Il libro del ramen: Intervista a Stefania Viti
Abbiamo incontrato Stefania Viti, giornalista ed esperta di Giappone contemporaneo, per parlare del suo ultimo successo editoriale Il libro del ramen pubblicato da Gribaudo-Feltrinelli.
Come nasce l’idea di scrivere un libro sul ramen?
L’idea nasce all’interno di un percorso che sto facendo insieme alla casa editrice Gribaudo-Feltrinelli avviato nel 2013. Per Feltrinelli ho curato il volume Il Sushi, uscito nella collana Real Cinema insieme al DVD Jiro e l’arte del sushi, nel 2015 con Gribaudo ho pubblicato L’arte del sushi, edizione ampliata, aggiornata e illustrata del primo volume e nel 2016 ho chiuso questa trilogia con Il sushi tradizionale. Ora abbiamo deciso di approfondire un altro piatto simbolo della cucina giapponese, il ramen, che in questo periodo sta godendo di grande popolarità, prova ne è anche il fatto che questo libro, uscito nel novembre 2017, già nel febbraio 2018 è andato in ristampa!
Com’è strutturato il libro?
Il libro segue quella che mi piacerebbe diventasse la mia cifra stilistica di raccontare la cultura giapponese. Nei miei libri c’è infatti sempre molta cultura, che diventa la chiave di lettura per raccontare un paese. La prima parte introduce la storia del ramen e le curiosità a essa legate. Il ramen è un piatto declinato localmente, per questo numerose pagine sono dedicate alla geografia di questo piatto e dunque alla scoperta delle varie regioni del Giappone. Il libro porta così a scoprire un intero Paese e il ramen è una sorta di filo rosso di tutto il viaggio. Anche se in modo diverso rispetto al sushi, anche quella del ramen è una ricetta molto complessa. Ho inserito quindi una parte propedeutica che introduce gli ingredienti di base, per proseguire con una seconda parte riservata alle ricette di base per fare i brodi. Nella terza parte si arriva presento i piatti realizzati dagli chef di alcuni famosissimi ristoranti giapponesi. Il libro si avvale della collaborazione di Ramen Expo, uno dei maggiori eventi dedicati al ramen in Giappone, che qui presenta numerose ricette originali. A queste si aggiungono altre ricette di tre Ramenya (ristoranti specializzati in ramen) italiane, che propongono, ciascuna, un tipo diverso di ramen.
Racconti di come il ramen rappresenti “il Giappone in una ciotola” e ogni zona o regione del paese siano caratterizzate da una particolare ricetta. Quali sono le preparazioni di base e quali le specialità?
La preparazione del ramen non ha delle regole fisse, ma esistono quattro tipologie classiche di brodi: il miso ramen, lo shio (sale) ramen, lo shōyu (soia) ramen e il tonkotsu ramen (fatto con le ossa di maiale). Il ramen è così raccontato attraverso il suo brodo. Col tempo queste tipologie si sono mescolate, contaminate. Nella parte delle ricette dei ristoranti giapponesi molte vanno sotto l’etichetta di “Brodi misti”, perché ottenuti dalla mescolanza di vari tipi di brodo. Per esempio, nelle ricette di Casa Ramen si arriva alla completezza del brodo mescolandone tre diversi tipi.
Esiste un vero e proprio galateo del ramen. Hai qualche aneddoto in merito?
Il galateo del ramen procede al contrario rispetto al nostro. Uno degli aspetti più curiosi è il fatto che i popoli asiatici quando mangiano la pasta lunga fanno rumore, sia come segno di apprezzamento, sia per favorire il raffreddamento della pietanza. Questo non è visto come una cosa sconveniente o maleducata, anzi… Un’altra “regola” è che prima di iniziare a mangiare si assaggi il brodo. Solo dopo si va a “distruggere” l’armonia di colori e forme. Il brodo dà il timbro del gusto, da esso si capisce la qualità del piatto.
Nel libro ti soffermi sul legame tra ramen, letteratura, cinema e manga. Com’è diventato così popolare questo piatto?
