Sosteniamo la cultura, anche online: Bookcity 2020

Un altro appuntamento fisso, ormai, quello con Bookcity, il festival del libro più famoso di Milano, che ci ha accompagnato questa settimana alla scoperta di nuovi titoli e delle prossime uscite, anche a tema Giappone.

BOOKCITY MILANO è un’iniziativa nata da una collaborazione pubblico – privata: nel 2012 il Comitato Promotore e l’Assessorato alla Cultura hanno chiamato a raccolta gli editori italiani per realizzare una manifestazione condivisa con tutti i protagonisti del sistema editoriale, al fine di mettere il libro, la lettura e i lettori, in quanto protagonisti dell’identità della città e delle sue trasformazioni al centro di una serie di eventi diffusi sul territorio urbano.

Giunto quindi alla sua nona edizione, si propone come un festival inclusivo e partecipato che promuove, con oltre 500 iniziative a partecipazione gratuita, l’incontro fra gli autori e il loro pubblico attraverso una serie di interventi a tema, presentazioni, letture ad alta voce, seminari e tanto altro.

Quest’anno la rassegna si è trovata davanti il grande ostacolo dell’emergenza sanitaria che ha costretto gli organizzatori, convinti fino a qualche giorno prima di mantenere tutti gli eventi in presenza, a ripensarli in maniera online. Così per tutta la durata del festival, dal momento dell’inaugurazione tenutasi l’11 novembre, fino alla sua conclusione domenica 15, gli incontri si sono svolti su svariate piattaforme digitali, che Bookcity ha raccolto in un unico programma online.

Ma non vi preoccupate se vi siete persi qualche testimonianza o non avete avuto tempo di seguirle interamente: per la prima volta, quest’anno, le registrazioni di tutti gli eventi del palinsesto rimarranno disponibili alla visione del pubblico sul sito http://www.bookcitymilano.it/.

Sempre più manifestazioni hanno e continuano ad adottare, per motivi di causa maggiore, misure e strumenti digitali per far sì che le proprie iniziative possano prendere forma…. che sia questo il futuro dei nostri cari eventi? O ben presto, quando tutto sarà passato, ci dimenticheremo dell’online, stanchi ormai di vivere davanti a uno schermo?

Nonostante la speranza di tornare presto a frequentare eventi dal vivo sia l’ultima a morire, non bisogna cancellare gli enormi sforzi fatti per rispondere alla sfida impostaci da un anno così duro e impegnativo, soprattutto per il mondo culturale che ha dimostrato, per l’ennesima volta, quanto la cultura sia necessaria per la nostra esistenza.

 

Amanda De Luca


Festival online: uno sguardo alla 54° edizione del Lucca Comics

Proprio lo scorso week-end (28.10 – 1.11), si è concluso il Lucca Comics and Games che quest’anno si è presentato al pubblico in una nuova veste.

Per chi non lo conoscesse, si tratta di un festival internazionale dedicato ai mondi del fumetto, dell'animazione, dei giochi e dei videogiochi che si svolge ogni anno a Lucca nei giorni tra fine ottobre e inizio novembre. Nata nel 1993, è cresciuta a tal punto da venir considerata la più importante rassegna italiana del settore, prima d'Europa e seconda al mondo, dopo il Comiket di Tokyo.

L’edizione 2020, a causa delle restrizioni dovute all’emergenza sanitaria, ha dovuto modificare la classica formula per cui è conosciuta e si è svolta, per la prima volta, in una modalità online e, proprio per celebrare questa sua trasformazione, è stata intitolata “Lucca Changes”.

La programmazione di eventi e incontri, invece, è rimasta ricchissima come sempre. Sono pochi gli eventi festivalieri in programma fatti “fisicamente” nelle sedi designate e, in ogni caso, in assenza di pubblico, ma sono stati tutti trasmessi online e, grazie a una collaborazione con la RAI, anche sui loro canali televisivi e radiofonici. Questo ha permesso di raggiungere molte più persone di quante normalmente si sarebbero recate a Lucca in queste giornate (e parliamo di milioni) sia in Italia che nel mondo.

Inoltre, Raiplay ospiterà una sezione realizzata ad hoc per il festival sino a febbraio 2021, dove saranno fruibili i contenuti “original”, i servizi in onda nelle altre reti del gruppo Rai, e una programmazione a tema con la migliore offerta tratta dagli archivi.

L’altra grande novità sono stati i 115 Campfire (negozi specializzati, fumetterie e librerie indipendenti che hanno deciso di diventare degli avamposti locali per eventi specifici del festival) che per tutta la durata della manifestazione hanno contribuito a renderla speciale con una ricca offerta di uscite, anteprime e prodotti.

Secondo gli organizzatori “è stata l’edizione più innovativa di sempre”. Chissà che per l’anno prossimo non la ripropongano, visto i numeri, con o senza covid.

 

Amanda De Luca


Il meglio del cinema asiatico è su Fareastream, la nuova Netflix dell'estremo Oriente

È stata lanciata questo mercoledì la prima piattaforma digitale interamente dedicata al cinema asiatico: il suo nome è FAREASTREAM e sarà presente solo sul territorio italiano grazie a una collaborazione tra il Far East Film Festival e Mymovies.it.

Il FEFF è la più importante rassegna della cinematografia asiatica d’Europa che si tiene ogni anno a Udine verso il mese di aprile. Per la prima volta da 22 anni, l’edizione corrente si è vista rinviata a fine giugno per motivi ormai noti, comuni a tutte le manifestazioni del genere, che sono stati sfruttati dagli organizzatori come stimolo per la creazione di questo progetto.

L’idea della “Netflix asiatica” è stata realizzata grazie a una partnership tecnica con il sito Mymovies, che da sempre si presenta come un database online di informazione cinematografica sui titoli dal 1985 a oggi.

La piattaforma digitale, disponibile da subito con una library di 30 titoli, accoglie le più varie categorie di film dell’estremo Oriente (Cina, Corea, Giappone, Indonesia, Filippine etc.) e si presta a presentare contenuti sempre nuovi che spaziano dai grandi classici agli evergreen, dai titoli rivelazione ai cult, senza dimenticare le ultime uscite. Tutti i film sono disponibili nella versione doppiata in italiano, se esistente e in lingua originale con i sottotitoli per gli amanti del genere.

Per accedere ai numerosi contenuti sul canale e avere il meglio del made in Asia a portata di click, bisogna abbonarsi. Al momento sono a disposizione un abbonamento mensile e un annuale a un prezzo speciale.

