Furoshiki - L'arte del packaging ante litteram
L'imballaggio attraverso l'arte del furoshiki. La stoffa quadrata, preziosa e decorata utilizzata per avvolgere doni e oggetti quotidiani.
Il termine furoshiki indica un tessuto quadrato, più o meno decorato, utilizzato per avvolgere oggetti e scatole con diverse modalità di piegature e nodi, in modo da risultare sempre diverso e innovativo, ma comunque elegante. È un oggetto che dimostra la raffinatezza e il gusto estetico così sviluppati nella cultura giapponese. Scegliere e annodare un furoshiki è diventata un’arte che si tramanda di generazione in generazione.
Nel passato, durante il periodo Nara (710-784), questo era utilizzato per fasciare gli oggetti appartenenti alla famiglia imperiale. Successivamente, durante l'epoca Heian (794-1185) il suo uso si allargò fino a comprendere il trasporto e la conservazione dei kimono, utilizzati dai nobili di corte.
Tracce storiche dell’esistenza del furoshiki esistono a partire dal periodo Muromachi (1392-1573), quando i cortigiani erano soliti portarlo con sé al grande edificio termale costruito dal generale Yoshimitsu Ashikaga. Noto con il termine di hirazutsumi, questo antenato del furoshiki serviva a contenere il cambio di abiti da indossare dopo il bagno.
La parola tuttavia non esisteva ancora; la sua nascita risale al 1600, grazie all'atmosfera dei bagni pubblici. Il furoshiki che nasce dalle parole "furo" (bagno) e "shiki/shiku" (stendere), indica un precursore del moderno asciugamano, che veniva steso a terra per sedersi. In epoca Edo (1603-1868) diviene un oggetto fondamentale per la classe lavoratrice. Lentamente le sue dimensioni cambiano, adeguandosi alle misure di qualunque oggetto si voglia donare o trasportare in modo pratico.
Il furoshiki, alla fine dell'800, cadrà nell'oblio a causa dell'avvento delle buste di plastica. I temi centrali degli ultimi anni, come l'inquinamento ambientale, portano però a una sua riscoperta. Grazie alla coscienza ecologista formatasi, diventa il simbolo dell'imballaggio ecosostenibile, visto che risulta compatto e riutilizzabile, andando a imporsi sulle buste di plastica.
Il furoshiki può essere considerato un antenato del packaging, e oggi presenta una varietà esorbitante di fantasie, dimensioni e materiali. Per i giapponesi questo risulta fondamentale visto che, secondo la loro cultura, è considerato irrispettoso regalare un oggetto che non sia adeguatamente confezionato.
Per informazioni sul corso di furoshiki del 14 dicembre cliccate qui.
Marianna Scardeoni
"Aki no aware": la compenetrazione emotiva nell’autunno di Dolls e Little Forest
Siamo agli albori dell’XI secolo, quando la dama di corte Murasaki Shikibu compone ciò che i critici letterari contemplano come primo esempio di romanzo psicologico, nonché cardine della letteratura giapponese: ci riferiamo senza dubbio al Genji monogatari. Uno dei maggiori contributi dell’opera, che ruota intorno alle vicende amorose del “Principe Splendente”, è quello di aver riportato in auge un concetto basilare dell’estetica giapponese, il mono no aware.
Nel Genji monogatari, infatti, questo termine raggiunge la massima espressione, acquisendo una rinnovata definizione. Più che concetto estetico volto a sottolineare una bellezza che desta un coinvolgimento personale alla vista, il mono no aware assume un carattere di melancolia derivante dalla consapevolezza che ciò che si osserva sarà destinato a sfiorire.
La “sensibilità (aware 哀れ) delle cose (mono 物)” delinea così una percezione che accomuna ciascun soggetto nella partecipazione emotiva alla trasformazione degli elementi naturali nel tempo. Alla base della cultura estetica, della poesia e della letteratura giapponese, questo concetto ha fortemente influenzato anche gran parte delle opere cinematografiche moderne e contemporanee.
Registi del calibro di Mizoguchi Kenji e Ozu Yasujirō, in film come Tarda primavera (Banshun, 1949) e Tardo autunno (Akibiyori, 1960), hanno tentato di suscitare l’empatia dello spettatore nei confronti dei personaggi attraverso una poetica incentrata sull’ordinarietà della vita quotidiana e l’inevitabile susseguirsi delle stagioni. E di certo, a rivelare maggiormente la sensazione di caducità, disillusione e isolamento dell’essere umano nel suo rapporto complesso con la natura è, tra tutte le stagioni, l’autunno (aki 秋).
Il capolavoro Dolls (2002), diretto da “Beat Takeshi” Kitano, ne è una chiara testimonianza. Il film si svolge su un intreccio di tre vicende che indagano il tema dell’amore. Quello rappresentato da Kitano, però, non è l’amore ardente e impulsivo che prelude a un intuibile lieto fine. Al contrario è silenzioso e all’apparenza celato, tuttavia carico di una potenzialità emotiva che sfocia in disperazione, follia e inevitabilmente violenza.
In particolare, la condizione di incomunicabilità che affligge i personaggi (tematica affrontata in modo magistrale da Michelangelo Antonioni nel cinema italiano) è evidente nel primo episodio, il più emblematico. I due “vagabondi legati”, Matsumoto e Sawako, iniziano infatti un lento cammino senza meta, quasi come unica reazione possibile a un legame ormai compromesso. E’ in questo processo di accettazione del destino che il senso di solitudine, il silenzio e la frustrazione prendono il sopravvento sulle personalità dei personaggi, indifferenti alle risa dei passanti e all’incessante scorrere del tempo.