In Giappone il ramen è sempre stato un piatto popolare, ma davvero nel senso etimologico del termine: un piatto per il popolo. Nonostante sia un piatto ricco di ingredienti, sostanzioso, completo, mantiene un prezzo abbordabile. Caratteristica che per il sushi non è sempre vera, dato che esistono sushiya molto care ma anche i kaitenzushi dove il sushi è ancora a buon prezzo. Il sushi è nato come cibo di strada, ma con la Seconda Guerra Mondiale è diventato un cibo di élite, mangiato di nascosto, anche perché non c’era il riso. Parlo del sushi perché è sempre stato una sorta di “antagonista” del ramen. Il sushi è diventato un simbolo alto, raffinato, portatore di un’estetica zen, della filosofia del “less is more”. Negli anni Ottanta ha fatto proseliti nella cultura culinaria internazionale, mentre il ramen è rimasto nei confini del Giappone. Negli anni Ottanta e Novanta l’immagine delle pentole di ramen non si confaceva all’immagine internazionale del Giappone che si stava diffondendo. Il ramen è però rimasto presente in tutta la cultura underground, nei manga, negli anime (Doraemon per esempio mangia i ramen). Poi è arrivato Jūzō Itami con il film Tampopo che nel 1985 ha segnato una riscoperta del ramen. Jūzō fa una specie di “spaghetti western” ambientato in una locanda di ramen. Il ramen diventa simbolo di un Giappone autentico da difendere dall’assalto della controparte occidentale. Il nemico è rappresentato simbolicamente dagli “spaghetti” appartenenti a una cultura lontana. L’Occidente è in quel momento un mondo poco definito per il Giappone tanto che la scena degli spaghetti è girata in un ristorante francese. Il film comunque più che la storia delle gang locali racconta l’artigianalità del ramen, la sua preparazione e l’esperienza della degustazione. Nel 1988 Yoshimoto Banana in Kitchen fa diventare il ramen il fulcro del racconto, un’esperienza quasi spirituale. Per arrivare al boom di oggi fino al boom di oggi grazie anche all’azione di promozione e valorizzazione portata avanti dai primi anni 2000 da Food Japan.
Come è stato accolto il ramen in Italia?
Oggi è accolto benissimo! Addirittura diverse testate giapponesi mi hanno intervistata proprio per capire come io vedessi successo e diffusione di questo piatto nel nostro Paese. D’altra parte da noi è già ben radicata la cultura della pasta lunga. Inoltre, il ramen è un piatto molto più facile da mangiare rispetto al sushi perché non c’è il pesce crudo.
Chi sono i più importanti chef di Ramenya in Italia? Come hai sviluppato la collaborazione con alcuni di loro per il libro?
Il libro non vuole essere una guida, non illustra un panorama generale. Ho scelto tre diversi chef i cui ristoranti propongono tre diverse tipologie di ramen: Misoya perché fa ramen al miso, Casa Ramen per il tonkotsu, Niko Niko Ramen & Sake fa shio ramen. Sono storie e varietà differenti, non si sovrappongono tra loro.
Dopo il sushi e il ramen, continuerai in questo percorso di promozione e valorizzazione in Italia della cucina giapponese?
Sì certo. Stiamo già lavorando ai prossimi argomenti da trattare. Se il pubblico continua a seguirci proseguiremo sicuramente: c’è ancora tanto da dire e da raccontare! È importante avere testi in Italia che non siano semplici traduzioni da altre lingue. È il momento giusto perché gli studiosi italiani possano essere valorizzati. L’Italia è molto sensibile all’arte culinaria. Abbiamo specialità, nicchie, eccellenze. Noi italiani possiamo essere quelli giusti per raccontare una cucina e una cultura culinaria così sofisticate, come quelle del Giappone. E poi, magari, saranno i nostri libri a essere tradotti!
Parli tanto di cucina nei tuoi libri, ma tu sai cucinare?
In realtà cucino poco… O non cucino affatto. Però mi piace mangiare! Il mestiere degli chef è quello di fare cose buone, il nostro mestiere – di giornalisti e scrittori - è quello di saperle riconoscere e raccontare. Credo il mio compito sia proprio quello di raccontare le ricette e contestualizzare la cultura gastronomica di cui si parla: operazione che ritengo estremamente necessaria quando parliamo di paesi, piatti e culture molto distanti e diverse dalle nostre. Quindi, lasciamo cucinare i cuochi e lasciamo scrivere gli scrittori!
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Penne del Sol Levante - Il segreto del lago di Keigo Higashino
Benvenuti alla rubrica settimanale di Penne del Sol Levante, oggi vi presento il maestro del thriller giapponese Keigo Higashino. Il suo romanzo Il segreto del lago ci trasporta in una situazione davvero particolare. Tutto inizia con quattro coppie di genitori apprensivi che decidono di passare l’estate in una villa sul lago, per permettere ai figli di studiare e prepararsi adeguatamente agli esami d’ammissione alla scuola superiore. Con loro c’è anche un insegnante privato che seguirà le lezioni giornaliere. La storia si svolge sulla riva del lago Himegami.
