Tra gyaru e visual kei: alla scoperta della moda giapponese
Il Giappone contemporaneo non è il Paese rigido e quadrato che molti immaginano. Tra gli strati della società, convivono e si influenzano reciprocamente numerose sottoculture, caratterizzate da altrettanti stili d'abbigliamento. Questo viaggio cercherà di analizzare alcune tra i kei (stili) più importanti e che maggiormente hanno plasmato la moda e l'immaginario giapponese degli ultimi decenni.
Decora Fashion: il termine decora è un adattamento fonetico dell'inglese decorative. Come suggerisce il nome, questa moda è caratterizzata dall'uso spropositato di accessori e dai numerosi strati di vestiti, che si sovrappongono gli uni gli altri. Di solito, i colori usati negli abiti sono tinte neon, che rendono questo look facilmente riconoscibile. Non sono rari, tuttavia, toni più neutri, come il rosa chiaro o il grigio. Nato a fine anni '90, raggiunge il picco della popolarità a metà anni 2000, dopodiché è sfumato nel fairy kei.
Bōsō Zoku: letteralmente, “bande della guida spericolata”. Il termine indica le gang di motociclisti amanti delle corse, della velocità e dei veicoli modificati. Popolari dalla fine degli anni '80, ancora oggi vengono identificati come teppisti dediti al disturbo della quiete pubblica. Il look è caratterizzato da giacche di pelle molto lunghe, bende, borchie e catene. Spesso i loro abiti sono decorati con kanji e simboli dell'Impero Giapponese. Nella cultura di massa sono celebrati da manga come Shonan Junai Gumi e film come God Speed You! Black Emperor.
Dolly kei: moda popolare negli ultimi anni, che punta ad avere un vibe fiabesco, rifacendosi all'aspetto di bambole antiche, con abiti ricercati e un po' rococò. Pur dividendosi in molte sottocategorie, ci sono vari elementi ricorrenti: stratificazione degli abiti, diversi tipi di tessuto e abbondanza di laccetti, ricami e fiocchi. Gli immancabili accessori vanno da croci e rosari (tipici della sottocategoria Cult Party kei) fino a teschi, ossa e pezzi di bambole rotte. Anche i colori sono molto eterogenei e si passa dalle tinte pastello del Mori kei (stile della foresta, che fa uso abbondante di motivi legati alla natura e materiali sostenibili) fino a tonalità più scure. Altra sottocategoria è il Fairy kei, che, rispetto al Dolly kei, punta ad elementi più pop, ispirati alle icone degli anni '80. Colore predominante? Rosa, ovviamente.
Gyaru: gyaru è la traslitterazione giapponese dell'inglese girl, o gal. Il nome deriva da una marca di jeans, chiamata gurls, in voga negli anni '90, rivolti a un pubblico giovanile. Ora, invece, la moda gyaru è apprezzata tanto da studentesse (chiamate kogals, ovvero giovani gals), quanto da giovani lavoratrici. Anche in questo caso, il look gyaru racchiude un'infinità di sottocategorie. Caratteristiche comuni a tutte sono il look estremamente glamour, la pelle abbronzata, il make up vistoso - con ciglia finte - e una grande attenzione per l'acconciatura (spesso "irrobustita" da parrucche o extension).
Visual kei: stile collegato alla scena musicale J-rock e J-metal, a cui spesso si fa riferimento proprio come visual kei. Caratterizzato da un look molto glam e sfarzoso, derivato dalla moda glam metal anni '80, con capelli cotonati, trucco pesante e abiti esagerati. Abiti che spesso fanno leva sull'ambiguità sessuale, puntando a uno stile androgino, come la famosa band Versailles. Gli iniziatori di questo stile furono gli X Japan a inizio anni '90, che coniarono il termine a partire da uno dei loro slogan: visual shock. Il visual kei annovera tra le sue fonti d'ispirazione anche la moda vittoriana, creando numerosi punti di contatto con lo stile gothic lolita. È popolare soprattutto tra i fan delle band che seguono questo stile.
Tre haiku di Filippo Minacapilli
Il poeta Filippo Minacapilli ha voluto condividere con noi tre suoi recenti componimenti poetici, ispirati agli haiku giapponesi.
Fior di ciliegio
Delicate emozioni
Sgorga l'amore
La luna rossa
silenziosa sui tetti
stupisce il poeta
Calice rosso
Una sera di giugno
Desidero te
Filippo Minacapilli è un poeta italiano, autore di due raccolte poetiche che contengono sia poesie libere che haiku.
Le sue due raccolte antologiche sono "Magia di luce in versi" (Edizioni DivinaFollia) e "Riflessi d'acqua" (Bertoni Editori), che ha come tematica l'amore, inteso come incanto e tormento.