La cura dell’altro e la dipendenza reciproca generano così un progressivo autoannullamento dei due innamorati, fisicamente legati soltanto da una corda rossa durante l’intero cammino. Nessuna possibilità di evasione, ma in fin dei conti nessuna vera intenzione. Qui l’allusione romantica del regista è riconducibile al “filo rosso del destino” (Unmei no akai ito), una leggenda popolare cinese diffusa in Giappone secondo cui ogni persona è legata alla propria anima gemella da un indistruttibile filo rosso.
Il principale riferimento culturale della pellicola, da cui la scelta del titolo, riguarda però le marionette dello spettacolo bunraku. Il film si apre infatti con una scena dell’opera teatrale I Messi dell'Inferno (Meido no hikyaku) di Chikamatsu Monzaemon. E’ proprio il drammaturgo del periodo Edo, ribattezzato lo "Shakespeare del Sol Levante", ad aver rappresentato in alcuni suoi drammi la pratica dello shinjū (心中), letteralmente il “doppio suicidio d’amore”.
La totale assenza di dialogo o di contatto fisico definisce così l’apatica fuga delle “bambole”, che percorrono le quattro stagioni tra giardini in fiore, spiagge deserte, boschi autunnali e interminabili distese di neve. E dove non riescono i personaggi nell’intento di esprimere le proprie emozioni, il compito è lasciato all’impatto visivo della natura e dei suoi colori ricorrenti, primo su tutti il rosso della foglia d’acero che percorre le vicende trasportata dal fiume, creando una perfetta analogia con il sangue sull’asfalto.
Insomma, più mono no aware di così, si muore.
L’imprescindibile legame tra essere umano e natura è tema fondamentale anche in Little Forest di Mori Jun'ichi, una miniserie basata sull’omonimo “slice of life” manga di Igarashi Daisuke. Complessivamente, l’opera è divisa in 2 parti: Summer/Autumn (2014) e Winter/Spring (2015).
Il racconto si svolge nella fittizia e circoscritta comunità di Komori (“piccola foresta”) nella regione del Tōhoku, dove la giovane Ichiko, interpretata dall’incantevole Hashimoto Ai, vive da sola in seguito all’inaspettata partenza della madre. In totale armonia con l’ambiente rurale che la circonda, Ichiko è immersa nelle tradizioni culinarie giapponesi e si dedica con meticoloso impegno a tutte le attività agricole necessarie per il proprio sostentamento. In base alle variazioni climatiche scandite dalla graduale evoluzione delle stagioni, la protagonista ci mostra la ripetitività delle azioni quotidiane nella vita agreste, come la coltivazione del riso, il taglio del legname e infine la preparazione dei piatti.
Anche Little Forest presenta pochissimi dialoghi, perlopiù inerenti agli incontri di Ichiko con gli amici Yūta e Kikko e con gli altri abitanti della comunità. Gran parte del parlato consiste di fatto in monologhi e descrizioni dettagliate delle ricette e dei metodi agricoli, nonché commenti conclusivi sulla riuscita o meno dei piatti. A intervallare i momenti di solitudine sono alcuni flashback, in cui la ragazza ricorda gli insegnamenti di cucina della madre, e gli autoreferenziali “itadakimasu” pronunciati prima delle degustazioni.
Nonostante lo stile pressoché documentaristico del film e la staticità generale della trama, Little Forest offre una miriade di spunti riflessivi. Innanzitutto, l’opera rimanda implicitamente alle differenze di vita tra campagna e città, un leitmotiv del cinema giapponese moderno. Ichiko mostra infatti sentimenti contrastanti riguardo al suo ritorno nel paese natale, una scelta perlopiù forzata, e rivela in varie occasioni le sue incertezze riguardo a una permanenza futura.
Accompagnato da una colonna sonora piuttosto suggestiva e da favolose immagini dei paesaggi circostanti, il film espone così il conflitto interiore della giovane nel suo delicato viaggio introspettivo alla ricerca di un posto nel mondo, nella costante riflessione su una possibile ricongiunzione con la madre.
Decisamente consigliato per gli appassionati di cucina giapponese. Come afferma Ichiko nell’episodio dedicato all’autunno, “nel periodo in cui gli alberi cambiano colore, le castagne candite diventano protagoniste”. Un invito da cogliere al volo, no?
Lorenzo Leva
Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.
Contatti:
lorenzo.leva@gmail.com
Kintsugi - L'arte di riparare l'arte
Kintsugi (dal giapponese kin 金 (oro) e tsugi 継ぎ (riparare) è una tecnica artistica giapponese nata alla fine del 1400 con la quale si utilizza l'oro - o un altro metallo prezioso - per saldare insieme frammenti di un oggetto rotto. Dalla sua terra d'origine, il Giappone, si è rapidamente diffusa in tutto il mondo. Anche in Italia, naturalmente, è conosciuta e apprezzata. Scopriamola insieme.
Kintsugi è una tecnica artistica ideata alla fine del 1400 da ceramisti giapponesi per riparare tazze tenmoku in ceramica per la cerimonia del tè (Cha no yu). Le linee di rottura, unite con lacca urushi, sono lasciate visibili, evidenziate con polvere d’oro. Gli oggetti in ceramica riparati con l’arte kintsugi, diventano vere opere d'arte. Impreziosirle con la polvere d'oro ne accentua la loro bellezza, rendendo la fragilità un punto di forza e perfezione.