La villa, appartenente a una delle famiglie, è permeata da subito dall’ansia dei genitori per il successo dei figli e per le preoccupazioni dovute a un loro eventuale fallimento. L’intera vita professionale e il futuro di questi ragazzi sembrano dipendere dall’inserimento in una prestigiosissima scuola cittadina. Ogni conversazione e ogni pensiero ruotano intorno a questo grande evento, atteso sul finire della stagione estiva. C’è solo una persona a cui tutto ciò non interessa per nulla: Shunsuke Namiki.
L’uomo infatti è deciso a lasciare la moglie per la giovane segretaria con cui ha una relazione affettiva. Quando la donna si presenta alla villa con il pretesto di portargli documenti di lavoro che aveva dimenticato in ufficio l’uomo ne rimane profondamente sconvolto ed è assai imbarazzato. Decide così di darle appuntamento in un hotel poco distante dal lago, così da liberarsi della presenza ingombrante della moglie, dei ragazzi e degli altri genitori. Con una scusa lascia la villa e la raggiunge, ma quando arriva di lei non c’è traccia. Sconfortato, ritorna dalla compagnia e piomba in un incubo inaspettato: il corpo della sua amante giace sul pavimento della camera da letto ed è proprio sua moglie a confessare di averla uccisa. A questa situazione estrema e paradossale si aggiunge il comportamento anomalo delle altre coppie, tutti sono decisi ad aiutare la donna e dimenticarsi del tremendo misfatto. Com’è possibile? Shunsuke si ritrova inghiottito nelle tenebre più oscure e districarsene non sarà facile.
Lo stile di questo autore è semplice, con frasi che vanno dritte al punto, descrizioni ben dosate e non ci fa mancare i momenti di suspence. Una scrittura molto piacevole, voltiamo pagina senza neanche accorgercene.
Se volete saperne di più venite a leggere la recensione completa su Penne d’Oriente! Buona lettura a tutti.
Trent'anni di Akira, il capolavoro di Otomo
Era il 1988, quando nelle sale uscì, per la prima volta, Akira, trasposizione cinematografica del manga omonimo di Katsuhiro Otomo. Il film ebbe un successo straordinario: con 50 milioni di dollari di incasso, è considerato oggi uno dei migliori film di science fiction di sempre, accanto a pietre miliari come Blade Runner.
Il manga fece il suo debutto nel 1982 sulla rivista Yangu Magajin, consacrando il suo autore come uno dei più influenti fumettisti del mondo intero. Fin da giovanissimo, Otomo coltiva tre grandi passioni: il cinema, la scrittura e il disegno. Nei suoi primi lavori come mangaka affronta generi differenti, ma da subito emerge la sua cifra stilistica: l'attenzione dedicata all'introspezione psicologica dei personaggi e le influenze del cinema occidentale (da Hopper a Kubrick).
Akira è il punto d'incontro tra il linguaggio cinematografico occidentale e lo stile dei manga: se il ritmo del racconto e le inquadrature ricordano i classici film di fantascienza americani, l'immaginario di riferimento è propriamente nipponico. In esso ricorrono temi cari a buona parte dell'animazione seriale giapponese, come il rapporto tra l'uomo e la macchina, sfruttato in numerosi anime e manga anche recentissimi (da Astro boy e i robot giganti di Go Nagai come Jeeg, fino ai più recenti Gundam, Neon Genesis Evangelion, Eureka Seven), con qualche incursione nel cinema in carne e ossa (Tetsuo the iron man).
Nel 1988 dunque esce il film in sala. Otomo rielabora personalmente il manga, adattandolo alle esigenze del grande schermo. Ottiene uno storyboard di circa 700 pagine: le numerose sottotrame e la ricca caratterizzazione dei personaggi vengono parzialmente sacrificate. Oltre alla contaminazione tra generi (dalla fantascienza al road movie), già presente nella trama originale, il film si mostra come ibrido anche a livello tecnico, mescolando appunto tradizione nipponica con suggestioni e innovazioni occidentali, ad esempio nella tecnica di doppiaggio. Tutto ciò rende Otomo uno dei mangaka meno "giapponesi", e il film un capolavoro fuori dal tempo che merita di essere (ri)scoperto.
