Aruitemo Aruitemo - Ritratto di una famiglia tra morte e memoria
“Un mare apparentemente calmo che, con l’alzarsi e l’abbassarsi della marea, è continuamente increspato da piccole onde.”: così descrive Koreeda Hirokazu il trascorrere del tempo in Aruitemo aruitemo.
Quelle tanto piccole quanto significative increspature sono raccolte nel film come foto in un vecchio album di famiglia che, sfogliato pagina dopo pagina, tratteggia, ma non rivela apertamente, la complessità delle vicende della famiglia Yokoyama, protagonista della pellicola.
Il film ritrae la famiglia durante l'annuale commemorazione della scomparsa del primogenito Junpei, annegato per salvare la vita di un ragazzino sconosciuto. L’interesse del regista si concentra sul quotidiano, su come i personaggi affrontino la loro nuova esistenza, svelando a poco a poco i rapporti tra gli anziani genitori, Toshiko e Kyōhei, e i due figli rimasti, Chinami e Ryōta. I genitori, del tutto incapaci di superare la perdita del figlio prediletto, sembrano vivere nel suo ricordo, lasciando che la morte domini le loro vite. Diverso è, invece, l’atteggiamento dei due figli: la maggiore sembra essersi lasciata il passato alle spalle vivendo il presente e pensando al futuro, mentre il minore, meno spensierato della sorella, è vittima della frustrazione del padre che non può fare a meno di paragonarlo al figlio perso e ritenerlo un buono a nulla.
L’anniversario si trasforma in una vera e propria rievocazione del dolore con la rituale visita del ragazzo salvato, espressamente voluta da Toshiko. L’episodio contrasta con il clima nostalgico e tranquillo percepito fino a quel momento dando sfogo alla crudeltà dei due genitori. La madre desidera ricordare costantemente al ragazzo il peso del sacrificio che la famiglia ha dovuto affrontare per salvare la sua vita, che, soprattutto secondo Kyōhei, non valeva certamente il prezzo che è stata pagata.
Aruitemo aruitemo è girato dal punto di vista di Ryōta che non risulta però essere il personaggio principale in senso assoluto. Protagonista della pellicola non è il singolo individuo, ma la collettività, in questo caso la famiglia Yokoyama nel suo insieme. Tuttavia Koreeda applica ai membri della famiglia un isolamento visivo per mettere in evidenza alcune di quelle piccole increspature che agitano la superficie di tranquillità della giornata. L’esempio più toccante è il mezzo primo piano su Yukari durante una conversazione con Toshiko: l’inquadratura cattura il sorriso della donna che si dilegua a poco a poco fino a sparire completamente quando la suocera afferma che forse la cosa migliore sarebbe che lei e Ryōta non avessero dei figli loro.
Ancora una volta Koreeda utilizza la memoria per dissolvere i confini tra realtà e finzione e il mezzo cinematografico per filtrare il reale. In Aruitemo aruitemo sono presenti diversi elementi che rievocano ricordi, alcuni propri della memoria di Koreeda (la figura di Toshiko è ispirata alla madre del regista), altri appartenenti ad una memoria collettiva e quindi presumibilmente noti anche allo spettatore e altri ancora di origine puramente fittizia.
Ai temi cari a Koreeda della morte e della memoria, in Aruitemo aruitemo si aggiunge quello della famiglia, la cui esplorazione, intima e personale, è condotta dall’interno, dal punto di vista di un figlio che vive un rapporto distaccato con i propri genitori. Come nei drammi familiari del cinema più tradizionale, Koreeda dipinge con una sensibilità tutta giapponese un modello della tipica famiglia nipponica, ma grazie all’universalità dei sentimenti presentati, il film risulta accessibile anche ad un pubblico occidentale. I personaggi sono persone del tutto ordinarie con preoccupazioni comuni a qualsiasi cultura, come il progressivo invecchiamento dei genitori e l’apprensione che ne deriva, nei cui atteggiamenti si celano tensioni e disaccordi non sempre dichiarati.
Allo spettatore non resta che lasciarsi condurre da Koreeda attraverso il mare dei sentimenti umani e le sue increspature, in cui si trova l’essenza della vita di tutti.
Maddalena Pologna
Cinema giapponese: la nuova produzione nella "seconda epoca d’oro"
A metà del ventesimo secolo, per l’industria cinematografica giapponese ebbe inizio un glorioso periodo di rinascita che avrebbe percorso gli anni Cinquanta nel cosiddetto "secondo decennio d’oro".
In seguito alla ripresa economica del dopoguerra, nello scenario cinematografico il decisivo confronto con gli Stati Uniti, sebbene avesse determinato una riorganizzazione dell’assetto industriale, aveva offerto alle case giapponesi l’occasione di espandersi nel mercato internazionale, attraverso una produzione rinnovata e per la prima volta orientata all’esportazione. Il dopoguerra vide inoltre la fioritura di numerose personalità che difficilmente si sarebbero imposte negli anni precedenti a causa del tipico sistema di apprendistato giapponese, per cui la quasi totalità dei registi si vedeva affidare la piena responsabilità di un film solo dopo un lungo tirocinio come assistenti.