Nato ad Aidone (EN), Minacapilli è stato docente di Scienze umane in diversi istituti superiori. Fa parte di associazioni culturali, collabora con giornali on line, occupandosi prevalentemente di temi sociali e culturali ed è giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta, attività che gli consente di approfondire dinamiche sociologiche e di affrontare problematiche interpersonali complesse. La sua passione poetica, nata casualmente, si è consolidata nel tempo. Molto apprezzati gli Haiku, cui l’Autore riserva ampio spazio nella sua scrittura con notevole padronanza della tecnica e dello stile.
Tra sogno e realtà - Intervista a Fuco Ueda
Fuco Ueda, classe 1979, è una delle artiste contemporanee giapponesi di maggior successo. I suoi dipinti - che normalmente vengono inseriti all'interno della corrente pop surrealista nipponica - mischiano sapientemente immagini leggere ed eteree con elementi più inquietanti. Grazie alle sue iconiche e riconoscibilissime opere d'arte, debitrici in una certa misura dell'influenza di Yoshitomo Nara, Ueda sta diventando sempre più popolare, sia in patria sia all'estero. L'abbiamo intervistata in occasione della sua prima mostra in Italia, che sarà ospitata da Dorothy Circus Gallery a partire dal 9 giugno.
-Qual è stato il suo percorso artistico?
Dopo terminato il liceo, dove ho studiato arte, ho proseguito gli studi in un'università di arte di Tokyo.
- Sembra che nelle sue opere ci numerosi elementi contraddittori. Ad esempio ci sono giovani donne e bambine innocenti, accanto a numerosi elementi macabri e orripilanti. Che significato hanno?
Nel 2011 ho pubblicato in Giappone un libro di illustrazioni dal titolo “Lucid Dream”. “Lucid Dream” (sogno lucido) è quella particolare condizione in cui durante un sogno ci si rende conto di star sognando. Ce ne accorgiamo dicendo “Ma questo è un sogno”, ma ugualmente continuiamo a sognare. Uno degli aspetti più interessanti di un sogno lucido è il venire sommersi completamente da immagini e figure che superano ampiamente la nostra immaginazione, nonostante cerchiamo di manipolare coscientemente il sogno. Ho scelto questo titolo perché si avvicina straordinariamente a quello che voglio esprimere con lo stile delle mie opere. Secondo me, nel realizzare un dipinto c'è insita la gioia di essere completamente sopraffatti dalle immagini. Ci è possibile raggiungere posti che normalmente non potremmo nemmeno sfiorare, nascosti nel profondo del nostro inconscio. I motivi delle mie opere finiscono per essere ragazze, animali, insetti e giganteschi crisantemi. Sono tutte immagini simboliche, esseri estranei a un normale rapporto servo-padrone. Forse non ci è possibile comprendere sufficientemente queste misteriose relazioni. L'ansia o la paura di non poter comprendere le altre persone, la trovo estremamente interessante e stimolante.
- Le sue opere sono state esposte, tra l'altro, alla Galleria Jonathan Levin di Jersey City, insieme ad altri artisti della Galleria Kogure. Da dove è nata questa collaborazione?
È stata la Galleria Jonathan Levin che ha contattato la Galleria Kogure. All'inizio speravo di poter organizzare una mia mostra personale, ma la Galleria Kogure ha pensato potesse essere una buona chance per presentare altri artisti giapponesi e così è diventata una mostra "a quattro".
- A questo proposito, sembra che nelle opere degli altri artisti della Galleria Kogure, come ad esempio Takuto Yamamoto o Takahiro Hirabayashi, ci siano numerose somiglianze con la sua pittura. Secondo lei quali potrebbero essere i punti di contatto?
Prima di tutto, la galleria ha una forte tendenza verso la pittura rappresentativa. Una peculiarità di questi artisti è il mix tra l'influenza della tecnica pittorica tradizionale giapponese (nihonga, cioè pittura giapponese) e differenti sottoculture giapponesi. Inoltre la galleria Kogure ha una tendenza nel preferire artista dalla tecnica molto raffinata.
- Ha esposto anche in altre galleria all'estero? Ha mai partecipato a fiere d'arte
I miei quadri sono stati esposti in varie gallerie, sia in mostre di gruppo, sia in "personali". Per esempio, a Taiwan, in Germania o in America. In particolare sono stata tante volte a Los Angeles, alla Galleria Thinkspace. Per quanto riguarda le fiere d'arte ho partecipato molte volte a quelle che si svolgono in Asia, come a Taiwan o a Hong Kong.
- Le sue opere sono state d'ispirazione per lo sviluppo del videogame The Path. È stata coinvolta direttamente nello sviluppo?
Per quanto riguarda The Path, sono stata contattata dall'autore che mi ha detto che era stato molto influenzato dalle mie opere. Purtroppo non ho giocato al gioco, quindi non posso dire precisamente.
- Da quali film, libri, opere d'arte o manga è stata maggiormente influenzata nella sua arte?
Oltre all'arte, quello che per me costituisce la maggior fonte d'ispirazione è la letteratura giapponese antica, i vecchi manga e i film. Gli autori che mi piacciono di più sono Yumiko Kurahashi, Hyakken Uchida, Yukio Mishima, Tatsuhiko Shibusawa. Di manga mi piacciono molto quelli di Jun Mihara, Moto Hagio, Sakumi Yoshino, Fumiko Takano, Katsuhiro Otomo, Kazuo Umezu. I film mi piacciono tutti. Mi piace anche la danza, ad esempio Pina Bausch.
