GLI AINU DEL GIAPPONE – VIII. LA RIVITALIZZAZIONE DELLE ARTI
A seguito della Restaurazione Meiji e, dopo un periodo di negazione della cultura tradizionale Ainu da parte del governo giapponese si assistette ad un passaggio di considerazione degli Ainu che attribuiva loro un nuovo significato. Divenuti un arricchimento della cultura maggioritaria, si assistette alla ripresa delle diverse pratiche tradizionali Ainu come il tatuaggio, la danza, la lingua.
Quando si parla di cultura tradizionale Ainu, e più precisamente alle arti, si fa riferimento alla danza, alla musica e all’artigianato. Ed è proprio dalle loro forme originarie che voglio partire, per poter comprendere come sono state recuperate e riproposte nella contemporaneità.
Partendo dalla danza, una forma tradizionale era detta Upopo, in cui protagoniste erano le donne, sedute in cerchio, che per accompagnarsi si davano ritmicamente dei colpi sul petto, mentre in coro si elevavano voci intrise di tradizione Ainu. In realtà esso era una sorta di introduzione ai vari balli per rompere il ghiaccio e riscaldare l'atmosfera. Oltre all’Upopo, esisteva anche una variante detta Rimse che vedeva i partecipanti invece in piedi. Originariamente si riferiva ad una combinazione di balli e canti, derivata da una parata di ballo. Oltre al Rimse dell’emush, accompagnato da grida coraggiose, poiché era la danza di intimidazione degli dèi malvagi, ne esistevano altri tipi che avevano per tema gli animali, ed erano caratterizzati dai relativi suoni onomatopeici, come il Chikapne di Hararki con il tema dell'uccello; il Chironnup con il tema della volpe; il Fumperimse con il tema della balena. Quest’ultimo cominciava con una scena in cui una donna anziana trovava una balena indebolita, la notizia presto si diffondeva fra gli abitanti del villaggio, che accorrevano dando così il via alla rappresentazione. Pare che per realizzare i desideri, gli abitanti del villaggio effettuassero questa magica danza. Altro tipo di rappresentazione era il tapkar che vedeva la sola presenza degli uomini nel battere lentamente i piedi a terra. Queste accennate, sono però solo alcuni esempi. La danza tradizionale Ainu è stata riconosciuta nel 1984 come patrimonio dell’umanità.
Attualmente i villaggi turistici sono le porte di accesso alle rappresentazioni di danza tradizionale. Se lo studioso storce il naso, il turista sarà ben lieto di aver potuto assistere ad una emozionante rappresentazione indigena.
In questi centri, le rappresentazioni a cui possiamo assistere sono il risultato della difficile ricostruzione di un mondo che senza dubbio ha subito modificazioni di varia natura, confrontandosi di volta in volta con le diverse fasi storiche. Sebbene il villaggio “Poroto Kotan” è attualmente chiuso per i lavori di riqualifica e di realizzazione del nuovo progetto museale e parco tematico, la cui apertura è prevista per il 29 maggio del 2020, è possibile ancora continuare ad assistere agli spettacoli nel villaggio Akan Kotan per esempio.
Tra gli spettacoli quello dal titolo “Lost Kamuy”, improntato sulla simbiosi tra gli Ainu e il lupo dell’Hokkaidō, portato in scena a partire dal 19 marzo 2019. Si tratta di un vero e proprio spettacolo per il quale è stata studiata appositamente una commistione tra musica tradizionale Ainu e musica moderna non Ainu, tra danza tradizionale Ainu e danza contemporanea non Ainu. Rimanendo sempre in tema di danza, un altro spettacolo denominato “Traditional dances”, mostra proprio le danze tradizionali della durata di qualche minuto e precedute da una voce narrante che spiega il significato di ciascuna danza. Altro spettacolo ancora è lo “Iomante Fire Festival”, che segna la ripresa dell’antico rituale dell’orso. Per quel che riguarda gli spettacoli esterni al teatro “Ikor”, dall’ultima settimana di gennaio, fino al mese di marzo, il lago Akan si trasforma in un palcoscenico singolare durante il Festival del ghiaccio, che offre ogni sera una dimostrazione sotto un cielo di fuochi d'artificio. Un’altra occasione di vivere un’esperienza dal sapore Ainu è detta “Kamuy Lumina”. Non si tratta di uno spettacolo, ma di una passeggiata nella foresta durante la quale è possibile sperimentare il contatto con la natura e il riconnettersi con le divinità. A ricordare questo impegno c’è la grande scultura del gufo che osserva gli uomini e protegge il villaggio Akan. Inoltre, sono molteplici le attività che si possono svolgere all’Akan Kotan durante l’anno, come le lezioni di ricamo, di intarsio del legno, di musica tradizionale, di letture di storie Ainu.
Una sezione del teatro “Ikor”, presso il villaggio “Akan Kotan”, Kushiro. Foto dell’autrice.
Passando alla musica e partendo da quella tradizionale, tra gli strumenti utilizzati vi era una sorta di cannuccia-fischietto (wakka-kukutu o chi-rekte-kuttar), un corno di corteccia (kosa-bue), un tamburo (kaco) utile per accompagnare i canti sciamanici, una sorta di cetra a cinque corde (tonkori) e una specie di arpa ebraica (mukkuri).
Strumenti musicali e musica sono stati utilizzati come forme espressive per inviare questo o quell’altro messaggio. Ecco allora la nascita di alcuni gruppi musicali, primo fra tutti quello denominato “Ainu Rebels”, gruppo che mescolava musica tradizionale, danza tradizionale, con elementi hip-hop. Dall’anno della sua formazione, il 2006, il gruppo musicale è rimasto attivo fino al 2010 e, contava fino a 15 membri. A capo vi era Mina Sakai, di origine Ainu, la quale ha spiegato che ha voluto tale formazione musicale per rivendicare l'orgoglio nella sua eredità, essere un esempio e incoraggiare gli altri a fare lo stesso. Il gruppo si è concentrato principalmente su musica dal vivo e spettacoli di danza. La stessa cantante, nel 2011 da il via ad un altro progetto dal titolo “Imeruat”. Si tratta di un duo musicale composto da lei e dal pianista Masashi Hamauzu. Se volessimo descriverne il genere, sarebbe meglio dire che si tratta di un mix tra Alternative, Pop, Progressive, Elettronica, World music, Rock, Etnica, Ainu, Classica. Mina utilizza nel canto tre lingue; Ainu, giapponese e inglese. Un altro gruppo musicale a cui possiamo far riferimento e l’ “Oki Dub Ainu Band”, con il cantante e musicista Oki Kano. Solista e membro del gruppo musicale, il suo è un approccio alla musica di tipo contemporaneo, miscelando vari generi musicali come il Reggae, l’elettronica con melodie folk Ainu, ha ricevuto non solo elogi in Giappone, ma anche in tutto il mondo, divenendo il maggior musicista di “tonkori” vivente. Un gruppo tutto al femminile è quello delle “Marewrew”, attivo sul tema della riproduzione e della trasmissione della canzone tradizionale Ainu “Upopo”. La preziosità del loro lavoro è quello di cantare e di creare, attraverso la ritmicità di schemi, una sorta di trance naturale. Un’altra musicista esperta di “mukkuri” era Umeko Ando, venuta a mancare nel 2004, la quale utilizzava i suoni Ainu e li riproponeva in versione tradizionale. Altro aspetto delle arti è l’artigianato.
