioca su un’alternanza di “dentro e fuori”: dentro l’auto, fuori nella città-mappa dell’inconscio, ma anche dentro e fuori l’ufficio dove Meiko confronterà Kazu e infine dentro-fuori il bar. Le dimensioni sono separate da vetrate e finestre, in un indefinito di iridescenze e illusioni; il vetro è anche uno schermo dove la vita proietta l’imprevisto.
C’è un misto di irrazionalità ed entomologia che solo il brano di Schumann, che introduce ed intervalla i tre episodi, riesce a sintetizzare con la sua melodia matematica. Sensuale ma nitida, intima e autunnale ma anche chiara e ben scandita, la partitura di Schumann è la controparte musicale dei dialoghi, delle confessioni a due voci, delle pause e degli “andanti” animosi che si scatenano nella mente.
Il secondo episodio è più malinconico: un destino di solitudine per Nao, che accetta di aiutare il suo giovane amante Sasaki tendendo una trappola al professore universitario che lo ha bocciato. “I nostri corpi sono perfettamente compatibili” dice Sasaki per convincerla. Le inquadrature sembrano dargli ragione: i corpi degli amanti si muovono all’unisono, o si allungano in orizzontale in composizioni armoniche, l’uno lo specchio dell’altro, in una mise-en-abyme del desiderio. Ma se con Sasaki l’intesa è fisica, con il professor Segawa sarà la parola a schiudere un’affinità elettiva, una messa a nudo del cuore. Hamaguchi filma la conversazione tra Nao e Segawa modulando in modo incantevole la luce solare che entra dalla finestra. I raggi aumentano o diminuiscono d’intensità, mentre le emozioni vengono inondate di sole, o si nascondono ritrose nell’ombra. È un
momento magnifico e delicato, che contrasta con la pornografia del romanzo del professore, letto da Nao ad alta voce; eppure, sono proprio quelle volgarità “lette con una voce bellissima” ad avere effetto inebriante. La regia del dialogo attinge esplicitamente alla filosofia di Ozu secondo cui “esiste la sensibilità, non la grammatica (del cinema)”: la codifica relativa al raccordo di sguardo viene completamente disattesa. Nao e Segawa dialogano “guardando in macchina” e lo spettatore incrocia in prima persona i loro occhi. La sensazione è di profonda emozione. È raro e bellissimo che un regista si prodighi per condividere con il suo pubblico un momento cruciale: il cinema di Hamaguchi è un privilegio.
L’ultimo episodio è il più magico e tremulo: un gioco che cambia la realtà e la vita stessa. Ciò che accade tra Natsuko e Aya ha del meraviglioso: da un fraintendimento nasce la possibilità di mettere in scena la vita, mutarla, stabilire un nuovo (lieto) fine. In un certo senso i due gentili, timidi personaggi femminili si appropriano del mestiere del regista e inventano per sé un destino, confondendo realtà e finzione. Le attrici Fusako Urabe e Aoba Kawai sono così brave da farci percepire ogni sfumatura, ogni minimo movimento nell’anima delle due donne; si piange e si ride con loro, mentre Hamaguchi le avvicina sempre più. Con stacchi a 180° intreccia le due esistenze, le mette di fronte a uno specchio in cui finalmente è possibile un riconoscimento.
“A volte mi chiedo perché sono qui. Potevo diventare qualsiasi cosa, ma il tempo è volato via prima che me ne accorgessi.”
L’episodio conquista qualcosa di bello e vero – raggiunge un nucleo di verità, lo sfiora appena lasciandolo intatto in tutta la sua bellezza. Ogni essere umano è fragile. Nulla sembra accadere mentre le parole scorrono come un fiume; ma ogni parola, libera e misteriosa, diventa la sostanza impalpabile in cui il mondo interiore si rivela. Le domande dell’esistenza – i “se”, i “forse” – sembrano approdare a una quiete, forse una temporanea soluzione. E la vita, nonostante tutto, è ancora una volta meravigliosa e degna di essere vissuta.
[Marcella Leonardi è critica cinematografica e docente. Da sempre appassionata di cinema, ha collaborato con varie testate tra cui Sonatine, Cinefilia Ritrovata, Nocturno e Otto e mezzo. Da alcuni anni si dedica prevalentemente al cinema giapponese.]
Kagurazaka Saryo, la sala di tè giapponese a Milano per la prima volta in Europa
Kagurazaka Saryo 神楽坂 茶寮, storica sala di tè e bistrot giapponese originaria di Tokyo, apre per la primissima volta in Europa proprio a Milano, a Corso Como 12, zona Garibaldi.
Il brand di caffetteria del gruppo Aya Company ha aperto i battenti per portare qui a Milano la vera gastronomia giapponese tra dolci artigianali e tè pregiati, ma anche piatti come ramen e udon.
Il menù del locale promette l'autenticità dei suoi piatti alla tradizione giapponese: proprio come nelle sue sedi giapponesi, la proposta si focalizza sulla selezione di tè raffinati selezionati dai giardini di Kakegawa nello Shizuoka, come il tè verde sencha, e dessert preparati con matcha proveniente da Uji a Kyoto. I dolci più popolari offerti sono sicuramente l’Hekira Mont Blanc al matcha, preparato esclusivamente al momento con castagne giapponesi e una crema di matcha di alta qualità, e la Coppa di gelato milleveli "Saryō", un parfait al matcha con decorazioni per richiamare l'aspetto dei giardini giapponesi.
Kagurazaka Saryo, oltre alle diverse sedi nel Paese del Sol Levante, ha alcuni locali in paesi esteri come in Canada e Thailandia, ma fino ad ora non in un paese europeo.
La scelta della recente apertura a Milano non è per nulla casuale: "Milano non è solo un faro mondiale per la moda e il design, ma è anche la città dove nascono le innovazioni", afferma Kinya Oguchi, presidente del gruppo Aya Company. "Abbiamo deciso di portare la cucina giapponese autentica in Italia, convinti che il pubblico italiano, con il suo amore per la raffinatezza e la sua lunga tradizione gastronomica, fosse il più adatto ad apprezzarla”.
Il locale ha uno stile tra l'estetica tradizionale giapponese, con elementi d'arredo artigianali e bonsai importati, e design moderno, basandosi del concetto "wa-modern", ovvero "giapponese-moderno"; gli spazi sono stati progettati dall'architetto Katsuya Takeda.