L’arte kintsugi vede la sua origine in Giappone nel periodo Muromachi, sotto lo shogunato di Ashikaga Yoshimasa (1435-1490). Yoshimasa ruppe una delle sue tazze tenmoku che venne affidata a ceramisti cinesi che la cucirono, seguendo le linee di rottura, con graffe in ferro. Furiosa fu la reazione dell'ottavo shogun quando vide la sua tazza così rovinata. I maestri ceramisti giapponesi cercarono di mettervi riparo usando l'estetica del wabisabi e i materiali a loro disposizione. Per incollare i pezzi rotti del tenmoku venne usata la lacca urushi; le linee di rottura vennero ricoperte con polvere d'oro. Il risultato ottenuto fu apprezzato da Yoshimasa: la sua tazza non solo era stata riparata ma aveva preso una vita nuova, carica delle sue imperfezioni e proprio per questo ricca di bellezza: era diventata unica.
Kintsugi è una tecnica complessa: abbisogna di elevata manualità e di precisione, nonché calma e pazienza. I materiali usati sono la lacca urushi, estratta dalla pianta autoctona Rhus Verniciflua (tomoko), farina di riso o di grano, polvere d'oro, bronzo e argento. Il processo di essiccazione della lacca, che viene usata e come collante per la ceramica e come collante per la polvere d'oro, avviene nel muro, un ambiente caldo (20°) con umidità relativa intorno al 70-90%. Il tempo di essiccazione varia da tre giorni a una settimana. Le linee di rottura prima stuccate e carteggiate, vengono rifinite con lacca urushi rossa a pennello su cui si lascia cadere la polvere d'oro.
L'arte kintsugi non è solo un concetto artistico ma ha profonde radici nella filosofia Zen; partendo dal wabisabi, tre sono i concetti in essa racchiusi: mushin, impermanenza (o anicca) e mono no aware. Mushin, senza mente, è un concetto che esprime la capacità di lasciare correre, dimenticando le preoccupazioni, liberando la mente dalla ricerca della perfezione. Anicca si traduce con impermanenza; l'esistenza, senza eccezioni, è transitoria, evanescente e inconstante: tutte le cose sono destinate alla fine. Accettare tale condizione è avere un approccio sereno e consapevole della vita.
Mono no aware, empatia verso gli oggetti, è una malinconia triste e profonda per le cose; apprezzandone la loro decadenza si arriva ad ammirarne la bellezza.
Chiara Lorenzetti
https://www.kintsugi.chiaraarte.it
Intervista a Hiromi: "La mia casa è il palcoscenico"
Hiromi Uehara è una delle pianiste giapponesi più famose e apprezzate. Autrice di uno stile jazz personalissimo, si distingue - oltre per la capigliatura "esplosiva" - per l'energia che mostra sul palco e per il suo uso assolutamente non convenzionale dello strumento pianoforte. L'abbiamo raggiunta nel backstage del Blue Note di Milano, in occasione del suo concerto dello scorso 7 ottobre, per farle qualche domanda e conoscerla meglio. Ecco cosa ci ha raccontato!
Ciao, Hiromi! Benvenuta su Giappone in Italia. Come stai?
Bene! Grazie per l'intervista!
Iniziamo subito. Sei venuta tante volte a suonare in Italia. Cosa ne pensi del nostro paese? Com'è suonare qui?
È davvero un paese meraviglioso. C'è tanta passione per la musica, che dimostrate continuamente. Il pubblico italiano è molto emotivo e caloroso e questo lo si sente sul palco. In più in Italia avete un'ottima cucina. Musica e cucina sono le mie due più grandi passioni, quindi è proprio il paese che fa per me. [ride]
Come sta andando il tour con Edmar Castañeda?
Sta andando benissimo. Sai, quando la gente sente parlare di un duetto di piano e arpa, prima di sentirci suonare, spesso si chiede "Piano e arpa? Insieme? Cosa possono offrire?". È davvero una combinazione unica, che molte persone non hanno mai avuto modo di ascoltare. Poi, quando arrivano allo show, si sorprendono di quello a cui stanno assistendo. Probabilmente non si aspettano che un'arpa possa venire suonata in quel modo. Nemmeno io me lo immaginavo prima di conoscere Edmar. [ride] Ed è stupendo assistere alle loro reazioni. Prima sono quasi shockati, poi lo stupore lascia spazio alla gioia. È quello che succede quando si scopre qualcosa di totalmente nuovo. Come in un'avventura.
Quando è iniziata la vostra collaborazione?
Ci siamo conosciuti nel 2016 a Montreal, dove ci siamo trovati a condividere il palco. Era la prima volta che lo vedevo e sono rimasta a bocca aperta sentendolo suonare. E anche per lui è stato lo stesso. Mi ha sentito suonare per la prima volta ed è rimasto molto sorpreso. Ci siamo scambiati i contatti con la promessa di suonare insieme poi in futuro. Un mese dopo, avevo uno spettacolo al Blue Note di New York, così l'ho invitato a suonare come special guest. Si è creata una connessione magica così ci siamo detti "dobbiamo assolutamente andare in tour insieme!".
Pensi anche che la musica che suonate abbia finito per influenzarvi reciprocamente?
Oh, sì. Naturalmente. È normale quando passi tanto tempo con una persona influenzarsi a vicenda.
La tua musica è molto ricca e variegata. Si possono riconoscere tantissime influenze. Quali sono le tue maggiori fonti di ispirazione?
