COSA TROVARE NEL NUOVO NUMERO DI PAGINE ZEN!

Esce il nuovo numero di Pagine Zen! Ecco gli approfondimenti che troverete nel n. 123

- Taiko Monogatari
Storie di costruzione
di Chiara Codetta Raiteri 
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/taiko-monogatari-storie-di-costruzione

- 清風徐来
La fresca brezza arriva lentamente
Calligrafia di Bruno Riva 

- Kokeshi
Il Tōhoku fra tradizione e design
Recensione di Anna Lisa Somma
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/kokeshi-il-tohoku-fra-tradizione-e-design

- Kuki Shuzō: Iki
o l'estetica della singolarità
di Laura Ricca
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/kuki-shuzo-iki-o-l-estetica-della-singolarita

- Dalla necessità alla bellezza
Un'indagine su “Mottainai” (2^ parte)
di Rossella Marangoni
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/dalla-necessita-alla-bellezza-un-indagine-su-mottainai-seconda-parte

- Tra antenati e legami perduti
Incontri con le itako del Tōhoku (1^ parte)
di Marianna Zanetta
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/tra-antenati-e-legami-perduti-incontri-con-le-itako-del-tohoku-prima-parte

- Scorci di Kyōto
Tre opere inedite di Hōen nella collezione del Museo d'Arte Orientale di Venezia
di Francesca Storti
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/scorci-di-kyoto-tre-opere-inedite-di-hoen-nella-collezione-del-museo-d-arte-orientale-di-venezia

- Il tavolo del letterato cinese (2^ e ultima parte)
di Carla Gaggianesi
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/il-tavolo-del-letterato-cinese-seconda-parte

 - L'influenza del teatro Kabuki sull'Ukiyo-e
di Paolo Linetti 
Con approfondimento al link:
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/approfondimenti/l-influenza-del-teatro-kabuki-sull-ukiyo-e

 

--- Questo il link all'intero numero 123 di Pagine Zen
https://temizen.zenworld.eu/paginezen/archivio/pagine-zen-123

 
 
 

JF Digital Collection, la nuova piattaforma online della Japan Foundation

Dal 1972, la Japan Foundation è un’istituzione attiva nella diffusione e nella promozione della cultura giapponese in tutte le sue forme, sia in Giappone che all’estero.

Con 4 sedi in patria e 25 filiali in 24 paesi, il suo scopo principale è quello di realizzare programmi globali di scambio culturale che creino opportunità di interazione tra persone provenienti da ogni parte del mondo. 

Attraverso le numerose attività e servizi offerti, essa coltiva fiducia e amicizia, oltre che occasioni per stabilire legami attraverso la cultura, la lingua e il dialogo.

A seguito dell’ormai nota situazione pandemica, la Japan Foundation ha portato online le sue attività e le ha raccolte nella JF Digital Collection.

Si tratta di una nuova piattaforma in cui si trovano numerosi materiali tra interviste, articoli, video e approfondimenti legati al Giappone che sarà a disposizione di tutti, appassionati o curiosi, gratuitamente.

“Il covid-19 ha infettato molti aspetti della nostra vita sociale e individuale, limitando in modo considerevole le nostre opportunità di relazione. Nonostante i programmi di scambio culturale in tutto il mondo abbiano subito restrizioni, sosteniamo che questa situazione non debba scoraggiare la nostra innata curiosità.”

Tutti i contenuti, in giapponese con sottotitoli in inglese, sono disponibili a questo link: https://bit.ly/2MZRIKE

 

Amanda de Luca


I giardini giapponesi: un percorso attraverso questa forma d'arte

Molti studiosi paragonano i giardini giapponesi a dipinti. Questo poiché essi, nella storia e cultura del Giappone, non furono quasi mai dei semplici luoghi da attraversare per giungere a un edificio, e nemmeno furono pensati solo come elementi decorativi della struttura che attorniavano. Essi furono sempre delle vere e proprio opere d’arte da ammirare come quadri, oltre che da sperimentare, vivere.

Questo parallelismo tra un dipinto e un giardino può spingersi ancora più in là se pensiamo alla varietà delle tipologie di strutture che esistono: come l’arte visuale ci stupisce con opere sempre differenti, anche il giardino in Giappone assume diversissime sfaccettature, varie per metodo, per stile, collocazione, tecnica.

Il giardino giapponese ha una profonda relazione con l’edificio che accoglie: quasi sempre queste due strutture non vengono pensate separatamente, ma si completano l’un l’altra. Il giardino è parte della stessa architettura, e l’architettura apre le sue porte al giardino, che si insinua in questa. Non ha una funzione decorativa rispetto all’edificio, né è un luogo che viene utilizzato solo come attraversamento per andare dall’estero all’interno (basti pensare che molti giardini non sono nemmeno attraversabili). Esso è qualcosa da osservare, ammirare, solo alcune volte percorrere. È un luogo  di sentieri da scoprire e che attiva la nostra immaginazione.