E potete riscoprirlo proprio al cinema il 18 aprile.
Kintsugi, corso di tecnica tradizionale a Milano
Sono Chiara Lorenzetti, restauratrice. Il mio lavoro consiste nel riparare oggetti importanti per le persone, nascondendone rotture e difetti. Qualche anno fa, però, ho scoperto che non interessa a tutti che una crepa sia ben nascosta, ho scoperto che a volte le crepe sono la cosa che aggiunge valore, storia e significato a un oggetto.
Ho scoperto l’arte del Kintsugi, un’antica tecnica giapponese, nata alla fine del quindicesimo secolo, che consiste nel riparare oggetti in ceramica mettendo in evidenza le crepe con polvere d’oro. Dopo un periodo di studio ed esperimenti ho incontrato l’Associazione Giappone in Italia e, assieme, abbiamo deciso di proporre un corso di Kintsugi con la tecnica tradizionale giapponese, quella originale. Infatti, al posto delle resine epossidiche usate in Occidente, il Kintsugi originale prevede l’impiego della lacca autoctona Urushi. Insegnare ad altri è sempre una grande responsabilità ma, al contempo, trasmettere la propria passione ad altre persone è appagante e, come nel caso del primo corso tenuto a Milano, permette sia a chi insegna che a chi apprende di aprire se stesso a nuove esperienze.
Durante le quattro settimane di corso i sei allievi, tutti provenienti da realtà diverse, hanno imparato come rompere e riparare un oggetto in ceramica, hanno sperimentato l’uso di materiali antichi come la lacca Urushi e hanno applicato la ricchezza dell’oro alle fratture nell’oggetto. Oltre a questo, però, ciascuno di essi ha vissuto un esperienza, artigianale e umana, che lo ha portato più vicino al sé artistico.
Ognuno degli allievi ha vissuto il corso in un modo personale, chi focalizzandosi più sull’aspetto tecnico e chi su quello filosofico e umano. Anche per l’insegnante questo corso è stata un’esperienza importante. La soddisfazione espressa dagli allievi rispecchia quella dell’insegnante che, per quattro settimane, ha seguito e incoraggiato, corretto e suggerito a sei persone desiderose di apprendere di più su una tecnica di restauro e su se stessi.
Forse è con le loro parole che il successo del corso si esprime al meglio.
[blockquote align="none" author="Annamaria"]"È stato un bellissimo corso, mi sono trovata molto bene con te e tutto il gruppo.
Le ore sono volate anche per l’argomento interessante."
[/blockquote]
[blockquote align="none" author="Raffaella"]"Il corso per me è stata una piacevole sorpresa, alla prima lezione non sapevo esattamente cosa aspettarmi, […] ma la tua professionalità e passione insieme all'armonia creatasi nel gruppo si è trasformata in una bellissima esperienza e crescita costante."[/blockquote][blockquote align="none" author="Melania"]"Nelle 4 settimane in cui siamo stati insieme mi hai insegnato infatti, con la tua arte, a dilatare il tempo. […] La cosa di cui ora sono compiaciuta è che mi hai insegnato tra le altre cose a sorridere di fronte ad un oggetto rotto…"[/blockquote]
[blockquote align="none" author="Maurizio"]Grazie a te per il corso che hai organizzato. Mi è piaciuto tantissimo ed era quello di cui avevo bisogno. Ho imparato tanto da te e mi sono divertito.[/blockquote]
[blockquote align="none" author="Ilaria"]"È stata veramente una bella esperienza, finalmente ho imparato questa affascinante tecnica che rincorrevo da anni! Ho trovato un arricchimento sia a livello formativo sia a livello umano, conoscendo te ed i miei compagni di corso, tutte belle persone con le quali ho percepito subito una sintonia, al di là delle età differenti, delle diverse città di provenienza e delle professioni di ognuno. "[/blockquote]
[blockquote align="none" author="Fiorenza"]"Ho trovato il corso molto interessante e stimolante. Mi sono avvicinata al kinsugi pensando sia di poter aggiungere nuove competenze al mio bagaglio tecnico di restauratrice, imparando le basi di questa antichissima arte, che di poter dare un valore aggiunto alla mia creatività […].Un ulteriore punto di forza è stato l'ottimo rapporto che si è creato immediatamente tra tutti i componenti del corso."[/blockquote]
Al termine di questa esperienza mi sento di dire grazie ai miei allievi. E buon lavoro!