Ce ne sono troppe! [ride] Tutti quelli che ci sono sui muri del Blue Note, hai visto le foto? [ride] [Ndr: Hiromi si riferisce alle gigantografie di numerosi musicisti jazz che adornano le pareti del locale]. Vedi, tutte le volte che ascolto della musica, imparo qualcosa di nuovo. I primi due pianisti che ho ascoltato, quando a otto anni prendevo lezioni di pianoforte, sono stati Errol Garner e Oscar Peterson. Entrambi mi hanno insegnato un'importante lezione, quando si parla di improvvisazione. Sono anche andata in tour con Peterson, anche se non abbiamo mai suonato insieme. È stata una grande emozione.
Puoi descriverci il tuo processo creativo? Da cosa trai ispirazione per nuove idee, quando stai scrivendo dei nuovi brani?
Tento di scrivere nuova musica tutti i giorni, proprio come se stessi tenendo un diario. È come se la mia musica fossero le parole del mio diario. Voglio sempre scrivere e così cerco continuamente nuove esperienze che possano emozionarmi e che possano essere fonte d'ispirazione.
Hai intenzione di collaborare con altri artisti in futuro?
Naturalmente. Non so ancora chi sono destinata a incontrare o quando, ma so che saprò riconoscerlo all'istante non appena inizierà a suonare. E quando inizieremo a collaborare è come se suonassimo insieme da sempre.
Sei sempre in tour in giro per il mondo, viaggiando da un continente all'altro. In che modo questo stile di vita influenza la tua sfera personale?
La mia vita personale? Ma la trascorro tra hotel e aerei. [ride]. Non posso certo dire che sia una vita facile, sempre in viaggio. Ma amo esibirmi nei miei show, è il momento in cui mi sento più viva. Ogni volta che salgo su un palcoscenico diverso, appena vedo il mio pianoforte, è come se fossi a casa mia. È una sensazione che cerco di trasmettere anche a chi mi ascolta. Voglio poter dire al mio pubblico "Benvenuti a casa di Hiromi!".
Ultima domana. Sei giapponese: pensi che la cultura o la tradizione musicale del tuo paese abbiano mai influenzato la tua musica?
È una cosa a cui non ho mai pensato. Sicuramente non cerco di inserire artificiosamente nella mia musica elementi che possano far dire "è una pianista giapponese" ma, allo stesso tempo, penso che ci siano delle caratteristiche intrinseche alla mia musica che derivano dal mio "essere giapponese" e che la gente riconosce come tali. Per esempio, quando incontro una persona nuova, mi inchino. Ma non è per far vedere che sono giapponese, ma semplicemente perché sono giapponese e inchinarsi è una conseguenza. Sono fatta così. La "giapponesità" è dentro di me e di conseguenza nella mia musica, anche se non voglio inserirla forzatamente. Dovete solo trovarla! [ride] Non voglio né nascondere, né mettere in mostra la mia giapponesità. Sono così. Sono Hiromi.
Grazie per quest'intervista, Hiromi. È stata davvero interessante. Vuoi lanciare un messaggio ai nostri lettori prima di salutarci?
Ogni cultura è straordinaria e ogni cultura è differente. Ad esempio, l'Italia e il Giappone sono estremamente diversi, ma ci sono tanti aspetti in comune. Dobbiamo cercare di mettere in evidenza gli aspetti migliori di ogni cultura.
Kuniyoshi - Visioni dal mondo fluttuante
Dal 4 ottobre 2017 al 28 gennaio 2018 a Milano presso il Museo della Permanente si terrà la prima mostra monografica italiana del maestro giapponese, Kuniyoshi, il visionario del mondo fluttuante. La mostra è prodotta da MondoMostre Skira e curata da Rossella Menegazzo. Cogliamo l'occasione per un approfondimento sulla vita e sull'opera del maestro.
Utagawa Kuniyoshi (Tokyo 1797-1861) fu uno dei più grandi, schietti e audaci maestri di ukiyo-e ("immagini del mondo fluttuante"), la tradizionale arte della stampa giapponese. Il giovane Yoshisaburo, questo il suo vero nome, proveniva da una famiglia umile. Il padre era un tintore di seta grazie al quale egli poté conoscere i colori e sviluppare la sua passione per il disegno.
Dopo un breve periodo sotto gli insegnamenti del maestro Katsukawa Shuntei, della scuola di ukiyo-e Katsukawa, Yoshisaburo nel 1811 passò alla più prestigiosa scuola di Utagawa, sotto la quale anche lo stesso grande paesaggista Utagawa Hiroshige si formò. Il suo maestro fu Utagawa Toyokuni , grande artista che si dedicò in particolare alle stampe legate al teatro Kabuki e ai ritratti degli attori stessi. Sotto la sua guida Yoshisaburo imparò molto e cambiò il suo nome, come da tradizione, diventando Kuniyoshi, unendo l'ultima parte del nome del maestro con la prima del suo e assumendo il cognome della scuola.
Finiti gli studi per il giovane artista incominciò un periodo difficile in cui non potendo mantenersi della sua arte fu costretto a fare diversi lavori tra i quali vendere e riparare tatami. All'età di 30 anni finalmente venne notato e apprezzato il suo talento grazie alle stampe che egli dedicò ai 108 eroi del Suikoden.
Le storie legate a questi eroi hanno origine da un romanzo cinese del XIV/XV secolo circa, che qui in Italia è conosciuto con il titolo di I Briganti; si tratta delle vicende di uomini che si ribellarono al governo corrotto e che andando contro le leggi diventarono manigoldi e briganti, ma che, come l'occidentale Robin Hood, la loro scelta fu in favore di ideali giusti e di libertà sia per loro che per il loro popolo, costituendo l'unica forma di giustizia contro le malefatte dei tiranni. Queste storie simboliche furono sentite molto anche dai giapponesi in periodi particolarmente difficili per il popolo.