Una storia che unisce culture: Yuko, sushi e kimono tra Giappone e Italia
Storia provvedutaci da Gianluca D'Elia.
Yuko è una donna giapponese che ha avuto il coraggio di sfidare le convenzioni e attraversare l'oceano per inseguire la libertà di esprimersi. Fin da bambina, i colori l'hanno affascinata, diventando il suo linguaggio preferito. In Giappone ha studiato arte, immergendosi nella cultura visiva del suo paese, ma il desiderio di esplorare il mondo è cresciuto con lei. Dopo anni di viaggi in ogni angolo del globo, Yuko ha scelto di fermarsi in Italia, a Reggio Emilia, dove ha trovato una nuova casa e una nuova ispirazione. Qui si è innamorata della cultura italiana, scoprendo un dialogo profondo tra la sua terra natale e il paese che l'aveva accolta. Ma Yuko non ha mai abbandonato le sue radici: ha deciso di raccontarsi attraverso due passioni che uniscono tradizione e innovazione, cucina e moda.
La preparazione del sushi è una pratica riservata agli uomini in Giappone, un lavoro codificato da regole antiche. Eppure Yuko, con tenacia e determinazione, ha deciso di rompere questo schema. Ha iniziato a preparare sushi nelle case delle persone, trasformando ogni pasto in un'esperienza culturale. Attraverso il cibo, racconta il suo paese, le sue tradizioni e la bellezza di una cultura millenaria, portandola a contatto diretto con chiunque voglia ascoltarla. Parallelamente, Yuko disegna kimono, abiti tradizionali che rielabora fondendo elementi delle culture che ha incontrato durante i suoi viaggi. Ogni kimono diventa un pezzo unico, un racconto tessuto che unisce Oriente e Occidente, tradizione e contemporaneità. Le sfide che Yuko ha affrontato non sono state poche. Superare i pregiudizi culturali, trovare il proprio posto in un paese straniero, costruire un ponte tra mondi lontani.
Tuttavia, ha sempre trovato forza nelle parole di sua madre: “Sentiti libera di fare sempre quello che vuoi”. E così, con i suoi piatti e i suoi kimono, Yuko non solo racconta se stessa ma celebra anche l'incontro tra culture, trasformando ogni sfida in un'opportunità per creare qualcosa di straordinario.
Vi invitiamo caldamente alla visione delle fotografie evocative di Yuko scattate dalla fotografa Licia Carpi e allo straordinario filmato del regista Gianluca D'Elia al link seguente: https://www.youtube.com/watch?v=OdTsDtEIfkA
ASURA (Asura no Gotoku, 2025), Hirokazu Kore’eda
di Marcella Leonardi
L'articolo è tratto dal blog di cinema giapponese classico e contemporaneo NUBI FLUTTUANTI
Koreeda rivisita la serie TV del 1979 Like Asura, basata sull'omonimo romanzo di Mukoda Kuniko. La vita delle quattro sorelle Takezawa - l'insegnante di ikebana Tsunako, la casalinga Makiko, la bibliotecaria Takiko e la cameriera Sakiko - viene sconvolta dalla scoperta della relazione extraconiugale dell'anziano padre. Incarnando i tumultuosi semidei "asura", le donne si scontrano in modo turbolento, mettendo a confronto visioni diverse della vita e dell'amore; ma il conflitto rafforzerà il loro profondo legame e la consapevolezza di se stesse.
Con Asura il regista Koreeda riesce ad assecondare le “linee guida” della piattaforma Netflix senza però tradire la propria natura, quegli elementi stilistici e tematici che fanno di lui un autore originale e riconoscibile. Un certo grado di standardizzazione produttiva è presente, ma il regista aggira gli stereotipi con gusto ludico fino a trascenderli.
Se è vero che Asura risponde all'esigenza di internazionalità - il Giappone proposto è tradizionale, quasi una cartolina dell'immaginario del pubblico, nutrito di esotismi, mistica della preparazione del cibo, personaggi di elegante reticenza e scorci urbani caratteristici – allo stesso tempo Koreeda vi insinua inquietudine, instabilità e follia.
Il regista ricrea un Giappone "ideale", fatto di piccoli negozi, venditori ambulanti, nostalgie e vecchi rituali; l'espediente utilizzato è la collocazione della vicenda negli anni '70, in modo da poter indugiare in un mentalità trascorsa (la sottomissione femminile, la centralità dell'istituzione matrimoniale); ma è proprio attraverso le maglie di questo anacronismo affettuoso che si spalanca la crepa, l'istinto e il desiderio. Asura, ammantato di ricordi, cova una tensione profondamente contemporanea; e di rado, nella televisione attuale, si sono viste figure femminili tanto complesse e misteriose, animate da un'irriducibilità che manda in frantumi ruoli e aspettative sociali.
Le quattro sorelle, così differenti e vive, creano una fervida unità familiare non-conforme e legata da un'indissolubile scia d'amore. Ciascuna di loro cova una rivoluzione interiore, una trasformazione che è la stessa degli intensi personaggi femminili del cinema giapponese classico, in bilico tra passato e futuro; ma il Giappone di oggi, in fondo, è così differente?
Esattamente come Yuki Tanada in Tokyo Girl, 2017 (altra straordinaria serie contemporanea), Koreeda sembra suggerirci che la vita delle donne è ancora inchiodata a determinati obblighi sociali: lo status, il mantenimento delle apparenze, ma soprattutto la ricerca di un marito che garantisca la costituzione di una cellula sociale/economica e le sottragga a una disdicevole solitudine. “Meglio un marito traditore di un marito morto”, dice Tsunako a Makiko; e alle stesse conclusioni giungeva Tanada, mettendo a nudo ipocrisie, compromessi e umiliazioni della vita matrimoniale in Giappone.
Parlare del presente attraverso il filtro del passato è qualcosa che Asura compie magnificamente, trasformando ogni sequenza in una dichiarazione d’amore al cinema trascorso, al grande classicismo di Ozu e Naruse, testimoni del mistero femminile. Le quattro sorelle sono “divinità che all’esterno incarnano tutto ciò che è virtuoso; ma sono anche sprezzanti”, come spiega Satomi, marito di Makiko, all’ingenuo Katsumata. In un altro episodio la donna viene associata alla “volpe” (kitsune), secondo la mitologia giapponese.