Nonostante le tipologie di giardino siano molto differenti tra loro, e facciano riferimento e concezioni e tecniche diverse, è possibile ricondurre questa forma d’arte a un antico modo di pensiero a proposito della natura. Shintoismo e buddhismo zen sono i culti che plasmano la concezione di natura che a sua volta è linfa vitale per le arti sin dalla tradizione. Lo shintoismo vede nelle forme della natura la presenza del sacro, dei kami, e per questo esercita rispetto e venerazione nei confronti di questa. Sin dall’antichità il culto shintoista prevede l’adornare elementi naturali (come ad esempio pietre o alberi) per mettere in evidenza i luoghi di possibile manifestazione della divinità, per ricordare come luogo naturale e entità sacra non si pongano su differenti livelli di realtà, ma siano invece in continuità tra loro. In concreto: la divinità non risiede in un luogo altro rispetto al mondo umano e naturale, ma silenziosamente è presente nel mondo negli elementi che lo compongono. In un modo molto simile, seppur differente, il buddhismo zen vede continuità in tutte le cose: l’uomo deve cercare di non vedersi più come un soggetto astratto dal tutto, ma deve comprendersi come inserito nella realtà delle cose, nella natura in divenire. Non deve mortificarsi, solamente comprendersi come parte di una realtà in cui nessun ente sussiste per se stesso. Nel corso della storia, e ancora oggi, spesso i due culti si sono intrecciati al punto da fondersi: i kami dello shintoismo vengono a volte considerati delle manifestazioni del Buddha.

Il sentimento estetico che si sviluppa da queste premesse va dunque nella direzione dell’apprezzamento e rispetto per ciò che già esiste nel mondo, per la natura che diviene: essa è dimora del sacro, ed è anche ciò che tutti siamo al fondo. È l'accettazione e ammirazione delle cose per come esse sono e si danno, seppur effimere o destinate a perire.

L’arte pone le sue radici in queste concezioni, e nella forma dell’architettura di giardini si concretizza nella valorizzazione degli elementi della natura così per come sono, senza il desiderio di volerli addomesticare o sottomettere. Compito dell’architetto è quello dunque di predisporre un giardino in cui nulla sembri artificiale o posto dall’esterno, ma piuttosto dove gli elementi della natura vengano valorizzati per ciò che sono, poiché detengono una bellezza che non è costruita o creata, ma è scoperta e valorizzata, interpretata. Ciò viene espresso molto bene dallo studioso Teiji Itō nel confrontare un giardino occidentale con uno orientale: in occidente, l’architetto si pone come colui che organizza e plasma la materia, che impone una forma; in oriente, invece, l’ordine è prima percepito e poi accettato. Itō crede dunque che si tratti di scoprire un nuovo tipo di naturalezza: non quella di un paesaggio incontaminato, ma quella che l'artista fa emergere e scopre nella natura attraverso tecniche differenti.

L’arte dei giardini, comunque, non ha interpretazioni univoche: quando ci troviamo di fronte a uno di questi, la nostra immaginazione può vagare, come davanti a un quadro o a un’opera d’arte. Solo, non dovremmo pensare a questo come a un oggetto posto in un museo. Dovremmo invece pensare al giardino come a un insieme di elementi vivi, pulsanti, in trasformazione, in continuità con ciò che lo circonda. Il resto è lasciato agli occhi di chi guarda: questo percorso tra diverse tipologie non vuole quindi essere un modo per fornire un’unica interpretazione a chi legge, ma vuole piuttosto essere un invito e una traccia per chi voglia perdersi in questa meravigliosa forma d’arte.

 

Fonti:

Sophie Walker, Il giardino giapponese

 

a cura di Susanna Legnani


La percezione dello spazio nella visione degli artisti giapponesi contemporanei

Perché è così importante pensare agli spazi che ci circondano? Essi sono ciò in cui viviamo e a contatto con cui trascorriamo il nostro quotidiano, mettono in forma certe esigenze e bisogni, ma rappresentano anche contesti culturali, storici, economici, sociali differenti.

In un periodo come quello che stiamo vivendo è inevitabile soffermarsi spesso a pensare allo spazio in cui ci troviamo: spazio chiuso di una casa, di un ufficio, di un supermercato, o spazio aperto di una strada, un parco, una piazza. Il covid-19 rappresenta un insolito nella nostra quotidianità, tanto da ribaltare completamente la percezione di ciò che abbiamo intorno: ecco infatti che le distanze si dilatano, vengono prediletti gli spazi aperti a quelli chiusi, quelli solitari a quelli affollati.

In questi tempi, dunque, dove il mondo in cui viviamo assume una fisionomia differente dal solito, vorrei portare il lettore alla scoperta di alcuni modi di percepire lo spazio in opere di artisti giapponesi contemporanei. Sarà inoltre interessante notare come, in maniera inconsapevole, alcune delle caratteristiche di queste visioni ben si adattino al difficile momento che stiamo vivendo.