Il maestro grazie a queste opere e ad altre legate a tematiche simili venne chiamato "Kuniyoshi delle stampe dei guerrieri", dimostrando un grande talento per le tecniche dell'ukiyo-e e per il disegno, rappresentando i suoi protagonisti in una spirale di colori e di forme con una scioltezza dei corpi che apparivano come in un groviglio di carne e di vesti dove la drammaticità e l'energia delle battaglie ne facevano da padroni, trasportando l'osservatore nel vivo del racconto.
Dopo che ebbe raggiunto il successo Kuniyoshi iniziò ad occuparsi anche di altri temi come le rappresentazioni di vita quotidiana e di scenette comiche, oppure attingeva alle storie e alle leggende di fantasmi e di spiriti di cui il Giappone ha una ricca tradizione creando un repertorio vasto e dinamico nelle sue varie composizioni. Kuniyoshi si occupava anche di illustrazioni più classiche come le rappresentazioni legate al teatro Kabuki oppure all'affascinante mondo femminile giapponese. Spesso legava questi soggetti alla figura del gatto: un animale che l'artista amava molto e che lo ammaliava con il suo essere così furbo e misterioso.
Il gatto in Giappone gode di grande considerazione. Basti pensare al famoso Maneki Neko (lett. "gatto che da il benvenuto") dalle origini molto antiche e riconosciuto da tutti come icona nipponica, che con la sua zampetta saluta i passanti invitandoli ad entrare nei negozi o nei ristoranti, quindi considerato simbolo di fortuna. Oppure è interessante notare come la figura del gatto nei miti giapponesi prenda le forme particolari di due demoni (yokai): il Nekomata ("gatto a due code") e il Bakeneko ("gatto mstruoso"), gatti dalle capacità straordinarie e sovrannaturali.
Kuniyoshi rappresenta frequentemente queste creature in varie forme e in diversi attegiamenti come se volesse carpirne i loro segreti. Addirittura il maestro ospitava molti di essi nel suo studio e capitava che lavorasse alle sue opere con qualche gatto pigramente accoccolato tra le pieghe del suo Kimono.
Kuniyoshi fu un uomo schietto e concreto nei suoi principi e nei suoi ideali. Anche dopo aver raggiunto la fama non si montò mai la testa e nelle sue opere rimase sempre molto sincero. Visse la sua pienezza da artista in un periodo in cui il Giappone si trovava in una situazione di pace coercitiva mantenuta dal severo controllo dello Shogunato Tokugawa che, però, da lì a poco sarebbe finita con l'apertura forzata dello stato nipponico all'occidente (1854). Kuniyoshi espresse sempre il suo parere politico nelle opere a tema satirico andando spesso contro le autorità, venendo multato e qualche volta vedendosi punito con la distruzione dei suoi lavori.
Utagawa Kuniyoshi fu uno degli ultimi e più grandi maestri di ukiyo-e, con un'opera vasta e visionaria nell'infinità della sua immaginzione, che egli riusciva a distribuire sullo spazio del foglio con una tecnica eccellente e una libertà di spirito invidiabile. Il maestro scomparve nell'aprile del 1861 a causa delle cattive condizioni di salute in cui si trovava, lasciando una grande eredità artistica e una scuola molto affermata, in cui si formò Utagawa Yoshitoshi, suo amato allievo e ultimo grande maestro di ukiyo-e.
Cristina Solano
http://japanartincontemporary.altervista.org
Danjiri Matsuri: la corsa dei carri
Il Danjiri Matsuri è uno dei festival più caratteristici del Giappone e senz'altro il più iconico di Osaka. Nato nel sedicesimo anno dell'era Genroku (1703) sulle basi del già esistente Inari Matsuri, fu creato dal daimyo (signore feudale) del castello di Kishiwada al fine di pregare per un abbondante raccolto. Molti signori di Kishiwada si alternarono negli anni ma il festival, che fin da subito riscosse un enorme partecipazione popolare, rimase un appuntamento fisso della città. Solo per quell'occasione i cancelli che impedivano agli abitanti della città l'accesso al castello venivano lasciati aperti e tanta era l'entusiasmo che il festival venne soprannominato Kenka Matsuri (matsuri del combattimento), in quanto una vera e propria forma di competizione venne presto ricercata dai partecipanti.
Abitando vicino Tokyo avevo solo sentito parlare di questo matsuri, come del più animato e perfino pericoloso del suo genere. Nel mese di settembre però, ospite di Yasuhiro, un amico di Osaka, ho deciso di andare a vedere coi miei occhi di cosa si trattasse. Quando arriviamo alla stazione di Kishiwada sono circa le dieci del mattino e le strade sono già piene di gente. Vedo subito molta gente vestita in abito tradizionale da festival, disposta attorno a degli speciali carri, i danjiri, delle costruzioni in legno alte 3.8 metri, lunghe 2.5 e con ognuno un peso di 4 tonnellate. Ogni carro, decorato con intarsi (horimono) rappresentanti scene di celebri battaglie e racconti di guerra, viene trainato dalle 500 alle 1000 persone per mezzo di funi lunghe circa 200 metri. Seppur i partecipanti ridano e parlino animosamente tra loro, nell'aria si avverte il fermento di una grande festa che sta per iniziare.
Il gruppo in carica di trainare ogni danjiri è composto dagli abitanti di un cho (un'area composta da un certo numero di isolati), ognuno con dei kanji distintivi impressi sugli abiti: ciò porta a un senso di comunità tra gli abitanti di Kishiwada e della città stessa.