Una grande notizia, insomma, per gli appassionati al genere, ma anche per i più curiosi.

 

Per informazioni e approfondimenti qui il link:

https://www.fareastfilm.com/notizie/fareastream/

 

di Amanda De Luca


La pittura di Shoko Okumura: nuove mostre in arrivo

Nata nel 1983, Shoko Okumura è una delle artiste giapponesi più interessanti del panorama italiano. Nonostante utilizzi il linguaggio tradizionale della pittura, è riuscita a inserire nelle sue opere elementi di innovazione che nascono dal sapiente mix delle sue esperienze di studi giovanili.

Infatti, dopo la laurea alla Accademia delle Belle Arti di Tokyo in pittura tradizionale giapponese, si trasferisce giovanissima a Firenze per studiare le tecniche dell’affresco e della restaurazione delle opere. Proprio durante questa esperienza sperimenta l’unione di pigmenti di colore italiani con elementi tradizionali giapponesi, in particolare il supporto di metalli come l’oro e le foglie d’argento per creare una luminosità tutta originale, appassionandosi al risultato e rendendolo il suo tratto distintivo.

E non solo, anche stilisticamente i suoi dipinti, che cercano concettualmente di indagare la relazione tra uomo e natura, si polarizzano tra atmosfere tipicamente giapponesi e dettagli descrittivi derivati dalla tradizione figurativa occidentale.

Nel 2008 vince due prestigiose borse di studio dal Giappone e parte un’escalation di successi che la porteranno a esporre le proprie opere in mostra collettive con altri artisti e diverse personali sparse tra l’Italia e il Giappone.

Nel 2011 collabora con la rivista “Vanity Fair Italy” e nel 2013 realizza dei disegni per le copertine di Japanese food Magazine. Nel 2019 e nel 2020 collabora con TOMA Shoes per la Fashion Week di Milano.

Nonostante attualmente viva e lavori in Italia, non dimentica le sue origini e oltre al suo impegno come artista è anche insegnante di pittura tradizionale giapponese al Centro di Cultura Giapponese di Milano.

Attualmente la troviamo impegnata nella sua nuova personale “Finestre di luce nei boschi” dove propone una visione della relazione tra l’essere umano e la dicotomia esistenziale luce/tenebre, in cui spesso vi si ritrova. “Nella pittura di Shoko la luce non è mai piena perché accecherebbe, ma piuttosto annunciata, intraveduta come dalla finestra di una dimora, ove si coltivano e proteggono gli affetti umani. Allo stesso tempo, è l’invito a percorrere un cammino che dal buio volge verso una luminosità attesa, ma mai pienamente raggiunta. Un bosco è un’assenza di luce, ma non completa, perché pur nelle sue ombre, si rischiara a tratti.”

La mostra è ospitata dalla Galleria Manifiesto Blanco a Milano e sarà visitabile fino al 31 ottobre, ma non sarà l’ultima volta che sentiremo parlare di lei. Infatti, la rivedremo molto presto a Mantova per una nuova collettiva dedicata a opere pittoriche e fotografiche di artisti giapponesi e italiani dal titolo “Stile e Bellezza del Giappone” a partire dal 7 novembre.

di Amanda De Luca


Alla scoperta del buddhismo grazie ai tesori nascosti del Mao

Secondo un recente studio sui più importanti musei del mondo, vi è una quantità spropositata di opere d’arte che non vengono esposte, e che rimangono senza che nessuno possa vederle nei grandi depositi di queste istituzioni.

Ciò nasce dal fatto che a partire dal Seicento, quando le prime collezioni d’arte hanno cominciato a essere accessibili al pubblico, i musei hanno accumulato grandi quantità di opere al servizio della collettività, più di quante potessero effettivamente esporne. Così i beni acquisiti attraverso donazioni da privati o sul mercato dell’arte finiscono per rappresentare un enorme patrimonio non fruibile dal pubblico.

Per questo motivo, i musei hanno iniziato ad esporre a rotazione le opere più rilevanti, mentre quelle di nicchia tendono a non lasciare mai i depositi, a meno che non abbiano bisogno di interventi conservativi.

È questo il caso dell’esposizione al MAO, Museo d’Arte Orientale di Venezia, dal titolo “Tesori nascosti. Un’opera al mese dei depositi” che vede in mostra per un tempo limitato due sculture legate al buddhismo giapponese.

Si tratta di due statue di Kannon risalenti ad un periodo a cavallo del VII e VIII secolo in lacca dorata, recentemente restaurate, che saranno visibili al pubblico sino metà ottobre.

Entrambe le opere rappresentano la figura Avalokiteśvara, il bodhisattva della grande compassione, la cui origine è ancora tutt’oggi controversa.  Numerosi sono, infatti, i dubbi sull’esatta provenienza geografica del suo culto. La maggioranza degli studiosi ritiene che derivi dalle comunità buddhiste collocate ai confini nord-occidentali dell’India, altri invece credono che si colleghi alla tradizione religiosa iranica. Sta di fatto che, come è successo per altre figure religiose, il suo credo si è espanso fino ad arrivare negli angoli più remoti dell’Asia orientale, venendo indicato dalle popolazioni stesse con epiteti differenti, ma con un significato comune.  Avalokiteśvara, in sanscrito, Guānyīn in cinese, Gwan-se-eum in coreano, Quan Âm in vietnamita e Kannon in giapponese sono tutti appellativi che richiamano i valori della compassione e della misericordia, per cui il bodhisattva viene ricordato e venerato.

Al contrario della figura del Buddha che raggiunge l’illuminazione dopo aver esaurito il ciclo delle sue esistenze terrene, il bodhisattva è colui che sceglie di continuare a reincarnarsi per il bene degli esseri umani, spendendo per loro i propri meriti e aiutandoli a raggiungere il nirvana. Egli sacrifica sé stesso spinto dalla pietà e dall’amore verso gli uomini.

Secondo la tradizione buddhista di Nikāya, solo la sua figura può, per tale motivo, ascendere allo stato di Buddha. Gli uomini suoi discepoli, praticando per loro stessi, possono solo accedere allo stato di arhat, ovvero al nirvana, il fine ultimo della vita e luogo di estinzione di ogni dolore terreno.  Per le dottrine Mahayana, invece, ogni essere senziente è in grado di divenire Buddha, poiché possiede in sé tale natura. Essere bodhisattva, quindi, rappresenta solo un voto necessario, che, insieme alla costante pratica delle pāramitā, le virtù trascendenti, permette di raggiungere il massimo grado di illuminazione.