Innanzitutto, è bene iniziare da alcune caratteristiche più generali. Per esempio, è da considerare come in Giappone molto spesso i luoghi vengano percepiti in maniera relazionale: quasi nessuna costruzione si estrania dal resto, ma anzi lo spazio viene percepito fondamentalmente come fluido e connesso. Se tutto ciò può sembrare veramente molto astratto, vi invito allora a portare la mente a un santuario shintoista: a chi ha mai visto video in merito o visitato il Giappone sarà probabilmente parso di notare come camminando per le strade delle città si possano spesso incontrare torii di santuari. Il torii del santuario shintoista è un elemento che viene inserito in diversi contesti, anche non prettamente religiosi, per segnalare l’avvicinamento a uno spazio sacro. È una struttura aperta, che non pone un limite netto tra i luoghi. Sensazioni simili sono percepibili in tutta la stessa città giapponese, dove il limite tra case e strade è più labile di ciò a cui siamo abituati, e anche nelle sue abitazioni tradizionali, in cui l’interno si relaziona in modo continuo con gli esterni attraverso i fusuma, gli shoji e altri elementi architettonici che promuovono la continuità.

La relazione di un luogo con ciò che lo circonda non è quasi mai trascurata nella strutturazione degli spazi in Giappone. Il rapporto con la natura è qualcosa di profondamente radicato nella cultura, e trae le sue radici dal culto autoctono, dallo zen e non solo. Questa relazione è talmente presente sin dai tempi più antichi che gli studiosi pensano che il riferimento alla natura sia divenuto, in ambito artistico, una sorta di corrispondente all’ideale della bellezza in occidente. Questo rapporto emerge allora nei modi dell’arte, ma anche nell’abitare, nello strutturare i luoghi. Shizen significa natura, il darsi spontaneo delle cose, ed è in questa esperienza che i giapponesi nella tradizione colgono la bellezza: trovata e scoperta più che creata. La natura e le cose del mondo già possiedono una loro particolare bellezza, nostro compito è quello di scovarla anche negli angoli più insospettabili, renderle giustizia, valorizzarla.

Un’esperienza interessante viene individuata dall’architetto Arata Isozaki nei suoi studi, e in particolare nel saggio Japan-ness in Architecture: kehai o kaiwai. Questo tipo di concezione è utile probabilmente a riassumere molte delle caratteristiche che lo spazio ha in oriente: kehai è uno spazio delimitato in modo vago, non necessariamente legato a ciò che è materiale, ma piuttosto composto da entità variabili, visibili ma anche invisibili. Lo spazio non solo è legato agli edifici e oggetti che lo compongono, ma piuttosto si caratterizza per tutti quegli elementi che magari non riusciamo a vedere, ma percepiamo con i nostri sensi: in questo modo i luoghi vengono pensati come fluidi, si sovrappongono l’uno con l’altro, sono legati agli eventi e alle situazioni. Per comprendere tutto ciò nel concreto, basta ancora una volta pensare alle città giapponesi: persino camminando tra i negozi è a volte possibile scorgere dei piccoli santuari o templi, e in quel momento comprendiamo che lo spazio in cui ci troviamo è connesso, fluido, in divenire, ci fornisce differenti stimoli di natura diversa.

 

 

Invito dunque chi legge a seguire questo piccolo percorso tra differenti opere di artisti giapponesi, che attraverso architetture e installazioni ci porteranno a scoprire modi diversi di vivere e percepire lo spazio di ogni giorno.

 

Fonti:

A. Isozaki, Japan-ness in architecture

 

a cura di Susanna Legnani


Il tempio Kinkakuji di Kyoto restaurato dopo 18 anni

Se si è in visita all’antica capitale del Giappone, una delle tappe che solitamente non mancano negli itinerari turistici è il tempio detto Kinkakuji, chiamato anche Padiglione d’oro e dichiarato sito UNESCO nel 1994. Questo è stato sicuramente un anno sfortunato per il turismo, in Giappone l’emittente NHK testimonia un calo di più del 60% dei turisti stranieri a partire da Febbraio 2020.

Questa situazione molto particolare si è però conciliata con alcuni lavori di restauro che hanno coinvolto proprio il Padiglione d’oro: si è pensato che, questa assenza di turismo, fosse il momento migliore per intraprendere il rinnovamento di alcune parti della struttura. Dal primo di settembre è cominciato il restauro, il quale è durato più di tre mesi e ha visto il “nuovo” tempio tornare alla luce solo il 29 dicembre. In questo periodo di lavori, se ci si fosse recati a visitare il Kinkakuji lo si sarebbe trovato completamente ricoperto dalle impalcature, e al suo posto si sarebbe però potuto vedere un pannello raffigurante la foto del tempio. Il complesso, comunque, ospita oltre al tempio un giardino visitabile che è rimasto aperto al pubblico.