- Cosa ne pensa dell'arte giapponese contemporanea?
Penso che la scena giapponese sia un po' stagnante. Potrebbe essere dovuto alla cattiva influenza della lingua giapponese. Moltissimi artisti non parlano inglese - me compresa purtroppo - e questo non fa altro che creare ancora più distanza con il mondo dell'arte occidentale. In più, la sottocultura degli anime e dei manga che si è sviluppata in modo del tutto peculiare in Giappone, ha conquistato i cuori di molti più giapponesi rispetto all'amore per l'arte contemporanea. L'arte purtroppo non ha avuto la stessa forza aggregante, capace di cementificare una sottocultura attorno a essa. Gli artisti di successo lavorano per lo più all'estero, mentre le attività in Giappone sono molto limitate.
- Questa è la prima volta che espone una mostra in Italia. Quali sono le sue aspettative?
Ho grandi aspettative per questa mostra! L'Italia è la terra d'origine delle belle arti, non vedo l'ora di girare e visitare musei. E poi vorrei anche mangiare qualche cibo prelibato. Voglio proprio godermi questa trasferta in Italia.
Intervista e traduzione di Federico Moia
Quattro haiku inediti di Floriana Porta
La poetessa Floriana Porta ha voluto condividere con noi quattro suoi recenti componimenti poetici, ispirati agli haiku giapponesi.
lungo le ampie
maniche del kimono
tre soli versi
rami cespugli
e ciuffi di eriche
tacito bosco
candele spente
un suono smemorato
scrive nel cielo
carta di riso
è ancora lontano
il primo fiato
Ricordiamo che il termine haiku deriva da haikai (俳諧), con cui si indicava tutti quei componimenti di carattere scherzoso o dai contenuti umili, ben diversi da più prestigiosi e rigidi waka, strettamente codificati. La contrazione, in particolare, di haikai no ku (俳諧の句, verso di un haikai) è l'origine del termine haiku (俳句). Si tratta di un componimento in 17 more, e non di 17 sillabe come solitamente si pensa. La mora è l'unità fonetica minima della lingua giapponese e corrisponde a un singolo kana. Per questo motivo, in giapponese viene talvolta chiamato anche jūshichimoji (17 caratteri) o jūshichion (17 suoni).
Oltre alla lunghezza di 17 sillabe, le sue caratteristiche fondamentali sono l'inserimento di un riferimento alla stagione ( 季語, kigo, letteralmente "parola della stagione") e una parola di cesura (切れ字) che indica un capovolgimento semantico e/o concettuale nel poema. Inoltre, l'haiku deve far tornare la memoria a un avvenimento passato.
Le origini culturali dell'haiku sono invece molto discusse. Alcuni critici lo reputano una semplificazione strutturale dello waka (poesia giapponese, chiamato anche tanka, poesia breve), anche se la maggior parte degli studiosi sono concordi nel ritenerlo un derivato del renga (連歌, poesia a catena). Per la precisione, lo haiku corrisponde alla prima strofa di un componimento a catena, chiamato anche hokku (発句, strofa iniziale), con cui condivide la struttura metrica 5-7-5. Anche tematicamente lo haiku e il renga sono molto vicini. A cavallo tra il XVI e il XVII secolo, infatti, la poesia a catena divenne estremamente popolare, iniziando a trattare anche argomenti più "bassi", miscellanei.. Libera, quindi, dai dettami stilistici e retorici del tanka, questa nuova forma di poesia ottenne un grandissimo successo in tutti gli strati della popolazione.
Floriana Porta
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Hanami - Le origini della tradizione
Il fiore di ciliegio – sakura – è da tempo immemorabile uno dei simboli più cari ai giapponesi e l’hanami, la rituale gita fuori porta per andarne ad ammirare la fioritura, è una delle ricorrenze più sentite dell’anno. L’origine della tradizione affonda le sue radici nella tradizione agricola, per poi evolversi e arricchirsi nel corso dei secoli di altri significati, contagiando anche l’arte, la letteratura e la filosofia. E arrivando così a forgiare alcuni dei concetti estetici più importanti della cultura nipponica.
“Se mi chiedessero quale sia lo spirito di questa nostra isola, risponderei un ciliegio in fiore che rifulge nel sole del mattino.”
Con questa frase Motoori Norinaga (1730 - 1801), uno dei più importanti studiosi delle tradizioni giapponesi, riassume efficacemente l'amore che i giapponesi nutrono da secoli verso i fiori di ciliegio, i sakura, e ci aiuta a comprendere come mai ogni anno la ricorrenza dell'hanami sia così sentita.