Del resto tutta la serie è percorsa da riferimenti a leggende e letteratura giapponese, da Momotarō ai racconti di Natsume Soseki, che il regista utilizza in passaggi e transizioni, inserendoli nei dialoghi o affidandoli agli epiloghi della voce narrante fuori campo: la tradizione come saggezza, come limpidezza in un presente che sconcerta.
Si prova un enorme piacere, guardando Asura, nello scorgere il costante richiamo allo stile classico: Ozu “presiede” idealmente lo studio degli interni della serie, talora sovraffollati di oggetti, poster e decorazioni (come gli appartamenti “popolari” dei film muti degli anni ’30), altrove elegantemente ordinati da pattern e geometrie (nel caso delle classi più abbienti). C’è un’attenzione maniacale nei confronti di motivi, decori, quadrettature che si ripetono e si rincorrono visivamente.
Ci sono anche apparecchi televisivi, alcuni appena usciti dal proprio imballo (come accadeva in Ohayō, 1959 dove in primo piano spesso appariva la “scatola” ad intralciare il passaggio).
Negli anni ’70 le figure femminili sono vogliose di indipendenza, ma la collettività è sempre pronta a spiare e spettegolare: Takiko non ha un uomo, sicuramente perché “si trascura”; Makiko, sebbene sia una moglie perfetta, è costretta ad accettare il tradimento del marito (ennesimo uomo debole, come tanti ne abbiamo visti nel cinema giapponese); Tsunako, rimasta vedova, si umilia come amante (e sembra di essere tornati all’analisi finissima di Naruse nel suo As a Wife, as a Woman); Sakiko, ribelle e pulsionale come la “ragazza del cielo blu” Ayako Wakao, vive alla giornata con un pugile.
Su tutte pesa l’ombra della figura paterna, un uomo che, simile al Nakamura Ganjirō II di Erbe Fluttuanti (1959) o L’autunno della famiglia Kohayagawa (1961), gestisce in maniera irresponsabile una relazione extraconiugale, creando sofferenze tanto alla moglie quanto alla giovane amante.
Eppure, sebbene imprigionate in una quotidianità opprimente, le sorelle esprimono tutta la gioia vitale della propria “divinità”: meravigliosa la sequenza che le vede ridere e giocare insieme come le protagoniste de Il sapore del riso al tè verde (1951), dalla sensualità infantile e ribelle, sullo sfondo di rigide geometrie compositive. È impossibile carpire il segreto che le anima, l’interiorità fremente e in continua trasformazione tra luce e ombra, alla quale il mondo deve il proprio movimento.
2025: l’anno del Serpente

Secondo il calendario tradizionale cinese, il 2025 è l’anno del Serpente.
Alla suddivisione degli anni secondo i 12 segni zodiacali se ne sovrappone una seconda, detta dei “Tronchi celesti”, che vede ognuno dei cinque elementi cinesi (acqua, legno, fuoco, metallo e terra) manifestarsi in forma yin e in forma yang, creando quindi un totale di dieci Tronchi celesti. Questi, unendosi a gli animali dello zodiaco, creano un ciclo di sessant’anni. Ad esempio, il 2025 sarà non solo l’anno del Serpente, ma sarà più precisamente l’anno del Serpente di Legno yin, che si ripresenterà tra sessant’anni, nel 2085.
Nella nostra cultura, e generalmente anche oggi in quella giapponese, il serpente è un animale dalla forte simbologia negativa, ma non è sempre così. Dall’antichità, in Giappone è considerato un animale sacro e venerato come divinità dell’abbondanza e della ricchezza, oltre a essere considerato un simbolo di guarigione e rinascita, grazie alla sua grande forza vitale e alla sua capacità di curare le proprie ferite quando cambia la pelle. Inoltre, è considerato un animale porta fortuna: in particolare, fare un sogno immedesimandosi con questo animale è considerato un buon presagio.
Il Serpente è il sesto animale dello zodiaco e, secondo l’oroscopo tradizionale, le persone nate nell’anno del Serpente si contraddistinguono per la saggezza, il fascino e la predilezione per ciò che è raffinato. Più precisamente, le persone nate nell’anno del Serpente di Legno yin sono considerate determinate, perseveranti, a volte persino testarde, oltre a essere molto sagge e perspicaci. Inoltre, sono giudicate molto comunicative e amanti della conversazione, a patto che questa sia interessante e stimolante. Si dice anche che siano persone attente a mantenere un rapporto armonioso con ciò che le circonda, pur valorizzando le proprie opinioni personali. Un altro tratto caratterizzante è poi la franchezza, che però può essere un’arma a doppio taglio e portare a fraintendimenti. Nello specifico, si dice che gli uomini di questo segno siano premurosi, abbiano un buon senso estetico e siano razionali; e che le donne, invece, siano energiche, affascinanti e gentili.
Come sarà l’anno del Serpente di Legno yin? La natura beneaugurante del serpente si riflette anche nelle aspettative per l’anno, che si prospetta ricco di successo e di crescita. L’energia del Serpente sarà però mitigata dall’influenza del Legno yin, che porta naturalmente a non completare la realizzazione delle cose. Per raggiungere i nostri obiettivi sarà quindi importante perseverare nei nostri sforzi così da iniziare a raccoglierne i frutti.
Francesca Mora
Intervista a Tomoko Nagao

- Da quanti anni vive in Italia?
Da quasi 20 anni.
- Ho visto che ha studiato in Giappone e a Londra. Qual è stato il suo percorso?
Ho sempre studiato Belle arti, sin dal liceo. Dopodiché mi sono laureata, sempre in Belle arti, e ho studiato Arte contemporanea al B-semi Schooling System (Yokohama). Questi studi mi hanno avvicinato al mondo dell’arte contemporanea giapponese. Dopo la laurea ho studiato al Chelsea College Art and Design di Londra, dove ho vissuto per 4 o 5 anni, e infine quasi vent’anni fa mi sono trasferita a Milano quando mi sono sposata con un italiano.
- Ha usato molto icone del Rinascimento italiano, come la Gioconda, la Venere di Botticelli, oltre a opere di Caravaggio. Qual è il suo legame e il rapporto che ha con l’arte italiana?