Il nome ufficiale del Kikakuji è in realtà Rokuonji, che significa tempio del giardino dei cervi, denominazione che fa riferimento al luogo in cui Buddha tenne il suo primo discorso. Il nome "Kinkakuji" gli venne dato in seguito, proprio a ragione della sua copertura dorata. Esso inoltre non nacque come tempio zen, ma fu invece la residenza dello shogun Ashikaga Yoshimitsu. Fu costruito nel 1398, e venne convertito in un tempio solo successivamente, alla morte dello shogun. L’edificio ha una struttura architettonica tutta particolare, e ogni piano si caratterizza per uno stile differente: il primo piano è costruito secondo lo stile dei palazzi aristocratici del periodo Heian e presenta una veranda che si affaccia sul lago; il secondo piano ricorda, nella sua maggiore semplicità, lo stile prevalente tra le abitazioni dei samurai; infine, il terzo e ultimo piano è costruito nello stile dei templi cinesi chan. Il secondo e terzo piano sono, inoltre, ricoperti di foglie d’oro, a parte per i tetti che sono stati mantenuti in legno di cipresso. Sulla cima è presente la statua di una fenice d’orata, simbolo di buon auspicio nella Cina tradizionale.

L’edificio che è possibile vedere oggi è una ricostruzione che risale al 1956, successivamente all’incendio avvenuto nel 1950 di cui Yukio Mishima riporta una versione romanzata nel suo famosissimo libro. Mishima tratteggia attraverso gli occhi del protagonista la particolare bellezza di questo tempio, e nelle pagine del romanzo è possibile incontrare numerose descrizioni della struttura originaria, attraverso il passare del tempo e delle stagioni.

Dopo la ricostruzione, il tempio venne nuovamente restaurato nel 1987 e nel 2002 per l’ultima volta. Si dice che, quando il tempio venne ricostruito negli anni ’50, esso suscitò lo scontento di alcuni abitanti di Kyoto: la nuova struttura eliminava in un certo senso quello spirito antico, quella patina del tempo che nella percezione giapponese è considerata motivo di apprezzamento estetico.

 

Video by Sankei News

 

Il Kinkakuji va dunque incontro quest’anno, dopo diciotto anni dall’ultima volta, a nuovi lavori di restauro, e il risultato è niente meno che curioso: ciò che più colpisce lo sguardo è sicuramente il tetto, il cui legno scuro e pregno dei segni del tempo è stato sostituito con del legno nuovo dal colore chiaro e brillante. Le nuove assi installate splendono alla luce del sole, tanto che a chi lo guarda potrebbe quasi sembrare che anch’esso sia rivestito d’oro. Altri lavori sono stati intrapresi in questa sessione di restauro: sono state riparate con foglie d’oro alcune parti della statua a forma di fenice sul tetto, e anche alcune parti delle pareti del tempio. Il nuovo tetto suscita allora curiosità: se alcune persone sono animate da entusiasmo e ammirazione, in altre esso provoca reazioni simili a quelle che emersero dopo la sua ricostruzione negli anni Cinquanta.

Il nuovo tetto splende come il resto dell’edificio, riflette e accoglie la luce del sole come le pareti ricoperte d’oro. La bellezza della struttura si armonizza con il paesaggio: insieme al giardino compone un microcosmo in cui esso rappresenta il polo della luce, del positivo, e nel riflesso del lago si relaziona con la natura che lo circonda. Non è un caso che il nome ufficiale del tempio faccia riferimento proprio a un giardino: tempio e paesaggio si armonizzano, sono un’unica struttura architettonica. La luce, come anche il lago, è uno degli elementi che principalmente mettono in connessione il naturale con il costruito: l’edificio allora non sembra solo un artefatto, un’opera umana, ma incarna esso stesso il senso dell’insegnamento buddhista dell’interdipendenza delle cose. Il riflesso della sua immagine luminosa nello stagno rende, inoltre, quel senso di impermanenza e variabilità tipici delle architetture giapponesi.

Ci sono visitatori che invece meno apprezzano questo cambiamento: forse perché ogni nuovo inizio, ogni sostituzione di materiali, ogni restauro in un certo senso interrompe lo scorrere del tempo. Il restauro infatti non è una pratica scontata in Giappone: oltre a esistere diversi studi e metodi di riparazione del legno (materiale privilegiato nell’architettura tradizionale), è da considerare che parte della bellezza di questi edifici risiede proprio nel modo che essi hanno di inserirsi nello scorrere del tempo, senza avere alcuna pretesa di resistergli. È un sentire estetico che spesso viene descritto attraverso il binomio wabi-sabi: semplicità ed essenzialità, povertà che non corrisponde a trascuratezza, ma piuttosto alla percezione dell’edificio come avvolto dai segni del tempo, leggibili nella patina che lo ricopre e ne evoca la storia passata e presente. Questo tipo di apprezzamento potrebbe talvolta confliggere con la moderna e necessaria volontà di preservare i siti storici e d’interesse. È forse per questo che, guardando quel tetto così splendente, ad alcuni sembra che il nuovo difficilmente si concili con l’antico?