Hanami significa letteralmente "ammirare i fiori", che nella cultura giapponese sono, per antonomasia, quelli di ciliegio. Questa completa sovrapponibilità dei due termini ha origini antiche, tanto che nella maggior parte delle poesie di epoca Heian (794 – 1185) sono usati come sinonimi. La tradizione trova le sue origini nella cultura agricola, quando le antiche popolazioni dell’arcipelago giapponese festeggiavano l’inizio della primavera, cioè della stagione in cui era nuovamente possibile dedicarsi al raccolto. Il periodo della fioritura dei ciliegi, in particolare, corrisponde al momento in cui avvengono le prime piantumazioni del riso, alla base dell’alimentazione giapponese. Si può capire, quindi, come mai questo momento fosse così sentito.
Per vari secoli, in realtà, l’oggetto di attenzione dell’hanami non erano solamente i sakura, ma numerose altre specie floreali, tra i quali il più popolare era il fiore di susino (ume). Questo primato del fiore di susino è confermato anche dalla frequenza con cui il termine ricorre nel Man’yoshu, un’antologia poetica del 759. L’ume è soggetto di ben 110 componimenti, mentre appena 43 poesie mettono al centro i sakura. Tale tendenza viene poi ribaltata in epoca Heian, quando il fiore di ciliegio diventa ufficialmente il più popolare. La data simbolica in cui, si dice, il sakura assurga a fiore simbolo del Giappone è l'830, quando l'imperatore Ninmyo decide di sostituire un susino all'interno di uno dei cortili del palazzo imperiale con un ciliegio, via via rinnovato nella posizione originaria fino ai nostri giorni.
Da questo momento in avanti, la popolarità dei fiori di ciliegio non accenna più a diminuire. Durante il periodo Meiji (1868 – 1912), in cui iniziano a svilupparsi le idee alla base del nazionalismo nipponico, il cui apogeo viene poi toccato tra le due Guerre mondiali, il fiore di ciliegio viene anche usato in maniera propagandistica, paragonandolo alle vite dei giovani soldati. Un parallelo, in realtà, già presente nella cultura samuraica, ma che qui assume un significato del tutto nuovo, in quanto si vuole glorificare i soldati morti in guerra paragonandoli a uno dei simboli più cari ai giapponesi.
In effetti, il fiore di ciliegio si presta particolarmente a questa similitudine. Dal momento in cui sboccia a quello in cui sfiorisce non passano che due settimane. La bellezza caduca di questo fiore è sempre stata molto apprezzata dai giapponesi e costituisce il paradigma di uno dei concetti estetici fondamentali dell’arte e della letteratura del Sol Levante, il mono no aware, cioè stupore, meraviglia delle cose. Il concetto esprime l’idea di una bellezza straordinaria, che lascia senza parole, ma che è fragile e destinata a svanire in fretta. Questo effimero splendore genera un sentimento di malinconia. Si può capire facilmente come questo concetto sia intrinseco alla vita giapponese, se si pensa alla precarietà determinata dalle condizioni ambientali nell’arcipelago. I frequenti fenomeni sismici o i tifoni rischiano, infatti, di cancellare da un momento all’altro la vita e le opere dell’uomo. E solo negli ultimi decenni le tecnologie costruttive stanno facendo svanire questa cultura collettiva.
Forse anche per questo i giapponesi hanno sempre mostrato un’elevata sensibilità verso quella bellezza fragile e delicata, che può svanire da un momento all’altro.
Federico Moia
Nendo: Invisible Outlines - Video-intervista al designer giapponese
https://vimeo.com/212215800
La nostra video-interview al designer giapponese Nendo, uno dei protagonisti della Milano Design Week 2017.
Video e intervista a cura di Giuseppe De Francesco
Aruitemo Aruitemo - Ritratto di una famiglia tra morte e memoria
“Un mare apparentemente calmo che, con l’alzarsi e l’abbassarsi della marea, è continuamente increspato da piccole onde.”: così descrive Koreeda Hirokazu il trascorrere del tempo in Aruitemo aruitemo.
Quelle tanto piccole quanto significative increspature sono raccolte nel film come foto in un vecchio album di famiglia che, sfogliato pagina dopo pagina, tratteggia, ma non rivela apertamente, la complessità delle vicende della famiglia Yokoyama, protagonista della pellicola.
Il film ritrae la famiglia durante l'annuale commemorazione della scomparsa del primogenito Junpei, annegato per salvare la vita di un ragazzino sconosciuto. L’interesse del regista si concentra sul quotidiano, su come i personaggi affrontino la loro nuova esistenza, svelando a poco a poco i rapporti tra gli anziani genitori, Toshiko e Kyōhei, e i due figli rimasti, Chinami e Ryōta. I genitori, del tutto incapaci di superare la perdita del figlio prediletto, sembrano vivere nel suo ricordo, lasciando che la morte domini le loro vite. Diverso è, invece, l’atteggiamento dei due figli: la maggiore sembra essersi lasciata il passato alle spalle vivendo il presente e pensando al futuro, mentre il minore, meno spensierato della sorella, è vittima della frustrazione del padre che non può fare a meno di paragonarlo al figlio perso e ritenerlo un buono a nulla.