L’interesse per gli Ainu nei confronti della pratica dell’intarsio, a partire da oggetti di utilità quotidiana, fu una conseguenza alla mancanza di formazione in campo agrario, cui vennero obbligati dalla politica di assimilazione dal governo giapponese. Prima dai wajin immigrati sull’isola, poi in seguito al progetto di promuovere l’Hokkaidō e le sue bellezze paesaggistiche come attrazione turistica, gli Ainu videro aumentare le richieste di manufatti artigianali. Ben presto le tecniche dell’intarsio vennero migliorate, così quando si assistette alla massiccia presenza delle forze armate dell'occupazione americana sul territorio giapponese, per gli Ainu fu una occasione di un nuovo mercato. Da qui in poi vennero prodotte grosse quantità di sculture in legno per soddisfare le differenti richieste di souvenir tipici.
Esempio di prodotti Ainu per i turisti. Questa linea è stata creata da Kohei Fujito del laboratorio Kumanoya, presso il villaggio “Akan Kotan”, Kushiro. Foto dell’autrice.
Attualmente, sono soprattutto i villaggi ricostruiti ad offrire la possibilità di esporre i propri prodotti di artigianato, sia che si tratti di intarsio tradizionale più propriamente detto che di manufatti di ogni genere, pensati e realizzati per soddisfare la curiosità del turista di turno.
Chi visita l’Hokkaidō oggi sarà accompagnato dalla forte sensazione che la presenza Ainu sia ovunque all’interno dell’isola, che il passato è rimescolato assieme al presente, in tutti i campi, per dar vita a qualcosa di “attualmente intrigante” ai fini turistici. Di qualsiasi rimescolamento si tratti, tale strategia di rivitalizzazione appare essere una buona via alla sopravvivenza, per cui non ci resta che godere della cultura Ainu e della bellezza dell’isola.
Sabrina Battipaglia
GLI AINU DEL GIAPPONE – VII. A SPASSO TRA I VILLAGGI RICOSTRUITI
Nel corso del tempo, gli Ainu hanno assistito ad un passaggio di grande interesse, fondato su un meccanismo iniziale che considerava loro “ultimi”, fino ad un invito al folklore. I centri turistici, in questo modo, hanno acquisito un valore aggiunto divenendo le principali porte d’accesso verso un universo ancora pervaso dal mistero. In realtà, la presenza degli Ainu sull’isola rimane circoscritta ai villaggi ricostruiti, consacrati interamente al turismo. La politica di assimilazione forzata degli Ainu nella società giapponese, dopo la Restaurazione Meiji, vide il divieto delle tradizionali pratiche indigene come i tatuaggi femminili, le barbe e gli ornamenti maschili e addirittura parlare la propria lingua, operando una conversione alla politica agricola. In questo contesto, la riappropriazione e il controllo della propria immagine è risultata alquanto necessaria e l’etno-turismo a tal proposito si è rivelato un supporto significativo.
Secondo gli antropologi il ruolo dell’etno-turismo si rivela essenziale, poichè passa attraverso la conservazione e lo sviluppo delle espressioni culturali contemporanee. La potenza generatrice che esso possiede stimola la ricerca attenta dei rituali e degli oggetti tradizionali, cooperando in tal modo la rivitalizzazione degli antichi saperi e supportando la formulazione delle rivendicazioni identitarie. La qualità delle loro prestazioni in aggiunta alla ricerca di autenticità culturale è accompagnata da un investimento formativo costante. Si tratta della creazione di una reale riappropriazione dell'identità. Gli sforzi dunque verso l’etno-turismo, possono essere percepiti ora come una seria possibilità di riconoscimento. Attualmente tre sono i villaggi ricostruiti attivi: il Poroto Kotan; il Nibutani Kotan e l’Akan Kotan.
Il Poroto Kotan (“grande villaggio lacustre”), originariamente sorgeva nel distretto urbano di Shiraoi, nel 1965 venne dislocato sulle rive del Lago di Poroto, andando a formare un museo all'aperto il cui fine era la conservazione e la diffusione della tradizione culturale Ainu. Nonostante il sito sia attualmente chiuso per i lavori di riqualifica dell’area e per il complesso progetto di museo e parco, ho voluto comunque ricordare come è stato fino ad ora, inserendone una breve descrizione. L'ingresso del villaggio era custodito da una grande statua, alta 16 m, nota come Kotankorkur (“la statua del capo”. La struttura comprendeva cinque Chise («casa in paglia»), un fienile, una sala per gli spettacoli di danza e di musica, un giardino botanico, uno zoo in miniatura con l'orso, un canile per cani da caccia Ainu, un centro espositivo molto fornito la cui documentazione è bilingue (giapponese e inglese), un museo e numerosi negozi di souvenirs. Il giardino botanico, accoglieva circa 50 tipi di piante utilizzate dagli Ainu sia come rimedi naturali che in cucina. L’operazione del villaggio di Shiraoi è stata assolutamente unica, il principale beneficiario degli sforzi di conservazione e di rivitalizzazione della cultura Ainu. Quando l’ho visitato nel mese di agosto 2019, esso appariva come un enorme cantiere a cielo aperto. La riapertura era prevista per il 24 Aprile 2020, poi a causa del virus COVID-19, è stata posticipata al 29 Maggio 2020, mentre i Giochi Olimpici di Tokyō sono stati spostati per l’anno 2021.
Statua del capo “Kotankorkur”, presso il “Poroto Kotan”, Shiraoi. Fonte: https://hokkaido-labo.com/en/shiraoi-poroto-kotan-11471
Il secondo villaggio è il Nibutani Kotan (Niputai, in lingua ainu sta per “il luogo dove gli alberi crescono in abbondanza”. Nibutani di fatto, è un quartiere nella città di Biratori in Hokkaidō. Si tratta di una foresta ove, la ricca bellezza delle stagioni, che si caratterizza di una primavera scintillante, di un’estate dai colori vivaci e ancora degli scenari dai toni caldi che contraddistinguono l'autunno fino al bianco candore dell'inverno, si riflettono nelle acque del fiume Saru. Il villaggio accoglie il “Museo della Cultura Ainu”, che dispone di una vasta collezione di oggetti della tradizione Ainu, assieme a una più modesta collezione, esposta in maniera permanente, nel Museo di Kayano Shigeru, fondato nel 1972. Caratterizzato da oltre 10.000 manufatti, oggetti da lui stesso messi insieme nel corso del tempo. All’esterno dei musei, sono stati realizzati diversi Chise, nei quali si alternano rappresentazioni come i riti e le danze tradizionali. Al loro interno, ogni Chise prevede un focolare impiegato sia per il riscaldamento che per la cucina, ma soprattutto per la venerazione di Fuchi Kamuy, la divinità del fuoco, la quale veglia sulle famiglie residenti. Il focolare, si presenta con una rastrelliera di legno fissata al soffitto, per consentire al pesce o alla carne l’affumicatura tipica. Accanto al “Museo della Cultura Ainu”, si erge il “Museo Storico del fiume Saru”, fondato nel 2010, considerato un archivio estremamente interessante. Esso custodisce al suo interno, un modello in scala del territorio circostante prima che la diga fosse stata costruita, con gli spazi culturali chiaramente condannati, posti in evidenza. Tra gli oggetti che fanno parte della collezione, spade di ferro, ciotole e aghi, accumulati nel corso dei secoli, dal commercio con i giapponesi. Simile ad un ufficio turistico, completa l'istituzione precedente offrendo molte informazioni sulle pratiche socioculturali aborigene.