Uno tra questi fu senza dubbio Kurosawa Akira, che già nel 1943 aveva esordito con Sugata Sanshiro. Con Rashomon, infatti, nel 1950 una nuova era di rinnovamento e prosperità si era affacciata alle porte del cinema giapponese, che fino a quel momento aveva sviluppato uno stile proprio nella costante alternanza tra codici provenienti dall’esterno e rappresentazioni minuziose dei costumi del popolo. Il film riscosse un successo senza precedenti: fu premiato l’anno successivo al Festival di Venezia con il Leone d’Oro e in seguito con l’Oscar come miglior film straniero a Hollywood, dando così la possibilità al cinema nazionale di essere conosciuto e apprezzato all’estero per la prima volta.
L’ambiguità del trionfo conseguito dalla pellicola derivò dall’innovativa interpretazione del genere jidaigeki proposta da Kurosawa, che tramite questo esperimento d’avanguardia stabilì un punto di rottura rispetto alla tradizione e ai film in costume convenzionali ai quali il pubblico era abituato. A ossessionare il popolo giapponese, oltre Kurosawa stesso, era la preoccupazione di aver fornito al resto del mondo un’immagine troppo eccentrica della cultura nipponica. Tuttavia Rashomon diede al regista l’opportunità di trasporre al meglio il suo stile espressivo, ma soprattutto rappresentò un passo importante verso l’internazionalizzazione del cinema giapponese, che in breve tempo avrebbe conquistato l’attenzione dei grandi festival europei.
L’iniziale diffidenza di Nagata Masaichi della Daiei riguardo alla produzione di Rashomon fu così smentita, tanto che il presidente della casa si convinse a produrre una quantità sempre maggiore di jidaigeki per il mercato straniero. Inoltre, Nagata lanciò un programma di produzioni a colori permettendo alla Daiei di diventare la prima major giapponese a servirsi del colore non solo sul piano sperimentale. Il procedimento utilizzato per questa novità era il Fujicolor, già impiegato dalla Shochiku in Carmen torna a casa del 1951; quest’ultimo film, diretto da Kinoshita Keisuke, aveva ottenuto un grande successo al botteghino che consentì alla casa produttrice di recuperare il potere perduto a causa della mancata adesione agli standard moderni, concentrandosi piuttosto sui classici melodrammi destinati a un pubblico prevalentemente femminile.
In seguito alla nuova disposizione postbellica dell’apparato industriale, il numero delle major era aumentato a tal punto che il monopolio del mercato fu spartito tra sei grandi case: Nikkatsu, Shochiku, Daiei, Toho, Shintoho e la neocostituita Toei. Mentre la Daiei era occupata nella realizzazione di film di alta qualità e continuava a rivolgere la sua attenzione al mercato estero, la Toho era ancora troppo debole per reggere il confronto con le altre case. In tale contesto, la Toei si fece avanti proponendo un piano di produzione il cui scopo era distribuire un nuovo doppio programma ogni settimana: il piano permise alla casa di concentrarsi sulla produzione interna di film in costume con budget decisamente ridotti.
Dal 1950 ci fu anche una rinnovata proliferazione di compagnie indipendenti, interessate principalmente alla politica. Nello stesso anno, infatti, un provvedimento del Comandante Supremo delle Forze Alleate aveva allontanato i comunisti da tutti gli organismi di comunicazione di massa attraverso la cosiddetta red purge, che aveva già coinvolto numerosi nomi celebri a Hollywood. Le più importanti tra queste case nascenti furono la Studio 8, fondata da Gosho Heinosuke, la Kindai Eiga Kyokai e la Shinsei Eigasha. In alcuni casi la scelta dell’indipendenza risiedeva piuttosto nel desiderio di usufruire di una libertà creativa fino ad allora limitata da alcune major, come la Shochiku.
Mentre già nel 1953 la quasi totalità delle sale cinematografiche proiettava spettacoli a doppio programma, l’industria aveva l’onere di soddisfare sia le esigenze del pubblico locale che quelle dell’audience straniera. Tuttavia, a causa di una fiacca coordinazione tra le major non fu possibile attuare in questi anni una politica esportatrice adeguata; soltanto nel 1957 la creazione della UniJapan Film compensò l’assenza di un organismo centrale destinato all’esportazione.
Lorenzo Leva
Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.
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lorenzo.leva@gmail.com
Architettura invisibile - Sou Fujimoto tra uomo e natura
Roma, 2 marzo – Nell'elegante cornice dell'Aula dei Gruppi Parlamentari, partecipiamo alla lezione di Sou Fujimoto, architetto giapponese di fama internazionale, capo dello studio Sou Fujimoto Architects. L'incontro si svolge nell'ambito degli eventi collaterali della mostra “Architettura invisibile”, ospitata dal 19 gennaio al 26 marzo presso il Museo Carlo Bilotti. Non è la prima volta che l'architetto si reca a Roma. Ha già visitato la nostra capitale quando era ancora studente e si recò in viaggio-studio in Europa, alla scoperta degli stili architettonici del Vecchio Continente.