I carri e le persone iniziano a muoversi lentamente verso uno dei tre santuari della zona per ricevere il miya-iri, la benedizione shintoista prima della corsa. Osservando, noto che ogni persona attorno ai danjiri ha un ruolo ben preciso, come infatti Yasuhiro, ormai grande conoscitore dell'evento, mi conferma: c'è chi ha la funzione di trainare il carro, chi di aprire la strada al suo passaggio, chi di tenere alto lo spirito dei partecipanti con incitamenti e percussioni di tamburi ed infine chi, solo uno per ogni gruppo, ha l'onore di posizionarsi sopra il carro durante la corsa. Essi sono i daigu-gata, i carpentieri del quartiere che hanno preso parte attiva alla realizzazione del danjiri, e sulla cui sommità si esibiscono in danze evocative.
Oramai ci siamo, i carri sono usciti dai santuari cominciano a compiere il loro tragitto attorno all'area del castello aumentando sempre di più la loro velocità. Siamo quindi nel vivo del matsuri, e io e Yasuhiro decidiamo di posizionarci in uno dei punti dove è possibile assistere allo yari-mawashi, ovvero la svolta dell'angolo. Esso è uno dei tratti distintivi del danjiri matsuri in quanto, senza diminuire la velocità, gli enormi carri vengono fatti svoltare in delle strette curve, mentre gli osservatori assistono in trepidazione alla scena.
Vista anche la pericolosità della manovra (in passato ci sono stati incidenti molto gravi) certe aree sono chiuse per i “non addetti ai lavori” e l'unico modo di entrarci è indossare un indumento che dimostri la propria appartenenza, o familiarità, con uno dei quartieri di Kishiwada.
Io e Yasuhiro ci troviamo quindi al limite dell'area consentita al pubblico e in mezzo a tanta altra gente ci sporgiamo un po' di qua e un po' di là per riuscire a veder meglio lo spettacolo. Forse incuriosita dalla presenza di uno straniero tra gli spettatori oppure mossa da semplice bontà, una donna già nel vivo della celebrazione mi mette al collo una sciarpa coi kanji del quartiere dicendomi: “ Vai, ma solo per 5 minuti!”. Io e Yasuhiro ci guardiamo un attimo e subito oltrepassiamo la zona interdetta al resto del pubblico trovandoci, tra gli sguardi stupiti dei presenti, molto vicino a dove il danjiri svoltava dopo la curva. Assistiamo quindi alla scena da vicinissimo dopodiché, soddisfatti, torniamo a riconsegnare il “lasciapassare” alla donna insieme coi nostri ringraziamenti.
Alla fine della giornata lascio Kishiwada per andare a vedere un'altra zona di Osaka, ma con la sensazione di aver assistito a qualcosa di speciale, un evento capace di unire tutti gli abitanti della città attorno ad un'unica tradizione, parte integrante della loro identità.
Marco Furio Mangani Camilli
Kyudo - Alle origini della via del guerriero
Codificato già nel XV secolo, il kyudo o la “Via dell'Arco” è oggi una delle arti marziali tradizionali più emblematiche del Giappone.
Quando si pensa a guerrieri ed arti marziali giapponesi è facile che alla mente salti il nome samurai e la naturale associazione di questi con la sua spada, la katana. Tuttavia è bene sapere che l'identificazione della spada come “l'anima del samurai” nacque specialmente durante il periodo Edo (1603-1868). In epoca antica invece molta importanza veniva data alla “via dell'arco e della freccia” (kyusen no michi), considerate le armi base del guerriero giapponese. In un famoso testo composto intorno al 1120 (fine del periodo Heian), il Konjaku Monogatari, troviamo moltissimi riferimenti al tiro con l'arco nei racconti riguardanti le gesta di guerrieri nipponici.
Con la sua codificazione il kyudo si fece anche rituale e da quel momento l'obiettivo della disciplina fu la ricerca di unità tra lo spirito e la tecnica: né solo virtuosismo pratico né solo forma spirituale, ma una sintesi perfetta dei due.
L'arciere che si appresta al tiro procede per fasi. Per primo si posiziona in linea col bersaglio, poi assume la corretta postura del busto e del corpo. Mentre con una mano regge l'arco, con l'altra afferra la corda, il tutto mantenendo lo sguardo fisso sul bersaglio. A quel punto il kyudoka (praticante di kyudo) solleva l'arco e tende la corda. Questa fase è particolarmente importante: chiamata nobiai, il praticante cerca di raggiungere la massima estensione orizzontale e verticale del proprio corpo. Se ci riesce la tensione prodotta non è solo fisica ma anche ricca di energia spirituale, in cui il momento di maggiore concentrazione (Yagoro) è anche il momento per scoccare.
Si giunge così alla fase detta hanare, ovvero “rilascio”. Fino a questo punto l'arciere ha saputo estraniarsi dal resto del mondo e concentrarsi solo su di sé, sul proprio arco, sulla freccia e sul bersaglio da colpire. Tuttavia nel momento di massima tensione anche questi elementi diventano altro e abbracciano il “tutto”: l'istante in cui il non-essere tocca l'esistenza in ogni cosa. In quell'attimo lo sgancio avviene quasi involontariamente e le frecce volano a colpire il bersaglio (atari). Al praticante è richiesto di di superare il naturale soliloquio mentale degli attimi precedenti il tiro, in quanto ciò può condizionare l'istante del rilascio e far mancare il bersaglio. Mantenendo invece viva la disciplina e un senso di autocritica, il kyudoka può migliorarsi e mantenersi sulla Via.
Oggi in Giappone, come anche in molte altre parti del Mondo, le persone praticano Kyudo per esercitarsi a dominare il corpo, ricercare la vera natura del sé oltre sistemi ideologici e idee personali, e portarne così i benefici nella vita quotidiana.