Nibutani non è paragonabile ai centri turistici, poiché la regione è l'unico distretto in Giappone ove tra 500 persone che vi abitano, la maggioranza (più dell'80% della popolazione) è Ainu. Un crescente interesse per la loro cultura porta un numero maggiore di turisti, così a partire dal 2011, si assiste ad una interessante iniziativa che vede protagonisti gli artigiani. Il progetto prende il nome di (Takumi no michi, 匠 の 道), che sta per “la via degli Artigiani”. Gli accurati lavori artigianali presto hanno ottenuto lo status ufficiale di “mestiere tradizionale”, rilasciato dal Ministero dell'Economia nel 2013. Ma il Nibutani continua, ad ogni modo, a prendere le distanze dai villaggi turistici. Durante la mia visita nel mese di agosto del 2019, ho constatato che l’aria che si respira non è quella di un villaggio turistico, ma di un’area in cui artigianato/arte Ainu la fanno da padrona, tra collezioni museali e botteghe impolverate dei diversi artigiani/artisti.
Il villaggio “Nibutani Kotan”, a Biratori. Foto dell’autrice.
Infine vi è l’Akan Kotan. Il villaggio sorge sulle rive del lago Akan, all'interno del Parco Nazionale, dove vivono circa 200 Ainu. Esso è l'unico ad offrire prestazioni per tutto l'anno e rappresentazioni socio-culturali della vita Ainu. Caratterizzato di un’arteria principale, contraddistinta da negozi di souvenirs (artigianato Ainu), ristoranti ove è possibile degustare piatti tipici, caffè e altro ancora, la quale conduce al centro del villaggio ove un teatro detto “ikor” offre agli ospiti la possibilità di assistere a spettacoli di danza, di ascoltare la musica tradizionale e seguire con attenzione i racconti dall’ekashi e dalla fuchi, in grado di trasmettere l’autentico spirito d’armonia tra Ainu e natura, si può visitare anche una Pon-Chise, cioè una piccola casa tradizionale e il Museo della Memoria cha ha la funzione di preservare e diffondere la cultura Ainu. Molte sono le attività svolte durante l’anno come le lezioni di ricamo, di intarsio del legno, di musica tradizionale, di storia.
Il villaggio “Akan Kotan”, Kushiro. Foto dell’autrice.
La sensazione che mi ha accompagnato durante la mia visita al villaggio, nell’agosto del 2019, è stata di industria turistica. Negozi, supermercati, ristoranti, workshops, spettacoli, era tutto un richiamo alla cultura indigena. L’Ainu Kotan stesso, può dunque essere definito un marchingegno di sopravvivenza fortemente collegato all’economia del turismo. Queste attività, sono di vitale importanza per gli Ainu ma, allo stesso tempo, hanno suscitato numerosi dibattiti poiché il turismo può assumere una connotazione negativa, quando l’immagine delle tradizioni sacre è alterata, facendo apparire tutto artificioso, o addirittura risultare prive di qualsiasi veridicità storica, rimandando l’immagine di una vita che non esiste più.
Tuttavia, se l’etno-turismo si fonda su condizioni sane, può anche tradursi in un formidabile supporto socio-economico. L’impulso delle economie locali, può in effetti migliorare la qualità della vita degli interessati, e impedirne la semplice estinzione, creando una fitta rete di impieghi. Gli aborigeni in questo modo, partecipano attivamente all’economia rivelandosi un valido esempio di collaborazione tra comunità con mutuo interesse.
Sabrina Battipaglia
GLI AINU DEL GIAPPONE – VI. CULTURA MATERIALE E ALTRI RACCONTI
L’annessione formale dell’Ezo (attuale Hokkaidō) nella frontiera giapponese nel 1868, originò numerosi cambiamenti sociali nel popolo Ainu, che aveva sviluppato sino ad allora una cultura propria, a partire dalla forte relazione con l’ambiente naturale circostante.
Differenti per la carnagione bianca, i capelli ondulati e gli occhi senza “plica mongolica”, essi hanno sempre vissuto di caccia e di pesca. La caccia era effettuata da parecchi cacciatori con i cani al loro seguito. La stagione invernale vedeva le donne fiancheggiare gli uomini nella pesca dei salmoni in riva al fiume. Era tagliata legna da ardere, pestato il miglio nel mortaio, sgusciati i legumi…Durante la stagione estiva, invece, era molto diffusa la pesca della trota. Altra distinzione si poteva fare tra la pesca fluviale, per la quale ogni villaggio o individuo aveva un territorio ben definito e quella marittima, in cui venivano utilizzate barche lunghe 3-4 m. I più pescati erano tonni, mammiferi marini, molto ricercati per farne delle pellicce, così come per altri utilizzi lo erano balene e delfini. Sempre durante la stessa stagione estiva veniva preparata la corteccia d’olmo per la realizzazione degli abiti, mentre in autunno ci si dedicava alla raccolta dei frutti che la natura riservava loro. Inoltre era praticata la raccolta della corteccia di frassino o di betulla per il tatuaggio e ancora altri legni come quello del salice, della magnolia, del lillà, per la realizzazione degli inau. Donne e bambini si recavano in montagna per la raccolta di castagne, di uva selvatica e ancora aglio, angelica, noci, funghi, radici, venivano raccolti aiutandosi con diversi utensili. Per quanto riguarda le risorse ittiche dei mari e dei fiumi, erano costituite da crostacei di vario genere, tartarughe marine, foche, balene e salmoni.
Il villaggio tradizionale detto kotan nella lingua Ainu. Nell’Ezo Zoshi, (“Il libro di Ezo”) si legge che villaggi erano costituiti da 5-7 case, quelli con più di 10 case invece erano da considerarsi grandi, dislocati nelle valli fluviali o lungo la costa dove il cibo risultava più facilmente raggiungibile, soprattutto quando trote e salmoni risalivano la corrente per la deposizione delle uova. Nell'Ottocento furono costretti a trasferire i propri agglomerati in prossimità degli stabilimenti ittici dei giapponesi dove vennero convogliati al lavoro forzato. Il risultato fu la comparsa del villaggio tradizionale con le caratteristiche case di corteccia e foglie di bambù, con la grandezza di 7m x 5m, provviste di tre finestre, compresa la rorun-puyar (“la finestra sacra”), un'apertura questa, sul lato opposto dell'ingresso, attraverso la quale gli dei entravano ed uscivano e si immettevano gli strumenti cerimoniali ed era proibito affacciarvisi.
Casa tipica Ainu detta “Chise”, presso il villaggio di Biratori. Foto dell’autrice.
