Penne del Sol Levante - Il violoncellista Goshu e altri racconti
Benvenuti alla rubrica settimanale Penne del Sol Levante, oggi parliamo dell’autore classico Miyazawa Kenji e della sua raccolta di racconti.
Famoso per le sue storie dedicati ai bambini, ne ritroviamo alcune in questo libro. Ne Il violoncellista Goshu facciamo la conoscenza di un suonatore di violoncello, appunto, che suona nell’orchestra del paese. Purtroppo è negato a suonare e tutti lo deridono, tenendolo in disparte. Una sera,, tornato a casa dopo le prove, Goshu prosegue ad esercitarsi per ore e ore con l’intento di migliorarsi il più possibile. I suoi tentativi verranno però interrotti ripetutamente, notte dopo notte e da individui davvero inaspettati. La prima notte sarà la volta di un gatto maculato, poi di un cuculo, di un cucciolo di procione e infine di un topino di campagna. Tutti questi animali richiedono a Goshu, in un modo o nell’altro, di suonare per loro che sono grandi amanti del suo violoncello. Il finale inaspettato fa sorridere e per i bambini è una favola dal finale lieto.
Le altre due storie, Il bosco del Parco Kenju e Il generale della guardia del Nord e i tre fratelli medici raccontano rispettivamente di un bambino e di un importante soldato. Nel primo scritto conosciamo il piccolo Kenju che vuole a tutti i costi piantare centinaia di piantine di cedro nel parco sgombro vicino alla sua casa, in aperta campagna. La sua forza d’animo e il suo impegno verranno ripagati nel corso del tempo e anche decenni più tardi quel bosco rimarrà nel cuore di molti. L’ultimo testo, invece, ci narra l’arrivo nella città di Rayu di un grande generale. Questi, però, ha un grosso problema da risolvere: infatti non riesce più a scendere dal suo cavallo e per questo motivo cerca disperatamente l’ausilio di un dottore. Ne troverà ben tre ad aiutarlo!
Mirabile particolarità delle edizioni La Vita Felice è il testo giapponese a fronte, per i fortunati che leggono questa lingua il testo sarà doppiamente soddisfacente. Per saperne di più su questa raccolta (non solo di favole, ma anche di poesie) venite su Penne d’Oriente. Grazie e vi auguro una buona lettura per tutta la settimana!
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Kyōgen, l’antica farsa giapponese – scuole, teorie e addestramenti
Secondo articolo di approfondimento sul mondo del kyōgen, l'antica farsa giapponese. Dopo aver dato dei cenni storici di quest'antica arte performativa, questa volta analizzerò le scuole di questa arte tradizionale, le teorie di recitazione e le tecniche di addestramento.
Il processo di formazione del kyōgen come lo conosciamo oggi, era quasi completo verso la fine del periodo Muromachi (1392-1573), tuttavia raggiunse una struttura immobile e stabile durante il regime Tokugawa (1600-1867), con la standardizzazione dei testi.
Tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo si formarono le tre principali scuole di kyōgen: Ōkura 大蔵, Sagi 鷺 (ora scomparsa) e Izumi和泉. Originate da attori collegati al sarugaku e al dengaku della provincia di Omi 臣, spesso in competizione tra loro, furono portatrici di un professionismo attento e consolidarono la loro posizione di preminenza per un lungo periodo.
Durante il regime Tokugawa, il kyōgen raggiunse una condizione di stabilità, passando dalla pratica dell’improvvisazione su un canovaccio, ancora in uso nella prima decade del periodo Tokugawa, all’abitudine di servirsi di un testo fissato. Dopo di ciò, invalse pure l’abitudine di seguire una coreografia fissa di movimenti e di schemi di azioni. Tuttavia c’era più flessibilità del nō, per la natura più realistica del dialogo e per la necessità, tra la feroce competizione delle scuole, di mantenere un fresco ed originale senso dell’umorismo.
Satira sociale e humour controllato traspaiono nei rapporti dei personaggi che popolano il kyōgen, di cui l’astuto servo Tarō-kaja 太郎冠者 e il suo goffo signore feudale ne sono esempi, e dalle teorie sul kyōgen di Ōkura Toraaki大蔵虎明 (1597-1662) si evince un importante contributo per la comprensione dell’essenza del comico. Nella sua guida Waranbegusa 童子草(Note per i giovani), il libro più importante sulle teorie del kyōgen, datato al 1651, ma corretto e rivisto fino alla sua morte, Ōkura stabilì le regole della tradizione ortodossa, accettando i parametri di Zeami e riconoscendo il monomane物真似 , l’imitazione, come elemento principale del kyōgen.
Il monomane, nel caso specifico del kyōgen, era concentrato sull’uomo comune, sul mondo concreto, mantenendo sempre e comunque l’atmosfera solenne e raffinata creata dalle rappresentazioni nō che precedevano e seguivano la performance kyōgen; quindi erano bandite risate volgari e grossolane e realismi privi di gusto che avrebbero potuto offendere il pubblico nobile e colto del nōgaku. Nella teoria di Ōkura il nō rende visibile e concreto ciò che è invisibile ed astratto, mentre il kyōgen rende irreale il più concreto e reale dei mondi. Si delinea così, agli occhi degli spettatori, l’uomo comune, stilizzato e proiettato in un mondo di fantasia: trasportando sciocchi signori feudali e servitori intelligenti in un’ ‘altra’ dimensione, si scopre l’autenticità sotto il velo della beffa, purché non sia rappresentata con grossolanità e superficialità.