“Architettura invisibile” è un'espressione che riassume efficacemente la filosofia dietro ai lavori di Fujimoto. La spiegazione ce la fornisce lui stesso, proprio all'inizio della conferenza, raccontandoci il contesto geografico e sociale in cui è vissuto. Sōsuke, il suo vero nome, è nato e cresciuto in un piccolo paesino sperduto tra le foreste dell'Hokkaidō, in cui si conoscevano tutti e le porte delle case erano sempre aperte. La giovinezza è trascorsa giocando nei boschi tra gli alberi. È proprio qui che ha avuto la prima ispirazione che ha contribuito alla formazione del suo concetto di architettura. Lo spazio-foresta non è delimitato da pareti o colonne, ma da tutta una serie di piccoli elementi che ne plasmano la struttura, in cui anche i vuoti e le trasparenze contribuiscono a rafforzare la spazialità esistente. La sensazione è quella di essere in uno spazio intimo e familiare. La stessa peculiare caratteristica, secondo la sua testimonianza, si può ritrovare nelle strade di Tokyo, dove si è trasferito per frequentare l'università, nonostante in questo caso si tratti di uno spazio completamente artificiale. Anche qui la spazialità era definita da una serie di elementi apparentemente scollegati, come possono essere pali della luce, panchine o distributori automatici, a ognuno dei quali ci si relaziona con un differente comportamento, un differente approccio. Il suo duplice background, spiega come mai una delle sue principali preoccupazioni sia l'unione armoniosa tra artificiale e naturale, tra uomo e natura, tra visibile e invisibile.
Questa sua inusuale concezione dell'architettura, continua a spiegare, ha trovato la sua massima espressione nel Serpentine Pavillion, realizzato ad Hyde Park, a Londra, nel 2013, “costruzione” che l'architetto considera il suo miglior lavoro. Non si tratta di un edificio vero e proprio, quanto dell'unione di innumerevoli singoli elementi – una successione irregolare di pali e piattaforme bianche – che singolarmente presi non significano nulla, ma nel complesso creano un ambiente liberamente fruibile. Il pubblico è incoraggiato a esplorarlo e a capire in quale modo approcciarvisi. Lo si può esplorare, cercare un tavolo per mangiare o una panchina per sdraiarsi. Ci si può anche arrampicare in cima. È uno spazio veramente pubblico. Inoltre, grazie al modo in cui è realizzato, non esistono veri limiti tra il dentro e il fuori, e tutta la costruzione è immersa completamente nella natura, senza creare contrasti forti. È una soluzione in cui il naturale e l'artificiale si fondono, in cui non si percepisce la linea di demarcazione tra i due. Fujimoto insiste che si tratta di una nuova interpretazione di architettura. Non tanto tecniche di costruzione, quanto capacità di saper reinterpretare lo spazio.
Giochi di prospettive, rapporti mutevoli tra interno ed esterno, tra pubblico e privato – sono le caratteristiche fondanti dello stile di Fujimoto, e si possono ritrovare in ogni sua opera, sia pubblica che privata. I due progetti di abitazione House NA e House N, ad esempio, che uniscono la visionarietà di Fujimoto alla più antica tradizione architettonica nipponica. Nelle case del Giappone classico, infatti, i locali erano separati da una semplice parete scorrevole di carta di riso, che pur delimitando lo spazio non costituiva una netta separazione tra le varie stanze. Allo stesso modo in House NA la divisione tra i vari locali, così come tra interno ed esterno, viene meno. Tutto è unico e la funzione di ogni spazio dipende unicamente da come le persone vogliono interpretarlo. Un pavimento può diventare un tavolo, una sedia può diventare una mensola, un soffitto può essere un letto. Si tratta solo della ripetizione dello stesso modulo in dimensioni e rapporti diversi, proprio come nel padiglione Serpentine. La coppia che ha commissionato il progetto ha raccontato all'architetto di usare gli ambienti della casa in modo non convenzionale, per esempio leggendo in cucina o mangiando sul letto. Fujimoto ha così creato per loro una casa in cui tutto può essere tutto. In House N, invece, la distinzione tra dentro e fuori è completamente ribaltata grazie ai vari moduli che si contengono a vicenda e al fatto che il più esterno non è chiuso. Non si può mai dire di essere del tutto dentro o del tutto fuori. Altri progetti di Fujimoto basati su queste idee sono Public toilet, la nuova biblioteca dell'Università di Musashino, l'auditorium Forest of Music o il complesso residenziale Arbre blanche.
L'arte di Fujimoto è quella di saper creare spazi innovativi, che sfidano le leggi dell'architettura portandoli – come dice lui stesso – all'estremo. L'ambiguità di fondo consiste nella difficoltà di etichettare le sue opere che proprio per questo motivo possono apparire troppo rivoluzionarie e di conseguenza poco funzionali. Ci racconta che spesso i suoi progetti sono stati cancellati, proprio per questi timori. Tuttavia, questa visionarietà e questo coraggio, gettano le loro basi in un background culturale ancorato saldamente al passato, alla tradizione nipponica e alla ruralità del suo paese natale, dove l'intimità condivisa, come se si trattasse di un unico nucleo familiare allargato, e lo strettissimo contatto con la natura fanno completamente decadere molte contrapposizioni manicheiste che nella società odierna diamo per scontate.
Federico Moia
Washoku kentei - A tu per tu con chi l'ha voluto portare in Italia
In Italia, la cucina giapponese è sicuramente una delle più apprezzate e popolari. E, nonostante tutto, anche una delle meno conosciute. Nell'opinione comune, infatti, è facile che la ricchissima tradizione gastronomica del Paese del Sol Levante sia appiattita al solo sushi, magari anche mangiato in uno di quei ristoranti "all you can eat" che abbondano nelle nostre città e che di giapponese non hanno quasi nulla. Per correggere questa innocente inconsapevolezza e diffondere una vera conoscenza della tradizione alimentare giapponese – chiamata anche washoku (il carattere “wa “ significa armonia, e si usa normalmente per indicare il Giappone; “shoku” è il carattere che indica “mangiare”) – Fumiaki Tamada ha deciso di portare in Italia il corso Washoku culture. Il corso, la cui prima lezione si è tenuta lo scorso sabato 25 febbraio presso i locali della scuola di lingue Eurasia Academy, continuerà fino a maggio e offrirà una ricca panoramica sulla cultura alimentare giapponese. Ma di cosa si tratta esattamente? Lo abbiamo chiesto direttamente al signor Tamada.