La casa prendeva il nome di chise ed era più un luogo di adorazione dei Kamui (“divinità”). La casa Ainu ai nostri occhi risulterebbe come una grande stanza, una sorta di loft moderno, ma con una visione un tantino diversa: vi era una parte “altissima”, nel senso religioso, ossia l'angolo nord-est in cui era posizionato l'inau di Chise-Koro-Kamui, il nume protettore della casa; molto “alto” era anche la rorun puyar, la finestra sacra. Dal focolare verso la porta d'ingresso, si cominciava a scendere verso il “basso” della casa. Questo il motivo per cui gli ospiti e il padrone di casa stavano in “alto”, mentre le donne e i bambini avevano posto in “basso”. Due rotoli di stuoia distesi per terra o sul pavimento fungevano da sedie. Sulle pareti e sul soffitto erano appesi i loro beni: spade decorate, utensili domestici, abiti, vasi. Al centro della stanza in una buca rettangolare di un metro per un metro e mezzo, era posizionato il camino, su cui pendeva una pentola sospesa ad un gancio regolabile. Lungo le pareti erano disposti tavolati, isolati da paraventi di stuoia, che costituiscono il letto. I più benestanti si coprivano con pellicce, mentre gli altri dormivano vestiti tenendosi stretti per scaldarsi.
Gli edifici attigui alle case erano dotati di servizi igienici separati, okkayoru per gli uomini e menokoru per le donne, ad esse era affidato un deposito per la conservazione degli alimenti detto pu.
Un abito tradizionale Ainu detto “Attush”, presso il Museo dell’Hokkaidō. Foto dell’autrice.
Gli Ainu realizzavano i propri abiti tradizionali con pelle d'uccello e piume di gabbiano o cormorano, con rovesci di orso, di cervo, di cane, o indumenti in pelle di pesce, come trota o salmone. Ancora giacche in fibra di corteccia dette attush in tessuto d'olmo, che una volta ricamate o decorate divenivano capi da cerimonia. In seguito al commercio con il Giappone, all’inizio del Novecento, gli Ainu acquistarono massicce quantità di cotone, prendendo cosi a ricamare.
Di questi abiti si distinguono delle varianti, come i chikarkarpe ossia “cose decorate da noi”, gli abiti ricavati dalle fibre delle ortiche detti retarpe ossia “bianco”, dal colore del tessuto, assai diffusi presso gli Ainu di Sachalin. Altre tipologie erano i kaparamip ossia “vestiti sottili”, per la cui realizzazione era utilizzata una grande quantità di cotone bianco; i ruunpe vestiti ricamati con piccole applicazioni. Tra gli accessori delle donne vi erano la matanpushi ossia una fascia ricamata, i ninkari gli orecchini a cerchio (entrambi portati originariamente dall'uomo), una collana detta rekutunpe realizzata con una striscia di stoffa stretta e lunga con piastre di metallo, oppure collane sempre femminili, la cui lunghezza raggiungeva il seno, dette tamasay o shitoki con sfere di vetro. Le donne più anziane utilizzavano grembiuli maidari ornati con i tradizionali motivi. I sandali venivano realizzati con la corteccia, oppure fatti di vite durante il clima mite, mentre quelle di pelle di salmone, essendo più ruvide risultavano essere ottime per camminare sul ghiaccio o ancora vi erano scarpe fatte di legno e cinghie di pelle.
Collane tipiche dette “Tamasay”, presso il Nibutani Culture Museum, Biratori. Foto dell’autrice.
I primi cambiamenti che segnavano l’ingresso nell’età adulta, riguardavano l’indossare un abito lungo a tunica, simile ad un kimono kaparamip per intenderci, si assumeva l'acconciatura tipica, oltre che la crescita della barba, segno di grande virilità e saggezza. Per quanto riguardava le donne, esse prendevano ad indossare abiti lunghi ed ampi, fermati da cinture di tessuto e a tatuarsi. Il matrimonio, nella cultura Ainu, era di tipo ambiliano, vale a dire che era l’uomo ad accogliere nella casa paterna la sua sposa, ma dopo un breve periodo trascorso con i genitori, gli sposi prendevano a costruire la loro capanna. Una volta concluso il matrimonio, il marito poteva completare il tatuaggio attorno alle labbra della moglie, cominciato all’atto del fidanzamento, e che si concludeva con dei puntini sino alle orecchie.
Una importante pratica tradizionale era il tatuaggio. Questo tipo di ornamento veniva eseguito dall’età di 12-13 anni, proseguendo fino agli anni del matrimonio; intorno ai 19-20 anni per gli uomini, 16-17 anni per le donne. Il tatuaggio alle labbra era essenziale per il matrimonio; si cominciava dalla pubertà per essere completato al raggiungimento del 18° anno di età; quello alle braccia era consuetudine completarlo a 20 anni ed infine il tatuaggio alle mani, poteva anche essere terminato dopo il matrimonio, ma non dopo la nascita del primogenito. A scopo ornamentale su sopracciglia, avambraccio, dorso della mano, mentre le dita venivano decorate con disegni di anelli e di altri gioielli. Gli uomini ricorrevano al tatuaggio di rado o solo per scopi terapeutici. Per realizzare il tatuaggio si utilizzava la corteccia di frassino o di betulla tagliata a pezzi e bollita, producendo così un infuso di colore verdastro, che non influiva in alcun modo sul tatuaggio. Dei piccoli tagli erano inferti sulla parte interessata e si procedeva con l’applicazione del nerofumo depositato sul fondo del recipiente, infine per mezzo di un canovaccio, si applicava l’infuso per tre volte. Durante il ciclo femminile, il lavoro era interrotto per la maggiore sensibilità provata. Per accelerare il processo di guarigione bisognava astenersi dal mangiare carne e grasso e rimanere in casa per almeno una settimana.
Donna Ainu con tatuaggio tradizionale intorno alla bocca, foto scattata presso il Museo Kawamura Kaneto, Asahikawa.
Altro aspetto della cultura Ainu è la lingua. Priva di un sistema di scrittura proprio, di conseguenza i racconti, le leggende sono state trasmesse oralmente. Il genere più diffuso era detto Yukar (yukara in giapponese), genere in cui venivano raccontate le gesta di eroi e in cui il divulgatore di storie poteva essere una donna anziana o un anziano uomo, scelti in base alle spiccate qualità nel saper raccontare, nel gioco mnemonico, nella recitazione. Un altro genere di letteratura orale detto Yaysama, ma in questo caso era una donna che cantava una canzone, improvvisata e frutto delle sue emozioni.
La produzione artistico-artigianale era piuttosto povera, nonostante il senso artistico molto sviluppato che manifestano nell’intaglio, dove sono maestri. Sono famose le loro guaine di spade e le impugnature dei loro coltelli con rappresentazioni sacre. Anche il ricamo è molto sviluppato, caratterizzato da simboli come spirali che si interrompono e si intrecciano, venendo a formare vaghe figure di cuori o rosoni, di croci o di scaglie di pesce. Hanno dimenticato da secoli la produzione della ceramica, provvedendosi di recipienti, vasi, bottiglie e quant’altro dai giapponesi, contro scambi in natura (pelli d’orso, penne di rapaci per le frecce, pesce secco, alghe secche e simili), non hanno si direbbe, mai sviluppato una loro metallurgia, per simili ragioni.