L’addestramento e l’estrema completa dedizione all'arte erano, e sono ancora oggi, fondamentali. La tradizione è trasmessa all'interno della famiglia, di generazione in generazione, rigorosamente fedele ai modelli 型 (kata), alla danza e ai movimenti peculiari di ogni scuola. Di padre in figlio o di nonno in nipote (come vedremo più avanti, esistono delle differenze anche per la trasmissione orale) vengono tramandati, senza mai scostarsi dalle antiche tradizioni di famiglia, modelli di eleganza controllata e stilizzata anche nelle imitazioni di ubriaconi, con minime o sostanziali differenze da scuola a scuola, ma comune a tutte è la regola di cancellare ogni traccia di oscenità e volgarità nella recitazione; per esempio, anche nel caso della rappresentazione dell’ubriacone, si indossano costumi ordinati e puliti. Inoltre, è di massima importanza l’interpretazione di una pura pantomima quanto più possibile limpida e chiara, data la mancanza di qualsiasi materiale scenico. Ad esclusione di pochi attrezzi bizzarri - un coperchio straordinariamente largo per bere litri di sake immaginario, un ventaglio per innumerevoli scopi espressivi - tutti gli altri oggetti nelle rappresentazioni non esistono, devono essere immaginati dallo spettatore, quindi l’attore deve sforzarsi con tutto se stesso nel mimare più precisamente l’oggetto da rappresentare: sia esso mimato in modo stilizzato od inscenato con onomatopeiche recitate dall'attore, l’oggetto deve prendere vita nella mente del pubblico. L’originale pantomima del kyōgen è anche una delle peculiarità che rendono questa forma di teatro altamente interessante.
Un particolare ruolo riveste poi la mimica facciale. Dato il gran numero di emozioni umane inscenate nel kyōgen, gli attori devono esprimere, a volte anche in modo stilizzato ed eccessivo, tutta la gamma di sentimenti, non solo attraverso i movimenti del corpo, ma anche con espressioni del viso, senza mai perdere di vista il gusto e l’eleganza. Al contrario gli attori dei drammi nō, nel caso debbano recitare dei ruoli senza maschera, rappresentano le emozioni dei personaggi con movimenti stilizzati o con precisi schemi di danza, senza far mai trasparire alcun sentimento dalla mimica facciale mantenendo costantemente un’espressione seria.
Al kyōgenshi serve infine una grande abilità acrobatica nell'esecuzione di ruoli di animali, interpretati soprattutto da giovani attori, ma pur sempre di notevole difficoltà perché è richiesta agilità, destrezza e predisposizione all'imitazione.
Il nuovo progetto teatrale “Italo Kyogen“, mira alla divulgazione del kyōgen classico e alla creazione di un nuovo paradigma nel panorama teatrale italiano, fondendo le strutture classiche della farsa giapponese, con testi moderni in italiano creati ad hoc e successi moderni giapponesi in traduzione, per far vivere al pubblico italiano un’esperienza quanto più immersiva nel teatro comico giapponese tradizionale.
Kyōto Monogatari - Sulla mostra di Alberto Moro
Da uno scatolone estraggo le foto e faccio nuove conoscenze. Mi saluta un ortolano con l’hachimaki in testa, circondato dai toni verdi, fucsia e brillanti delle sue bancarelle. Mi sorride un cuoco alto e smilzo che poi, negli scatti successivi, inizia la preparazione degli higashi, i dolci di zucchero usati nella cerimonia del tè, di colore rosa acceso. Inizio ad allestire la mostra e mi capitano in mano le foto all’interno del chashitsu, la casa da tè presso il museo dedicato all’artista Kansetsu Hashimoto, accanto a quelle del tempio della virtù, il Daitoku-ji, dove la stanza da tè si allinea con la disciplina della scuola Rinzai. E la disciplina ritrova le sue forme non appena tiro fuori dallo scatolone le immagini del teatro Nō, nate durante l’esibizione del maestro Tatsushige Udaka, erede di una delle più rappresentative famiglie della scuola kongō. E poi cos’altro? Con cambi di registro senza
smottamento, cui la cultura giapponese ci ha abituati, appaiono le foto scattate in un ristorante specializzato in udon. E infine abbraccio lei, Junko. Junko Sophie Okimoto, per essere precisi. Scorza fredda come la cornice, volto liscio come la superficie della carta fotografica, sorriso caldo come quando un tempo la polaroid la sputava fuori subito e fra le dita era ancora tiepida. Un tempo.
Ancora sillabo la parola ed esito come chi sta pensando una definizione, quand’ecco due ultime foto impreviste in mio aiuto. Non sono di questa mostra, ma di quella su Tōkyō, quella di novembre dell’anno scorso. Solo dopo abbiamo deciso di fare il bis e di raccontare della città di Kyōto. Le ultime due foto, però, dalla mostra passata, sono ancora in bianco e nero. I nonni del nostro attuale entusiasmo, quello che racconta della vecchia capitale giapponese attraverso il colore. E quindi, senza volerlo, un paradosso: la Tōkyō moderna, il pozzo di domani, brizzolata che sembra ricordo, letteratura noir, sembra metropoli suburbana e non ancora megalopoli, e dall’altra Kyōto, un imperatore reincarnatosi in cavalletta, distopia che dimentica la restaurazione Meiji, eppure non irreale, ma tutta presente. Che genere di storia stiamo per raccontare, allora?
La mostra Kyōto Monogatari di Alberto Moro, maggio-giugno 2018 presso il teatro Corte dei
Miracoli, in collaborazione con Giappone In Italia e l’associazione “La Taiga”, non è uno di quei monogatari (物語), e cioè “storia”, alla Genji, alla Heike. Pur negli ingredienti delle sue tradizioni – teatro Nō, cerimonia del cha-no-yu, spirito Zen – dimentica per un attimo l’epica e dai suoi due generi sommi di narrazione prende il tsukuri monogatari, le storie di finzione, e ci toglie il non verosimile conservandone la cronologia, ossia il presente attuale, e poi prende l’uta monogatari, i racconti poetici, facendo a meno della nostalgia ma salvandone il lirismo. E tutto questo per ricordarci una Kyōto che esiste ancora. Un pezzo di storia, sì, ma storia dai tempi verbali correnti, da presente storico cesariano, che a prendere l’aereo per andare a verificare non ci tradirebbe. Non storia di Kyōto, insomma, ma storia a Kyōto.