L’anniversario si trasforma in una vera e propria rievocazione del dolore con la rituale visita del ragazzo salvato, espressamente voluta da Toshiko. L’episodio contrasta con il clima nostalgico e tranquillo percepito fino a quel momento dando sfogo alla crudeltà dei due genitori. La madre desidera ricordare costantemente al ragazzo il peso del sacrificio che la famiglia ha dovuto affrontare per salvare la sua vita, che, soprattutto secondo Kyōhei, non valeva certamente il prezzo che è stata pagata.
Aruitemo aruitemo è girato dal punto di vista di Ryōta che non risulta però essere il personaggio principale in senso assoluto. Protagonista della pellicola non è il singolo individuo, ma la collettività, in questo caso la famiglia Yokoyama nel suo insieme. Tuttavia Koreeda applica ai membri della famiglia un isolamento visivo per mettere in evidenza alcune di quelle piccole increspature che agitano la superficie di tranquillità della giornata. L’esempio più toccante è il mezzo primo piano su Yukari durante una conversazione con Toshiko: l’inquadratura cattura il sorriso della donna che si dilegua a poco a poco fino a sparire completamente quando la suocera afferma che forse la cosa migliore sarebbe che lei e Ryōta non avessero dei figli loro.
Ancora una volta Koreeda utilizza la memoria per dissolvere i confini tra realtà e finzione e il mezzo cinematografico per filtrare il reale. In Aruitemo aruitemo sono presenti diversi elementi che rievocano ricordi, alcuni propri della memoria di Koreeda (la figura di Toshiko è ispirata alla madre del regista), altri appartenenti ad una memoria collettiva e quindi presumibilmente noti anche allo spettatore e altri ancora di origine puramente fittizia.
Ai temi cari a Koreeda della morte e della memoria, in Aruitemo aruitemo si aggiunge quello della famiglia, la cui esplorazione, intima e personale, è condotta dall’interno, dal punto di vista di un figlio che vive un rapporto distaccato con i propri genitori. Come nei drammi familiari del cinema più tradizionale, Koreeda dipinge con una sensibilità tutta giapponese un modello della tipica famiglia nipponica, ma grazie all’universalità dei sentimenti presentati, il film risulta accessibile anche ad un pubblico occidentale. I personaggi sono persone del tutto ordinarie con preoccupazioni comuni a qualsiasi cultura, come il progressivo invecchiamento dei genitori e l’apprensione che ne deriva, nei cui atteggiamenti si celano tensioni e disaccordi non sempre dichiarati.
Allo spettatore non resta che lasciarsi condurre da Koreeda attraverso il mare dei sentimenti umani e le sue increspature, in cui si trova l’essenza della vita di tutti.
Maddalena Pologna
Cinema giapponese: la nuova produzione nella "seconda epoca d’oro"
A metà del ventesimo secolo, per l’industria cinematografica giapponese ebbe inizio un glorioso periodo di rinascita che avrebbe percorso gli anni Cinquanta nel cosiddetto "secondo decennio d’oro".
In seguito alla ripresa economica del dopoguerra, nello scenario cinematografico il decisivo confronto con gli Stati Uniti, sebbene avesse determinato una riorganizzazione dell’assetto industriale, aveva offerto alle case giapponesi l’occasione di espandersi nel mercato internazionale, attraverso una produzione rinnovata e per la prima volta orientata all’esportazione. Il dopoguerra vide inoltre la fioritura di numerose personalità che difficilmente si sarebbero imposte negli anni precedenti a causa del tipico sistema di apprendistato giapponese, per cui la quasi totalità dei registi si vedeva affidare la piena responsabilità di un film solo dopo un lungo tirocinio come assistenti.
Uno tra questi fu senza dubbio Kurosawa Akira, che già nel 1943 aveva esordito con Sugata Sanshiro. Con Rashomon, infatti, nel 1950 una nuova era di rinnovamento e prosperità si era affacciata alle porte del cinema giapponese, che fino a quel momento aveva sviluppato uno stile proprio nella costante alternanza tra codici provenienti dall’esterno e rappresentazioni minuziose dei costumi del popolo. Il film riscosse un successo senza precedenti: fu premiato l’anno successivo al Festival di Venezia con il Leone d’Oro e in seguito con l’Oscar come miglior film straniero a Hollywood, dando così la possibilità al cinema nazionale di essere conosciuto e apprezzato all’estero per la prima volta.
L’ambiguità del trionfo conseguito dalla pellicola derivò dall’innovativa interpretazione del genere jidaigeki proposta da Kurosawa, che tramite questo esperimento d’avanguardia stabilì un punto di rottura rispetto alla tradizione e ai film in costume convenzionali ai quali il pubblico era abituato. A ossessionare il popolo giapponese, oltre Kurosawa stesso, era la preoccupazione di aver fornito al resto del mondo un’immagine troppo eccentrica della cultura nipponica. Tuttavia Rashomon diede al regista l’opportunità di trasporre al meglio il suo stile espressivo, ma soprattutto rappresentò un passo importante verso l’internazionalizzazione del cinema giapponese, che in breve tempo avrebbe conquistato l’attenzione dei grandi festival europei.