Nonostante la storia che si cela aldilà di queste due figure sia intrigante e ancora da chiarire, la possibilità di essere conosciuta e per le opere di essere ammirate ha un tempo circoscritto. Il “problema” dei tesori nascosti nei depositi deve ancora essere risolto, ma molte grandi istituzioni museali si stanno muovendo da questo punto di vista, pensando ad esempio a degli open storage, delle teche di vetro o scaffali scorrevoli che permettano al pubblico di fruire ugualmente in maniera più veloce delle opere depositate.

Staremo a vedere cos’altro si inventeranno, nel frattempo, però, vi invitiamo a visitare questa esposizione, la storia ora la conoscete!

 

di Amanda De Luca


七夕/ TANABATA

Il 7 luglio in Giappone si festeggia il Tanabata, una festa legata alle stelle. Si dice che Orihime e Hikoboshi, due innamorati, possano incontrarsi solo una volta all'anno nella Via Lattea durante il giorno del Tanabata. Per scoprire le origini storiche e mitologiche della festa vi rimandiamo a questo articolo.

Nel periodo di Tanabata i giapponesi festeggiano cantando “Tanabatasama”, una canzone per bambini, decorando un ramo di bambù con i Tanzaku, strisce di carta su cui scrivere un desiderio, e altre varie decorazioni. Ogni decorazione di Tanabata ha un significato:

 

  • 短冊 / Tanzaku:“Miglioramento dello studio e della calligrafia”, il Tanzaku è una striscia di carta su cui scrivere i propri desideri, ma si dice che sia stato originariamente utilizzato durante il periodo Edo per migliorare lo studio e la calligrafia. Pertanto è di buon auspicio per questo genere di desideri. 

 

  • 織姫と彦星/ Orihime e Hikoboshi:”Amore eterno”, sono passati circa 2000 anni da quando è nata la storia della leggenda di Tanabata, l’amore di Orihime e Hikoboshi continua fino ai nostri giorni e sono diventati il simbolo dell’amore eterno.

 

  • 紙衣 / Kamiko:“Miglioramento del cucito”. Si dice che Orihime fosse una bravissima tessitrice. Il Kamiko è di buon auspicio per migliorare le abilità di cucito e per non avere problemi con i vestiti per il resto della vita.

  • 吹き流し / Fukinagashi:“Miglioramento del cucito”, rappresenta il filo che Orihime utilizzava per tessere e come il Kamiko è di buon auspicio per il cucito.

  • 巾着/ Kinchaku:“Fortuna con i soldi e parsimonia”, nel passato era utilizzato come portafoglio, per questo ora simboleggi la fortuna con soldi e il risparmio.

  • 投網/ Toami:“Attirare la fortuna”, è una decorazione che imita la rete utilizzata nella pesca è di buon auspicio per attirare la fortuna come se stessi pescando con una rete.

  • 屑篭/ Kuzukago:“Ordine e pulito”, ha il significato di mantenere le cose in ordine e pulite visto che si crea usando gli scarti delle altre decorazioni.

  • 折り鶴/ Orizuru:“Lunga vita”, Orizuru significa letteralmente “gru piegata”. La gru è sempre stata, sin dal passato, simbolo di fortuna e lunga vita. Per questo è di buon auspicio affinché i propri familiari possano vivere a lungo.

  • 提灯/ Chochin:“illumina il cuore”, la lanterna di carta, è utilizzata per illuminare ed è quindi simbolo della speranza di illuminare i cuori di tutti.

  • 星飾り/ Hoshi kazari (decorazione a stella) :“Chiedere alle stelle di esaudire un desiderio”, è la speranza che i propri desideri raggiungano il cielo e che vengano esauditi dalle stelle.

  • 菱飾り/ hishikazari (decorazione a rombo):“la Via Lattea”, il rombo rappresenta una stella, messo con molti altri rappresenta la Via Lattea.

  • 輪飾り / Wakazari (decorazione a catena):“Unione”, poiché realizzato collegando diversi cerchi, come le maglie di una catena, è simbolo di unione e collegamento di tutti i desideri, per non dimenticarne nessuno.

  • なす・すいか/ Nasu・Suika (melanzane- angurie):“Desiderio di un raccolto abbondante”. Le melanzane e le angurie sono di buon auspicio per avere un raccolto abbondante.

 

Queste decorazioni per Tanabata si appendono sui rami di bambù nano.

Perché proprio il bambù nano? Il bambù nano ha una forte capacità di proliferazione e una forte vitalità e al suo interno ci sono delle cavità quindi si pensava che ci dimorassero delle divinità. Per questo veniva trattato come fosse sacro ed era usato per molte cerimonie religiose, tra cui anche Tanabata.

Questa volta ho provato a realizzare le decorazioni per festeggiare Tanabata con gli origami. Potete provare anche voi a festeggiare Tanabata scrivendo i desideri su un Tanzaku, preparando le decorazioni e guardando le stelle.

 


GLI AINU DEL GIAPPONE – X. CONCLUSIONI DI UN VIAGGIO

In genere, la ricerca tende allo stato ideologico che classifica anziché analizzare, etichettando lo stile di vita degli Ainu come “arretrato” e “statico”. In accordo con la letteratura antropologica, il termine “tradizionale”, si riferisce alla generale categoria di cacciatori-raccoglitori che vivono in società egalitarie con una estesa divisione del lavoro tra comunità.  Realizzando l’integrazione in un gruppo maggioritario, gli Ainu hanno impiegato le loro specificità in varie modalità. Una di queste riguarda la strategia di enfatizzazione degli elementi peculiari del proprio patrimonio culturale, dunque, la questione ruota intorno a quali credenze e ideologie appartengono attualmente agli Ainu, quali sono gli aspetti che vengono enfatizzati, quali invece quelli trascurati.

Vi è una differenza molto considerevole tra una tradizione genuina (con la capacità di flessibilità) e una tradizione inventata (molto più rigida). La forza e l’adattabilità della prima non devono essere confuse con l'invenzione della tradizione.

Attraverso pratiche come la danza, il cibo, il ricamo, viene a crearsi il fenomeno del revival culturale che fa rivivere pratiche passate negate e ora riconsegnate. La difficoltà di questo processo di riconsegna è una messa in discussione dei termini “appartenenza razziale” e “modernità”, ove parlare di modernità sottolinea una scelta o meglio una negoziazione del loro patrimonio culturale.