Se volete maggiori informazioni o desiderate sapere se ci saranno nuovi corsi, non esitate a contattare l’associazione. Per saperne di più sull'arte del Kintsugi, cliccate qui
Penne del Sol Levante - Tokyo Express di Matsumoto Seicho
Bentornati alla rubrica settimanale Penne del Sol Levante! Oggi vi incanterò con la storia di un romanzo appena uscito in libreria per Adelphi, Tokyo Express. Un giallo in piena regola, risalente al 1958 e denso di atmosfera.
I corpi di Sayama Ken'ichi e della giovane Otoki vengono ritrovati a Kashii, precisamente sulla spiaggia del promontorio che affaccia sulla baia di Hakata. Sono distesi su una lastra di roccia scura, i vestiti smossi dal freddo vento marino. Dai primi rilievi della polizia è subito chiaro che i due si sono suicidati e le analisi di poco successive confermeranno l'uso del cianuro, anche contenuto in una bottiglietta vuota di succo di frutta posta a fianco dei cadaveri. il caso viene subito etichettato come il suicidio amoroso di due tristi amanti. Iniziano le ricerche per scoprire l'identità dei due corpi e da subito, agli occhi del vecchio ispettore Torigai Jutaro, qualcosa non quadra in quella scena apparentemente perfetta
A dargli manforte arriva da Tokyo un giovane poliziotto della seconda sezione investigativa, quella che si occupa dei casi di corruzione. Pare infatti che la vittima, l’uomo, lavorasse in un ministero coinvolto in un grosso scandalo. Anche per il detective, Mihara Kiichi, quella storia ha qualcosa di sospetto ed entrambi sembrano non darsi pace. I loro dubbi sembrano confermati da strane incongruenze nelle testimonianze di alcuni conoscenti della giovane Otoki. Infatti due ragazze che lavoravano con lei in un locale della capitale e uno dei loro clienti più assidui testimoniano di averla vista, in compagnia di un uomo, salire sull’espresso che da Tokyo porta ad Hakata. Questo e altri indizi porteranno i poliziotti a svolgere una lunga indagine.
In questo romanzo i colpi di scena non mancano, il finale è inaspettato e originale. Si tratta di un classico giallo in piena regola, molto godibile e ottimamente narrato. C’è solo da sperare di imbattersi in qualche altro scritto di Matsumoto Seicho per poter godere nuovamente della sua prosa. Ma se volete saperne di più venite a leggere la recensione completa su Penne d’Oriente!
Buona lettura!
Nagura, le pietre giapponesi per l'affilatura di lame e katana
I Maestri armaioli giapponesi, abbigliati con costumi immacolati, creano katana in uno stato di totale concentrazione, per creare spade che "non si spezzano, non si piegano e tagliano con precisione”. Tale capacità e qualità di taglio è dovuta anche all'affilatura, praticata con pietre naturali. Tra i Maestri vi era anche Kousuke Iwasaki. Il suo libro Sulle lame (刃物 の 見方) è ancora considerato una delle opere principali di forgiatura giapponese, costruzione rasoi e affilatura. Ci soffermeremo proprio sul discorso dell'affilatura e gli strumenti per attuarla in maniera impeccabile.
Vi sono quattro tipi principali di nagura (pietre per l'affilatura): botan (ボタン), mejiro (目 白), tenjou
(天上) e koma (コマ o 細) . La Botan è costituita da particelle grossolane, e leviga velocemente grandi quantità di acciaio durante l'affilatura. La tenjou e la mejiro possiedono particelle fini (コマ o 细). Le botan a volte presentano inclusioni assimilabili a piccoli punti neri noti come "occhi di sabbia". Le nagura sono costituite da un tipo di quarzo denominato tufo riolite. Questa è una roccia vulcanica acida formatasi da un processo deposizionale della cenere in seguito alle eruzioni vulcaniche.
La successione delle pietre durante l'affilatura è la seguente: botan (grossolana), una mejiro (fine) oppure una tenjou (fine). Solitamente quando la fanghiglia che si forma durante il processo di affilatura diventa più scura indica il momento di passare alla nagura successiva. Solo passando il filo del rasoio sull'unghia del pollice ci permette di capire l'aggressività della lama. Il potere abrasivo in presenza di fanghiglia aumenta perché i cristalli vengono rilasciati sulla superficie della pietra e quindi presenti in forma più efficace.