L’iniziale diffidenza di Nagata Masaichi della Daiei riguardo alla produzione di Rashomon fu così smentita, tanto che il presidente della casa si convinse a produrre una quantità sempre maggiore di jidaigeki per il mercato straniero. Inoltre, Nagata lanciò un programma di produzioni a colori permettendo alla Daiei di diventare la prima major giapponese a servirsi del colore non solo sul piano sperimentale. Il procedimento utilizzato per questa novità era il Fujicolor, già impiegato dalla Shochiku in Carmen torna a casa del 1951; quest’ultimo film, diretto da Kinoshita Keisuke, aveva ottenuto un grande successo al botteghino che consentì alla casa produttrice di recuperare il potere perduto a causa della mancata adesione agli standard moderni, concentrandosi piuttosto sui classici melodrammi destinati a un pubblico prevalentemente femminile.
In seguito alla nuova disposizione postbellica dell’apparato industriale, il numero delle major era aumentato a tal punto che il monopolio del mercato fu spartito tra sei grandi case: Nikkatsu, Shochiku, Daiei, Toho, Shintoho e la neocostituita Toei. Mentre la Daiei era occupata nella realizzazione di film di alta qualità e continuava a rivolgere la sua attenzione al mercato estero, la Toho era ancora troppo debole per reggere il confronto con le altre case. In tale contesto, la Toei si fece avanti proponendo un piano di produzione il cui scopo era distribuire un nuovo doppio programma ogni settimana: il piano permise alla casa di concentrarsi sulla produzione interna di film in costume con budget decisamente ridotti.
Dal 1950 ci fu anche una rinnovata proliferazione di compagnie indipendenti, interessate principalmente alla politica. Nello stesso anno, infatti, un provvedimento del Comandante Supremo delle Forze Alleate aveva allontanato i comunisti da tutti gli organismi di comunicazione di massa attraverso la cosiddetta red purge, che aveva già coinvolto numerosi nomi celebri a Hollywood. Le più importanti tra queste case nascenti furono la Studio 8, fondata da Gosho Heinosuke, la Kindai Eiga Kyokai e la Shinsei Eigasha. In alcuni casi la scelta dell’indipendenza risiedeva piuttosto nel desiderio di usufruire di una libertà creativa fino ad allora limitata da alcune major, come la Shochiku.
Mentre già nel 1953 la quasi totalità delle sale cinematografiche proiettava spettacoli a doppio programma, l’industria aveva l’onere di soddisfare sia le esigenze del pubblico locale che quelle dell’audience straniera. Tuttavia, a causa di una fiacca coordinazione tra le major non fu possibile attuare in questi anni una politica esportatrice adeguata; soltanto nel 1957 la creazione della UniJapan Film compensò l’assenza di un organismo centrale destinato all’esportazione.
Lorenzo Leva
Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.
Contatti:
lorenzo.leva@gmail.com
Architettura invisibile - Sou Fujimoto tra uomo e natura
Roma, 2 marzo – Nell'elegante cornice dell'Aula dei Gruppi Parlamentari, partecipiamo alla lezione di Sou Fujimoto, architetto giapponese di fama internazionale, capo dello studio Sou Fujimoto Architects. L'incontro si svolge nell'ambito degli eventi collaterali della mostra “Architettura invisibile”, ospitata dal 19 gennaio al 26 marzo presso il Museo Carlo Bilotti. Non è la prima volta che l'architetto si reca a Roma. Ha già visitato la nostra capitale quando era ancora studente e si recò in viaggio-studio in Europa, alla scoperta degli stili architettonici del Vecchio Continente.
“Architettura invisibile” è un'espressione che riassume efficacemente la filosofia dietro ai lavori di Fujimoto. La spiegazione ce la fornisce lui stesso, proprio all'inizio della conferenza, raccontandoci il contesto geografico e sociale in cui è vissuto. Sōsuke, il suo vero nome, è nato e cresciuto in un piccolo paesino sperduto tra le foreste dell'Hokkaidō, in cui si conoscevano tutti e le porte delle case erano sempre aperte. La giovinezza è trascorsa giocando nei boschi tra gli alberi. È proprio qui che ha avuto la prima ispirazione che ha contribuito alla formazione del suo concetto di architettura. Lo spazio-foresta non è delimitato da pareti o colonne, ma da tutta una serie di piccoli elementi che ne plasmano la struttura, in cui anche i vuoti e le trasparenze contribuiscono a rafforzare la spazialità esistente. La sensazione è quella di essere in uno spazio intimo e familiare. La stessa peculiare caratteristica, secondo la sua testimonianza, si può ritrovare nelle strade di Tokyo, dove si è trasferito per frequentare l'università, nonostante in questo caso si tratti di uno spazio completamente artificiale. Anche qui la spazialità era definita da una serie di elementi apparentemente scollegati, come possono essere pali della luce, panchine o distributori automatici, a ognuno dei quali ci si relaziona con un differente comportamento, un differente approccio. Il suo duplice background, spiega come mai una delle sue principali preoccupazioni sia l'unione armoniosa tra artificiale e naturale, tra uomo e natura, tra visibile e invisibile.