“Il corso washoku culture si prefigge lo scopo di diffondere la conoscenza della reale cultura alimentare giapponese, cercando di aumentare la consapevolezza verso questa tradizione gastronomica. La cucina giapponese infatti non è solo un insieme di tecniche e ricette, ma ha radici profondamente ancorate alla storia e alla cultura del nostro Paese, che oggi si tendono a ignorare. Ma senza conoscere queste basi non è possibile comprenderla fino in fondo e si rischia di dimenticare il motivo per cui certi piatti si preparino o si consumino in un certo modo.”
Il pubblico accorso alla prima lezione, in realtà, non era proprio numerosissimo. “Temo che molte persone non abbiano capito esattamente in cosa consiste il corso” ci spiega Tamada. “Noi non vogliamo insegnare le tecniche della cucina, ma la cultura della cucina, che sta dietro quelle tecniche. Alla fine del corso, dopo il superamento di un esame, si ottiene il certificato washoku kentei (kentei significa certificazione), che attesta la conoscenza della cultura alimentare giapponese.” Un corso molto sui generis, quindi, ma nel cui successo Tamada crede fermamente, senza farsi scoraggiare dai numeri iniziali. "Pensavamo fosse un momento ideale per proporre questo corso in Italia, dal momento che moltissimi giovani sono interessati alla cucina giapponese e, conseguentemente, alla cultura giapponese trasmessa attraverso la cucina. Alla fine, è la nostra prima volta, e anche una delle prime che viene proposto fuori dal Giappone, da quando la certificazione è stata istituita nel 2011. La prima impressione è molto positiva. Durante la lezione, c'è stata una bella atmosfera, molto familiare. I partecipanti hanno creato subito un rapporto diretto con la maestra, cosa che ha favorito anche le domande e gli interventi. E' stato anche un esempio della squisita ospitalità giapponese.”
Ma a chi è rivolto esattamente un corso così particolare? Anche su questo, Tamada ha le idee ben chiare. “Il nostro corso è indirizzato sia ai semplici appassionati di cucina giapponese, che ai professionisti operanti nel settore della ristorazione. Non voglio criticare nessuno, ma oggi c'è davvero poca consapevolezza circa la vera tradizione gastronomica giapponese, anche da parte degli addetti ai lavori. Grazie alla collaborazione dell'Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi e del suo presidente Minoru Hirazawa – o, come è più conosciuto, Shiro-san di Poporoya – ho già raccolto numerosi contatti di professionisti interessati. Per ora c'è un unico corso base, ma pensiamo di crearne in seguito uno esclusivamente dedicato agli addetti ai lavori. Per i semplici appassionati, invece, c'è anche la possibilità di frequentare solamente una singola lezione, un'ottima soluzione per chi non ha la possibilità di essere sempre presente nei tre mesi di corso”
Dopo averci parlato entusiasticamente della sua creatura, Tamada inizia a raccontarci la sua storia, e delle circostanze che lo hanno spinto a proporre il washoku kentei agli Italiani. "Sono arrivato in Italia nel 1979, alle dipendenze di un calzaturificio giapponese che collaborava con vari brand italiani. In seguito mi sono messo in proprio, spostandomi da Roma a Milano. Sono più di 30 anni che la mia società opera nel trading nel settore tessile. Negli ultimi anni, una flessione degli affari mi ha spinto a cercare nuove strade da percorrere. Grazie ad alcuni amici giapponesi, ho conosciuto la realtà del washoku kentei, che in quel momento stava cercando proprio alcuni collaboratori all'estero per poter diffondere i loro corsi anche fuori dal Giappone. Conoscendo la grande passione degli Italiani per il cibo e la cucina giapponese, ho deciso di tentare la sfida”.
Una vicinanza forse scomoda quella di due tradizioni alimentari così importanti, entrambe, non a caso, inserite nel novero dei Patrimoni Culturali Immateriali dell'Unesco. Tamada, tuttavia, non reputa che le due culture culinarie siano così distanti.”Senza dubbio non ci sono delle vere e proprie somiglianze, visto che le due tradizioni sono frutto di due culture differenti, e il rapporto che esiste tra queste è molto profondo. È dalla cultura che nascono i piatti. Ci possono però essere in futuro vari punti di contatto, o delle reciproche influenze. Basti vedere come oggi chef e cuochi italiani si ispirino sempre più alle tecniche di lavorazione o agli ingredienti della cucina giapponese. È una cosa che fa capire come sia ricercata e richiesta la vera tradizione alimentare giapponese. Credo molto in uno scambio di questo tipo, di materiali, di tecniche e di idee, anche per poter avviare dei progetti insieme.”
Federico Moia
Kazuto Takegami - ACQUA VENTO TERRA - La mostra raccontata dall'artista
Il mondo dell'arte non si può dividere in monolitici compartimenti stagni. Esistono numerosi artisti che travalicano le barriere e le suddivisioni canoniche tra "arte occidentale" e "arte orientale", o tra "presente" e "passato", unendo nel loro linguaggio e nella loro sensibilità componenti eterogenee derivanti da più tradizioni. Uno di loro è certamente Kazuto Takegami, artista giapponese residente in Italia da quasi vent'anni, che sembra aver dedicato la sua eclettica ricerca artistica al superamento di categorizzazioni limitanti, cercando sempre il modo più autentico e immediato di trasmettere sulla tela ciò che vede e ciò che sente.