Nonostante la “scelta” di molti Ainu di convertirsi alla cultura maggioritaria, quello a cui si assistette dopo è l’esempio di come una tradizione culturale non scompare, bensì si trasforma.
Sabrina Battipaglia
GLI AINU DEL GIAPPONE – V. PRESERVAZIONE CULTURALE E MEMORIA
La situazione contemporanea degli Ainu, è intimamente connessa con la strategia adoperata durante gli anni di assimilazione. In genere, quando si fa riferimento alla cultura giapponese, la si intende come una cultura “omogenea”, nonostante vi siano attualmente differenti gruppi etnici. Per quanto concerne gli Ainu e la tradizione culturale, possiamo considerarla come un lavoro di costruzione o come un prodotto soggetto alla condizione di trasformazione. Ciò ha richiesto periodi di intensa attività finalizzati all’affermazione dei propri diritti e dei propri aspetti religiosi, come pure momenti di grande passività, fino a includere una fase in cui essi erano tentati ad integrarsi nelle credenze del gruppo dominante. Quest’ultimo atteggiamento era dovuto alla considerazione che essi avevano della loro tradizione, come appartenente oramai al passato.
Le teorie sulla modernizzazione, pongono in relazione antagonistica la tradizione e il cambiamento e il primo passo verso la rivitalizzazione necessita proprio di una sintesi tra di essi. L’immagine che noi, come pure gli Ainu hanno della loro tradizione culturale, è certamente il risultato della loro specifica storia, la quale ha subìto e subisce ancora differenti interpretazioni. In realtà, non vi è un’unica immagine di un processo continuo di costruzione della stessa, ma uno spettro di possibili costruzioni dato dal fatto che gli individui apprendono dall’esperienza e riconsiderano il loro punto di vista. Ciò può essere visto e interpretato, come un lavoro di costruzione/trasformazione. Più precisamente, essi sperimentano i mutamenti della moderna società giapponese e quegli elementi essenziali vengono etichettati come “memoria”.
Mi piace ascoltare la mia amica Sachiko, quando mi racconta del mondo Ainu. Mi parla dell’esistenza di una complessa relazione fra il mondo degli dèi (Kamui Moshiri) e il mondo degli uomini (Ainu Moshiri); una interazione costante, tanto che attraverso i sogni è possibile connettersi con i propri antenati e ricevere indicazioni su vicende quotidiane. Tale relazione, uomo - divinità o Kamui, è alla base della tradizione orale, intrisa di storie che parlano di benedizioni ricevute dopo aver correttamente eseguito le cerimonie. Scongiuri e altre formule tentano di onorare le divinità e ottenerne i favori. Di fatto, il rituale stesso viene considerato come avente un forte potere manipolatore delle energie.
Nella cosmologia Ainu, tre sono i concetti chiave, Ramat, Kamui e Inau. Tutto ciò che esiste è dotato di Ramat. Esso è l’essenza di tutte le cose. E’ l’anima degli uomini, il principio vitale degli animali e delle piante, la forza che muove il vento, che agita il mare, che trascina i fiumi, il sostrato degli oggetti casalinghi o di quelli utili alla caccia. Solo gli organismi morti, gli oggetti rotti, ciò che deve decomporsi per rimettere in circolazione la materia di cui è costituito, non ha Ramat. Questa percezione animista del mondo, fa sì che essi attribuiscano potere sacro a oggetti come ad esempio gli amuleti offerti alle divinità per averne i favori. E’ possibile discolparsi per mezzo di rituali e offrendo loro Inau, bastoncini di legno intagliati nel legno del sacro salice, lunghi da pochi centimetri ad oltre un metro. Essi presentano una punta ad una estremità per poterli conficcare nel suolo, mentre all’altra, possono presentare trucioli (kike) come a formare dei capelli o un mantello sacro con potere protettivo. In questa complessa cosmogonia, dove il mondo degli déi e quello degli uomini si trovano in un universo parallelo, vanno così a formare una dimensione armonica.
“Inau”, presso il Museo dell’Hokkaidō. Foto di Flavio Risi.
La dinamica inerente i valori alla base della tradizione religiosa, era favorita dal fatto che le ideologie religiose continuano ad esistere non solo nella memoria, ma anche nella pratica, come dimostra il fatto che gli Ainu celebrano ancora diversi rituali religiosi. Essi includono le cerimonie: Iyomante (“sacro invio dell’orso”, esso era la manifestazione terrena del dio supremo delle montagne, Kira-Mante-Kamui (o Kim-un-Kamui), che assumeva tale travestimento per discendere sulla terra. Il rito prevedeva la cattura di un cucciolo d’orso, che veniva allevato come un animale domestico, fino all'età di tre-quattro anni, nutrito con il cibo migliore e a cui venivano offerte birra sacra di miglio e preghiere. In passato, quando l’animale era molto piccolo e senza denti, una delle donne del villaggio diventava la sua ‘madre putativa’ e lo allattava al seno. L’idea fondamentale che è alla base di questi costumi e dello Iyomande stesso, è che il dio-orso gioisce delle stesse cose di cui gioiscono gli esseri umani); Shakushain (il nome di Shakushain si deve alla più importante ribellione Ezo nel 1669, quando il capo Shakushain venne ucciso. Dal 1946, il 23 settembre di ogni anno, viene organizzato un evento che commemora proprio la figura di Shakushain); Marimo Festival (il termine marimo deriva da mari, che in lingua giapponese è tradotto come “biglia”, mentre mo è un termine generico per le piante che crescono in acqua. Il primo “Marimo Festival”, venne celebrato presso il lago Akan, nel 1950. Cerimonie simili in passato, vennero etichettate dalle autorità giapponesi, come “cruenti”, “incivili” o “inventate” e inoltre, quando l’Hokkaidō fu annesso al Giappone, nel 1868, la pratica dello Iyomante venne proibita. Per quanto riguarda il Marimo Festival, con il tempo ha acquisito un importante riscontro, non solo a livello nazionale ma anche internazionale. Infine la cerimonia di Shakushain, vide la creazione di una statua a Shizunai che è possibile visitare nel Parco Mauta, sulla costa meridionale dell’Hokkaidō. Accanto alla statua sorge lo “Shakushain Memorial Museum”, costruito nel 1978 da un castello abbandonato, che è possibile visitare durante tutto l’anno, con ingresso gratuito.
Cerimonia dell’orso “Iyomante”, foto scattata presso il Museo dell’Hokkaidō.
Quando parliamo di rituali religiosi e di attività culturali, intendiamo pratiche il cui potenziale è stato sottostimato per secoli. L’attuale pratica, non è meramente una questione di rappresentazione, ma diviene una modalità o una interpretazione in versione moderna, grazie alla quale gli Ainu si servono per attrarre turisti e giornali. In questo modo, percepiscono la loro tradizione religiosa come quel frammento che è andato perduto, come qualcosa di esterno a se e che essi stessi si sforzano di recuperare. Si tratta dunque di un patrimonio religioso e culturale che è stato ridimensionato per sfruttarne una nicchia commerciale.
Tra gli Ainu sussiste il forte ideale secondo cui, il cammino di coesistenza tra essi stessi e i giapponesi non-Ainu, potrebbe svilupparsi in una maniera costruttiva includendo rispetto per ognuna delle due culture, sia nelle piccole comunità regionali, sia nella grande società giapponese.