Dopo averci insegnato che Tōkyō, il colosso della varietà, ha un sottofondo monocromo che ci permette di orientare, Alberto Moro adesso ci rivela che Kyōto, sotto la pellicola dello stereotipo, pulsa ancora di colore.
Federico Filippo Fagotto
Penne del Sol Levante - Piccoli racconti di un'infinita giornata di primavera di Natsume Soseki
Buon sabato affezionati lettori della rubrica Penne del Sol Levante! Oggi parliamo di una raccolta di racconti davvero particolare e di un autore che è un simbolo della letteratura giapponese moderna, Natsume Soseki.
I venticinque scritti contenuti in questo libro, edito da Lindau, non sono uniti da un genere comune o da un vero e proprio argomento cardine; piuttosto si tratta di un leitmotiv che li attraversa tutti, aleggiando sopra storie e personaggi. L’idea è quella di una lunghissima giornata di primavera, di quelle in cui il tempo è perfetto, i raggi solari scaldano ma la brezza rinfresca e il sole sembra non tramontare mai. E’ l’uomo stesso che non vuole veder finire quel magnifico giorno, sperando che le lancette dell’orologio si blocchino per un tempo infinito. Questo è il tema fluttuante dei racconti di Soseki.
Alcuni sono narrazioni di finzione, inventate, mentre altri sono ricordi e sprazzi della vita reale dell’autore. Tra questi un buon gruppo riguarda il suo soggiorno, nel 1900 e 1901, in Inghilterra. Ci si era recato su ordine dell’Università Imperiale di Tokyo per svolgere ricerche sulla lingua inglese, che già aveva studiato e insegnato in patria. L’esperienza si rivela deludente sotto certi punti di vista, lo scrittore infatti non riesce ad adeguarsi alle abitudini di vita occidentali e non comprende fino in fondo gli inglesi e ciò che lo circonda.
I racconti che ho apprezzato di più sono Il Serpente, che narra di un giovane e di suo zio che vanno a pescare sotto una pioggia nera, incessante, vera protagonista della vicenda; il secondo è La tomba del gatto, in cui l’autore osserva impotente gli ultimi stralci di vita del suo gatto, senza rendersi conto che presto se ne andrà. Proprio quando scompare, tutti in famiglia sembrano accorgersi di lui e la sua tomba diventa il vero ricettacolo di tutte quelle attenzioni mancate.
La scrittura dell’autore è fluida e delicata, la sua particolarità è che scrive cose reali. Si ha la vivida impressione che ciò che ci racconta stia succedendo davvero, da qualche parte, in un luogo lontano ma pulsante, vivo. Tutto questo è dovuto alla straordinaria immediatezza delle sue parole e allo stile con cui riesce a legarle insieme.
Se volete saperne di più venite a leggere la recensione completa su Penne d’Oriente, buona lettura!
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Iro Iro. Il Giappone tra pop e sublime - Intervista a Giorgio Amitrano
La pubblicazione di Iro Iro – da pochi giorni in libreria – ha immediatamente suscitato nell’universo degli appassionati di Giappone un vastissimo interesse. Forse perché i saggi sul Paese del Sol Levante davvero meritevoli di attenzione non sono così frequenti. O più probabilmente per l’esperienza dell’autore, Giorgio Amitrano, sicuramente uno dei nipponisti più famosi in Italia. Da quasi 30 anni è una delle voci più apprezzate sul tema nel nostro Paese ed è grazie a lui che molti scrittori e romanzi nipponici sono conosciuti anche nel nostro Paese, in primis quelli di Murakami Haruki e Yoshimoto Banana. Grazie a De Agostini, abbiamo avuto modo di incontrarlo e di fargli alcune domande sia sul nuovo libro sia sulla sua carriera. Ci accoglie sorridente in un piccolo bar vicino a Brera, a Milano, e l'intervista si trasforma presto in una chiacchierata a ruota libera in cui le domande e le risposte si avvicendano armonicamente. Ecco la sintesi del nostro piacevole colloquio.
Esce oggi in tutte le librerie Iro Iro, un libro davvero molto atteso da migliaia di appassionati di Giappone. Può presentarlo in breve ai nostri lettori?
Il libro nasce in realtà da un'idea della casa editrice De Agostini, che mi ha proposto di pubblicare un testo sul Giappone di tono divulgativa, una cosa che non avevo mai fatto prima. Avevo scritto sul Giappone soprattutto in occasioni accademiche. Ho anche scritto un certo numero di articoli per giornali e riviste, quindi in una forma un po' più scorrevole, però non avevo mai scritto un'opera organica con questo approccio. È stata preziosa l’opportunità che mi hanno dato. All'inizio non è stato molto facile per me, proprio perché ero abituato a scrivere testi o articoli con note a pie' di pagina, rivolti a un pubblico più limitato. E poi nel farlo mi sono appassionato ed è stato bello raccontare il Giappone in questa chiave adatta a un pubblico non specialistico, una sfida appassionante e creativa.
L'idea iniziale però è nata, in realtà, molti anni fa. Nell'introduzione dice che il primo a suggerirgli di scrivere un testo del genere è stato Cesare Garboli, critico-scrittore tra i più grandi del Novecento italiano.