Quando vivevo a Londra ho cominciato a pensare alla mia identità giapponese, dato che venivo vista per prima cosa come asiatica, poi come giapponese e infine come donna. Dopodiché, ho pensato di collegare questa mia identità all’arte. Una volta arrivata in Italia ho legato con il territorio, iniziando a pensare alle sue icone nell’arte, che ho rielaborato con uno stile giapponese.
Per me la storia dell’arte è anche la storia dell’Europa: credo che l’arte sia legata alla società e la rifletta anche nei suoi cambiamenti. Nelle icone del passato, del periodo di Botticelli ad esempio, posso vedere cosa la gente pensasse del periodo in cui viveva. Per me la storia dell’arte è allo stesso tempo la storia del mondo, e ovviamente l’Italia nella storia dell’arte ha avuto un ruolo centrale. È a questo a cui ho voluto collegare la mia identità.
- Lei utilizza diversi media, lo stencil all’acquerello, l’olio su tela anche. C’è un media che preferisce?
Prevalentemente uso la pittura, anche se creo anche sculture, opere digitali e collaborazioni di moda e design. Per me la cosa più importante è il concetto, l’idea alla base di un’opera che poi sviluppo in modi e con metodi diversi, dal disegno alla scultura o all’installazione.
- È anche per questo che a distanza di anni ritorna a lavorare su soggetti che ha già pensato ma che rifà in altre forme, in altri colori, altre modalità?
Sì, voglio sviluppare un tema quanto più possibile, molto spesso ritorno a lavorare sui soggetti. Per esempio è da molto tempo che uso il personaggio e la storia di Salomè, tanto che la mia Salomè è diventata quasi come un logo che mi rappresenta. Una volta ideato il personaggio lo sviluppo poi in tanti modi, con l’arte tradizionale a quella digitale e street art.
- Ha un pubblico in mente quando realizza le opere? A chi si rivolgono?
Onestamente sono molto attenta al futuro. Naturalmente devo vendere, alle gallerie, direttamente ai collezionisti, o anche a persone che comprano una mia opera per la prima volta, ma è al futuro che guardo. Penso a come possa far sopravvivere nel futuro il mio nome e la mia arte, sono più interessata a quando non ci sarò più. Non penso tanto a come la gente guarda le mie opere oggi, su internet e sui social si dicono tante cose, ci sono tantissime opinioni, che ascolto senza darci peso perché è più importante ascoltare sé stessi e immaginare come verranno viste le mie opere tra cent’anni. È con questo focus che creo la mia arte.
- Mi collego a quello che stava dicendo, i suoi collezionisti e chi compra le sue opere sono più privati, musei o esposizioni pubbliche?
Per la maggior parte si tratta di collezionisti privati e gallerie. In questi anni poi mi è capitato anche di vendere a un museo e, l’anno scorso, di lavorare a un’installazione di public art, che ho eseguito per la prima volta nei pressi del Taipei Dome di Taiwan grazie alla collaborazione con lo studio FunDesign. In questo caso l’acquirente è stato il governo taiwanese. L’opera, collocata sul pavimento della piazza davanti al Taipei Dome, è grande di 15 metri ed è realizzata in ghisa e colore.
“L'Allegoria della Cupola di Taipei” è un’opera che si presenta a più livelli e si ispira all'iconico affresco dell'artista italiano Giovanni Battista Tiepolo. La combinazione del Rococò e di simboli come lo stadio di baseball e i beni di consumo si intrecciano in un mondo di credenze multiple. Gli angeli nel dipinto guidano le vie per esplorare ogni angolo di questo centro: rappresentando semplicemente un indice. Forse le persone saranno guidate attraverso l'hub, verso la loro destinazione, forse si fermeranno a godersi il cielo a terra, o forse ancora incontreranno qualcuno lungo la strada. È un luogo dove iniziare un nuovo viaggio.

- Cosa c’è dietro al suo personaggio di Salomè?
Il personaggio di Salomè è stato realizzato prima come murales, poi con stencil, con la grafica digitale, in sculture di diverse dimensioni e materiali: quelle piccole o medie sono in resina, ma ne ho fatte anche in forma di palloncini, anche di molto grandi, come un gonfiabile di 10 metri. Per me questo concept è ancora importante. Il personaggio deriva dalla Bibbia e secondo la storia, la testa sul piatto dovrebbe essere quella di un uomo, Giovanni Battista. Nella mia interpretazione, invece, la testa è quella di una donna, perché credo che nella nostra società la donna sia una vittima. Per questo ho voluto fare questo cambiamento.

- In alcuni articoli si legge che il suo stile è ispirato a quello di Nara Yoshimoto e di Takashi Murakami. Lei riconosce la loro influenza sul suo modo di fare arte?
Essendo nata e cresciuta a Nagoya, ho frequentato le scuole lì e quando ho cominciato a fare arte, intorno agli 11 anni, Nara è venuto a insegnare disegno in un corso extra-scolastico in una scuola molto grande della mia città. Non solo ho frequentato il corso, ma sono anche andata a vedere le sue prime mostre, allestite sempre a Nagoya. Magari un’influenza c’è stata, ma non è che abbia studiato tanto i suoi lavori. Su Takashi Murakami e sul suo stile Superflat ho letto tanto. Durante il mio soggiorno a Londra, sono stata molto influenzata dal femminismo nel mondo dell’arte e da artisti come Tracey Emin, che negli anni ’90 era una superstar, da Julian Opie, che usava queste linee nere e rotonde molto simili a quelle che uso oggi, e in generale dai British Young Artists.
- Lei si è occupata anche di ambientalismo, soprattutto in relazione al Triplice Disastro del Tohoku del 2011. Questo tema nasce in risposta a questo evento o lo precede?
In realtà le mie opere non si focalizzano sulla critica della società. Magari al loro interno si possono vedere tanti problemi della società di oggi, ci sono temi come il femminismo e l’ecologia, ma questo deriva dalla mia visione personale e dal mio creare l’opera secondo ciò che vedo. Per esempio, in alcune opere si possono vedere tanti oggetti che galleggiano sul mare, prodotti del supermercato o di McDonalds, ma questo vuole essere una rappresentazione di come vedo la realtà e la società degli anni Duemila e non una critica o un giudizio. Magari in futuro qualcuno si esprimerà su come gli anni Duemila fossero brutti o belli, non so.
- Su cosa sta lavorando al momento?