Abbiamo voluto incontrarlo a pochi giorni dalla chiusura della sua mostra "ACQUA VENTO TERRA" - ospitata da AD Gallery di Anna Deplano - per porgli alcune domande non solo sull'esposizione che si sta per concludere, ma anche sul suo modo di concepire l'arte, che quasi sempre coincide con la sua vita in generale.
"La mostra è andata molto bene" esordisce Takegami "Ha incontrato fin da subito l'interesse dei visitatori della galleria. In molti mi hanno raccontato che la prima cosa che li ha colpiti sono stati i colori e la luce che si percepiscono nei dipinti. Era proprio quanto volevo esprimere. Volevo dipingere quadri dove si sentono i rumori e si avverte il movimento. Dove si sentono l'aria e l'acqua. Uso una spatola per dipingere, perchè il pennello non è sufficiente a far capire il moto delle ombre o delle nuvole".
Takegami, nato in Giappone nel 1970, si trasferisce a Milano nel 1998, dopo aver vinto una borsa di studio dell'Accademia di Brera, e da allora non ha mai abbandonato il nostro Paese. "All'inizio avevo intenzione di rimanere in Italia solo per due, tre anni, grazie alla borsa di studio di Brera. Volevo imparare la tecnica dell'affresco, conoscere gente, creare nuovi contatti. Alla fine mi sono creato una nuova vita qui. Mi ha stupito inizialmente come tutto fosse diverso dal Giappone. Là è tutto più preciso, qua invece può capitarti di trovare una scritta su un muro o una sigaretta sul marciapiede. Ma è bellissimo, trovo un sacco di idee per dipingere". Proseguendo la conversazione, racconta di aver pensato solo una volta di tornare in Giappone, nel 2008, in seguito alla scomparsa del padre. "Mi sono trovato molto in difficoltà allora. Ho smesso di dipingere per quattro o cinque anni. Ho ricominciato a mettere i miei sentimenti sulla tela solo dopo aver iniziato a praticare triathlon. E' stato allora che sono tornato a vedere la natura e i colori".
Takegami pratica questo sport da cinque anni e dipinge quello che percepisce durante una corsa o durante un giro in bicicletta, la bellezza dell'acqua, il rumore del vento, l'ombra dei ciclisti. La mostra in corso in questi giorni è incentrata proprio su questo tema. La tela viene utilizzata come un personalissimo diario su cui l'artista scrive quello che sente, quello che prova o quello che vede. Come ci racconta lui stesso "non è solo quello che ho vissuto, ma anche quello che ho semplicemente visto." Ci sono rappresentazioni di foto o addirittura di immagini televisive con tanto di scritte in sovraimpressione e loghi dei canali fedelmente riprodotti.
Parlando delle sue principali influenze, Takegami sottolinea "Ho uno stile che cambia molto e di conseguenza sono molti gli artisti che mi piacciono e da cui in qualche modo ho imparato qualcosa. Per esempio, ho studiato molto il pittore francese Nicolas De Staël per quanto riguarda la composizione. Era un astrattista, ma alla fine della sua vita è tornato a soggetti realistici. Anche Giorgio Morandi è stato per me fonte di ispirazione, così come il napoletano Francesco Clemente. Non sono vere e proprie influenze, però, dipingo semplicemente quello che vedo e quello che sento, anche se ci sono tanti artisti che stimo e mi piacciono, altri che mi piacevano e ora non più. Quando ero giovane, ad esempio, ammiravo molto Yoshitomo Nara e Shinro Otake. Ora non mi piacciono più. Penso sia normale. E' la stessa cosa di quando in passato mangiavo sempre carne, e ora mangio solo pesce. Le cose cambiano."
Cambiamento. Questa è la parola che descrive meglio il suo stile, in costante e coerente evoluzione. "Sono arrivato dove sono arrivato. Alcuni mi dicono di percepire rimandi a Hokusai [Katsushika, il più celebre artista dell'ukiyoe N.d.R.], ma io non me ne accorgo. Solo in un caso ho voluto rifarmi volontariamente a uno stile pittorico preesistente. E' stato con la serie "A bassa voce" del 2009, dove ho voluto riprendere la tradizione pittorica giapponese a inchiostro, riproducendo in bianco e nero gli alberi, il cielo, la pioggia, l'aria. E' stato dopo la morte di mio padre. I colori sono tornati dopo."
Allo stesso modo, Takegami non percepisce una distanza o delle differenze sostanziali tra il modo occidentale od orientale di percepire l'arte. "Dentro di me non c'è un orientale o un occidentale, si tratta solo della realtà che vedo. Penso che concetti come la nazionalità abbiano poca importanza nel mondo dell'arte. Ogni artista ha uno stile unico e differente che non per forza rispecchia la sua provenienza. Anzi, a volte mi sembra che si cerchi di prendere le distanze dal Giappone, come Nara che ha vissuto per un lungo periodo in Germania. Penso che molti artisti non vogliano fare opere che urlino "sono giapponese" e i collezionisti d'arte non li cercano per quello. Non ci sono stereotipi nell'arte."