Per me era come un maestro. Mi aveva consigliato più volte di scrivere un libro più creativo, da scrittore e non da professore. Però non ero abituato a un approccio del genere e l'ho rimandato a lungo, per molti e molti anni. La proposta della casa editrice mi ha permesso di riprendere in mano un vecchio progetto che avevo messo in pausa. Il senso del libro per me è quello di raccontare il Giappone, senza volerlo spiegare. Non vuole essere un'introduzione al Giappone. Non vuole essere un "Japan for beginners". È un libro in cui io racconto attraverso la mia esperienza un Paese che amo molto e che mi appassiona.
Il libro è quasi una raccolta di miscellanee, una serie di impressioni sul Giappone che, come suggerisce nell'introduzione, quasi si incanala nel genere dello zuihitsu, un genere letterario giapponese in cui il pennello rincorre il flusso dei pensieri, liberamente. È così?
Il genere è quello, anche se non è mia intenzione volermi paragonare a testi che sono dei classici della letteratura giapponese. Invece il mio vuole essere un libro molto leggero, semplicemente un racconto in cui mi sono preso la libertà di passare da un argomento all'altro, seguendo il flusso dei pensieri. Come quando si chiacchiera e non c'è un tema da seguire a tutti i costi. Come quando si racconta una storia vissuta a un amico. Anche il titolo, Iro Iro (molte cose, di tutto un po'), vuole sottolineare questo.
Il sottotitolo invece è "Il Giappone tra pop e sublime" che evidenzia il rapporto particolare tra cultura tradizionale e popolare che si è creato in Giappone. Queste due componenti, una legata alle proprie radici e l'altra proiettata verso il futuro, hanno raggiunto un equilibrio perfetto, come se fossero due lati della stessa medaglia. A cosa si deve questa armonia tra le parti?
Credo che il gioco tra queste due componenti esiste in tutte le culture, solo che in Giappone è particolarmente sviluppato e funziona in maniera efficace. Forse, anche perché ha origini molto antiche. Per esempio, il Nō - forma di teatro più solenne e rituale - è inframezzato da farse Kyōgen. Anche nel Bunraku, il teatro delle marionette, o nel Kabuki c'è una continua alternanza tra elementi seri e faceti. Questo dualismo - tra alto e basso, tra drammatico e comico - è una costante della loro cultura. Quello che è molto cambiato e si è evoluto negli ultimi decenni, già a partire dal dopoguerra diciamo, è che si è sviluppata una cultura popolare molto forte, grazie all'avvento del cinema di animazione e di un certo tipo di musica. Prima erano forme contrapposte alla cultura alta, ufficiale, poi poco a poco si sono contaminate a vicenda. Un esempio emblematico in questo senso è lo stesso Murakami Haruki. Un autore di letteratura alta, che allo stesso tempo è enigmatico e popolare. Pop e sublime quindi, se si vuole usare questo termine.
Grazie alla nostra associazione vediamo spesso che questa capacità di apprezzare le due anime del Giappone in realtà nel nostro Paese manca un po'. Molti appassionati di cultura nipponica sono legati maggiormente alla cultura tradizionali e pensano che la cultura pop svilisca l'eredità culturale secolare del Giappone. Come mai?
Questo perché siamo poco portati ad aprirci alle novità. Lo stesso Murakami, che oggi riceve consensi universali, è stato visto con diffidenza per tanto tempo senza che gli venissero dedicati studi approfonditi e seri. Non è che non ci fossero libri su Murakami, anzi, ma erano per lo più scritti da sociologi o studiosi di altre letterature, ad esempio studiosi di letteratura francese e non giapponese. Nonostante abbia riscontrato da subito un grande successo commerciale, c'era molta diffidenza nei suoi confronti e si faticava a vedere la complessità e la profondità dei suoi scritti. Murakami è uno scrittore molto complesso e i suoi libri sono colmi di simboli.
Come si coniugano pop e sublime nei due autori che lei ha tradotto di più, Murakami Haruki e Yoshimoto Banana? Quale è stato il suo primo contatto con questi due scrittori?
Io ho tradotto prima Banana e poi Murakami. Il mio primo incontro con lei è stato quasi un caso. Fino a quel momento avevo sempre tradotto autori considerati classici moderni, come Kawabata Yasunari. Poi ho ricevuto Kitchen, il primo libro di Banana, che mi è piaciuto moltissimo. Ho proposto a Feltrinelli di pubblicarne una mia traduzione e così è successo. Più o meno contemporaneamente divenne famoso anche Murakami, che ottenne un grande successo con il libro che qui in Italia è stato rinominato Tokyo Blues, cioè Norwegian Wood. L'ho comprato perché in Giappone si vedeva dappertutto, senza sapere niente a proposito del libro o dell'autore, se non che stava diventando un grandissimo successo. Non molto di più. Da lì è nato il mio rapporto con Murakami, che è diventato poi uno dei miei autori preferiti e credo di aver letto quasi tutto di lui. Forse mi manca solo qualche saggio.
Quali sono i primi scrittori giapponesi che ha letto?
Il mio primo contatto con la letteratura giapponese è stato al liceo. Leggevo molto in generale, ero un lettore onnivoro. Tra le altre cose mi sono confrontato con i pochi autori giapponesi che erano allora tradotti in italiano, come Kawabata o Tanizaki. Al mio arrivo all'università, mi sono dedicato alla lettura di tutti i libri di autori nipponici su cui riuscivo a mettere le mani, che fossero in italiano o in inglese. Il primo autore a cui mi sono appassionato e che ho affrontato in maniera più sistematica è stato Nakajima Atsushi. E’ stato anche il primo che ho tradotto. Ho scritto la tesi di laurea su di lui e ho pubblicato una raccolta di racconti. Il secondo libro che ho tradotto credo sia stato quello di Banana, Kitchen, o forse Miyazawa Kenji.