Esiste in realtà, una diversa maniera fra gli individui di intendere la promozione della cultura Ainu, poiché diversi sono i punti di vista e diverse le idee. Essa rappresenta un elemento di inestimabile valore del proprio patrimonio e una risorsa preziosa sia per gli Ainu stessi, che per la società giapponese la quale, attraverso una politica di promozione, tenta di realizzare una società multiculturale, traducendo questo impegno in un immenso sforzo per sostentare il popolo Ainu.
Sabrina Battipaglia
GLI AINU DEL GIAPPONE – IV. ALLA RICERCA DI UN DIALOGO ARMONICO
Al termine del Secondo Conflitto Mondiale, il Giappone venne occupato militarmente e posto sotto la tutela americana. Il generale Douglas McArthur, comandante delle forze americane nel Pacifico, ebbe il compito di creare tutte le condizioni favorevoli per un Giappone democratico, nonché una parte decisiva nella redazione della nuova Costituzione, entrata in vigore nel maggio 1947. Il Giappone diventava una democrazia parlamentare nella quale l’imperatore restava solo un simbolo dello stato e dell’unità nazionale, senza avere alcuna parte nella nomina del governo. Il Giappone vedeva imporre da McArthur una drastica riforma agraria che annientò il ceto dei latifondisti e ridistribuì fra i coltivatori le grandi proprietà e le terre date in affitto, per un totale pari a più di un terzo della superficie coltivata.
Tali terre ora confiscate, vennero donate agli Ainu grazie alla LPN o Legge di Protezione dei Nativi che entrò in vigore nel marzo del 1899. Vi fu la possibilità di assegnare agli Ainu cinque ettari di terra e attrezzi per coltivarla, concessione revocabile se la terra non veniva coltivata per 15 anni. Gli Ainu in questo modo si trovarono di fronte ad un crocevia: rimanere fedeli alla propria identità rinunciando all’assistenza e al sostentamento o accettare la nuova proposta. La maggioranza degli Ainu “scelse” la prima strada. Si assistette a un trasferimento degli Ainu in zone decise da precisi piani regolatori, essi vennero impiegati nei campi, ricevettero l’assistenza medica e l’istruzione.
Veduta sul fiume Saru, area sacra agli Ainu. Foto dell’autrice.
L’inizio di questa nuova epoca nella storia giapponese, fu contrassegnata dalla miseria della maggior parte dei suoi abitanti, incluso gli Ainu. Fu necessario così un punto di confluenza che prese forma a partire da una nuova lettura della tradizione e della storia Ainu. Un ispiratore fu Yamamoto Tasuke che inculcò negli attivisti degli anni sessanta e settanta, la necessità di far rivivere la tradizione culturale e, in questo modo venne ripresa l’arte del ricamo, si riprese a danzare, a celebrare i rituali ancestrali, col fine di rinvigorire i simboli della etnicità in una cornice di resistenza. Sebbene alcuni ekashi più conservatori ritenevano queste cerimonie una farsa e che addirittura arrecavano offesa agli dei, non erano pochi quelli che invece appoggiavano queste celebrazioni, intendendole come una opportunità di creare e di consolidare un sentimento di appartenenza a una comunità con gli stessi ideali e lo stesso passato culturale. Proprio in questi anni, era cominciato un interesse verso i processi di resistenza indigena che si stavano riscontrando nel resto del mondo, così gli ideali di autonomia vennero abbracciati da leaders Ainu e da Nomura Giichi (avvocato e attivista, il primo Ainu ad entrare a far parte della Dieta giapponese). Nel maggio del 1997 il governo giapponese approvò la Law for the Promotion of the Ainu culture and for the dissemination and advocacy for the traditions of the Ainu and the Ainu culture, legge che abolì le disposizioni della legge del 1899 ancora in vigore. Molti attivisti accettarono con poco entusiasmo la promulgazione di questa nuova legge. Si decise di approvare il testo senza apportare alcuna modifica ma, venne emessa una risoluzione supplementare nella quale, all’unanimità, i membri della Dieta dichiaravano che gli Ainu erano un “popolo indigeno” del Giappone.
Parco Akan intorno al villaggio “Akan Kotan”, Kushiro. Foto dell’autrice.
Pochi giorni prima del G8 sul lago Tōya, in Hokkaidō, dal 7 al 9 luglio 2008, si svolse un altro vertice, dal 1 al 4 luglio 2008, una sorta di ‘Controvertice della società civile’. Centinaia di rappresentanti da tutto il mondo, erano lì per discutere di diritti umani delle minoranze, per proporre una “via indigena” alla sostenibilità. Su spinta del G8 da un lato e dell’ONU dall’altro, si giunse ad un provvedimento importante, vale a dire la risoluzione del 6 giugno del 2008, in cui il popolo Ainu venne riconosciuto come minoranza etnica. Un altro passo avanti è stato compiuto quando un nuovo atto, che riconosce legalmente gli Ainu come popolo indigeno del Giappone è stato promulgato il 26 aprile 2019 ed è entrato in vigore il 24 maggio 2019.
Esso propone nuove sovvenzioni ai fini del turismo nell'isola di Hokkaidō e inoltre lo Stato permetterà agli Ainu rimasti di abbattere gli alberi nelle foreste di proprietà nazionale, per l'uso nei rituali tradizionali.
Diverse sono state le occasioni, nel corso degli anni, in cui si è cercato un punto d’incontro tra le due culture, quella maggioritaria e quella degli Ainu. La costruzione dei villaggi indigeni ne è un esempio importante. Si può affermare dunque che, enormi passi avanti sono stati compiuti e, siamo in attesa che possano verificarsene di nuovi, sulla scia di una sempre più armoniosa convivenza dei due gruppi.
Sabrina Battipaglia
GLI AINU DEL GIAPPONE – III. APPUNTI DI UN INCONTRO PER CASO
Secondo le stime, il numero degli Ainu esistenti in Hokkaidō si aggirerebbe intorno alle 24.000 persone o 13.000 secondo un censimento del 2018. Uso il condizionale poiché ricercare un numero preciso non è cosa di poco conto.
Durante le interessanti conversazioni con Sachiko, ella mi raccontava a più riprese, della lunga storia degli Ainu, delle vicende legate ai primi contatti con i giapponesi e a come le vicissitudini si siano evolute col fine di trovare un accordo comune, per una pacifica convivenza. Storie che vi narrerò in questo e nel prossimo racconto.
Di come nel corso del tempo, per sfuggire alle discriminazioni, gli Ainu abbiano persino negato la propria origine e attraverso i matrimoni misti creato una via di fuga, ma ciò non è bastato. Come in ogni incontro che si rispetti, ciascuna delle due parti in causa porta con se il suo bagaglio culturale e fino a che non venga raggiunto un dialogo, un punto di incontro, non si può parlare di contesto armonioso.