Tra le pietre giapponesi per la finitura honyama vi sono le maruka che possono essere gialle, rossastre, blu e bianche. Un tempo le gialle erano considerate le migliori ma dopo attente analisi ci si e' accorti che l'abrasivo presente in tutte le pietre e' lo stesso e che, in realtà, il tipo di levigatura era simile a quello delle altre pietre. Altre pietre molto buone per la finitura sono le ozaki di montagna, sono di colore grigio scuro. Si raccomanda di lappare accuratamente tute le pietre giapponesi per l'affilatura e, nel caso di quelle per finitura sopra citate, di rimuovere tutte le intrusioni color porpora e/o color pelle. Queste intrusioni, molto dure, rischiano di scheggiare il filo del rasoio.
Dopo l'uso delle nagura si passa all'uso delle pietre honyama. Le pietre honyama sono lente in genere e quindi si usa creare una fanghiglia su di esse con una nagura. In giapponese, in questo caso, dato che si usano due pietre, è possibile che l'intero procedimento venga esplicitato affermando: "Si affila il rasoio usando una tomonagura" (ovvero una honyama, più la nagura).
Arrivati a questo punto dell'affilatura, si sta usando la honyama per affilare, la nagura è solo un coadiuvante.Il procedimento quindi dovrebbe essere chiamato tomoto (共 砥). Teoricamente che scaturisce da questa operazione risulta si ancora frastagliato, ma pronto per radere. In realtà si può fare di meglio. Il filo cosi come viene lasciato dalla honyama viene chiamato mudaha (ムダ 刃). La nagura, come abbiamo visto, può servire da sola per abradere parecchio acciaio dal filo nei casi in cui vi sia un filo particolarmente difficoltoso da impostare, oppure per formare della fanghiglia su pietre più fini.
SI consiglia, in questo caso, di strofinare la nagura in maniera uniforme in modo da non dover poi lappare la pietra su cui si vuole attuare lo slurry ( fanghiglia), una volta finita l' operazione. Si faccia attenzione a non strofinare troppo energicamente le pietre nagura l'una sull'altra, per evitare che dalla prima si distacchino frammenti troppo grossi.Una quantità copiosa di abrasivi e fanghiglia inoltre può essere controproducente. Può far si infatti che il rasoio risulti sollevato, quindi che il filo non tocchi bene sulla pietra. Si rischia, in questo modo, di ottenere un filo irregolare.
Bibliografia: Sekishi no shoyû tôken (“La spade della città di Seki”), Città di Seki, provincia di Gifu.
Kousuke Iwasaki
(Translated by Jim Rion/Andrea Brattelli)
Penne del Sol Levante - La ragazza dell'altra riva di Mitsuyo Kakuta
Buongiorno cari amici, oggi per la rubrica di Penne del Sol Levante vi racconto un romanzo uscito da pochi mesi in Italia: La ragazza dell’altra riva di Mitsuyo Kakuta.
Le protagoniste sono due donne che non potrebbero condurre vite più diverse. Sayoko è sposata e ha una figlia piccola, Akari, con cui passa le sue giornate; trascina i giorni trasferendosi da un parco giochi all’altro per evitare di dover far amicizia con le altre madri, che si uniscono in gruppetti chiusi. Akari, introversa quanto lei, non riesce mai a farsi degli amici e gioca sempre da sola. Sayoko non sopporta più questa situazione e decide di trovarsi un lavoro, così da avere una buona scusa per mandare la bambina all’asilo dove finalmente potrà interagire con i suoi coetanei. Così si mette a spulciare gli annunci lavorativi, va a diversi colloqui ma nessuno pare volerla assumere visto che è una casalinga e non ha capacità particolari.
Finché non incontra Aoi, giovane donna in carriera a capo di una piccola società di pulizie e viaggi. Fin da subito si intuisce che l’organizzazione interna dell’azienda è confusa e che Aoi spesso vive alla giornata, reinventandosi a seconda dell’affare migliore. Le due donne fanno da subito amicizia e Sayoko inizia a lavorare per lei come donna delle pulizie, nonostante le discussioni asfissianti con il marito e la suocera.
Ai capitoli dedicati al presente di questa piccola azienda si intervallano quelli dove ci viene narrata l’adolescenza turbolenta di Aoi, che scopriremo poi intrecciarsi inconsapevolmente con quella di Sayoko.