Un must della letteratura giapponese? Quale può consigliare ai nostri lettori?
È difficile dirne solo uno. Tra quelli che ho tradotto io, anche se ha già avuto successo, c'è Il fucile da caccia di Inoue Yasushi". È un piccolo libro, ma è bellissimo. Un altro autore che sta avendo successo è Furukawa Hideo. È uscito di recente un suo libro edito da Sellerio intitolato Tokyo Soundtrack. Ci sono autori di gialli molto interessanti e amati. Quella giapponese è una delle letterature più ricche, più interessanti, e anche “variopinte”.
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Penne del Sol Levante - L'Impeccabile di Keigo Higashino
Buon weekend appassionati di letteratura giapponese! Oggi, nella rubrica Penne del Sol Levante, parliamo del giallista Keigo Higashino. Ho iniziato a raccontarvi di lui e del suo stile di recente, ma è uno degli autori contemporanei che apprezzo di più e ho deciso, oggi, di proporvi un altro dei suoi romanzi. Questa volta il libro, L’Impeccabile, fa parte della serie Galileo che vede come protagonisti indiscussi il detective Kusanagi e il professore scienziato Yukawa.
Tutto ha inizio con i coniugi Mashiba, Ayane e Yoshitaka. Il loro matrimonio è in frantumi, veleggia verso una fine banale e scontata quanto inevitabile. Lui infatti non concepisce il matrimonio senza figli e, visto che lei non può darglieli, decide di interrompere la loro unione. Ayane reagisce a questa presa di posizione con sgomento, curiosità e una certa indifferenza. Ben presto lo svolgimento della trama ci fa fare la conoscenza di un altro personaggio chiave della narrazione: Hiromi, giovane amica della coppia, studia presso il laboratorio artistico di Ayane ed è l’amante di Yoshitaka.
Dopo qualche tempo la signora Mashiba si reca a Sapporo per visitare la famiglia, proprio durante la sua assenza la stessa Hiromi trova il cadavere dell’amante nel salotto di casa. Era stata la stessa Ayane a lasciarle le chiavi, in caso di emergenza. La donna torna immediatamente a Tokyo, in preda allo sconforto. Il detective Kusanagi inizia ad indagare e la faccenda si rivela da subito più ingarbugliata del previsto. L’ipotesi del suicidio viene scartata, pare infatti che ci siano tracce di veleno nel sangue di Yoshitaka. La prima sospettata è Hiromi, ma ben presto e dopo averla conosciuta meglio Kusanagi la elimina subito dalla lista; al contempo la moglie della vittima era lontana centinaia di chilometri, il mistero sembra senza risoluzione.
Almeno finché non interverranno le ipotesi scientifiche e i suggerimenti originali dell’amico fidato e onnipresente del poliziotto, il professor Yukawa… ma se volete saperne di più venite a leggere la recensione completa su Penne d’Oriente! Buona lettura amici a voi!
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Kyōgen, l'antica farsa giapponese - cenni storici
Il significato di kyōgen
Il termine kyōgen 狂言 è solitamente tradotto come ‘parole folli’ ed è composto dal carattere 狂 [kyō] che vuol dire ‘pazzo’ e dal carattere 言 [gen] che significa ‘parole’; altri studi propongono invece il significato di ‘essere ubriaco di parole’, sottolineando l’importanza del dialogo nell'ambito della dinamica teatrale.
Kyōgen, attualmente, indica una forma comica del teatro tradizionale giapponese che, da circa seicento anni, è stata tramandata per generazioni. Infatti, dal secondo dopoguerra, il kyōgen ha sviluppato una nuova consapevolezza della sua importanza ed unicità come genere di teatro classico ed ha proseguito il suo percorso in maniera autonoma dal teatro nō能, con nuovi studi ed esperimenti, spettacoli originali ed insegnamenti all'estero.
Ben più antico del teatro kabuki o bunraku, il kyōgen in origine era nato parallelamente al teatro nō ed era eseguito fra le diverse rappresentazioni previste in un programma nō come intervallo comico tra drammi. L’insieme delle due forme del teatro tradizionale è definito nōgaku 能楽 ed ancora oggi è possibile che in un programma nō siano eseguite entrambe.
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Dai contenuti semplici, il kyōgen inscena comuni situazioni umane usando il linguaggio popolare, ma lo fa tramite movimenti e schemi vocali altamente complessi, organizzati, strutturati e minuziosamente stilizzati. In questa forma di teatro non ci sono significati simbolici o esoterici e i copioni stessi sono sufficienti per una piena comprensione delle profonde sfumature delle commedie. Tema tipico del kyōgen è l’uomo comune e le sue relazioni con l’ambiente che lo circonda; l’uomo della strada che, nelle situazioni di tutti i giorni, agisce proprio nel modo in cui ognuno di noi vorrebbe comportarsi, scevro da doveri e costrizioni sociali.
I personaggi del kyōgen si muovono in un contesto storico inquadrabile nel periodo Muromachi室町, ma il loro spirito è universale, atemporale, non legato a luoghi specifici, ossia in grado di trasmettere emozioni e sensazioni condivisibili dallo spettatore di qualunque epoca e di qualsivoglia luogo, senza distinzioni di sorta.
In ciò risiede forse la forza del kyōgen, il motivo per cui l’anima di questo teatro è rimasta pura ed intatta e tale rimarrà per lungo tempo a venire.