In molti mi chiedono se ho cambiato stile, perché ultimamente sto lavorando tanto con la ceramica e con gli acquerelli ma non è così. Come soggetto sto sviluppando la natura in chiave animistica: secondo il pensiero giapponese, nella natura, negli alberi, nei fiori c’è un’anima ed è quest’anima che voglio rappresentare.
- Ci può dire qualcosa in merito alle opere realizzate per il progetto “Arte in cantiere”, conclusosi lo scorso settembre?
Ho realizzato delle opere pensate espressamente per questo progetto davanti a un pubblico durante una performance di live painting. Mi hanno chiesto di fare qualcosa sul tema della natura, quindi ho fatto una vanitas (NDR: natura morta che allude alla caducità della vita e all’incombenza della morte) con la tecnica dello stencil, con dei fiori, un teschio, delle farfalle e altri insetti. È da un po’ che sono interessata alle vanitas e alla pittura del XVI/XVII secolo, soprattutto quella fiamminga. Come al solito, ho personalizzato questo tema al computer con il mio stile e le mie linee, dopodiché ne ho ricavato uno stencil. Voglio rappresentare la natura che nasce e muore, concetto tipico delle vanitas e che si esprime nel “memento mori”, che anche noi giapponesi abbiamo nella nostra cultura. Noi crediamo nella reincarnazione: un giorno sono umana ma poi nella prossima vita magari sarò un insetto, come una farfalla.
- Quali sono i suoi prossimi progetti?
Il mio prossimo progetto è una collaborazione che sto mandando avanti con Fundesign di Taiwan, la stessa con cui ho lavorato nel 2023 per il progetto di public art di Taipei. Al momento, sto portando avanti la collaborazione con questo studio di eventi e design attraverso la produzione di sculture di angeli, realizzate in resina, che saranno poi messe in vendita tra la fine dell’anno e l’inizio del 2025.
L’ispirazione alla base di queste sculture deriva dell’affresco “Apoteosi della famiglia Pisani” di Tiepolo, che ho reinterpretato con la mia arte digitale nel 2020, mentre riflettevo sulla natura durante al periodo del COVID: percepivo l’assenza della natura e la messa in discussione della vita urbana della società contemporanea. Questi otto angeli rappresentano elementi naturali come la pioggia, il mare, le foglie, il sole, le foreste e i fiori: da questi concetti derivano i loro colori.

http://tomokonagao.info/index.html
Intervista di Francesca Mora
La lavorazione del legno e del bronzo di Time & Style
Time & Style è un brand che fonde design e artigianato per realizzare mobili, arredi, lampade e oggetti per la casa. Questi due mondi apparentemente molto distanti convergono naturalmente nel risultato finale dei loro prodotti, pensati per essere durevoli pur rimanendo in linea con la tradizione artigianale, nel rispetto della natura e della materia prima. In particolare, lo staff ci ha spiegato il processo di lavorazione del legno e del bronzo utilizzati nelle loro creazioni.
Il legno proviene dalle foreste di Higashikawa, in Hokkaidō, nell’estremo nord del Giappone, foreste che sono gestite dai Comuni locali o da enti di ricerca universitari. Il freddo della regione influisce direttamente sulla qualità del legname, rendendolo infatti più robusto. Affinché questo diventi utilizzabile occorre attendere un periodo molto lungo per permettere all’albero di crescere e svilupparsi: da 80 a persino 200 anni. Una volta pronto per essere lavorato, il legno presenterà quindi venature evidenti, visibili anche una volta ultimata la lavorazione dell’oggetto. La lavorazione, tipica della zona, inizia tagliando il legno e prosegue essiccandolo per circa due anni per garantirne ulteriormente la robustezza. Dopodiché si procede alla lavorazione, assemblaggio, e per ultimo alla finitura, che può essere di tre tipi diversi: può essere realizzata con una soluzione di sapone che protegge il materiale mentre allo stesso tempo lo schiarisce e ammorbidisce; può essere a base di cera d’api e olio, la quale dona un colore più caldo al legno e lo rende più lucido; e, infine, può consistere in una soluzione di acqua e ferro, alla quale viene poi aggiunta la cera d’api. In questo modo il legno assume una colorazione scura che risulterà di diversa intensità a seconda del tipo di legname. Per valorizzare al meglio la materia prima, ad esempio, mobili come gli armadi vengono realizzati impiegando quantità minime di metallo, così che il legno possa essere protagonista indiscusso del prodotto.


Per quanto riguarda la produzione del bronzo, invece, occorre spostare lo sguardo verso la prefettura di Toyama, nella parte centrale del Giappone. La città di Takaoka è considerata la patria del bronzo ed è infatti lì che dal periodo Edo (1603 – 1868) vengono prodotte le statue buddhiste in questa lega metallica. Per realizzare oggetti di piccole dimensioni con disegni particolari o complessi, si utilizza la tecnica a cera persa, che prevede la creazione di un modello in cera, intorno a cui viene modellato uno stampo in ceramica. Alla cottura di quest’ultima, la cera si scioglie, lasciando lo spazio al metallo fuso scolto che prenderà la forma del modello in cera. Per creare prodotti di grandi dimensioni, invece, non si utilizza la cera, ma degli stampi in sabbia pressata o mescolata ad una sostanza legante. Sempre nel caso in cui si cerchi di realizzare oggetti di grandi dimensioni, occorrono più persone per versare contemporaneamente il bronzo liquido negli stampi, così che la gettata risulti poi uniforme. Durante questo procedimento, per gli artigiani è anche molto importante capire quando versare il metallo: per questo devono tenere controllata la temperatura del fuoco, misurabile anche visivamente grazie al colore che assume la fiamma. Attraverso questa lavorazione, Time & Style realizza ad esempio le basi per i suoi tavoli di design.


Questa lavorazione del legno e del bronzo viene applicata da Time & Style non solo nella realizzazione dei prodotti che ne compongono il catalogo, ma viene utilizzata anche nell’installazione di progetti residenziali, hotel, negozi e uffici in contesti giapponesi e non, a dimostrazione della grande flessibilità che l’artigianato tradizionale può avere nel contemporaneo mondo del design.
- Francesca Mora
Banana Yoshimoto: chi è veramente e da dove arriva il suo nome?