L’autrice, Mitsuyo Kakuta, non è una voce del tutto inedita nel panorama italiano. Nel 2014 infatti era uscito il suo primo libro tradotto in italiano (in realtà in Giappone è un nome molto conosciuto e i suoi romanzi e racconti hanno già vinto tutti i premi letterari più prestigiosi del paese). L’avevo letto, e presto ve ne parlerò, ma non mi aveva colpito come questo. Stavolta sono stata ammaliata dalla sua scrittura e da questi due personaggi di donne che tentano di costruirsi un Io, un’indipendenza d’animo rispetto ai doveri e alla società che le circonda.
Un romanzo in cui mi sono ritrovata molto, ma se volete saperne di più trovate la recensione completa su Penne d’Oriente. Buona lettura!
Penne del Sol Levante - Una perfetta stanza di ospedale di Yoko Ogawa
Buon fine settimana affezionati lettori della rubrica Penne del Sol Levante! Oggi vi propongo una breve raccolta di racconti dell’autrice Yoko Ogawa. Come forse già saprete è la mia scrittrice preferita e ho ritrovato in questa magnifica antologia il suo stile caratteristico e i temi a lei più cari.
Il libro comprende due racconti brevi: Una perfetta stanza di ospedale e Quando la farfalla si sbriciolò. Nel primo, una donna si riavvicina al fratello malato, passando con lui tutto il suo tempo libero, nella stanza dell’ospedale universitario dov’é ricoverato. I due sono molto legati fin da bambini e hanno avuto un’infanzia difficile a causa dei problemi mentali della madre, ormai defunta. La protagonista ammira la perfezione della camera in cui il fratello giace a letto e mangia uva, l’unico alimento che il suo corpo ormai accetta. Pare quasi che tanto la stanza appare intonsa, lucente, pulita e perfetta, tanto più il ragazzo si consumi velocemente, ammalandosi sempre di più. Quasi che nella mente della donna, per sopravvivere a quel profondo dolore, lei debba veicolare la perfezione verso un oggetto inanimato e non più vederla nel corpo del fratello. Le ossessioni della donna risalgono alla sua adolescenza, al disordine e allo spreco di cibo che regnavano nella sua casa, da quando la madre si era ammalata. Sono queste stesse fobie a incanalare la sua visione della vita e del mondo, distorcendola.
Il secondo racconto narra la vicenda di Nanako, che si trova costretta a portare sua nonna Sae in un ospizio. La donna è ormai immobile nel letto, non si alza più e non vuole mangiare, per questo motivo, in cerca d’aiuto, la ragazza decide di affidarla a una casa di riposo. Quando ritorna a casa, però, l’assenza è straziante e lei si sente svuotata di tutto, confusa e incapace di distinguere quella nuova realtà solitaria dalla pazzia.
La scrittura di Yoko Ogawa ci dona due scorci di donne incredibili. Le descrizioni minuziose, accattivanti, morbose rendono questa raccolta simbolica dell’intera produzione letteraria dell’autrice. Se volete saperne di più su di lei, vi lascio alla recensione su Penne d’Oriente. Buona lettura!
Lo Shintō - La religione autoctona del Giappone
Le origini dello Shintō
Considerata la religione nativa del Giappone, le origini dello Shintō si sono perse nel tempo. Sviluppatosi parallelamente al Buddhismo, una netta divisione tra i due fu data solo in epoca Meiji (1868), quando fu dichiarato religione di stato.
Lo Shintō ha un ruolo chiave all’interno dell’istituzione imperiale, come anche confermato dai classici della letteratura giapponese Kojiki (712) e Nihon Shoki (720), i quali identificano Jinmu (discendente della dea del sole Amaterasu) come il primo imperatore della nazione.
I santuari (jinja) sono i luoghi-simbolo dello Shintō e condividono caratteristiche comuni, quali avere dei portali (torii) al suo ingresso e delle corde (shimenawa) adiacenti al luogo di culto, quest’ultimo spesso circondato da un recinto di legno. Spesso i santuari si trovano al centro di ambienti naturali, come anche ai piedi o sulla cima di un monte, vicino a foreste o a cascate: questi infatti sono ritenuti essere la dimora naturale dei kami, le divinità.
In Giappone esistono circa 100,000 santuari, la maggior parte appartenenti al Jinja Honchō, un’organizzazione caritatevole con base a Tōkyō, mentre il resto sono dedicati a Inari, dio del riso, e fanno capo al santuario Fushimi Inari di Kyoto. Data la sua lunga storia, in Giappone è possibile trovare costruzioni shintoiste di epoche molte diverse tra loro: antiche come quelle di Ise e Izumo, o moderne come i santuari Meiji e Yasukuni di Tōkyō. I sacerdoti shintoisti si riconoscono per il caratteristico copricapo nero (eboshi), per gli abiti di seta bianca e per lo shaku, uno strumento in legno usato nelle cerimonie.