Il kyōgen nei secoli: cenni storici
Per conoscere le origini del kyōgen dobbiamo risalire al sarugaku 猿楽, versione giapponese delle varie arti performative importate dalla Cina e conosciute col nome di sangaku 散楽. Il sarugaku divenne una forma a se stante di teatro durante la metà del periodo Heian平安 (794-1185), quando la famiglia Fujiwara 藤原 era al culmine del suo potere alla Corte Imperiale. Le sue numerose tipologie di performance sono catalogate nello Shin sarugaku ki 新猿楽記 (Cronache del nuovo sarugaku), scritto intorno al 1060 da Fujiwara no Akihira 藤原明衡 (989-1066), il quale descrive spettacoli così divertenti da far “slogare le mascelle” di tutti gli spettatori. Anche nel Genpei seisui ki源平盛衰記 (Cronache dell’ascesa e della caduta dei clan Genji e Heike), scritto intorno al 1300, il sarugaku era descritto come un tipo di teatro dove le frasi comiche erano recitate costantemente per far ridere la gente. Fino a questo periodo, quindi, il sarugaku rimaneva uno spettacolo divertente e comico interpretato per tutta la popolazione senza avere la pretesa di rappresentare tematiche auliche.
Durante il periodo Kamakura 鎌倉 (1185-1336), poi, il sarugaku si divise in due arti, conosciute come ‘l’arte principale’ e ‘l’arte raffinata’. La prima, mantenendo lo humour originale del sarugaku, amalgamato con gli spettacoli tenuti durante le festività Scintoiste, il sanbasō 三番叟 e il dengaku 田楽, e sottoposta a processi d’alterazione e razionalizzazione, divenne ciò che noi oggi conosciamo come kyōgen; l’altra, con canto e danza come suoi fondamenti più importanti e temi tragici presi dalla storia e dalle leggende come suoi materiali principali, divenne il nō. In questo modo nacquero due forme di teatro così diverse, ma in fondo così correlate.
Nel suo Kyōgen no michi 狂言の道(La via del kyōgen), Nomura Manzō 野村万蔵 scrive:
L’alto gusto raffinato dell’audience medievale chiedeva una separazione organica dei vari aspetti del sarugaku; musica e danza da una parte, mimica e umorismo dall'altra, declamarono la nascita di queste arti ‘gemelle’: il nō e il kyōgen. Se immaginiamo di vedere questi gemelli come dei colori, saranno così diversi da sembrare il rosso e il bianco, fino al più profondo aspetto delle loro differenze strutturali di simbolismi e semplicità, ed in questo modo non saranno mai scambiati l’uno con l’altro. Ma quando la personalità yin del nō e la personalità yang del kyōgen sono messe fianco a fianco, l’effetto di mutuo riflesso produrrà un’armonia sublime.
Molti studiosi sono spesso riluttanti nel definire precisamente l’anzianità tra queste arti gemelle. In ogni caso, se consideriamo l’idea comune che il lavoro di teorizzazione e sistematizzazione del nō è stato attuato dal gruppo padre-figlio di Kan’ami 観阿弥 e Zeami 世阿弥 tra il 1320 e il 1420, dobbiamo anche notare che il monaco Genei (1269-1350), conosciuto come il primo commediografo kyōgen ed autore di cinquantanove delle commedie dell’odierno repertorio, morì quando Kan’ami e Zeami cominciarono appena i loro lavori. Nel suo Shūdōsho 習道書 (Scritti sulla Via dell’insegnamento), scritto nel 1430, Zeami stesso parla “degli alti risultati ottenuti dall’attore kyōgen del passato conosciuto come Tsuchidayu”. Tali prove indicano che il kyōgen raggiunse un apprezzabile livello di perfezione artistica nel periodo precedente a Zeami e alla sua creazione del nō come la sublime arte che conosciamo oggi.
Il nuovo progetto teatrale "Italo Kyogen", mira alla divulgazione del kyōgen classico e alla creazione di un nuovo paradigma nel panorama teatrale italiano, fondendo le strutture classiche della farsa giapponese, con testi moderni in italiano creati ad hoc e successi moderni giapponesi in traduzione, per far vivere al pubblico italiano un’esperienza quanto più immersiva nel teatro comico giapponese tradizionale.
Penne del Sol Levante - Il Paese dei Desideri di Hara Tamiki
Benvenuti alla rubrica Penne del Sol Levante, dove parliamo di libri, scrittori e letteratura nipponica. L’argomento di oggi sarà una raccolta di racconti molto particolari, Il Paese dei desideri di Hara Tamiki, il massimo esponente della letteratura atomica.
Testimone diretto dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto del 1945, questo autore ha cercato a lungo di risolvere le questioni morali relative alle conseguenze tragiche di quell’evento attraverso i suoi scritti, profondi e intimistici. Alle riflessioni sul quel giorno d’agosto si intrecciano, con impeto, quelle legate al dolore per la morte della moglie tanto amata, risalente a qualche mese prima. Questi due sono i cardini attorno a cui vengono costruiti questi racconti, di non semplice lettura. Servono infatti attenzione, pazienza, concentrazione e umiltà per affrontare la mente di Hara Tamiki.
I cinque scritti che ci propone (Labbra di fuoco, Sulle rive di una morte meravigliosa, Requiem, Il Paese dei desideri, Verde infinito) narrano di uomini persi, con mogli in fin di vita, circondati da figure senza contorni precisi, devastati dal dolore e dalla mancata comprensione del genere umano. Sono tantissime le domande che si accavallano nella narrazione inflessibile e ininterrotta di Tamiki: il mondo proseguirà nonostante la disumanità di eventi così tragici? Cosa sono gli uomini? Cosa significa sopravvivere? E’ davvero possibile farlo? Il mondo merita di andare avanti? Come si fa a sperare nel futuro, lasciandosi tutto alle spalle? Cos’è l’umanità? Come possono coesistere nel mondo bellezza e distruzione?