Questa sua inusuale concezione dell'architettura, continua a spiegare, ha trovato la sua massima espressione nel Serpentine Pavillion, realizzato ad Hyde Park, a Londra, nel 2013, “costruzione” che l'architetto considera il suo miglior lavoro. Non si tratta di un edificio vero e proprio, quanto dell'unione di innumerevoli singoli elementi – una successione irregolare di pali e piattaforme bianche – che singolarmente presi non significano nulla, ma nel complesso creano un ambiente liberamente fruibile. Il pubblico è incoraggiato a esplorarlo e a capire in quale modo approcciarvisi. Lo si può esplorare, cercare un tavolo per mangiare o una panchina per sdraiarsi. Ci si può anche arrampicare in cima. È uno spazio veramente pubblico. Inoltre, grazie al modo in cui è realizzato, non esistono veri limiti tra il dentro e il fuori, e tutta la costruzione è immersa completamente nella natura, senza creare contrasti forti. È una soluzione in cui il naturale e l'artificiale si fondono, in cui non si percepisce la linea di demarcazione tra i due. Fujimoto insiste che si tratta di una nuova interpretazione di architettura. Non tanto tecniche di costruzione, quanto capacità di saper reinterpretare lo spazio.
Giochi di prospettive, rapporti mutevoli tra interno ed esterno, tra pubblico e privato – sono le caratteristiche fondanti dello stile di Fujimoto, e si possono ritrovare in ogni sua opera, sia pubblica che privata. I due progetti di abitazione House NA e House N, ad esempio, che uniscono la visionarietà di Fujimoto alla più antica tradizione architettonica nipponica. Nelle case del Giappone classico, infatti, i locali erano separati da una semplice parete scorrevole di carta di riso, che pur delimitando lo spazio non costituiva una netta separazione tra le varie stanze. Allo stesso modo in House NA la divisione tra i vari locali, così come tra interno ed esterno, viene meno. Tutto è unico e la funzione di ogni spazio dipende unicamente da come le persone vogliono interpretarlo. Un pavimento può diventare un tavolo, una sedia può diventare una mensola, un soffitto può essere un letto. Si tratta solo della ripetizione dello stesso modulo in dimensioni e rapporti diversi, proprio come nel padiglione Serpentine. La coppia che ha commissionato il progetto ha raccontato all'architetto di usare gli ambienti della casa in modo non convenzionale, per esempio leggendo in cucina o mangiando sul letto. Fujimoto ha così creato per loro una casa in cui tutto può essere tutto. In House N, invece, la distinzione tra dentro e fuori è completamente ribaltata grazie ai vari moduli che si contengono a vicenda e al fatto che il più esterno non è chiuso. Non si può mai dire di essere del tutto dentro o del tutto fuori. Altri progetti di Fujimoto basati su queste idee sono Public toilet, la nuova biblioteca dell'Università di Musashino, l'auditorium Forest of Music o il complesso residenziale Arbre blanche.
L'arte di Fujimoto è quella di saper creare spazi innovativi, che sfidano le leggi dell'architettura portandoli – come dice lui stesso – all'estremo. L'ambiguità di fondo consiste nella difficoltà di etichettare le sue opere che proprio per questo motivo possono apparire troppo rivoluzionarie e di conseguenza poco funzionali. Ci racconta che spesso i suoi progetti sono stati cancellati, proprio per questi timori. Tuttavia, questa visionarietà e questo coraggio, gettano le loro basi in un background culturale ancorato saldamente al passato, alla tradizione nipponica e alla ruralità del suo paese natale, dove l'intimità condivisa, come se si trattasse di un unico nucleo familiare allargato, e lo strettissimo contatto con la natura fanno completamente decadere molte contrapposizioni manicheiste che nella società odierna diamo per scontate.
Federico Moia
Washoku kentei - A tu per tu con chi l'ha voluto portare in Italia
In Italia, la cucina giapponese è sicuramente una delle più apprezzate e popolari. E, nonostante tutto, anche una delle meno conosciute. Nell'opinione comune, infatti, è facile che la ricchissima tradizione gastronomica del Paese del Sol Levante sia appiattita al solo sushi, magari anche mangiato in uno di quei ristoranti "all you can eat" che abbondano nelle nostre città e che di giapponese non hanno quasi nulla. Per correggere questa innocente inconsapevolezza e diffondere una vera conoscenza della tradizione alimentare giapponese – chiamata anche washoku (il carattere “wa “ significa armonia, e si usa normalmente per indicare il Giappone; “shoku” è il carattere che indica “mangiare”) – Fumiaki Tamada ha deciso di portare in Italia il corso Washoku culture. Il corso, la cui prima lezione si è tenuta lo scorso sabato 25 febbraio presso i locali della scuola di lingue Eurasia Academy, continuerà fino a maggio e offrirà una ricca panoramica sulla cultura alimentare giapponese. Ma di cosa si tratta esattamente? Lo abbiamo chiesto direttamente al signor Tamada.