Obiettivi per il futuro? "Finita questa mostra, ho qualche progetto che vorrei concretizzare. All'inizio della mia carriera ho partecipato ad alcune mostre in Giappone, ma da allora non ce ne è più stata l'occasione. Ora grazie a una mia amica gallerista di Nagoya - triatleta anche lei - vorrei cercare di portare alcune mie opere in Giappone il prossimo anno. Dobbiamo ancora definire i particolari, ma l'interesse è forte da entrambe le parti. Mi piacerebbe provare a mostrare in Giappone quello che ho imparato in Italia, come la tecnica dell'affresco, così come qui a Milano ho cercato di utilizzare tecniche di origine giapponese, come la pittura a inchiostro. Alla fine, l'arte italiana e l'arte tradizionale giapponese si assomigliano molto. Sono entrambe frutto di tecnica, precisione e cura ai dettagli, proprio come l'arte artigianale giapponese - quella della lavorazione della ceramica o dei kimono, ad esempio."
Federico Moia
Giuseppe Piva Arte Giapponese: novità di Febbraio 2017
Questo mese, la Galleria Giuseppe Piva Arte Giapponese ci propone un oggetto molto particolare.
Si tratta di un netsuke (piccola statuina d'avorio, che si usava fissare alla cintura del kimono), raffigurante uno shishi, il leone guardiano dei templi proveniente dalla tradizione cinese. Lo shishi è rappresentato leggermente girato verso destra, con la bocca aperta e una zampa poggiata su una sfera traforata, con al suo interno una seconda sfera mobile. I fori per far scorrere la cintura (himotoshi) sono formati dalle zampe posteriori. La criniera e la coda, finemente intarsiati, sono folte e rigogliose con intrecci contorti volutamente anneriti per accentuarne la tridimensionalità. L'artista che lo ha realizzato è Yamaguchi Okatomo, uno dei migliori scultori attivi a Kyoto nella seconda metà del XVII secolo.
La particolarità di questo pezzo è che risale a un periodo (la fine del XVII secolo) in cui i netsuke stavano iniziando a perdere la loro funzione pratica di oggetti da legare alla cintura e stavano diventando espressione artistica indipendente. Una trasformazione che portò a un innalzamento generale della qualità scultorea di questi pezzi, come si può vedere chiaramente nell'esempio proposto.
Caratteristiche tecniche
Yamaguchi Okatomo
Scuola di Kyoto, fine XVIII secolo
Netsuke katabori in avorio, occhi intarsiati in corno scuro
Firmato in una riserva rettangole: Okatomo.
Larghezza: 4,7 cm
Provenienza
Collezione W. W. Winkworth
Collezione Von Schluben
Collezione J. and A. Katchen
Bibliografia:
George Lazarnick (ed.), MCI: The Meinertzhagen Card Index on Netsuke in the Archives of the British
Museum, New York (Alan R. Liss Inc.: 1986), p. 620.
A. Katchen, Netsuke 7, vol.1, Paris (K. R. Publishers, 2010), p.85, no.K430.
Giuseppe Piva Arte Giapponese: novità di dicembre 2016
Ecco, anche per il mese di dicembre 2016, tutte le novità riguardo le ultime acquisizioni della Galleria Giuseppe Piva Arte Giapponese.
Netsuke in legno con un polpo che indossa un kimono
Firmato: Miwa Scuola di Edo, inizio XIX secolo
Legno con occhi intarsiati in corno scuro
Altezza: 6,8 cm
Provenienza: Collezione Arlette Katchen
Polpo raffigurato con indosso un haori in piedi su quattro tentacoli con i quali trattiene una piccola scimmia che tenta di divincolarsi. La composizione trae spunto da un racconto in cui Ryujin, il Drago Re del Mare, si ammala e il suo medico, un polpo, gli propone come unico rimedio quello di cibarsi del fegato di una scimmia viva.
Numerosi artisti, tutti originari di Edo, utilizzarono il nome Miwa. Il primo è registrato nel Soken Kisho del 1781 e le generazioni successive, fin dall’inizio del XIX secolo, predilessero il legno come materiale e i soggetti tratti dalle leggende o dalla vita di tutti i giorni.
Mentre gli artisti Miwa normalmente utilizzavano un kaō a chiusura della firma, anche tutte le altre varianti conosciute di questo modello sono firmate con solamente due caratteri; questi comprendono l'esemplare pubblicato nel Meinertzhagen Index Card (p. 563), quello della Baur Collection (no. C916) e quello già Barry Davies, Selected Netsuke, 2002 (no. N01562).
Seijin no Hi – Festa della Maggiore Età 成人の日
Il secondo lunedì del mese di gennaio in Giappone viene considerato giorno di festa: si celebra infatti quell’evento conosciuto da tutti i giapponesi come Seijin no Hi (成人の日). Il Seijin no Hi è un giorno importante perché si celebrano e festeggiano tutti i ragazzi e ragazze che dal 2 aprile dell’anno precedente sino al 1 aprile del nuovo anno compiono 20 anni, raggiungendo quindi la maggiore età.
Si tratta di un traguardo importante per un giapponese in quanto si acquistano maggiori diritti ma soprattutto doveri e responsabilità. I “nuovi adulti” partecipano a delle cerimonie (dette 成人式 seijin-shiki) tenute dalle autorità locali e prefetturali in cui, di fatto, la comunità si “congratula” con loro per l’ingresso nell’età adulta.