Nel kyudo l'esercizio della tecnica si incontra con la conoscenza e cura della spirito, e non deve sorprendere se infatti kyudo e il buddhismo giapponese Zen hanno spesso viaggiato su linee parallele.
Marco Furio Mangani Camilli
Tsukimi, una serata dedicata alla bellezza
In molte culture del mondo il nostro unico satellite, la luna, è stato, in alcune è tutt’ora, venerato come divinità o più semplicemente usato come indicatore del trascorrere del tempo. In Giappone ancora oggi il plenilunio del mese di settembre è un’occasione per ammirare (Tsukimi significa proprio "vedere la luna"), insieme ad amici e famigliari, questo splendido corpo celeste.
La luna è il solo e unico satellite terrestre e anche il corpo celeste più vicino al nostro pianeta. La sua vicinanza ci permette di osservarlo molto bene a occhio nudo e per molte popolazioni antiche è stato, per secoli, l’unico modo per misurare il tempo.
Ogni cultura le, o gli, attribuisce poteri e significati, valenze maschili o femminili, simbologie positive o negative. In Giappone ha sempre avuto un’importanza duratura nei secoli, sia come elemento necessario al calcolo temporale, sia come divinità, sia come soggetto estetico. Già in tempi antichissimi la luna è stata ispiratrice di artisti, letterati, artigiani, maestranze di ogni periodo storico che hanno impresso la sua bellezza su ogni tipo di supporto per lasciarla in eredità alle generazioni future.
Un plenilunio in particolare è soggetto di speciali attenzioni, quello di settembre. Viene chiamata Tsukimi la festa in onore di quella che è considerata la luna più bella dell’anno.
La ricorrenza ha origine nella cultura dell’antica Cina, poi introdotta in Giappone nel periodo Heian (784-1185 d.C.), adattandosi molto bene ai canoni estetici dell’epoca che tengono in gran conto la natura e le sue manifestazioni. In questa serata particolare, la nobiltà aveva l’abitudine di riunirsi in luoghi dove la Luna fosse ben visibile per celebrare il suo chiarore con canti e poesie.
Una testimonianza significativa dell’importanza data a questa festa è un luogo esistente ancora oggi, si tratta della villa imperiale Katsura, situata a ovest di Kyoto. Edificata a partire dalla fine del XIV secolo per volere del principe Toshihito, fratello dell’imperatore Goyōzei, la villa venne progettata in modo da avere una terrazza, chiamata , per l'appunto, della luna (Tsukimadai), dove fosse possibile ammirare questo plenilunio.
Ancora oggi la festa di Tsukimi costituisce una delle celebrazioni più affascinanti e suggestive del Giappone. Usanza vuole che le case vengano abbellite con i rami della pianta susuki (erba della pampa), particolarmente indicata per i suoi riflessi argentati, e si offrano alla Luna dei dolcetti di riso a forma sferica, che ricordano la forma della Luna piena e, secondariamente, per festeggiare la fine del raccolto.
È una festa da trascorrere con amici e parenti, per ammirare le suprema bellezza di un chiarore antico, compagno discreto degli artisti di tutte le epoche.
Valentina Meriano
Fonti: "La villa imperiale di Katsura attraverso la tradizione letteraria giapponese” di Priscilla Inzerilli (2013)
Tōrō-nagashi - Un festival sul filo dell'acqua
Oggi vi vogliamo parlare del festival Tōrō-nagashi, che si svolge ogni anno a Tokyo nella zona di Asakusa. Il significato del termine è, letteralmente, “lanterne che scorrono”.
Ogni anno, verso il tramonto, piccole lanterne dalla leggera struttura in legno, in cui sono state inserite delle candele, vengono rilasciate sul fiume Sumida. Si tratta del Tōrō-nagashi, uno degli appuntamenti più attesi della stagione estiva. Lo spettacolo è per gli occhi a dir poco emozionante: centinaia e centinaia di lanterne fluttuanti illuminano il letto del fiume che lento, scorre libero verso l'oceano. Si pensa che le lanterne servano da guida agli spiriti degli avi che, tornati durante l'O-bon a far visita ai loro cari, possano far ritorno nell'aldilà e rinascere.
L'evento ha avuto luogo per la prima volta nel 1946 dopo il secondo conflitto mondiale, diventando ogni anno sempre più famoso, con centinaia di migliaia di partecipanti. A causa della costruzione di speciali argini che impedivano l'accesso al fiume, il festival è stato interrotto nel 1965, ma dal 2005, grazie alla costruzione della Sumida River Terrace dotata di aree pedonali ed aree ricreative, la suggestiva tradizione è stata ripresa.
Quest'anno, il 12 Agosto, circa 2500 lanterne verranno rilasciate dal lato est del fiume Sumida tra il ponte Azuma e Kototoi.
Se si vuole semplicemente assistere all'evento, dalla stazione di Asakusa, ci si può recare al parco di Sumida, proprio accanto alla sponda dell'omonimo fiume, preferibilmente non più tardi delle 18:00, così da trovare un buon posto e aspettare l'inizio del festival alle 18:30.
Ma se invece uno se la sente, perché non provare a prendere parte attiva al Tōrō-nagashi? In tal caso suggeriamo come fare: dalla stazione ci si può recare alla reception dell'agenzia per escursioni in barca “Tokyo Cruise” (vista l'affluenza di partecipanti meglio andarci prima delle 14:00) e acquistare la vostra lanterna per 1500 yen (poco meno di 15 euro). Nei pressi della reception si possono trovare degli appositi spazi dove poter personalizzare la lanterna con disegni, nomi e messaggi augurali per amici e familiari.