Gradualmente si sono venuti a formare dei veri e propri centri culturali, che costituiscono eccellenti esempi di conservazione degli aspetti fondamentali della cultura Ainu tradizionale. Il turismo, in aggiunta, gioca un ruolo indispensabile per l’affermazione dell’etnicità Ainu, la quale si colloca progressivamente attraverso l’etno-turismo che diviene luogo d’espressione personale e di ridefinizione identitaria in continuo movimento. Esso col tempo è divenuto una parte integrante necessaria della sfera sociale Ainu contemporanea. A questo punto un dato importante emerge, ossia che la tradizione culturale non scompare, bensì si trasforma.

Questi centri, sono diventati col tempo luoghi in cui gli Ainu possono esprimere la loro identità, enfatizzando o meno gli aspetti distintivi del loro patrimonio culturale e religioso. I turisti e il grande pubblico sono, non solo invitati all’acquisto di prodotti di manifattura, ma hanno anche la possibilità di osservare come vengono realizzati e perfino realizzarli essi stessi durante i diversi workshop. Altra possibilità è quella di apprendere la storia Ainu, la mitologia, le tradizioni religiose e persino assaporare il cibo tradizionale. La loro presenza come gruppo indigeno dunque, non è solo relativa alle performances di danza e musica.

Centri culturali, villaggi ricostruiti ed etnoturismo sono divenuti “il luogo” in cui i simboli dell'identità Ainu contemporanea vengono costruiti e in cui vengono affrontati temi importanti quali i diritti umani, la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema e dunque il tema della coscienza ecologica, attirando in questo modo l'attenzione dell'opinione pubblica. Non meno importante è la questione del rapporto tra persone e le relazioni che ne scaturiscono; rapporti tra Ainu stessi, tra Ainu e giapponesi, tra Ainu e il resto del mondo. Viene a crearsi in questo modo, senza contare però le sfumature tra i diversi livelli, un universo relazionale avente una triplice dimensione.

Quei rapporti tra Ainu e giapponesi di cui tanto si decantano gli aspetti di contrasto nel passato, sembrano oggigiorno differenti. Il Giappone che si è da sempre considerato un paese “monolitico”, ad un certo punto della sua storia, ha dovuto mettersi in discussione avendo incontrato un’altra storia, quella degli Ainu appunto. Come in ogni incontro umano che si rispetti, il primo passo da compiere è quello di conoscere il mondo altrui, poi di comprenderlo, di stabilire un contatto, sperimentando i punti di connessione e di conflitto, prima di giungere a creare una relazione. Questo processo ha caratterizzato anche il rapporto tra Ainu e giapponesi nel corso degli anni.

Se la cultura orale ha il potere di generare l’interazione fra individui e unire la persone in gruppi, lo stimolo per la conservazione delle tradizioni, la ricerca di nuovi significati nei rituali e negli oggetti tradizionali e la creazione di forme nuove, rende queste dimensioni sempre stimolanti da più punti di vista. Sebbene la ricerca e la promozione della cultura Ainu, da parte degli Ainu stessi è importante, diviene fondamentale il coinvolgimento degli individui non-Ainu dell’Hokkaidō. In questo senso, molte energie sono state investite in fatto di materiali educativi e di offerta di programmi validi proposti in età scolastica, oltre alla creazione di maggiori opportunità per gli Ainu, di confrontarsi con individui non-Ainu, attraverso la promozione di studi multietnici.           Le recenti politiche di promozione della cultura Ainu, hanno visto un incremento sia dell’orgoglio relativo alla propria etnicità sia di un’altissima motivazione nel voler trasmettere la loro cultura nella società dell’Hokkaidō.

 

Kushiro city museum, Kushiro. Foto dell’autrice.

Tra gli ultimi sforzi a cui assistiamo da parte del governo giapponese, possiamo far riferimento alla legge promulgata il 26 aprile 2019 ed entrata in vigore il 24 maggio 2019, la quale oltre a riconoscere la minoranza etnica come “popolo indigeno”, propone nuove sovvenzioni legate al turismo nell'isola di Hokkaidō e permetterà agli Ainu di abbattere gli alberi nelle foreste di proprietà nazionale per i rituali tradizionali. Un altro passo importante, che si sta compiendo già da alcuni anni, riguarda il nuovo Museo Nazionale la cui apertura, che era prevista per il 24 aprile 2020, è stata posticipata per il 29 maggio 2020, a causa del COVID-19. 

 

Prima di lasciare l’Hokkaidō e di salutare a malincuore la mia “famiglia Ainu” visito ancora qualche museo. Mi trovo al “Kushiro city museum”, in compagnia della mia amica Sachiko e ad attenderci vi è una Ricercatrice dell’Università di Hokkaidō e del Center for Ainu and Indigenous People. La sua guida è davvero interessante, poichè scopro degli oggetti Ainu di straordinaria bellezza che non avevo mai visto prima in nessun altro museo, come le else delle spade Ainu per esempio.

 

Museo di Kawamura Kaneto, Asahikawa. Foto dell’autrice.

Sachiko mi consiglia di visitare anche il museo Ainu di Asahikawa, che è il più antico museo Ainu in Asahikawa, costruito nel 1916, dal capo Ainu Kawamura Kaneto. Li incontro una componente delle Marewrew, conosciute durante il Festival dei Popoli Indigeni a Bergamo nel 2017, quando ho avuto la fortuna di organizzare il gruppo Ainu (di cui facevano parte le Marewrew, Oki Kano e l’artista Kohei Fujito), che mi fa da guida al piccolo museo.  

Concluse anche queste due ultime visite museali, è arrivato purtroppo il momento dei saluti, dello scambio di regali, degli abbracci e di qualche lacrima. Ci ritroviamo come sempre al villaggio “Akan Kotan”, nel negozio di artigianato e d’arte di Kohei, dove non ci risparmiamo battute varie, ricordi passati, risate e tante foto assieme.   

Il mio ovviamente non è un addio ma un arrivederci, perché curiosa dei prossimi  avvenimenti che caratterizzeranno l’isola l’indomani della nuova apertura museale nel 2020. Dunque, arrivederci mio bell’Hokkaidō a te e al tuo meraviglioso popolo, gli Ainu.