Se c'è un nome che risuona nella letteratura giapponese, è sicuramente quello di Banana Yoshimoto. Nata a Tokyo il 24 luglio 1964, ha conquistato lettori in tutto il mondo con le sue storie introspettive e appassionanti. Ha anche un forte legame con l'Italia, dove le sue opere sono molto apprezzate.
I suoi romanzi, che affrontano temi come l'amore, l'amicizia e la famiglia, offrono una voce distintiva nella letteratura contemporanea. In questo articolo, scopriremo chi è davvero questa autrice e perché le sue opere meritino di essere lette. Pronti a esplorare il suo mondo?
Chi è Banana Yoshimoto?
Banana Yoshimoto è lo pseudonimo di Mahoko Yoshimoto, nata a Tokyo il 24 luglio 1964. Cresciuta in una famiglia progressista, ha sempre avuto accesso a un ambiente stimolante, grazie a suo padre, Takaaki Yoshimoto, un critico e intellettuale, noto per il suo impegno nella cultura giapponese. Dopo aver conseguito la laurea presso il College of Art della Nihon University, ha iniziato a scrivere, distinguendosi subito con il suo racconto di laurea, "Moonlight Shadow".
Ma perché "Banana"? La scelta dello pseudonimo nasce dal suo amore per i fiori di banano, che ha trovato non solo carini, ma anche androgini, in grado di riflettere la sua personalità e il suo approccio unico alla scrittura. Questo nome, facile da ricordare e pronunciabile in molte lingue, ha contribuito a farla conoscere a livello internazionale.
Alcune opere di Banana Yoshimoto e temi ricorrenti
Banana Yoshimoto ha pubblicato una serie di opere che hanno catturato l'attenzione dei lettori in tutto il mondo. Le sue storie si caratterizzano per la loro profondità emotiva e la capacità di trattare temi universali.
"Kitchen"
Il suo romanzo di debutto, "Kitchen", pubblicato nel 1988, è stato un vero e proprio successo. Racconta la storia di una giovane donna che cerca di affrontare il dolore e la perdita attraverso la cucina, un tema che risuona in molti lettori. Questo libro ha avuto oltre 60 edizioni in Giappone e ha segnato l'inizio della sua carriera letteraria internazionale.
"Moonlight Shadow"
Un'altra delle sue opere significative è "Moonlight Shadow", un racconto che esplora la connessione tra amore e perdita. Questo libro ha riscosso grande successo e ha vinto il Premio Izumi Kyoka, contribuendo a solidificare la sua reputazione come scrittrice di talento.
Temi ricorrenti
Le opere di Yoshimoto trattano spesso di amore, amicizia e l'importanza della famiglia. I suoi personaggi affrontano sfide personali e relazionali, e le sue storie vengono spesso considerate terapeutiche per chi sta attraversando momenti difficili. La sua scrittura riesce a rimanere al passo con i tempi frenetici della società moderna, parlando direttamente alle emozioni dei lettori contemporanei.
Yoshimoto ha inoltre anche avuto un'influenza a 360 gradi anche sugli shoujo manga, ispirando molti artisti con il suo stile unico e la sua sensibilità narrativa. Questa capacità di toccare le corde più profonde delle emozioni umane è ciò che rende i suoi libri così amati.
La percezione della cultura giapponese
Banana Yoshimoto si trova in una posizione unica nel panorama letterario: è amata a livello internazionale, ma in Giappone ha un ruolo più complesso. Sebbene le sue opere siano tradotte e apprezzate in tutto il mondo, la scrittrice stessa ha affermato di sentirsi "fuori dagli schemi" in patria.
Yoshimoto è spesso vista come una portavoce della cultura giapponese, ma lei stessa esprime incertezze su questo ruolo. In un'intervista, ha dichiarato di non essere sicura di rappresentare il Giappone in modo tradizionale, dato il suo stile di vita e le sue idee. Questa riflessione mette in luce le sfide di un'autrice che cerca di navigare tra la propria identità personale e le aspettative culturali.
Un personaggio capace di trascendere culture?
È innegabile che le sue opere hanno creato un ponte tra la cultura giapponese e quella occidentale. Le tematiche universali dei suoi romanzi permettono ai lettori di tutto il mondo di avvicinarsi a un modo di vivere e a una mentalità che possono sembrare lontani, ma che, attraverso le sue storie, diventano accessibili e comprensibili.
In questo modo Yoshimoto non solo racconta storie ma offre anche uno sguardo prezioso sulla complessità della società giapponese, contribuendo a una maggiore comprensione culturale tra Est e Ovest.
Stile di scrittura
Lo stile di scrittura di Banana Yoshimoto è uno degli aspetti che la rendono unica e riconoscibile. Caratterizzato da una lingua semplice e diretta, riesce a trasmettere emozioni profonde senza fronzoli. La sua prosa è accessibile, ma non priva di sfumature, e invita i lettori a riflettere su temi complessi come la perdita, l'amore e la ricerca del loro significato.
Come abbiamo già detto all'interno di questo articolo, Banana è stata capace di creare una letteratura in grado di influenzare alcuni generi di manga. Ma non si ferma qui: è anche considerata una pioniera nella creazione di una scrittura "più veloce e semplice", capace di stare al passo con la cultura pop di consumo, proprio come i manga. Questa caratteristica la rende particolarmente apprezzata da un pubblico giovane, che cerca narrazioni che si adattino ai ritmi frenetici della vita moderna.
Introspezione e Sensibilità
Yoshimoto è maestra nell'introspezione. I suoi personaggi, spesso giovani e in cerca di un loro posto nel mondo, affrontano dilemmi esistenziali che risuonano nei lettori. La sua scrittura invita a esplorare le emozioni umane, rendendo ogni storia un'esperienza terapeutica.
Connessione con la Cultura Pop
Inoltre, il suo stile riesce a rimanere al passo con i tempi frenetici della società moderna, parlando direttamente ai lettori contemporanei. La chiarezza e la leggerezza della sua prosa non solo la rendono accessibile, ma la posizionano, anche come una voce influente, nella letteratura giapponese contemporanea.
-Alessandro Molina
La redazione ringrazia Alessandro Molina per aver scritto questo articolo e vi invita a visitare il suo sito web per conoscerlo meglio e scoprire di più sui suoi progetti futuri. Siamo certi che troverete tante altre risorse interessanti e coinvolgenti!