 

Per il tempio buddhista del Kinkakuji, dunque, la nostra percezione corre da sempre su due linee temporali: l’antico, e il nuovo. Possiamo quindi rimanere meravigliati da questo splendore che coinvolge anche il tetto, che rende l’edificio una struttura che ancor più accoglie la luce naturale, che si protende così verso il paesaggio circostante. Oppure, se questa visione ci appare conflittuale, dovremmo forse pensare a come in queste strutture l’antico accolga il nuovo e lo accompagni in un percorso, nel divenire delle cose che liberamente passano e scorrono.

 

Fonti:

https://www.japantimes.co.jp/news/2020/09/01/national/kinkakuji-golden-pavilion-renovation-coronavirus/

https://www.shokoku-ji.jp/en/kinkakuji/about/

https://mainichi.jp/english/articles/20201230/p2a/00m/0na/009000c 

 

a cura di Susanna Legnani


Tadao Ando Guest Editor per il periodico Domus nel 2021

La rivista italiana di architettura e design Domus ha annunciato che sarà Tadao Ando, architetto giapponese, il nuovo Guest Editor per l’anno 2021.

Il periodico aveva inaugurato nell’anno 2018 una nuova formula editoriale, chiamata Domus 10x10x10. Questa si basa sulla volontà di invitare figure eminenti della scena architettonica e del design contemporaneo a essere guide per la rivista: 10 architetti che si occuperanno di 10 numeri ciascuno, orientandone le tematiche e le scelte editoriali, tutto ciò in 10 anni (nel 2028 ricorrerà il centesimo anniversario del periodico). Scopo è proprio quello di arricchire i contenuti della rivista filtrandoli attraverso le visioni dei più importanti architetti del nostro tempo. 

La redazione di Domus ha comunicato che il manifesto di Tadao Ando per il 2021 sarà “Eternità”. L’architetto giapponese spiega come questo tema – che sarà il filo rosso dei prossimi numeri del periodico – non sia di scontata interpretazione, e in questo esplicita anche la poetica che lo accompagna nelle sue opere.

L’architettura è qualcosa che da sempre ha avuto a che fare con la volontà di permanenza e, in un certo senso, proprio di eternità: nel contesto italiano questo è comprensibilissimo, basti solo pensare alle innumerevoli strutture che ancora risalgono all’antica Roma e che è possibile tutt’oggi visitare.

Ando, però, spiega come il tipo di eternità a cui vuole prestare attenzione sia differente: essa non è un’eternità materiale, o la volontà di lasciare segni indelebili del nostro passaggio sulla terra. Questa eternità è qualcosa di invisibile: corrisponde a tutte le idee, ricordi, emozioni suscitate dalle cose, che sebbene non visibili permangono nella memoria singolare e collettiva. È dunque espressione della cultura di un luogo, è promozione della stessa. In linea con la sua poetica, Ando vuole trasmettere l’idea che – in un mondo in continuo cambiamento – anche ciò che vi è di più solido e statico (come alcune strutture architettoniche) deve divenire leggero e aperto alla trasformazione, fulcro materiale intorno a cui ruota un universo invisibile. La struttura architettonica deve suscitare ed essere veicolo di idee, pensieri, ricordi, emozioni, ed è in ciò che essa sarà eterna: nell’invisibile più che nel concreto e materiale. 

In mezzo alle nuove sfide e cambiamenti che lo spazio architettonico deve affrontare, anche e soprattutto in questo periodo particolare di emergenza sanitaria, Tadao Ando però mantiene un punto fermo: il rapporto dell’uomo con l’elemento naturale.

Se ci si sofferma a osservare un’architettura dell’artista non può infatti passare inosservata la relazione che la struttura intrattiene col paesaggio circostante. Ando reinterpreta e porta con sé tutta la tradizione giapponese (anche se non in maniera esplicita e pedissequa) che trova le sue radici nella relazione di questo popolo con l’elemento naturale. Si pensi a opere famose come la Chiesa della Luce a Osaka o il museo Langen Foundation a Neuss, in Germania: si comprende come egli creda che l’attenzione al territorio sia essenziale, e attraverso quelle astratte forme in cemento che utilizza nei suoi progetti si scorge la volontà di non dimenticare mai le caratteristiche del luogo specifico in cui la struttura viene realizzata. Così, tra i differenti scorci prospettici e la strutturazione degli edifici su differenti livelli, tra il cemento e l’acciaio, nella semplicità di una forma geometrica anche la luce penetra, e l’acqua vi si insinua. La natura in un certo senso pervade l’insediamento umano, e anche materiali come il cemento divengono leggeri, svuotati della loro pesantezza.

Vi è dunque la volontà di comprendere il cambiamento, di adattare le strutture architettoniche alla fluidità del tempo che scorre, ma allo stesso tempo dei punti fermi permangono: l’attenzione al luogo e tutto ciò che ne deriva. L’attenzione alla cultura del luogo, alla sua struttura, alle persone che vi abitano, al rapporto di questo con l’elemento naturale da cui anche noi proveniamo. Nelle architetture di Ando questo emerge nel rapporto tra un certo tipo di astrazione e concretezza: le forme in cemento, quasi modelli immutabili nel tempo, si lasciano trasformare dallo stesso tempo e luogo che le accoglie.