Ma quali sono le origini di questa tradizione? Il Seijin no Hi deriva dalla cerimonia del 元服 genpuku (per gli uomini) e del 裳着 mogi (per le donne). La prima di queste viene fatta risalire tradizionalmente al 714 d.C., quando un principe, per segnare il cambiamento da giovane adolescente ad adulto cambiò il modo di vestire e la propria acconciatura. Questa era quasi tutta la sostanza del genpuku (lett.: “vestiti dell’inizio”), ma a differenza della seijin-shiki, questa cerimonia era più religiosa: un ragazzo veniva “presentato” al tempio quando aveva tra gli 11 e i 17 anni; l’idea di base è quella del nostro “antico” battesimo, anche se ufficialmente si veniva presentati all’ 氏神 ujigami, il kami protettore della zona
I ragazzi ricevevano nuove vesti da cui il nome della cerimonia: nella parola 元服 genpuku infatti, 服 fuku significa “veste”, mentre 元 gen “sostituisce” 首 collo, testa. La nuova veste si indossava infatti “calandola dalla testa”. La corrispondente cerimonia “femminile”, il mogi, riguardava le ragazze tra i 12 e i 14 anni, che iniziavano invece a vestire (着る, kiru, da cui il “gi” di mogi) il 裳 mo, un’antica “gonna”.
Ad ogni modo, il genpuku “prese piede” lentamente. Fino all’epoca Heian riguardava ancora soltanto i nobili. E’ solo dall’epoca Muromachi che si diffuse anche nelle classi inferiori. In realtà però, radice antica o meno, il Seijin no Hi divenne festa nazionale ufficiale solo nel 1948, come evento volto a celebrare tutti i nuovi maggiorenni. Fino a poco tempo fa si era soliti festeggiare questo evento il 15 gennaio ma recentemente si è scelto di celebrarlo il secondo lunedì di gennaio. Per la precisione il cambio è avvenuto nel 2000, quando è stato introdotto l’Happy Monday System, una riforma del calendario lavorativo volta a far cadere le feste nazionali di lunedì in modo da creare dei ponti di tre giorni nell’anno giapponese, “storicamente povero di vacanze”.
Quest'anno la festa si è svolta lunedì 9 gennaio 2017.
Portierra, la pelle etica Made in Japan amica dell’uomo e dell’ambiente
Portierra, la pelle etica Made in Japan amica dell’uomo e dell’ambiente, ha presentato a Lineapelle 2016 Portierra White
Il suo nome è Portierra ed è un innovativo tipo di pellame Made in Japan ricavato dalla pelle di cervo, che fa della sicurezza e del rispetto per l’uomo e l’ambiente la sua massima priorità. Il nome deriva dalla lingua spagnola e significa “per la terra”. Infatti, grazie alla messa a punto di una tecnica unica e originale, durante la concia non vengono utilizzati prodotti chimici dannosi come cromo o aldeidi, i quali vengono sostituiti anche nella fase di tintura con polifenoli e coloranti vegetali.
A Lineapelle 2016 IFB Co. Ltd, l’azienda giapponese produttrice di Portierra, ha presentato Portierra White, il nuovo progetto per la concia di pelle bianca che – pur non avvalendosi di decolorazioni o tinture con sostanze chimiche – riesce ad ottenere un colore bianco splendente, utilizzato anche per la realizzazione di scarpe e capi per bambini. La pelle Portierra è talmente sicura per l’uomo da essere stata rinominata “pelle commestibile”.
Parallelamente Portierra presenta anche il progetto “Cervi, animali preziosi” per la valorizzazione degli “animali nocivi” e il recupero e riutilizzo delle loro pelli. Il progetto Portierra è stato ideato e fortemente voluto da Fumio Miki, fondatore di IFB Co. Ltd, il quale dopo numerosi tentativi è riuscito a creare un processo sperimentale unico e originale per la concia della pelle, durante il quale non si utilizzano materiali dannosi.
Intervista a Junzo Shigeoka - Direttore della divisione internazionale Portierra
Come è nato il progetto Portierra? La nostra azienda è nata nella città di Tatsuno, nella prefettura di Hyogo, una delle zone più famose per la produzione di pelle in Giappone. Quando il mercato locale della pelle iniziò a entrare in crisi spostandosi in Cina e in altri paesi asiatici Fumio Miki, il fondatore, iniziò a pensare che servisse qualcosa di nuovo che potesse ridare vita al mercato della pelle giapponese nella nostra città. Fu determinante l’incontro con il produttore di una delle più importanti compagnie giapponesi di tessuti che perseguiva già lo scopo di diventare un’azienda ecosostenibile eliminando l’utilizzando di prodotti chimici dannosi per l’ambiente. Il signor Miki decise così di introdurre questa nuova tecnologia, applicandola alla concia delle pelli e alla loro colorazione, creando così una nuova metodologia per la lavorazione della pelle. Si tratta di una tecnologia in costante sviluppo e la stiamo sempre migliorando. La nostra tecnica di tintura ecologica è totalmente rispettosa dell’ambiente, il che significa che non utilizziamo sostanze chimiche tossiche né per l’uomo né per l’ambiente, come metalli pesanti o cromo. Miki decise di far conoscere questo metodo all’estero, ed è per questo motivo che partecipiamo a Lineapelle per il quinto anno consecutivo.
Dove vengono prese le pelli di cervo utilizzate nel progetto Portierra White? In Giappone il problema dei cervi selvatici è piuttosto grave: il loro numero continua ad aumentare e a danneggiare l’economia giapponese. Il governo ha così deciso di intraprendere una politica mirata allo sfoltimento del numero dei cervi in tutto il Giappone ed adesso la proporzione tra il numero di cervi e quello dei cacciatori, che è in diminuzione, sta trovando un nuovo bilanciamento. Noi recuperiamo le pelli di cervo direttamente dai cacciatori che ce le offrono talvolta gratuitamente, talvolta a un pezzo di favore.