Sebbene quello giapponese sia un popolo che difficilmente può essere considerato “religioso” come noi intendiamo, la maggioranza di esso partecipa regolarmente agli eventi dei santuari. La credenza fondamentale è che il kami, richiamato per mezzo della corretta procedura, possa garantire i suoi favori al praticante a prescindere dalla particolare identità o provenienza di quest’ultimo. Le richieste alle divinità spaziano dall’aver successo negli esami, alla guarigione da malattie, alla longevità, alla prosperità di un’attività commerciale, ad un felice matrimonio ecc.
Ogni santuario ha i suoi giorni di festa (matsuri) ma certi eventi, a cui ogni anno moltissimi giapponesi prendono parte, accomunano il calendario rituale shintoista: l’inizio del nuovo anno; la festa delle bambole (hinomatsuri) il 5 Marzo; il giorno dei bambini (tango no sekku) il 5 Maggio; le feste Tanabata e Bon a Luglio e il festival del raccolto autunnale. Allo stesso modo, la venuta al mondo di un neonato, le speciali cerimonie di Novembre per i bambini di tre, cinque e sette anni, come anche la festa per la maggiore età (seijin no hi) e i matrimoni, offrono altre occasioni per praticare lo Shinto.
Nell’entrare in un santuario shintoista ci si attiene a un certo rituale di purificazione psico-fisica che comincia dal padiglione dell’acqua (temizuya). Simbolicamente, ci si lavano le mani e la bocca prima di accedere all’altare. Quì ci si inchina, si battono le mani e si prega, dopodiché si procede col fare un’offerta e suonare la campana (suzu) per richiamare su di sé l’attenzione della divinità.
Penne del Sol Levante - Sei Quattro di Hideo Yokoyama
Buon weekend lettori, bentornati alla nostra rubrica letteraria. Oggi vi parlo di un giallo poliziesco molto particolare, uscito in Italia l’anno scorso, Sei Quattro di Hideo Yokoyama.
Tutto ruota intorno alla figura del poliziotto Mikami, assegnato alla sezione dedicata ai rapporti con i giornalisti. Proveniente dal reparto investigativo veste malamente i panni di addetto stampa, si sente declassato e sogna di poter ritornare al suo vecchio incarico. Nel frattempo, ad esacerbare la situazione, si creano situazioni spiacevoli con i giornalisti e Mikami viene coinvolto, suo malgrado, in un caso del tutto particolare.
Il capo della Polizia, infatti, sta organizzando una visita in città per incontrare Amamiya Yoshio, testimone di un vecchio caso risalente a quattordici anni prima. Il rapimento di sua figlia, una bambina di sette anni di nome Shoko, rimasto insoluto dopo che il rapitore era riuscito a prelevare il riscatto. Il cadavere della bimba era stato ritrovato poche ore più tardi e la polizia non possedeva alcun indizio per individuare il colpevole. Per la famiglia era stato un colpo senza ritorno.
Quando Mikami si reca dall’uomo per organizzare l’incontro con il capo della Polizia, Amamiya Yoshio gli dice che non c’è alcun bisogno di farlo. Si evince chiaramente che è successo qualcosa ai tempi del rapimento finito male, cosa si nasconde nei rapporti dei poliziotti della squadra mobile che si occupavano del caso? Qualcuno sta nascondendo qualcosa, ma cosa? Chi ne è responsabile? E perché sembra ci sia un altro poliziotto che indaga e precede il protagonista presso tutti i testimoni?
A questa situazione d’incertezza e confusione si aggiunge la scomparsa improvvisa della figlia di Mikami, Ayumi, un’adolescente problematica sparita nel nulla senza lasciare traccia. I poliziotti di tutto il Giappone la stanno cercando senza sosta, senza successo. Le telefonate mute che ricevono i coniugi Mikami turbano le loro nottate e condizionano ogni azione alla luce del sole. E' Ayumi che chiama? Perché non parla? Dove si trova?
Ci troviamo di fronte a un romanzo giallo-poliziesco sui generis, dalla trama fitta e intimistica. Sono le riflessioni personali del protagonista ad accompagnarci per tutta la storia, piuttosto che le classiche indagini poliziesche. Se volete saperne di più venite a leggere la recensione completa su Penne d’Oriente. Buona lettura!