Come scrive lo stesso Tadao Ando in un suo saggio, architettura è «scoprire l’edificio che il luogo attende». Architettura è dunque entrare in punta di piedi nel sito che la natura ci ha offerto e non esserne indifferenti. Piuttosto, comprendere e cercare di percepire tutti quegli elementi – visibili e invisibili, materiali e culturali – che fanno parte di quel luogo. In ciò la progettazione architettonica diviene una «scoperta».

 

 

Fonti, Manifesto di Tadao Ando per Domus

https://www.domusweb.it/it/speciali/guest-editor/tadao-ando/2020/12/03/tadao-ando-eternit.html

Foto: "Tadao Ando" by krss.

 

 

a cura di Susanna Legnani


Oshōgatsu: il Capodanno in Giappone

Anche quest’anno sta ormai giungendo al termine e, così come in Italia, in Giappone si cominciano i preparativi per accogliere il 2021 che, questa volta, sarà sotto il segno del bue.
L’ Oshōgatsu, ovvero il Capodanno, si celebra l’1 di gennaio secondo il calendario gregoriano, ma in Giappone anche gli ultimi tre giorni di dicembre (29-30-31) e i primi tre giorni di gennaio (shōgatsu sanganichi) sono considerati festivi, poiché rappresentano il periodo di celebrazione del nenmatsu nenshi, letteralmente “fine anno-inizio anno”.
Dopo il 28 dicembre, che in Giappone è il goyō osame, o shigoto osame, ovvero la data che indica la fine ufficiale del lavoro e l’occasione quindi di tirare le somme, ma anche di ringraziare chi ci ha supportato tramite le cartoline d’auguri (nengajō), arriva il momento delle grandi pulizie di casa (ooshōji) che rappresentano l’idea di cominciare il nuovo anno lasciandosi dietro “lo sporco” di quello appena passato e di accogliere nel migliore dei modi la divinità dell’anno, il toshigami, al quale viene dedicato un piccolo
altare dove vengono offerti gli okagami mochi, dolcetti giapponesi preparati appositamente per l’occasione.
Ovviamente non mancano le decorazioni, come la shimekazari, le corde di paglia che vengono poste come ghirlanda sulla porta di casa a indicarne la ritrovata purezza e il benvenuto alla divinità; o il kadomatsu, una composizione di rami di pino, fiori di pruno e tronchi di bambù che viene posta a coppie all’ingresso e funge da alloggio temporaneo per il kami. Anche questa decorazione ha un valore simbolico: il pino essendo un
sempreverde rappresenta la continuità attraverso i cambiamenti e la fedeltà nelle coppie, mentre il bambù è una pianta che si spinge sempre dritto verso il cielo nonostante i suoi nodi che rappresentano le difficoltà
nella vita.

Inoltre, è proprio in questi giorni che per i giapponesi è opportuno cucinare e preparare le pietanze anche per quelli successivi, in quanto si ritiene che porti sfortuna farlo durante lo shōgatsu sanganichi. Questo perchè si presta particolare attenzione alle azioni che si svolgono per la prima volta nelle prime ore dell'anno nuovo.

Un piatto che va consumato prima del 1° gennaio è il toshikoshi soba, mentre il primo giorno dell’anno si mangiano cibi tradizionali (osechi ryōri) composti da alimenti che si crede portino buon auspicio come i gamberi, l’alga kombu, il daikon, le castagne cotte con zucchero, i fagioli neri e i mochi.

Il 31 dicembre, poco prima dello scadere dell’anno, ci si reca ai templi buddhisti dove vengono suonati 108 rintocchi delle campane (joyanokane), l’ultimo a mezzanotte esatta, che simboleggiano i 108 desideri terreni all’origine della sofferenza umana (bonnō). Per i giapponesi il suono delle campane può redimere anche i peccati compiuti durante l’anno appena concluso. In seguito, una volta entrati nell’anno nuovo si fa la prima visita al tempio o al santuario (hatsumōde), dove è tradizione esprimere desideri e buoni propositi per il nenonato anno e comprare un portafortuna da tenere con sé o in casa propria.

新年明けましておめでとうございます!

Buon anno a tutti!

 

Amanda De Luca


LE PROPRIETA' ARMONICHE IN OZU 

 

di Anna Laura Longo 

L’Istituto Giapponese di Cultura di Roma ha portato in questi giorni a conclusione la rassegna intitolata Vi racconto Ozu, dedicata al cineasta giapponese di cui ricorre il 12 dicembre l’anniversario  univoco della nascita e della morte. Pur essendo sospesa l’apertura al pubblico dell’Istituto stesso, i  film sono risultati disponibili in digitale, in versione originale con sottotitoli in italiano o inglese. 