 

                                                                                                                                 Sabrina Battipaglia


GLI AINU DEL GIAPPONE – IX. SAPORI E DISSAPORI

Quando si fa riferimento agli Ainu e alla propria cultura, si tende a prendere in considerazione aspetti come il tatuaggio, il ricamo tradizionale, le cerimonie e la loro trasformazione tra passato e presente, cosi come la danza, ma non viene mai menzionato il cibo. Se si ha la possibilità di andare in Hokkaidō, raccomando di prestare attenzione al cibo che qui assume altre sfumature o in alcuni casi si cambia proprio musica.

Oltre alle diverse varianti del ramen (Asahikawa Ramen, Sapporo Ramen, Hakodate Ramen),

piatti come il “Genghis Khan” (barbecue mongolo) è un piatto tipico dell’Hokkaidō, il sashimi di calamaro, il granchio reale, le “Jagabata” (Patate con burro), l’ “Unidon” (ciotola di riso con riccio di mare), o la montagna di gelato soffice e tanto altro ancora.

Ma se ci si avvicina più strettamente al mondo Ainu, possiamo citare una ulteriore differenza in fatto di cibo.

Tradizionalmente, le radici dopo essere state estirpate, lavate, bollite e ridotte in poltiglia, venivano utilizzate per la preparazione di dolci, oppure lasciate asciugare al sole per un successivo utilizzo nei mesi più freddi. Le verdure hanno da sempre occupato un posto di rilievo nell’alimentazione Ainu, come ad esempio un piatto tipico è il rataskep. Un altro piatto è la minestra chiamata ohaw, che a seconda degli ingredienti assumeva diversi nomi: ohaw di kam (“minestra di carne”); ohaw di pukusa (kitopiro in giapponese, “minestra di aglio selvatico”); ohaw di pukusakina (“minestra di  anemone”). Altro alimento era il sayo, una farinata di grano, che si lasciava bollire assieme ad altri ingredienti, come il munchiro (“miglio”) ad esempio, infine lo shito, ossia riso e altre granaglie pestate nei mortai a formare degli gnocchi grossi, cotti in saporiti brodi di carne, il piatto principale durante la Chiesei-nomi (la cerimonia di costruzione della casa). Castagne impastate con lardo o con uova di pesce era un piatto prelibato. La carne animale, come quella di orso o di cervo, veniva prima bollita e poi asciugata al sole, oppure lasciata asciugare sulle cremagliere sul camino all'interno dell’abitazione.  La bevanda tipica era la Kamui-ashkoro, una birra lattiginosa di miglio a basso contenuto alcolico.

 

“Rataskep”, presso il Ristorante “Harukor” di Shinjuku, Tokyō. Foto dell’autrice.

 

Diverse sono le possibilità di gustare il cibo Ainu, poiché esistono ristoranti o con menu esclusivo indigeno o che inseriscono anche piatti della cucina Ainu. Se vi trovate a Shinjuku, Tokyō, e volete fare una esperienza in un ristorante tipico Ainu, l’ “Harukor” può fare al caso vostro. Si tratta di un piccolissimo spazio ma molto accogliente nel quale è possibile assaggiare il “rataskep” ossia un piatto a base di zucca, mais ed erbe dall’aspetto morbido e vellutato come se si mangiasse un nostrano purè; oppure gli “imo-shito”, cioè dei grossi gnocchi a base di patate o di zucca fritti, il “Rokuniku sutēki” (tagliata di cervo), disposta nel piatto a mezzaluna, oppure è possibile provare la zuppa “ohaw”, saporita quella con salmone e verdure.

 

“Rokuniku sutēki” (tagliata di cervo), presso il Ristorante “Harukor” di Shinjuku, Tokyō. Foto dell’autrice.

 

Nel ristorante “Drive in Yukara”, presso il villaggio “Nibutani Kotan” a Biratori, è possibile gustare un ottimo ramen, il “kitopiro ramen”, che appare come un normale ramen, ma poi si è colti di sorpresa, quando si sente per primo il sapore di una cucina genuina e poi il gusto del kitopiro che è delizioso, e che non smetteresti mai di mangiare.

 

“Kitopiro ramen”, presso il Ristorante “Drive in Yukara”, villaggio “Nibutani Kotan”, Biratori. Foto di Flavio Risi.

 

Spostandoci verso il villaggio “Akan Kotan”, un ristorante in cui provare alcuni piatti Ainu è il “Banya”, dove oltre a diverse pietanze a base di kitopiro (come ad esempio in aggiunta ai ravioli, in una frittata oppure bollito) si possono mangiare salmone e altre specie di pesce come l’ “hokke” (un pesce simile allo sgombro) e lo “shishamo” (sperlano).

Un altro ristorante tipicamente Ainu, ma che in realtà nel menu offre anche altro, è il “Poronno”. Ci troviamo sempre all’interno del medesimo villaggio, qui si può gustare la “yukku Ohaw”, una zuppa a base di carne di cervo e verdure, accompagnato da una porzione di riso con fagioli, o la versione “chep Ohaw”, con salmone e verdure tra cui l’immancabile kitopiro.

 

“Chep Ohaw”, presso il Ristorante “Poronno”, villaggio “Akan Kotan”, Kushiro. Foto dell’autrice.

 

 Altro piatto è il “konbushito”, tipico della regione di Hidaka, una sorta di gnocco gigante realizzato con farina di riso e sormontato da salsa d’alga kelp, le “puccheimo”, ossia patate lasciate fermentare durante l’inverno sotto la neve e servite a fette.

 

“Puccheimo”, presso il Ristorante “Poronno”, villaggio “Akan Kotan”, Kushiro. Foto dell’autrice.

Oppure si possono provare alcuni tipi di bevande come quella chiamata “Sikerebe” (un infuso di sughero Amur usato dagli Ainu per il mal di gola e mal di stomaco), oppure la “Setaento” (con balsamo vietnamita che viene utilizzato per il potere rinfrescante dopo pasto, quando si è ammalati annusandolo semplicemente o messo nel porridge) e infine la “kabanoanatake” (a base di chaga che cresce in abbondanza nella foresta Akan e che è utile per rafforzare il sistema immunitario).

 

“Marimo mojito”, presso il Ristorante “Ajishin”, nei pressi del villaggio “Akan Kotan”, Kushiro. Foto dell’autrice.