Questi interrogativi coinvolsero la coscienza e la mente di Tamiki davvero in profondità e lo tormentarono per tutto il resto della sua vita dopo la bomba, sino al suicidio nel 1951. Tentò in tutti i modi di rispondere a queste domande attraverso i suoi scritti e fu uno dei più grandi esaminatori della situazione dei sopravvissuti e della questione morale insita nello sgancio della bomba nel 1945. Questo libro è una prova tangibile dell’incoscienza dell’essere umano, e del suo naturale bisogno di comprendere.
Se volete saperne di più venite a leggere la recensione completa sul blog Penne d’Oriente. Buona giornata lettori!
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Il libro del ramen: Intervista a Stefania Viti
Abbiamo incontrato Stefania Viti, giornalista ed esperta di Giappone contemporaneo, per parlare del suo ultimo successo editoriale Il libro del ramen pubblicato da Gribaudo-Feltrinelli.
Come nasce l’idea di scrivere un libro sul ramen?
L’idea nasce all’interno di un percorso che sto facendo insieme alla casa editrice Gribaudo-Feltrinelli avviato nel 2013. Per Feltrinelli ho curato il volume Il Sushi, uscito nella collana Real Cinema insieme al DVD Jiro e l’arte del sushi, nel 2015 con Gribaudo ho pubblicato L’arte del sushi, edizione ampliata, aggiornata e illustrata del primo volume e nel 2016 ho chiuso questa trilogia con Il sushi tradizionale. Ora abbiamo deciso di approfondire un altro piatto simbolo della cucina giapponese, il ramen, che in questo periodo sta godendo di grande popolarità, prova ne è anche il fatto che questo libro, uscito nel novembre 2017, già nel febbraio 2018 è andato in ristampa!
Com’è strutturato il libro?
Il libro segue quella che mi piacerebbe diventasse la mia cifra stilistica di raccontare la cultura giapponese. Nei miei libri c’è infatti sempre molta cultura, che diventa la chiave di lettura per raccontare un paese. La prima parte introduce la storia del ramen e le curiosità a essa legate. Il ramen è un piatto declinato localmente, per questo numerose pagine sono dedicate alla geografia di questo piatto e dunque alla scoperta delle varie regioni del Giappone. Il libro porta così a scoprire un intero Paese e il ramen è una sorta di filo rosso di tutto il viaggio. Anche se in modo diverso rispetto al sushi, anche quella del ramen è una ricetta molto complessa. Ho inserito quindi una parte propedeutica che introduce gli ingredienti di base, per proseguire con una seconda parte riservata alle ricette di base per fare i brodi. Nella terza parte si arriva presento i piatti realizzati dagli chef di alcuni famosissimi ristoranti giapponesi. Il libro si avvale della collaborazione di Ramen Expo, uno dei maggiori eventi dedicati al ramen in Giappone, che qui presenta numerose ricette originali. A queste si aggiungono altre ricette di tre Ramenya (ristoranti specializzati in ramen) italiane, che propongono, ciascuna, un tipo diverso di ramen.
Racconti di come il ramen rappresenti “il Giappone in una ciotola” e ogni zona o regione del paese siano caratterizzate da una particolare ricetta. Quali sono le preparazioni di base e quali le specialità?
La preparazione del ramen non ha delle regole fisse, ma esistono quattro tipologie classiche di brodi: il miso ramen, lo shio (sale) ramen, lo shōyu (soia) ramen e il tonkotsu ramen (fatto con le ossa di maiale). Il ramen è così raccontato attraverso il suo brodo. Col tempo queste tipologie si sono mescolate, contaminate. Nella parte delle ricette dei ristoranti giapponesi molte vanno sotto l’etichetta di “Brodi misti”, perché ottenuti dalla mescolanza di vari tipi di brodo. Per esempio, nelle ricette di Casa Ramen si arriva alla completezza del brodo mescolandone tre diversi tipi.
Esiste un vero e proprio galateo del ramen. Hai qualche aneddoto in merito?
Il galateo del ramen procede al contrario rispetto al nostro. Uno degli aspetti più curiosi è il fatto che i popoli asiatici quando mangiano la pasta lunga fanno rumore, sia come segno di apprezzamento, sia per favorire il raffreddamento della pietanza. Questo non è visto come una cosa sconveniente o maleducata, anzi… Un’altra “regola” è che prima di iniziare a mangiare si assaggi il brodo. Solo dopo si va a “distruggere” l’armonia di colori e forme. Il brodo dà il timbro del gusto, da esso si capisce la qualità del piatto.
Nel libro ti soffermi sul legame tra ramen, letteratura, cinema e manga. Com’è diventato così popolare questo piatto?
In Giappone il ramen è sempre stato un piatto popolare, ma davvero nel senso etimologico del termine: un piatto per il popolo. Nonostante sia un piatto ricco di ingredienti, sostanzioso, completo, mantiene un prezzo abbordabile. Caratteristica che per il sushi non è sempre vera, dato che esistono sushiya molto care ma anche i kaitenzushi dove il sushi è ancora a buon prezzo. Il sushi è nato come cibo di strada, ma con la Seconda Guerra Mondiale è diventato un cibo di élite, mangiato di nascosto, anche perché non c’era il riso. Parlo del sushi perché è sempre stato una sorta di “antagonista” del ramen. Il sushi è diventato un simbolo alto, raffinato, portatore di un’estetica zen, della filosofia del “less is more”. Negli anni Ottanta ha fatto proseliti nella cultura culinaria internazionale, mentre il ramen è rimasto nei confini del Giappone. Negli anni Ottanta e Novanta l’immagine delle pentole di ramen non si confaceva all’immagine internazionale del Giappone che si stava diffondendo. Il ramen è però rimasto presente in tutta la cultura underground, nei manga, negli anime (Doraemon per esempio mangia i ramen). Poi è arrivato Jūzō Itami con il film Tampopo che nel 1985 ha segnato una riscoperta del ramen. Jūzō fa una specie di “spaghetti western” ambientato in una locanda di ramen. Il ramen diventa simbolo di un Giappone autentico da difendere dall’assalto della controparte occidentale. Il nemico è rappresentato simbolicamente dagli “spaghetti” appartenenti a una cultura lontana. L’Occidente è in quel momento un mondo poco definito per il Giappone tanto che la scena degli spaghetti è girata in un ristorante francese. Il film comunque più che la storia delle gang locali racconta l’artigianalità del ramen, la sua preparazione e l’esperienza della degustazione. Nel 1988 Yoshimoto Banana in Kitchen fa diventare il ramen il fulcro del racconto, un’esperienza quasi spirituale. Per arrivare al boom di oggi fino al boom di oggi grazie anche all’azione di promozione e valorizzazione portata avanti dai primi anni 2000 da Food Japan.