Le proprietà armoniche presenti nelle pellicole di Yasujirō Ozu – collocabili tra gli anni ’30 e ’60 - continuano a condurci flessibilmente tra derive e incubazioni temporali, all’interno delle quali si  disciolgono in forme molteplici le vite e i contatti esistenziali. Tutto avviene nel segno del  mutamento. Tra passaggi e maturazioni più o meno significative ogni accadimento, seppur flebile, diviene uno squarcio carico di rilievo, in grado di stagliarsi dinanzi alla vista dell’osservatore, senza tracce di stravolgimento. 

Nei confini di una concezione geometrica ammaliatrice si riversa un alone di pacata intensità. Quasi  una mobilitazione poetica prende corpo e lascia spazio alla circolarità delle esperienze, avvolte da  tracce di vaghezza o sospensione, o ancora plasmate dai risvolti temporali che si annodano tra forme di scorrimento o di apparente fissità. La circolarità e il senso del divenire inquadrano dunque posture  umane differenziate, che perseguono o disattendono a volte i desideri e le aspettative più o meno  recondite. Resistenza e arrendevolezza, dissolvimento o inseguimento delle speranze, coraggio o  parvenza di libertà sono solo alcuni degli indizi rintracciabili e afferrabili nelle trame che variamente  si dispiegano. 

Lo sguardo resta in generale avvinto nei margini di una diramazione di gesti e sguardi, dialoghi e  interazioni, dove gli ambienti, connotati con sobrietà sapiente, divengono veri e propri luoghi  sinergici, incunaboli di trasformazioni autentiche. 

L’invito è certamente quello di tornare a scoprire ed approfondire le evoluzioni stilistiche  riscontrabili in alcuni titoli salienti come Tarda primavera, Una gallina nel vento, Viaggio a Tokyo e  molti altri, per situarsi e dare sostanza ad una calda e al contempo austera visione, presumibilmente rigenerante. 

 

Fonte immagine in evidenza : https://www.moviedigger.it/vi-racconto-ozu-rassegna-gratuita/


Yukio Mishima a 50 anni dalla sua morte

Il 25 novembre è stato l’anniversario della morte di un grande autore della letteratura giapponese: Kimitake Hiraoka, meglio noto come Yukio Mishima.

Egli nasce a Tokyo nel 1925 e viene cresciuto dall’amore ossessivo della nonna paterna, che gli trasmetterà la passione per la letteratura classica e il patriottismo tradizionalista giapponese.

Influenzato da tali radici, si iscrive alla Scuola dei Pari, dove apprende come diventare un soldato più che ricevere un’educazione vera e propria. Frequentando però il club letterario, Mishima approccerà per la prima volta la strada della scrittura che sarà a tutti gli effetti la sua ancora di salvezza. Negli anni Quaranta, dopo il diploma e una laurea in giurisprudenza, entra a far parte della scuola romantica e si impegna nella composizione della sua prima importante opera, “La foresta in fiore”, pubblicata nel ‘41 con lo pseudonimo che tutti conosciamo.

Yukio significa “nevoso”, mentre Mishima è una città situata tra il Fuji e il mare. Nella poesia classica e nella più generale cultura nipponica la neve è simbolo di una bellezza pura ed effimera, quella degli intenti che animano ogni impresa eroica, e della sincerità che contraddistinguono ognuna di queste.

Negli stessi anni, viene a contatto con molti volti noti del panorama letterario giapponese, primo fra tutti Yasunari Kawabata, premio Nobel nel 1968, con cui intreccerà uno stretto rapporto di maestro-allievo.

Le sue opere più famose sono certamente “Confessioni di una maschera”, primo racconto autobiografico del 1949, “Il padiglione d’oro” pubblicato nel 1956, “Trastulli di animali” del 1961 e “Il mio amico Hitler” del ‘68.

“Lo specchio degli inganni” è l'ultimo romanzo della quadrilogia “Il mare della fertilità”, di cui fanno parte anche “Neve di primavera”, “Cavalli in fuga” e “Il tempio dell'alba”. Essa costituisce, nel suo complesso, l'opera più matura e ambiziosa del celebre autore e viene pubblicata un anno prima della sua morte, altrettanto celebre in quanto simbolo della personalità di Mishima, da sempre ossessionato dall’idea della morte e dal suo ideale politico di patriottismo tradizionalista.

Nel 1970, infatti, insieme ai quattro più fidati discepoli occupa l'ufficio del ministero della difesa. Dal balcone dell'ufficio, di fronte a un migliaio di uomini del reggimento di fanteria, oltre che a giornali e televisioni, tenne il suo ultimo discorso esaltando lo spirito giapponese, identificato con l'Imperatore, e condannando la democrazia e l'occidentalizzazione del paese. Una volta giunto al termine, si toglie la vita tramite seppuku, il suicidio rituale dei samurai, trafiggendosi il ventre e facendosi poi decapitare.