 

Un ultimo ristorante che cito e che sento davvero di consigliare per l’ottimo gusto dei suoi piatti è l’ “Ajishin”, in cui il menu è prevalentemente dell’Hokkaidō, ma si possono trovare anche piatti della cucina Ainu. Si tratta di un posto incantevole, a gestione familiare, in cui vi risparmio la solita lista di piatti a base di zuppe, di pesce, ma cito solo una bevanda che è una invenzione tutta loro e che è detta “marimo Mojito”, a base di rhum bianco, ghiaccio tritato, acqua gassata, sciroppo di menta e per finire alga marimo.

Termina qui il mio viaggio all’insegna del cibo Ainu, che devo dire mi ha trovato perplessa in alcuni casi, forse perché non preparata al gusto di alcuni piatti, ma che mi ha saputo regalare anche nuovi  “viaggi di gusto” che porterò ovviamente sempre con me.    

 

 

                                                                                                                   Sabrina Battipaglia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


GLI AINU DEL GIAPPONE – VIII. LA RIVITALIZZAZIONE DELLE ARTI

 

A seguito della Restaurazione Meiji e, dopo un periodo di negazione della cultura tradizionale Ainu da parte del governo giapponese si assistette ad un passaggio di considerazione degli Ainu che attribuiva loro un nuovo significato. Divenuti un arricchimento della cultura maggioritaria, si assistette alla ripresa delle diverse pratiche tradizionali Ainu come il tatuaggio, la danza, la lingua.

 

Quando si parla di cultura tradizionale Ainu, e più precisamente alle arti, si fa riferimento alla danza, alla musica e all’artigianato. Ed è proprio dalle loro forme originarie che voglio partire, per poter comprendere come sono state recuperate e riproposte nella contemporaneità.

Partendo dalla danza, una forma tradizionale era detta Upopo, in cui protagoniste erano le donne, sedute in cerchio, che per accompagnarsi si davano ritmicamente dei colpi sul petto, mentre in coro si elevavano voci intrise di tradizione Ainu. In realtà esso era una sorta di introduzione ai vari balli per rompere il ghiaccio e riscaldare l'atmosfera. Oltre all’Upopo, esisteva anche una variante detta Rimse che vedeva i partecipanti invece in piedi. Originariamente si riferiva ad una combinazione di balli e canti, derivata da una parata di ballo. Oltre al Rimse dell’emush, accompagnato da grida coraggiose, poiché era la danza di intimidazione degli dèi malvagi, ne esistevano altri tipi che avevano per tema gli animali, ed erano caratterizzati dai relativi suoni onomatopeici, come il Chikapne di Hararki con il tema dell'uccello; il Chironnup con il tema della volpe; il Fumperimse con il tema della balena. Quest’ultimo cominciava con una scena in cui una donna anziana trovava una balena indebolita, la notizia presto si diffondeva fra gli abitanti del villaggio, che accorrevano dando così il via alla rappresentazione. Pare che per realizzare i desideri, gli abitanti del villaggio effettuassero questa magica danza. Altro tipo di rappresentazione era il tapkar che vedeva la sola presenza degli uomini nel battere lentamente i piedi a terra. Queste accennate, sono però solo alcuni esempi. La danza tradizionale Ainu è stata riconosciuta nel 1984 come patrimonio dell’umanità.    

Attualmente i villaggi turistici sono le porte di accesso alle rappresentazioni di danza tradizionale. Se lo studioso storce il naso, il turista sarà ben lieto di aver potuto assistere ad una emozionante rappresentazione indigena. 

In questi centri, le rappresentazioni a cui possiamo assistere sono il risultato della difficile ricostruzione di un mondo che senza dubbio ha subito modificazioni di varia natura, confrontandosi di volta in volta con le diverse fasi storiche. Sebbene il villaggio “Poroto Kotan” è attualmente chiuso per i lavori di riqualifica e di realizzazione del nuovo progetto museale e parco tematico, la cui apertura è prevista per il 29 maggio del 2020, è possibile ancora continuare ad assistere agli spettacoli nel villaggio Akan Kotan per esempio.

Tra gli spettacoli quello dal titolo “Lost Kamuy”, improntato sulla simbiosi tra gli Ainu e il lupo dell’Hokkaidō, portato in scena a partire dal 19 marzo 2019.  Si tratta di un vero e proprio spettacolo per il quale è stata studiata appositamente una commistione tra musica tradizionale Ainu e musica moderna non Ainu, tra danza tradizionale Ainu e danza contemporanea non Ainu. Rimanendo sempre in tema di danza, un altro spettacolo denominato “Traditional dances”, mostra proprio le danze tradizionali della durata di qualche minuto e precedute da una voce narrante che spiega il significato di ciascuna danza. Altro spettacolo ancora è lo “Iomante Fire Festival”, che segna la ripresa dell’antico rituale dell’orso. Per quel che riguarda gli spettacoli esterni al teatro “Ikor”, dall’ultima settimana di gennaio, fino al mese di marzo, il lago Akan si trasforma in un palcoscenico singolare durante il Festival del ghiaccio, che offre ogni sera una dimostrazione sotto un cielo di fuochi d'artificio. Un’altra occasione di vivere un’esperienza dal sapore Ainu è detta “Kamuy Lumina”. Non si tratta di uno spettacolo, ma di una passeggiata nella foresta durante la quale è possibile sperimentare il contatto con la natura e il riconnettersi con le divinità. A ricordare questo impegno c’è la grande scultura del gufo che osserva gli uomini e protegge il villaggio Akan. Inoltre, sono molteplici le attività che si possono svolgere all’Akan Kotan durante l’anno, come le lezioni di ricamo, di intarsio del legno, di musica tradizionale, di letture di storie Ainu.

Una sezione del teatro “Ikor”, presso il villaggio “Akan Kotan”, Kushiro. Foto dell’autrice.

 

Passando alla  musica e partendo da quella tradizionale,  tra gli strumenti utilizzati vi era una sorta di cannuccia-fischietto (wakka-kukutu o chi-rekte-kuttar), un corno di corteccia (kosa-bue), un tamburo (kaco) utile per accompagnare i canti sciamanici, una sorta di cetra a cinque corde (tonkori) e una specie di arpa ebraica (mukkuri).