“Il corso washoku culture si prefigge lo scopo di diffondere la conoscenza della reale cultura alimentare giapponese, cercando di aumentare la consapevolezza verso questa tradizione gastronomica. La cucina giapponese infatti non è solo un insieme di tecniche e ricette, ma ha radici profondamente ancorate alla storia e alla cultura del nostro Paese, che oggi si tendono a ignorare. Ma senza conoscere queste basi non è possibile comprenderla fino in fondo e si rischia di dimenticare il motivo per cui certi piatti si preparino o si consumino in un certo modo.”
Il pubblico accorso alla prima lezione, in realtà, non era proprio numerosissimo. “Temo che molte persone non abbiano capito esattamente in cosa consiste il corso” ci spiega Tamada. “Noi non vogliamo insegnare le tecniche della cucina, ma la cultura della cucina, che sta dietro quelle tecniche. Alla fine del corso, dopo il superamento di un esame, si ottiene il certificato washoku kentei (kentei significa certificazione), che attesta la conoscenza della cultura alimentare giapponese.” Un corso molto sui generis, quindi, ma nel cui successo Tamada crede fermamente, senza farsi scoraggiare dai numeri iniziali. "Pensavamo fosse un momento ideale per proporre questo corso in Italia, dal momento che moltissimi giovani sono interessati alla cucina giapponese e, conseguentemente, alla cultura giapponese trasmessa attraverso la cucina. Alla fine, è la nostra prima volta, e anche una delle prime che viene proposto fuori dal Giappone, da quando la certificazione è stata istituita nel 2011. La prima impressione è molto positiva. Durante la lezione, c'è stata una bella atmosfera, molto familiare. I partecipanti hanno creato subito un rapporto diretto con la maestra, cosa che ha favorito anche le domande e gli interventi. E' stato anche un esempio della squisita ospitalità giapponese.”
Ma a chi è rivolto esattamente un corso così particolare? Anche su questo, Tamada ha le idee ben chiare. “Il nostro corso è indirizzato sia ai semplici appassionati di cucina giapponese, che ai professionisti operanti nel settore della ristorazione. Non voglio criticare nessuno, ma oggi c'è davvero poca consapevolezza circa la vera tradizione gastronomica giapponese, anche da parte degli addetti ai lavori. Grazie alla collaborazione dell'Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi e del suo presidente Minoru Hirazawa – o, come è più conosciuto, Shiro-san di Poporoya – ho già raccolto numerosi contatti di professionisti interessati. Per ora c'è un unico corso base, ma pensiamo di crearne in seguito uno esclusivamente dedicato agli addetti ai lavori. Per i semplici appassionati, invece, c'è anche la possibilità di frequentare solamente una singola lezione, un'ottima soluzione per chi non ha la possibilità di essere sempre presente nei tre mesi di corso”
Dopo averci parlato entusiasticamente della sua creatura, Tamada inizia a raccontarci la sua storia, e delle circostanze che lo hanno spinto a proporre il washoku kentei agli Italiani. "Sono arrivato in Italia nel 1979, alle dipendenze di un calzaturificio giapponese che collaborava con vari brand italiani. In seguito mi sono messo in proprio, spostandomi da Roma a Milano. Sono più di 30 anni che la mia società opera nel trading nel settore tessile. Negli ultimi anni, una flessione degli affari mi ha spinto a cercare nuove strade da percorrere. Grazie ad alcuni amici giapponesi, ho conosciuto la realtà del washoku kentei, che in quel momento stava cercando proprio alcuni collaboratori all'estero per poter diffondere i loro corsi anche fuori dal Giappone. Conoscendo la grande passione degli Italiani per il cibo e la cucina giapponese, ho deciso di tentare la sfida”.
Una vicinanza forse scomoda quella di due tradizioni alimentari così importanti, entrambe, non a caso, inserite nel novero dei Patrimoni Culturali Immateriali dell'Unesco. Tamada, tuttavia, non reputa che le due culture culinarie siano così distanti.”Senza dubbio non ci sono delle vere e proprie somiglianze, visto che le due tradizioni sono frutto di due culture differenti, e il rapporto che esiste tra queste è molto profondo. È dalla cultura che nascono i piatti. Ci possono però essere in futuro vari punti di contatto, o delle reciproche influenze. Basti vedere come oggi chef e cuochi italiani si ispirino sempre più alle tecniche di lavorazione o agli ingredienti della cucina giapponese. È una cosa che fa capire come sia ricercata e richiesta la vera tradizione alimentare giapponese. Credo molto in uno scambio di questo tipo, di materiali, di tecniche e di idee, anche per poter avviare dei progetti insieme.”
Federico Moia