Seppur Mishima rappresenti un personaggio storicamente controverso, è innegabile il fascino delle sue opere che lo hanno portato a essere l’autore giapponese più tradotto nel mondo e protagonista di film e documentari sulla sua vita.

Dopo 50 anni dalla sua morte, il suo mito riecheggia e numerosi sono le iniziative a suo nome e gli eventi a lui dedicati ancora oggi.

Potete trovarli nella sezione del nostro sito a questo link: https://www.giapponeinitalia.org/eventi/

 

Amanda De Luca


UN’IMMAGINE AUTENTICA DEL GIAPPONE

 

La Letteratura femminile del periodo Heian

 

Intervista a Paola Scrolavezza

 

Ma i monti e i fiumi consueti, così come sono, le case come le vediamo dovunque con tutta la loro autentica bellezza e armonia di forme – queste scene, per dipingerle come sono, o per far vedere che cosa si annida dietro una siepe familiare in un angolo molto appartato del mondo, o un folto d’alberi sopra un colle non particolarmente eroico, e tutto quanto con adeguata cura della composizione, proporzione e simili – sono cose che richiedono la mano del più alto maestro, e mettono a mille sbaragli il comune artigiano.

Estratto dall’ intervento di Uma no Kami, nel secondo capitolo del Racconto di Genji di Murasaki Shikibu, che proponiamo nella traduzione italiana a cura di Adriana Motti dall’inglese di Arthur Waley.

 

Nei quattro secoli circa, dall’Ottavo al Dodicesimo, in cui Heian-kyō, l’attuale Kyoto, fu capitale, si affermò un’aristocrazia illuminata, colta e sensibile agli influssi d’oltremare in cui la cultura cinese era dominante e perfettamente integrata e assimilata, con dame di corte quali indiscusse protagoniste letterarie.

Per quanto sia innegabile che numerose opere di scrittrici siano state ritenute pregevoli fin dalla loro contemporaneità, e si concordi tuttora nel ritenere il Genji Monogatari un capolavoro della letteratura giapponese di tutti i tempi, più complicato è donare ad esse il giusto merito. Insieme a Paola  Scrolavezza, docente presso l’Università di Bologna e curatrice di NipPop, ci siamo posti la domanda: Cosa rappresenta davvero la letteratura femminile del periodo Heian, apogeo culturale della storia del Giappone?

“Indubbiamente sono opere pregevoli ma il posto loro riservato all’interno della cultura Heian era di poco conto, frivolezze a cui raramente gli uomini si dedicavano e che le stesse dame di corte percepivano nulla più che un divertissement. Sarebbe sbagliato pensare che questi testi avessero nel momento in cui sono stati scritti la stessa importanza che è a loro attribuita ora, tanto più che successivamente all’epoca Heian molti di essi furono quasi dimenticati, e le dame di corte ulteriormente subordinate alla autorità maschile. Inoltre non era comunque loro concesso di scrivere in cinese, infatti il Genji Monogatari è scritto per buona parte in kana”

Murasaki Shikubu aveva studiato cinese, ma era buon costume che le donne non si mostrassero saccenti e sfoggiassero di conoscere i sinogrammi al pari degli uomini. Per scrivere il Genji Monogatari, si servì della scrittura autoctona, lo hiragana, che proprio per questo utilizzo da parte delle autrici donne venne definito onnade, “mano di donna”. “Non era una scrittura inventata dalle donne - spiega la professoressa Scrolavezza – né usata esclusivamente da loro. Anche se proprio grazie al lavoro femminile si è evoluta e diffusa, per esprimere la varietà e le sfumature di una lingua tanto ricca di omofoni come quella giapponese è sicuramente inadeguata.” La nostra domanda, dunque, sembra rimanere ancora senza risposta.

E’ l’autrice con cui abbiamo aperto questo articolo, a fornirci una chiave di lettura diversa e risolutiva, proprio con le poche righe citate: “Ma i monti e i fiumi consueti, così come sono, le case come le vediamo dovunque con tutta la loro autentica bellezza e armonia di forme… sono cose che richiedono la mano del più alto maestro”

Sono opere, quelle di Murasaki Shikibu, Sei Shōnagon, Izumi Shikibu e delle altre donne scrittrici del periodo Heian, che offrono al lettore qualcosa di introvabile nei lavori maschili: “Si tratta di sensibilità e attenzione alla vita di corte. Queste autrici ci lasciano pensieri e confidenze, descrivono la propria quotidianità con sguardo attento, spesso ironico, e con un sottile acume. Anche se la scrittura in hiragana non era una vera e propria prerogativa delle donne, era comunque a loro legata, tanto che gli uomini che volevano comporre opere afferenti a quei generi, talvolta usavano pseudonimi femminili. Possiamo ringraziare solo queste autrici, se oggi possiamo avere un’immagine autentica del Giappone all’apice del suo splendore, se possiamo vedere la corte Heian così com’era al tempo di Genji, per quanto immaginario, e – conclude – in lingua giapponese.”

di Beatrice Varriale