Strumenti musicali e musica sono stati utilizzati come forme espressive per inviare questo o quell’altro messaggio. Ecco allora la nascita di alcuni gruppi musicali, primo fra tutti quello denominato  “Ainu Rebels”, gruppo che mescolava musica tradizionale, danza tradizionale, con elementi hip-hop. Dall’anno della sua formazione, il 2006, il gruppo musicale è rimasto attivo fino al 2010 e, contava fino a 15 membri. A capo vi era Mina Sakai, di origine Ainu, la quale ha spiegato che ha voluto tale formazione musicale per rivendicare l'orgoglio nella sua eredità, essere un esempio e incoraggiare gli altri a fare lo stesso. Il gruppo si è concentrato principalmente su musica dal vivo e spettacoli di danza. La stessa cantante, nel 2011 da il via ad un altro progetto dal titolo “Imeruat”. Si tratta di un duo musicale composto da lei e dal pianista Masashi Hamauzu. Se volessimo descriverne il genere, sarebbe meglio dire che si tratta di un mix tra Alternative, Pop, Progressive, Elettronica, World music, Rock, Etnica, Ainu, Classica. Mina utilizza nel canto tre lingue; Ainu, giapponese e inglese. Un altro gruppo musicale a cui possiamo far riferimento e l’ “Oki Dub Ainu Band”, con il cantante e musicista Oki Kano. Solista e membro del gruppo musicale, il suo è un approccio alla musica di tipo contemporaneo, miscelando vari  generi musicali come il Reggae, l’elettronica con melodie folk Ainu, ha ricevuto non solo elogi in Giappone, ma anche in tutto il mondo, divenendo il maggior musicista di “tonkori” vivente. Un gruppo tutto al femminile è quello delle “Marewrew”, attivo sul tema della riproduzione e della trasmissione della canzone tradizionale Ainu “Upopo”. La preziosità del loro lavoro è quello di cantare e di creare, attraverso la ritmicità di schemi, una sorta di trance naturale. Un’altra musicista esperta di “mukkuri” era Umeko Ando, venuta a mancare nel 2004, la quale utilizzava i suoni Ainu e li riproponeva in versione tradizionale. Altro aspetto delle arti è l’artigianato.

L’interesse per gli Ainu nei confronti della pratica dell’intarsio, a partire da oggetti di utilità quotidiana, fu una conseguenza alla mancanza di formazione in campo agrario, cui vennero obbligati dalla politica di assimilazione dal governo giapponese. Prima dai wajin immigrati sull’isola, poi in seguito al progetto di promuovere l’Hokkaidō e le sue bellezze paesaggistiche come attrazione turistica, gli Ainu videro aumentare le richieste di manufatti artigianali. Ben presto le tecniche dell’intarsio vennero migliorate, così quando si assistette alla massiccia presenza delle forze armate dell'occupazione americana sul territorio giapponese, per gli Ainu fu una occasione di un nuovo mercato. Da qui in poi vennero prodotte grosse quantità di sculture in legno per soddisfare le differenti richieste di souvenir tipici.

 

 

Esempio di prodotti Ainu per i turisti. Questa linea è stata creata da Kohei Fujito del laboratorio Kumanoya, presso il villaggio “Akan Kotan”, Kushiro. Foto dell’autrice.

 

Attualmente, sono soprattutto i villaggi ricostruiti ad offrire la possibilità di esporre i propri prodotti di artigianato, sia che si tratti di intarsio tradizionale più propriamente detto che di manufatti di ogni genere, pensati e realizzati per soddisfare la curiosità del turista di turno.

Chi visita l’Hokkaidō oggi sarà accompagnato dalla forte sensazione che la presenza Ainu sia ovunque all’interno dell’isola, che il passato è rimescolato assieme al presente, in tutti i campi, per dar vita a qualcosa di “attualmente intrigante” ai fini turistici. Di qualsiasi rimescolamento si tratti, tale strategia di rivitalizzazione appare essere una buona via alla sopravvivenza, per cui non ci resta che godere della cultura Ainu e della bellezza dell’isola.

 

                                                                                                                  Sabrina Battipaglia  

 


GLI AINU DEL GIAPPONE – VII. A SPASSO TRA I VILLAGGI RICOSTRUITI

Nel corso del tempo, gli Ainu hanno assistito ad un passaggio di grande interesse, fondato su un meccanismo iniziale che considerava loro “ultimi”, fino ad un invito al folklore. I centri turistici, in questo modo, hanno acquisito un valore aggiunto divenendo le principali porte d’accesso verso un universo ancora pervaso dal mistero. In realtà, la presenza degli Ainu sull’isola rimane circoscritta ai villaggi ricostruiti, consacrati interamente al turismo. La politica di assimilazione forzata degli Ainu nella società giapponese, dopo la Restaurazione Meiji, vide il divieto delle tradizionali pratiche indigene come i tatuaggi femminili, le barbe e gli ornamenti maschili e addirittura parlare la propria lingua, operando una conversione alla politica agricola. In questo contesto, la riappropriazione e il controllo della propria immagine è risultata alquanto necessaria e l’etno-turismo a tal proposito si è rivelato un supporto significativo.

Secondo gli antropologi il ruolo dell’etno-turismo si rivela essenziale, poichè passa attraverso la conservazione e lo sviluppo delle espressioni culturali contemporanee. La potenza generatrice che esso possiede stimola la ricerca attenta dei rituali e degli oggetti tradizionali, cooperando in tal modo la rivitalizzazione degli antichi saperi e supportando la formulazione delle rivendicazioni identitarie. La qualità delle loro prestazioni in aggiunta alla ricerca di autenticità culturale è accompagnata da un investimento formativo costante. Si tratta della creazione di una reale riappropriazione dell'identità. Gli sforzi dunque verso l’etno-turismo, possono essere percepiti ora come una seria possibilità di riconoscimento. Attualmente tre sono i villaggi ricostruiti attivi: il Poroto Kotan; il Nibutani Kotan e l’Akan Kotan.

 

Il Poroto Kotan (“grande villaggio lacustre”), originariamente sorgeva nel distretto urbano di Shiraoi, nel 1965 venne dislocato sulle rive del Lago di Poroto, andando a formare un museo all'aperto il cui fine era la conservazione e la diffusione della tradizione culturale Ainu. Nonostante il sito sia attualmente chiuso per i lavori di riqualifica dell’area e per il complesso progetto di museo e parco, ho voluto comunque ricordare come è stato fino ad ora, inserendone una breve descrizione. L'ingresso del villaggio era custodito da una grande statua, alta 16 m, nota come Kotankorkur (“la statua del capo”.  La struttura comprendeva cinque Chise («casa in paglia»), un fienile, una sala per gli spettacoli di danza e di musica,  un giardino botanico, uno zoo in miniatura con l'orso, un canile per cani da caccia Ainu, un centro espositivo molto fornito la cui documentazione è bilingue (giapponese e inglese), un museo e numerosi negozi di souvenirs. Il giardino botanico, accoglieva circa 50 tipi di piante utilizzate dagli Ainu sia come rimedi naturali che in cucina. L’operazione del villaggio di Shiraoi è stata assolutamente unica, il principale beneficiario degli sforzi di conservazione e di rivitalizzazione della cultura Ainu. Quando l’ho visitato nel mese di agosto 2019, esso appariva come un enorme cantiere a cielo aperto. La riapertura era prevista per il 24 Aprile 2020, poi a causa del virus COVID-19, è stata posticipata al 29 Maggio 2020, mentre i Giochi Olimpici di Tokyō sono stati spostati per l’anno 2021. 