E per quanto riguarda la carne dei cervi uccisi, viene consumata? Sì, talvolta viene mangiata anche se in Giappone non è popolare come quella di manzo, pollo o maiale. Alcune aziende stanno cercando un modo per poter trattare la carne di cervo e reimmetterla sul mercato, ma non è un business in particolare espansione.
Il progetto Portierra White fa del suo pilastro una pelle di cervo totalmente bianca. Qual è il concept dietro a questo progetto e perché è stato scelto il bianco come colore principale? La tintura al cromo utilizzata solitamente nella concia classica rende il colore della pelle tendente al blu. Al contrario, utilizzando il processo di concia l’acido fosforico la pelle assume un colore bianco puro. Il colore denota la differenza tra i due metodi di concia e tintura che subiscono le pelli. Abbiamo partecipato a questa fiera cinque volte e abbiamo sempre notato che i clienti erano molto interessati a questa pelle bianca, perché è un colore davvero insolito. Per ottenere il colore bianco generalmente è necessario tingere la pelle mentre la nostra pelle invece è bianca senza subire alcun processo di tintura.
Come si inseriscono in questo progetto i prodotti rivolti all’infanzia? Abbiamo scelto di dedicare dei una linea di prodotto ai bambini, come quella delle scarpe, perché la nostra pelle non fa appunto uso di sostanze chimiche dannose o tossiche per l’uomo. Anche se fosse ingerita sarebbe totalmente sicura per loro.
Come nasce dunque il concetto di “Pelle commestibile”? E’ stato il nostro presidente, il signor Miki Fumio a pensare a questo nome. Il concetto che sta dietro al nostro progetto è che la nostra pelle è totalmente innocua, non tossica e non fa uso di nessuna sostanza nociva, né per l’uomo né per l’ambiente, quindi volendo si potrebbe anche mangiare.
Quali sono i progetti futuri di Portierra? Il nostro obiettivo è di espandere il mercato delle nostre pelli, perché la concia al cromo è ancora molto utilizzata. È vero che è più economica ma è molto dannosa per l’ambiente. La nostra pelle è più costosa, ma utilizziamo un metodo ecologico che vorremmo esportare nelle altre aziende produttrici di pelli in modo da rispettare maggiormente l’ambiente in cui viviamo. Il nostro obiettivo finale è quindi fare in modo che l’ambiente venga rispettato grazie all’utilizzo di questa tecnologia di concia ecologia.
Come pensa di poter raggiungere questo obiettivo? Ci sono già molte compagnie interessate all’utilizzo di prodotti amici dell’ambiente, ad altre invece bisogna far cambiare idea e convincerle che dovrebbero rispettare l’ambiente. Potrebbe volerci molto tempo, molti anni, ma dobbiamo farlo, per proteggere l’ambiente e portare questi prodotti rispettosi dell’ambiente in tutto il mondo.
Portierra: http://www.portierra.com/
Libro: L’arcipelago deserto. Il cinema sperimentale giapponese
Sebbene in Giappone la nascita del cinema sperimentale e dell’Underground non sia recente – essa risale a un film assurdo e singolare come Kurutta ippêji (1926) di Teinosuke Kinugasa – soltanto nei primi anni Sessanta si chiarisce il percorso di una vocazione che, dopo un lungo travaglio teorico interiore, diviene consapevole dei propri mezzi espressivi e del significato insito nei suoi archetipi concettuali. Sono gli anni della nouvelle vague nipponica e molti registi, indipendenti e non, seguono la via della sperimentazione e della ricerca formale dando vita a una vera e propria rivoluzione estetica. I registi d’avanguardia oltrepassano la logica diegetica per giungere a una concezione strutturale del cinema come sistema di relazioni semantiche, testando il libero uso dei materiali e spingendo la ricerca verso la realizzazione di un formalismo puro – caratterizzato dalla disposizione iconica del materiale espressivo – che veicola la loro critica sociale. Da Takahiko Iimura, precursore dello sperimentalismo, al cinema politico di Motoharu Jōnouchi; da Yoji Kuri, simbolo della controcultura, al talento visionario di Nobuhiko Obayashi; dal cinema multimediale di Yoko Ono al maestro del surrealismo Katsu Kanai; dal controverso Kazuo Hara a un inedito Donald Richie, attraverso il cinema radicale di Toshio Matsumoto e Shūji Terayama fino al patriottismo suicida di Yukio Mishima. Questo libro racconta una storia lunga mezzo secolo, dove il cinema diventa occasione di rinnovamento culturale, per svincolarsi da una tradizione incapace di parlare alle nuove generazioni.
Beniamino Biondi è nato e risiede ad Agrigento. Ha compiuto studi classici e si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Palermo. Scrittore e saggista, si occupa di poesia e di cinema. Collabora con riviste di letteratura e critica cinematografica, cura rassegne di cinema d’autore e ed è direttore di collana per alcuni editori. Ha curato l’edizione delle poesie complete del filosofo Aldo Braibanti ed ha pubblicato numerose opere di letteratura e di saggistica critica e teorica. È membro del Sindacato Nazionale dei Critici Cinematografici
Beniamino Biondi
L’arcipelago deserto. Il cinema sperimentale giapponese
Edizioni Orthotes