Una volta che la lanternina sarà pronta, ci si mette in fila (prima delle 18:00) per arrivare nel punto in cui finalmente sarà possibile lasciarla in acqua e vederla scorrere, in compagnia di altre centinaia, lungo il fiume. Per chi lo compie, il gesto è carico di significato: si dice infatti che le luci rappresentino la saggezza, chiamata di dissipare l'oscurità e l'incertezza dal proprio cammino.
Infine, che si desideri prendere parte al Tōrō-nagashi in prima persona o che si voglia assistervi da una posizione più defilata, esso resta un appuntamento simbolo dell'estate di Tokyo assolutamente da non perdere.
Marco Furio Mangani Camilli
Shin Godzilla, il ritorno del moderno Kami
Quando il Giappone ricerca nell’intrattenimento l’esorcizzazione delle catastrofi che lo affliggono, un nome ed un marchio tornano a far sentire il proprio ruggito: Godzilla. Il signore dei kaiju è tornato! Il 3,4 e 5 Luglio approda in Italia, in proiezione limitata, l’ultimo capitolo della decennale saga del re dei mostri, intitolato Shin Godzilla.
Uscito nelle sale giapponesi il 29 luglio 2016, Shin Godzilla è la trentunesima pellicola della serie, a dodici anni di distanza dall’ultimo Godzilla: Final Wars. A differenza delle precedenti produzioni nipponiche, non si tratta di un seguito del capostipite del 1954, ma di un vero e proprio reboot che ricomincia la saga da zero ambientandola ai giorni nostri. Molto apprezzato dalla critica, il lungometraggio vanta la firma di Hideaki Anno, celebre autore di Neon Genesis Evangelion, che insieme a Shinji Higuchi, realizzatore degli effetti speciali, tenta di conferire un’impronta originale ad uno degli archetipi mostruosi più celebri della storia del cinema.
Più riflessivo, oscuro e cerebrale rispetto ai precedenti che sembra aver convinto gli addetti ai lavori. Dalla notte dei 40esimi Academy Awards giapponesi ne esce trionfante con sette premi vinti (miglior film, miglior regia, miglior fotografia, direzione artistica, illuminazione, montaggio e sonoro). Mai nessun episodio della saga aveva raggiunto un simile traguardo e il motivo di tale successo di critica ed incassi (oltre 76 milioni di dollari al box office mondiale) è essenzialmente dovuto ad un ragionato ritorno alle origini che la direzione creativa ha deciso di intraprendere.
Battezzato sul grande schermo da Ishiro Honda, all’insegna del terrore nucleare di Hiroshima e Nagasaki, il re dei mostri ha rapidamente conquistato un vasto pubblico imprimendosi nell’immaginario collettivo come una metafora dell’impotenza dell’individuo nei confronti di una natura degenerata e corrotta dagli errori dell’uomo stesso. Grottesco, materico ed inscalfibile, questo nuovo Godzilla nasce come una concrezione amorfa di materiale biologico devastato dalle radiazioni per poi conquistare una forma definita e il suo classico aspetto bipede.
Shinto è la via degli dei, e shin, divino, è l’aggettivo che accompagna il nome della creatura. Come un kami moderno, la sua sagoma si erge sulla baia di Kamakura e Tokyo, assolutamente noncurante di ciò che si pone dinnanzi al suo passaggio. L’icona kaiju riacquisisce ancora una volta la caratteristica dell’imparzialità e dell’indifferenza nei confronti dell’operato umano. Il panico generatosi e i conseguenti tentativi di arginare l’emergenza sono un evidente riferimento ai tragici eventi della storia recente. Così come nel ‘54 era necessario trasfigurare in un simbolo l’olocausto nucleare, allo stesso modo “Shin Godzilla” si pone nei confronti dello tsunami del 2011. È un fenomeno naturale e, come tale, semplicemente accade, trattato con timore e riverenza, ma non odiato; né “buono”, né “malvagio”. La nazione deve salvarsi da sola e pertanto il film si focalizza sulle azioni umane intorno all’evento più che sull’evento stesso.
Il tema ecologico, corroborato dal marcescente aspetto che assumono le scorie rilasciate dal mostro, rievoca l’immaginario di Miyazaki e Otomo che spesso ha posto l’accento sul pericolo derivante dalla mutazione forzata della natura. Gran parte del minutaggio è dedicata a tesissime riunioni tra i piani alti del governo, gli scienziati e gli operatori sul campo. Variando tra momenti di satira leggera e sequenze più cupe, l’organizzazione collettiva e le strategie di contenimento descritte dal film ricordano l’azione eroica e sacrificale di quei cinquanta eroi che nel marzo del 2011 decidettero di sacrificarsi per arginare il potenziale distruttivo di Fukushima.
La macchina da presa è soprattutto impiegata ad altezza d’uomo, inquadrando spesso da vicino i volti concentrati e terrorizzati che rievocano le estremizzate ed enfatiche espressioni dei personaggi degli anime di Anno. Il mostro e l’azione che lo coinvolge sono realizzati con un misto di CGI ed effetti pratici. L’uso di riprese dal vivo e miniature della Tokyo distrutta è integrato con sequenze ricreate in motion capture. Tra modernità e tradizione il Re dei mostri torna nel suo ad affascinarci e terrorizzarci, ribadendo mai una volta di troppo quanto effimero e precario possa rivelarsi l’operato umano di fronte alla forza soverchiante degli elementi.
Michele Mariani
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