Statua del capo “Kotankorkur”, presso il “Poroto Kotan”, Shiraoi. Fonte: https://hokkaido-labo.com/en/shiraoi-poroto-kotan-11471

Il secondo villaggio è il Nibutani Kotan (Niputai, in lingua ainu sta per “il luogo dove gli alberi crescono in abbondanza”. Nibutani di fatto, è un quartiere nella città di Biratori in Hokkaidō. Si tratta di una foresta ove, la ricca bellezza delle stagioni, che si caratterizza di una primavera scintillante, di un’estate dai colori vivaci e ancora degli scenari dai toni caldi che contraddistinguono l'autunno fino al bianco candore dell'inverno, si riflettono nelle acque del fiume Saru. Il villaggio accoglie il “Museo della Cultura Ainu”, che dispone di una vasta collezione di oggetti della tradizione Ainu, assieme a una più modesta collezione, esposta in maniera permanente, nel Museo di Kayano Shigeru, fondato nel 1972. Caratterizzato da oltre 10.000 manufatti, oggetti da lui stesso messi insieme nel corso del tempo. All’esterno dei musei, sono stati realizzati diversi Chise, nei quali si alternano rappresentazioni come i riti e le danze tradizionali. Al loro interno, ogni Chise prevede un focolare impiegato sia per il riscaldamento che per la cucina, ma soprattutto per la venerazione di Fuchi Kamuy, la divinità del fuoco, la quale veglia sulle famiglie residenti. Il focolare, si presenta con una rastrelliera di legno fissata al soffitto, per consentire al pesce o alla carne l’affumicatura tipica. Accanto al “Museo della Cultura Ainu”, si erge il “Museo Storico del fiume Saru”, fondato nel 2010, considerato un archivio estremamente interessante. Esso custodisce al suo interno, un modello in scala del territorio circostante prima che la diga fosse stata costruita, con gli spazi culturali chiaramente condannati, posti in evidenza. Tra gli oggetti che fanno parte della collezione, spade di ferro, ciotole e aghi, accumulati nel corso dei secoli, dal commercio con i giapponesi. Simile ad un ufficio turistico, completa l'istituzione precedente offrendo molte informazioni sulle pratiche socioculturali aborigene.

Nibutani non è paragonabile ai centri turistici, poiché la regione è l'unico distretto in Giappone ove tra 500 persone che vi abitano, la maggioranza (più dell'80% della popolazione) è Ainu. Un crescente interesse per la loro cultura porta un numero maggiore di turisti, così a partire dal 2011, si assiste ad una interessante iniziativa che vede protagonisti gli artigiani. Il progetto prende il nome di (Takumi no michi, 匠 の 道), che sta per “la via degli Artigiani”. Gli accurati lavori artigianali presto hanno ottenuto lo status ufficiale di “mestiere tradizionale”, rilasciato dal Ministero dell'Economia nel 2013. Ma il Nibutani continua, ad ogni modo, a prendere le distanze dai villaggi turistici. Durante la mia visita nel mese di agosto del 2019, ho constatato che l’aria che si respira non è quella di un villaggio turistico, ma di un’area in cui artigianato/arte Ainu la fanno da padrona, tra collezioni museali e botteghe impolverate dei diversi artigiani/artisti.  

Il villaggio “Nibutani Kotan”, a Biratori. Foto dell’autrice.

 

Infine vi è l’Akan Kotan. Il villaggio sorge sulle rive del lago Akan, all'interno del Parco Nazionale, dove vivono circa 200 Ainu. Esso è l'unico ad offrire prestazioni per tutto l'anno e rappresentazioni socio-culturali della vita Ainu. Caratterizzato di un’arteria principale, contraddistinta da negozi di souvenirs (artigianato Ainu), ristoranti ove è possibile degustare piatti tipici, caffè e altro ancora, la quale conduce al centro del villaggio ove un teatro detto “ikor” offre agli ospiti la possibilità di assistere a spettacoli di danza, di ascoltare la musica tradizionale e seguire con attenzione i racconti dall’ekashi e dalla fuchi, in grado di trasmettere l’autentico spirito d’armonia tra Ainu e natura, si può visitare anche una Pon-Chise, cioè una piccola casa tradizionale e il Museo della Memoria cha ha la funzione di preservare e diffondere la cultura Ainu. Molte sono le attività svolte durante l’anno come le lezioni di ricamo, di intarsio del legno, di musica tradizionale, di storia.

Il villaggio “Akan Kotan”, Kushiro. Foto dell’autrice.

La sensazione che mi ha accompagnato durante la mia visita al villaggio, nell’agosto del 2019, è stata di industria turistica. Negozi, supermercati, ristoranti, workshops, spettacoli, era tutto un richiamo alla cultura indigena. L’Ainu Kotan stesso, può dunque essere definito un marchingegno di sopravvivenza fortemente collegato all’economia del turismo. Queste attività, sono di vitale importanza per gli Ainu ma, allo stesso tempo, hanno suscitato numerosi dibattiti poiché il turismo può assumere una connotazione negativa, quando l’immagine delle tradizioni sacre è alterata, facendo apparire tutto artificioso, o addirittura risultare prive di qualsiasi veridicità storica, rimandando l’immagine di una vita che non esiste più.

Tuttavia, se l’etno-turismo si fonda su condizioni sane, può anche tradursi in un formidabile supporto socio-economico. L’impulso delle economie locali, può in effetti migliorare la qualità della vita degli interessati, e impedirne la semplice estinzione, creando una fitta rete di impieghi. Gli aborigeni in questo modo, partecipano attivamente all’economia rivelandosi un valido esempio di collaborazione tra comunità con mutuo interesse.

 

 

                                                                                                                                 Sabrina Battipaglia