Durante i periodi Tokugawa (1603-1868) e Meiji (1868-1912), i giapponesi imposero riforme e assimilazione alle comunità Ainu. I tentativi di assorbire gli Ainu e le loro terre, ebbero inizio almeno dalla seconda metà del VII sec. dopo la costituzione del “ritsu-ryō” (lo stato basato su codici penali ed amministrativi modellati sull’impero cinese dei Tang). Durante il periodo Heian (794-1192), il governo centrale cominciò a sgretolarsi, Ezo (il nome antico dell’Hokkaidō) rimase nelle mani della famiglia Abe, che sospese i tributi a Kyōto. Negli anni successivi, carestie e pericoli nell’Honshū, spinsero un consistente numero di immigrati a trasferirsi sull’isola. Altra ondata migratoria si verificò in seguito alle campagne fra le famiglie imperiali e militari che si estesero fino alla regione di Ōu (nell’Honshū). Continue guerre fra famiglie costituirono i presupposti per le migrazioni verso un nuovo mondo.
Agli inizi del periodo Kamakura (1192-1333), il commercio andò sviluppandosi e i giapponesi presero a commerciare con gli Ainu. Durante il periodo Muromachi (1338-1573) i traffici vennero gestiti dagli Ashikaga e il commercio riguardava prodotti come sakè, riso e altri in cambio di salmone, alghe, pelli di animali, piume d’aquila.
Quando il numero degli immigrati aumentò notevolmente, cominciarono i problemi legati a richieste di zone di pesca più ampie. Tale richiesta urtò il lavoro dei nativi, dando luogo ad episodi spiacevoli, come quello del 1456, quando un fabbro di Kajimura (oggi Hakodate) venne ucciso da un capo clan. I nativi per ribellarsi massacrarono gli immigrati. L’anno seguente il capo clan Kosamaynu, tentò l’assalto a Fukuyama, e colonia dopo colonia cadde nelle mani dei nativi, mentre i rifugiati trovarono riparo presso Matsumae e Kaminokuni.
Ezo era abbandonato a se stesso tra mercanti e rivolte dovute a falsificazione di pesi e misure, del divieto per gli Ainu di conoscere la lingua e la cultura giapponese. Il malcontento si diffuse presto culminando nel 1644, quando il capo Henauke, incitò una rivolta presto sedata.
Statua del capo Shakushain, Shizunai. Foto dell’autrice.
La più importante ribellione Ezo vi fu nel 1669, quando Shakushain capo degli Ezo stanziati ad est dell’isola presso il fiume Shibuchari, uccise Onibishi, capo degli Ainu stanziati ad ovest di Ezo, presso il fiume Saru, a seguito di una disputa su alcuni territori di caccia e pesca.
Shakushain cercò un compromesso con i giapponesi, ma perse la vita in questa occasione.
A Nosyappu, è stato innalzato un monumento ai caduti giapponesi in questa battaglia, mentre la statua di Shakushain si trova a Shizunai.
Shakushain Memorial Museum, Shizunai. Foto di Flavio Risi.
Il governo Tokugawa nel 1806, inviò truppe sull’isola di Ezo, sulle isole Curili e Sachalin occupando con le sue guarnigioni i territori settentrionali. Nel 1855 il governo era impegnato in una politica di controllo su tutta l’area e di assimilazione dei nativi. Seguiva la Restaurazione Meiji del 1868, ed era tempestivamente avviata la colonizzazione dell'Hokkaidō (“Circuito del mare del nord”), il nuovo nome dell’Ezo datogli dal 1868. A Tokyō, il nuovo nome di Edo dal 1868, sorse il Kaitakushi (“Ufficio per lo sviluppo del territorio”), la principale istituzione amministrativa della conquista dell’Hokkaidō.
L'intero Hokkaidō fu mappato, suddiviso in appezzamenti, ridenominati in giapponese e trascritti in kanji. Sapporo (dalla lingua ainu Sat-poro-pet “grande fiume secco”), fu scelto come capoluogo amministrativo e si diede inizio a lavori di deforestazione e di costruzione di vie di comunicazione.
Si assistette ad una politica di assimilazione. Dichiararsi Ainu voleva dire sentirsi attribuire aggettivi come “inferiore”, “ignorante”, “sudicio”. Paradossalmente, gli Ainu soffrivano la discriminazione razziale, mentre la loro esistenza veniva negata, sotto la convinzione che in Giappone tutto formava parte di un unico popolo.
L’impegno degli Ainu della successiva generazione, fu all’insegna di una ripresa dell’autocoscienza Ainu di essere culturalmente differenti e del recupero della dignità come condizione indispensabile della lotta contro l’emarginazione tanto materiale quanto morale.
Sabrina Battipaglia
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GLI AINU DEL GIAPPONE – II. STORIE SULL’ORIGINE.
In questi mesi l’attenzione è rivolta al Giappone, nazione che ospiterà i Giochi Olimpici nel 2020 e come ad ogni evento, si attende ansiosi lo spettacolo di apertura che il paese di turno offrirà. La novità è che il Giappone si sta impegnando anche con un altro progetto, parallelo potremmo dire, che vedrà la sua realizzazione proprio nel 2020. Si tratta del primo Museo Nazionale interamente dedicato alla cultura degli Ainu. Siamo in Hokkaidō, sull’isola più a nord del Giappone, dove per l’occasione l’area in cui sin dal 1976 sorgeva il villaggio “Poroto Kotan”, è stata totalmente riqualificata, per fare spazio al nuovo progetto.
Un immagine del “Poroto Kotan” come appariva prima del 31 Marzo 2018 quando è stato chiuso. Fonte: https://www.japan-guide.com/e/e5375.html
Ma facciamo qualche passo indietro.
La prima domanda a cui voglio rispondere è chi fossero gli Ainu. La parola “Ainu”, può essere tradotta come “essere umano”, usata più precisamente per distinguere le entità che non appartengono né al mondo delle divinità, né al mondo degli animali. I giapponesi li conoscevano come “Emishi” (il termine indicava le popolazioni che vivevano a nord dell’Honshū) e indicavano il territorio con la parola “Ezo” (ridenominato Hokkaidō a partire dal 1868, ossia dall’Era Meiji).
Ragazza Ainu in abito tradizionale. Teatro “Ikor”, presso il villaggio “Akan Kotan”, Kushiro. Foto di Flavio Risi.
Riguardo la loro origine, diverse sono state le ipotesi nel corso degli anni da parte degli studiosi. Caratteristiche come la distanza degli occhi, la scarsa prominenza degli zigomi e l’abbondante pelosità, accosta gli Ainu agli Europei e ai Russi. Numerose ipotesi inoltre sono state avanzate fino ad ora, come chi li considera un ramo settentrionale di una “razza oceanica” diffusa dall’Indocina alla Polinesia, chi li vede come parte di una razza caucaside che nell’antichità avrebbe popolato tutta l’Asia nord-orientale e poi si sarebbe scissa in due rami a causa del movimento di popolazioni mongole e turche. Successivamente le ipotesi “meridionali”, in cui sono state notate somiglianze con le popolazioni delle Ryūkyū e delle isole dei Mari del Sud, giudicandole la conseguenza di fenomeni migratori e sostenendo la discendenza da un’antica popolazione europide dell’Asia orientale, che formò la base della razza europea. Appartenenza meridionale che si poteva notare dalla cultura materiale, dalla organizzazione sociale di tipo matrilineare, ma adattandosi al “clima” settentrionale avrebbero conservato gli elementi della cultura originaria come ad esempio le frecce avvelenate o il culto di un animale che in un clima freddo si è trasformato in sacrificio. Oppure chi vi intravede il carattere mesolitico della cultura Jōmon, stabilendo che sotto la pressione delle popolazioni neolitiche (austronesiani, cinesi e tungusi), gruppi mesolitici, sarebbero stati spinti verso la periferia del continente portando nell’arcipelago la cultura Jōmon. L’uomo Jōmon dunque, sarebbe stato il progenitore degli Ainu ed un fattore determinante nella formazione del tipo razziale giapponese moderno.