Kokichi Mikimoto: il pioniere delle perle coltivate e la sua straordinaria storia
Kokichi Mikimoto: il pioniere delle perle coltivate e la sua straordinaria storia
Kokichi Mikimoto è il nome che ha cambiato per sempre il mondo delle perle. Da giovane sognatore a imprenditore di successo, ha creato il primo allevamento di perle coltivate, superando sfide e innovando un’intera industria. Il suo incontro con Thomas Edison, che rimase stupito dalle sue creazioni, è solo uno dei tanti momenti che hanno segnato la sua vita. Vuoi scoprire come Mikimoto ha lasciato un'impronta duratura nel settore delle perle? Segui il nostro racconto!
Chi era Kokichi Mikimoto?
Kokichi Mikimoto è nato nel 1858 a Toba, Giappone. Cresciuto in una famiglia che gestiva un'osteria di udon, ha imparato fin da giovane il valore del lavoro duro. La sua vera passione, però, erano le perle che i subacquei portavano a riva. Sin da bambino, osservava con meraviglia questi tesori marini, e il suo sogno di creare perle coltivate è iniziato proprio lì.
A soli 13 anni, ha dovuto abbandonare la scuola per sostenere la famiglia, ma la sua determinazione non si è affievolita. Nel 1888, con il supporto della moglie Ume, ha avviato il suo primo allevamento di ostriche. La strada non è stata facile: tra esperimenti falliti e quasi bancarotta, Mikimoto ha continuato a perseverare. Finalmente, nel 1893, è riuscito a creare le prime perle coltivate, cambiando per sempre il mercato delle perle.
Mikimoto non era solo un imprenditore; era un innovatore che ha avuto il coraggio di sognare in grande e ha lavorato duramente per realizzare le sue idee. La sua storia è un esempio di perseveranza e creatività che continua a ispirare, anche oggi!
La rivoluzione delle perle coltivate
La storia di Kokichi Mikimoto è una vera e propria rivoluzione nel mondo delle perle. Negli anni '80 dell'Ottocento, il mercato delle perle naturali era in crisi: la domanda superava di gran lunga l'offerta, e il prezzo delle perle era alle stelle. Mikimoto, con la sua mente innovativa, si rese conto che doveva trovare un modo per produrre perle in modo sostenibile e accessibile.
Nel 1888, ha avviato il suo primo allevamento di ostriche nella baia di Ago, ma non è stato tutto rose e fiori: i primi tentativi furono pieni di fallimenti. La vera svolta avvenne quando Kokichi Mikimoto, nonostante non avesse una formazione accademica, decise di collaborare con ricercatori universitari. Insieme, hanno scoperto che inserendo particelle di vetro all'interno dei gusci delle ostriche, si poteva stimolare il processo di formazione delle perle. Questo metodo innovativo ha cambiato radicalmente il modo di coltivare perle.
Nel 1893, dopo anni di sperimentazione e dedizione, Mikimoto riuscì finalmente a creare le prime perle coltivate emipere, un traguardo che sembrava impossibile. La sua insistenza sulla qualità e l'attenzione ai dettagli hanno fatto sì che le sue perle fossero considerate alla stregua delle migliori perle naturali.
Per promuovere le sue creazioni, ha aperto una boutique a Ginza, creando un ambiente dove i clienti potevano imparare a conoscere e apprezzare le sue perle. Ha partecipato a esposizioni internazionali, come quella in Norvegia nel 1897, mostrando al mondo il potenziale delle sue perle coltivate.
Nonostante le difficoltà iniziali e lo scetticismo del pubblico, le perle di Mikimoto hanno iniziato a guadagnare popolarità. La rivoluzione delle perle coltivate ha aperto la strada a un'industria che oggi è un simbolo di lusso e raffinatezza, segnando un cambiamento radicale non solo per Mikimoto, ma per l'intero settore!
Incontro con Edison e la perla leggendaria
Uno degli incontri più memorabili della vita di Kokichi Mikimoto avvenne nel 1927, quando ebbe l'opportunità di incontrare il famoso inventore Thomas Edison. Questo incontro non è stato solo un momento di celebrazione, ma anche un riconoscimento del genio innovativo di Mikimoto. Edison, noto per le sue invenzioni straordinarie, rimase sbalordito dalle perle coltivate di Mikimoto, definendole "biologicamente impossibili". Questo entusiasmo da parte di un'icona della scienza confermò il valore del lavoro di Mikimoto e il suo impatto sull'industria.
Durante questo incontro, Mikimoto presentò a Edison una perla unica, conosciuta oggi come la "perla leggendaria". Questa perla, grazie alla sua bellezza e alla sua perfezione, catturò l'attenzione di Edison, che la conservò come un simbolo del potenziale della creatività umana. La perla è ancora custodita con grande cura, rappresentando non solo il successo di Mikimoto, ma anche la fusione tra arte e scienza.
L'incontro tra Mikimoto ed Edison non è stato solo un episodio da raccontare, ma un momento che ha segnato la storia delle perle coltivate, sottolineando l'importanza della passione, dell'innovazione e della determinazione. Grazie a questa interazione, Mikimoto ha ottenuto un riconoscimento globale, consolidando il suo status non solo come imprenditore, ma anche come visionario nel mondo delle perle.
Un imprenditore di successo e diffusione nel mondo
Kokichi Mikimoto non è solo il fondatore di un'industria, ma è diventato un vero e proprio simbolo di successo. Dopo aver perfezionato la sua tecnica per la coltivazione delle perle, il suo nome è iniziato a risuonare non solo in Giappone, ma in tutto il mondo. La qualità delle sue perle e l'innovazione che portava con sé hanno attirato l'attenzione internazionale, rendendolo un pioniere nel settore.
Nel 1899, Mikimoto aprì il suo primo negozio a Ginza, un quartiere elegante di Tokyo, dove le sue perle divennero un simbolo di lusso e raffinatezza. La sua capacità di combinare tradizione e innovazione lo ha reso un leader riconosciuto nel mercato delle perle. Ma Mikimoto non si fermò qui: sognava di portare le sue creazioni oltre i confini giapponesi.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, ha iniziato a espandere il suo business aprendo negozi a Londra nel 1913, seguiti da aperture in altre città iconiche come New York, Parigi e San Francisco. La sua visione globale ha portato le perle coltivate a un pubblico sempre più vasto, cambiando per sempre la percezione delle perle nel mercato internazionale.