Come è stato accolto il ramen in Italia?
Oggi è accolto benissimo! Addirittura diverse testate giapponesi mi hanno intervistata proprio per capire come io vedessi successo e diffusione di questo piatto nel nostro Paese. D’altra parte da noi è già ben radicata la cultura della pasta lunga. Inoltre, il ramen è un piatto molto più facile da mangiare rispetto al sushi perché non c’è il pesce crudo.
Chi sono i più importanti chef di Ramenya in Italia? Come hai sviluppato la collaborazione con alcuni di loro per il libro?
Il libro non vuole essere una guida, non illustra un panorama generale. Ho scelto tre diversi chef i cui ristoranti propongono tre diverse tipologie di ramen: Misoya perché fa ramen al miso, Casa Ramen per il tonkotsu, Niko Niko Ramen & Sake fa shio ramen. Sono storie e varietà differenti, non si sovrappongono tra loro.
Dopo il sushi e il ramen, continuerai in questo percorso di promozione e valorizzazione in Italia della cucina giapponese?
Sì certo. Stiamo già lavorando ai prossimi argomenti da trattare. Se il pubblico continua a seguirci proseguiremo sicuramente: c’è ancora tanto da dire e da raccontare! È importante avere testi in Italia che non siano semplici traduzioni da altre lingue. È il momento giusto perché gli studiosi italiani possano essere valorizzati. L’Italia è molto sensibile all’arte culinaria. Abbiamo specialità, nicchie, eccellenze. Noi italiani possiamo essere quelli giusti per raccontare una cucina e una cultura culinaria così sofisticate, come quelle del Giappone. E poi, magari, saranno i nostri libri a essere tradotti!
Parli tanto di cucina nei tuoi libri, ma tu sai cucinare?
In realtà cucino poco… O non cucino affatto. Però mi piace mangiare! Il mestiere degli chef è quello di fare cose buone, il nostro mestiere – di giornalisti e scrittori - è quello di saperle riconoscere e raccontare. Credo il mio compito sia proprio quello di raccontare le ricette e contestualizzare la cultura gastronomica di cui si parla: operazione che ritengo estremamente necessaria quando parliamo di paesi, piatti e culture molto distanti e diverse dalle nostre. Quindi, lasciamo cucinare i cuochi e lasciamo scrivere gli scrittori!
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Penne del Sol Levante - Il segreto del lago di Keigo Higashino
Benvenuti alla rubrica settimanale di Penne del Sol Levante, oggi vi presento il maestro del thriller giapponese Keigo Higashino. Il suo romanzo Il segreto del lago ci trasporta in una situazione davvero particolare. Tutto inizia con quattro coppie di genitori apprensivi che decidono di passare l’estate in una villa sul lago, per permettere ai figli di studiare e prepararsi adeguatamente agli esami d’ammissione alla scuola superiore. Con loro c’è anche un insegnante privato che seguirà le lezioni giornaliere. La storia si svolge sulla riva del lago Himegami.
La villa, appartenente a una delle famiglie, è permeata da subito dall’ansia dei genitori per il successo dei figli e per le preoccupazioni dovute a un loro eventuale fallimento. L’intera vita professionale e il futuro di questi ragazzi sembrano dipendere dall’inserimento in una prestigiosissima scuola cittadina. Ogni conversazione e ogni pensiero ruotano intorno a questo grande evento, atteso sul finire della stagione estiva. C’è solo una persona a cui tutto ciò non interessa per nulla: Shunsuke Namiki.
L’uomo infatti è deciso a lasciare la moglie per la giovane segretaria con cui ha una relazione affettiva. Quando la donna si presenta alla villa con il pretesto di portargli documenti di lavoro che aveva dimenticato in ufficio l’uomo ne rimane profondamente sconvolto ed è assai imbarazzato. Decide così di darle appuntamento in un hotel poco distante dal lago, così da liberarsi della presenza ingombrante della moglie, dei ragazzi e degli altri genitori. Con una scusa lascia la villa e la raggiunge, ma quando arriva di lei non c’è traccia. Sconfortato, ritorna dalla compagnia e piomba in un incubo inaspettato: il corpo della sua amante giace sul pavimento della camera da letto ed è proprio sua moglie a confessare di averla uccisa. A questa situazione estrema e paradossale si aggiunge il comportamento anomalo delle altre coppie, tutti sono decisi ad aiutare la donna e dimenticarsi del tremendo misfatto. Com’è possibile? Shunsuke si ritrova inghiottito nelle tenebre più oscure e districarsene non sarà facile.
Lo stile di questo autore è semplice, con frasi che vanno dritte al punto, descrizioni ben dosate e non ci fa mancare i momenti di suspence. Una scrittura molto piacevole, voltiamo pagina senza neanche accorgercene.
Se volete saperne di più venite a leggere la recensione completa su Penne d’Oriente! Buona lettura a tutti.