La questione delle origini rimane tutt’ora dunque aperta. Essa potrà essere risolta solo dopo le attente analisi da parte degli esperti e presenta un filo conduttore con l’apertura del nuovo Museo.
Tra l’Era Meiji (1868-1912) e il 1972 sono stati presi scheletri Ainu da parte di antropologi ricercatori, per scopi di ricerca, l’identificazione però è risultata difficile a causa del trascorrere del tempo e delle condizioni di conservazione non sempre ottimali.
Qualsiasi profanazione, anche involontaria durante gli scavi archeologici, provoca sconvolgimenti spirituali che di conseguenza hanno un forte impatto psicologico sulla comunità, mettendo in crisi il benessere di quest’ultima. Un altro dato interessante è il parallelo che intercorre tra le pratiche funerarie differenti. In un paese in cui convivono due religioni, buddhismo e scintoismo, ed esiste la pratica della cremazione del corpo e in aggiunta un decreto legge che obbliga i giapponesi ad incenerire tutti i defunti, ha trovato ovvi contrasti con la tradizione Ainu per la quale il corpo è sacro e l’oltraggio è qualcosa di inconcepibile. Da una parte la paura della contaminazione e la speranza di una rinascita concepita come una trasmigrazione dell'anima, dall’altra parte la profanazione considerata un crimine di gravità insondabile.
Il rimpatrio degli scheletri si pone dunque, come obiettivo, il porre fine alla sofferenza.
E’ in questo frangente che l’azione collaborativa tra ricercatori universitari e comunità Ainu, segna importanti passi avanti.
Lavori in corso nell’area in cui sorgeva il “Poroto Kotan” e in cui nell’aprile 2020 verrà aperto il nuovo museo e mausoleo, a Shiraoi. Foto dell’autrice.
L’idea di un complesso che fungerà sia da mausoleo che da museo, pensato in occasione dei Giochi Olimpici di Tōkyō 2020, avrà lo scopo sia di rimpatriare gli scheletri sparsi un po’ ovunque nelle Università giapponesi, che di esporre elementi della cultura materiale Ainu.
La costruzione del mausoleo, costruirà un ponte tra i due gruppi per una pacifica convivenza caratterizzata da una sempre maggiore diffusione della tradizione ancestrale.
Sabrina Battipaglia
GLI AINU DEL GIAPPONE – I. IN VIAGGIO VERSO L’HOKKAIDŌ
Chi ha detto che atterrare in Giappone sia ovunque la stessa cosa?
Vi porterò con me in viaggio in un mondo in cui non ci sono geisha nè samurai, in cui non ci sono templi, dove il Fujiyama non è l’attrazione principale, dove il sushi non è il piatto tipico, dove la tecnologia non la fa da padrona, un universo ancora pervaso dal mistero, ove il contatto con la natura e l’importanza delle cerimonie religiose restano fondamentali, i cui inverni rigidi regalano metri di neve al paesaggio e le estati sono rinfrescate da pioggia e vento.
Vi parlerò di una terra, l’Hokkaidō, di cui sono profondamente innamorata e che considero la mia seconda casa, del suo territorio e di un popolo, gli Ainu, che mi ha insegnato cosa significa “sentire” le proprie radici, il senso di appartenenza al proprio territorio e la difesa di tutto questo. Ho imparato che il termine “resilienza” non può essere usato a caso.
Prima di raggiungere Sachiko e Kohei, la mia “famiglia Ainu” che vive presso il lago Akan, a Kushiro, mi trovo intanto presso l’aeroporto di Chitose. Essere qui è come iniziare a seguire delle tracce. Scopro ristoranti con simboli Ainu, negozi di gadgets con sezione Ainu o shop interamente dedicati ai manufatti indigeni; vassoi lignei, borse, abiti tradizionali, calamite, peluches, t-shirt, asciugamani, sottobicchieri, portachiavi, stickers e tanto altro.
Aeroporto di Chitose. Foto dell’autrice.
Arrivata alla stazione di Sapporo la ricerca continua, scopro manufatti indigeni negli alimentari, nei tabacchi, una grande scultura Ainu accoglie i visitatori al centro di un lungo corridoio, inoltre ricami tradizionali all’interno di teche e una istallazione con scultura e sedute per video sulla cultura Ainu.
Esposizione di ricami tradizionali Ainu presso la stazione di Sapporo. Foto dell’autrice.
Da Sapporo ci si può muovere verso il “Pirka Kotan”, museo e villaggio dimostrativo, in questo museo ti viene comunicato all’ingresso che si possono toccare i tessuti, cosi da trasformare la tua visita in esperienza tattile e sentire il materiale con cui sono fatti gli “attush” ossia glia abiti tradizionali, inoltre nella ricostruzione del villaggio all’esterno, si può entrare in una casa Ainu tradizionale.
Interno di una casa tradizionale. Ricostruzione presso il “Pirka Kotan”, Sapporo. Foto di Flavio Risi.
Un’altra visita che si può fare è quella al museo di Hokkaidō, all'interno del Parco Naturale Prefetturale di Nopporo Shinrin Kōen, che ospita una mostra permanente dedicata alla storia, alla cultura, alla natura dell'Hokkaidō e che presenta anche una sala dedicata esclusivamente alla cultura degli Ainu. Anche qui è possibile guardare all’interno di una tipica abitazione, ma rispetto al precedente museo, questa ricostruzione è ricca di tutti gli oggetti tradizionali contrassegnati dal loro nome in lingua Ainu.
Interno di una casa tradizionale. Ricostruzione presso il Museo Hokkaidō. Foto di Flavio Risi.
Far visita ai villaggi, ai musei, ai ristoranti tipici, oltre ovviamente a godere delle bellezze del paesaggio e del buon cibo, mi mette in una strana condizione, come quella di chi è consapevole di trovarsi in Giappone, ma in una sorta di dimensione parallela. Non scatto la foto con il mio primo sushi, ma con uno dei miei piatti Ainu preferiti, quelli a base di “kitopiro”, un aglio selvatico, oppure non mi faccio riprendere assieme alle geishe, ma assieme ad alcuni Ainu presso il teatro “Ikor” nel villaggio Akan, dopo aver assistito agli spettacoli di danza e soprattutto, dopo aver pianto tanto dalla forte emozione. Non ero in Giappone per trovare chissà quale altra nuova lettura interpretativa, ero lì per stare con loro, con gli indigeni e basta. Se Claude Lévi-Strauss fosse stato ancora in vita gli avrei chiesto di fare questo viaggio assieme, perché ammaliata dai suoi “Il crudo e il cotto” e “Dal miele alle ceneri” e perché fin da piccola ero attratta dai villaggi e da sempre ho cercato i “miei” indigeni.
Sabrina Battipaglia
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