Mikimoto ha affrontato numerose sfide lungo il cammino, ma la sua perseveranza e il suo spirito imprenditoriale hanno permesso di superare le difficoltà. La sua strategia di marketing, che includeva eventi di gala e mostre, ha elevato ulteriormente il prestigio delle sue perle. Anche dopo la sua morte nel 1954, l'eredita di Mikimoto vive attraverso il marchio e l'industria che ha creato, continuando a ispirare generazioni di imprenditori e appassionati di perle in tutto il mondo.
L'eredità di Mikimoto
Oggi, il marchio Mikimoto è sinonimo di lusso e qualità, rappresentando un punto di riferimento nel mondo delle perle coltivate. Queste perle non sono solo gioielli, ma simboli di eleganza e raffinatezza, apprezzati in tutto il mondo. Un esempio lampante di questa eredità è il "Mikimoto Crown", indossato dalle vincitrici di concorsi prestigiosi come Miss Universe. Questo oggetto non solo celebra la bellezza, ma onora anche il lavoro pionieristico di Mikimoto.
Kokichi Mikimoto non è stato solo un innovatore nel suo campo; la sua vita è una testimonianza di come la perseveranza e l'ingegno possano trasformare un'intera industria. La sua storia continua a ispirare generazioni di imprenditori e artisti, incoraggiandoli a esplorare nuove idee e a non arrendersi di fronte alle sfide.
La visione di Mikimoto ha lasciato un'impronta indelebile non solo nel mondo della gioielleria, ma anche in quello dell'arte e della cultura. Le sue perle sono un simbolo di sogni realizzati, dimostrando che con dedizione e innovazione, è possibile cambiare il corso della storia. L'eredità di Mikimoto vive attraverso ogni perla coltivata, continuando a brillare nel cuore di chi apprezza la bellezza autentica.
Alessandro Molina
La redazione ringrazia Alessandro Molina per aver scritto questo articolo e vi invita a visitare il suo sito web per conoscerlo meglio e scoprire di più sui suoi progetti futuri. Siamo certi che troverete tante altre risorse interessanti e coinvolgenti!
I giapponesi e la luna
Il legame che unisce i giapponesi alla luna è molto antico e prende varie forme. Una di queste è sicuramente il Festival della luna e del raccolto (Tsukimi), che si tiene a metà settembre. È proprio la luna di questo il mese quella che si ritiene sia la più bella, grazie alla maggiore visibilità data dalla poca umidità presente nell’aria e dalla sua posizione nel cielo, non troppo in alto né troppo in basso rispetto all’orizzonte.

Nella letteratura giapponese la figura della luna è presente da secoli. Nel “Taketori monogatari” (“Storia di un tagliabambù”, X secolo), uno dei primi racconti di narrativa pervenutoci, è proprio la luna a essere la terra natia della protagonista, la principessa Kaguya. Questa terra lontana è descritta come pura, dove non c’è morte né vecchiaia. Nella poesia waka, genere fiorito nel periodo Heian (794 – 1185) prendendo generalmente la forma del tanka (poesia in 5 versi), la luna appare spesso in relazione al paesaggio naturale o in componimenti d’amore, per esempio quando una donna osserva il cielo notturno mentre aspetta l’arrivo del suo innamorato.
Si può trovare questa sua componente romantica anche in epoche più vicino a noi. Secondo un interessante aneddoto, sembra che Natsume Sōseki (1867 – 1916), considerato uno dei padri del romanzo giapponese moderno, abbia tradotto l’inglese “I love you” con l’espressione “Bella la luna, vero?”. Anche al giorno d’oggi quest’espressione, che apparentemente non si presenta come una dichiarazione d’amore, in giapponese può assumere anche questo significato e può indirettamente indicare un sentimento romantico.
È poi curioso notare come, secondo la cultura greco-romana, la luna assuma un’identità femminile nelle dee Artemide e Diana, mentre secondo la mitologia giapponese la divinità della luna è un dio maschile. Del dio Tsukuyomi si parla infatti nel “Kojiki” (“Cronache di antichi eventi”, 712), dove viene narrata la creazione del mondo e la nascita dei tre fratelli: Amaterasu (dea del sole), Tsukuyomi e Susanō (dio della tempesta e del mare). Al giorno d’oggi esistono 85 santuari dedicati a Tsukuyomi, sparsi per tutto il Giappone.
Continuando a esaminare i capolavori della letteratura, si può poi trovare un passo nello “Tsurezuregusa” (“Ore d’ozio, 1330 – 1332) di Yoshida Kenkō dove l’autore, parlando della luna, riesce a condensare in poche parole un concetto fondamentale dell’estetica giapponese, secondo cui c’è bellezza anche e soprattutto fuori dalla “perfezione”. Nel capitolo 137 si legge infatti:
“I fiori di ciliegio son forse da ammirare soltanto nel massimo rigoglio e la luna nel suo pieno splendore? Vagheggiare la luna brumosa attraverso la pioggia o ignorare al chiuso di una buia stanza quanto avanzata sia la primavera: com’è più intenso allora l’incanto! Ancora, le punte dei rami dei ciliegi quando stanno per schiudersi i fiori, o un giardino tappezzato di petali caduti...: quante altre sono le scene mirabili!”. (1)

Troviamo poi l’astro notturno anche tra i classici moderni, per esempio in opere come il racconto “Sangetsuki” (“Cronaca della luna sul monte”, 1942) di Nakajima Atsushi. Nel passaggio che dà il titolo all’intero racconto, uno dei più toccanti, si legge:
E per un po’ di tempo, limpida e sonora, si udì la voce di Li Zheng, che dal boschetto recitava le sue poesie. […]
Cosa rimane della gloria passata?
tu vai in carri dorati
e io striscio per terra.
Questo dolore dicevo stanotte
ruggendo alla luna
che illumina il monte.
Già la luna impallidiva nella fredda luce del mattino, la rugiada cadeva più fitta e il vento gelido che attraversava gli alberi annunciava l’alba. (2)

La luna appare in molte forme nelle opere giapponesi, a testimonianza di quanto sia un riferimento familiare al loro pubblico che, nonostante il tempo e le modalità, continua ad ammirarla stagione dopo stagione.
(1) Traduzione a cura di Adriana Boscaro.
(2) Traduzione di Giorgio Amitrano.
Francesca Mora