PERIODO JOMON - L'INIZIO DELLA STORIA

Il periodo Jōmon è spesso preso come punto di partenza per raccontare la storia del Giappone.

Non è un caso isolato, comunque, che ci spinga alla comparsa delle prime ceramiche per eseguire un approfondimento sulle civiltà antiche, più ancora che i primi reperti di attrezzi e utensili in pietra. Capita spesso inoltre che esse prendona il nome dal luogo dei ritrovamenti, come la preindoeuropea Cultura di Cucuteni-Trypillian in Romania e Ucraina, e la Cultura di La Tène in Svizzera.

Un'altra tendenza invece, soprattutto su ritrovamenti a più ampio raggio e con caratteristiche più peculiari, è quella di nominare in base ad un aspetto dei manufatti. E' il caso della cultura del vaso campaniforme, nella seconda metà del II millennio a. C. in Europa, e della cultura della ceramica cordata, nel Nord Europa e parte dell'Asia Occidentale, a partire dal millennio precedente. Quest'ultima, ad esempio, deve il proprio nome alle decorazioni impresse con una corda sulla ceramica ancora cruda, e questo, letteralmente, vuol dire jōmon.

Fu uno zoologo americano, Edward Sylvester Morse, a dare l'impulso principale al riconoscimento di tale ceramica nella comunità scientifica, all'inizio del XX secolo.

La storia del Giappone è senza dubbio caratterizzata da una forte linearità, se paragonata a quella Europea.

Per quanto molti storici e archeologi possano avere pareri differenti, in linea di massima i passaggi da epoche a epoche sono chiari. Per questo, tutta la cultura neolitica fino all'inizio della coltivazione del riso, circa nel IV secolo a.C., si definisce Jōmon. Cambia nei millenni, cambia a seconda delle zone di fabbricazione, ma di fondo è chiaramente un unico grande popolo.

Tuttavia, data l'ampiezza del periodo in questione, non sono mancate migrazioni e grandi cambiamenti nella composizione etnica. Se ci sono dubbi sul luogo d'origine dei primi individui sull'arcipelago Giapponese, più accettato è il fatto che durante il periodo Jōmon arrivarono genti dall'Asia continentale e meridionale e dalle zone polinesiane. Alcuni ritengono che eredi diretti di questi popoli siano gli Ainu in Hōkkaido, meno coinvolti nei successivi rimescolamenti migratori delle isole più a sud, ma la tesi è ancora dibattuta.

Una cosa è certa: in Giappone sono stati ritrovati i più antichi manufatti di ceramica del mondo, risalenti a ca 12000 anni fa. Lo Jōmon dei primi insediamenti.

Quindi, di conseguenza, il Giappone una delle prime zone del mondo a vedere il passaggio dalla vita nomade a quella sedentaria. La ceramica è un materiale inadatto ad una vita completamente nomade, per via della sua fragilità. La sua presenza in mucchi di conchiglie e in siti in cui è stata comprovata un'antica coltivazione di cereali, come quella scoperta ad Asabane nella prefettura di Okayama. Si può tracciare, con alterne fortune climatiche, una lunga evoluzione dei popoli del periodo Jōmon. Gli storici dividono questo millennio in diversi momenti, a loro volta ulteriormente suddivisi.

I primi insediamenti rivelano uno sfruttamento dei prodotti ittici da parte della popolazione costiera e di caccia e raccolta quelli dell'entroterra.

Successivamente, l'innalzarsi e l'abbassarsi del livello del mare ha disegnato la geografia e la cultura artigiana del popolo Jōmon, raffinando il tessuto sociale che si costruiva nei villaggi. Già nei primi millenni siti semi stabili avevano fatto la loro comparsa, come ad esempio nello Honshū, e poi in seguito nel Tōhoku. Nel medio e tardo Jōmon erano presenti molti centri abitati siti in fosse allungate e circolari, sembrerebbe con pavimentazioni lastricate. La cultura spingeva sempre verso una maggiore stabilità, la ceramica si impreziosiva di decorazioni.

La ceramica è la più fedele narratrice di questa storia, lo Jōmon medio è il rinascimento neolitico giapponese.

Fidandoci delle diverse complessità e qualità di lavorazione, le fasi del pariodo Jōmon ci appaiono chiare ed affascinanti, così anche come le fasi migratorie dal continente. Se le prime produzioni mostravano pochi segni grezzi e fatture elementari, nel corso soprattutto dello Jōmon medio si raggiunse il picco della lavorazione. Dalle giare al fondo piatto dello Jōmon incipiente (10000 – 8000 a.C.), alle diverse forme del primo periodo, con già cenni di stili locali. Si arriva infine al Jōmon medio, con produzioni dall'eleganza quasi barocca in cui compaiono forme zoomorfe e naturalistiche. L'influenza di nuovi culti e di scambi tra le diverse zone appare evidente soprattutto in questo periodo. Oltre all'uso pratico di vasellame e altri oggetti, una produzione di uso meno specializzato fa la sua comparsa.

Statuette note con il nome di dogū sono frequenti in diversi ritrovamenti, e spingono gli storici verso diverse ipotesi circa il loro utilizzo.

Prima dell'arrivo delle nuove influenze dal continente che confluirono poi nei culti Shintō, i reperti mostrano la devozione verso una Madre Fertile. Molti dei primi esempi di queste statuette, alte circa 25 – 30 cm, conservano le generose forme tipiche delle dee neolitiche. Subiscono inoltre un forte lavoro di stilizzazione e astrazione, con segni lungo il corpo che fanno pensare ad amuleti o recipienti per allontanare le malattie. Sempre queste decorazioni spingono a pensare a tatuaggi o scarificazioni. La complessità del loro ruolo all'interno della cultura Jōmon, è dettato anche dalla diversificazione regionale e temporale, che tuttavia li vide presenti fin all'ultima fase di questo periodo, che vide un lento declinare della lavorazione della ceramica cordata.

Si giunge infine, dopo un raffreddamento climatico e un calo demografico, ad un impoverimento artistico della ceramica Jōmon e ad un declino di questa cultura. Il passaggio a quella conosciuta come Yayoi, fu graduale ma definitiva, con l'importazione della risicoltura dalla penisola coreana.

Siamo arrivati al V secolo a.C. , e ormai in gran parte del Giappone si passa dalla vita semi sedentaria ad una composta di campi coltivati e villaggi dalla struttura sempre più definita.

Il Giappone sta uscendo dal Neolitico definitivamente.

 

ARTICOLO SUCCESSIVO: PERIODO YAYOI – IL SEME DEL GIAPPONE E' PIANTATO


Kimono Experience con Giappone in Italia e Milano Kimono

Kimono Experience con Giappone in Italia e Milano Kimono.

Kimono Experience si inserisce all'interno dei progetti voluti da Giappone in Italia per promuovere la cultura giapponese in Italia. Il kimono è indubbiamente uno dei simboli più riconoscibili dell'immagine internazionale che si ha del Sol Levante. Ma è proprio su questa parola “internazionale” che Giappone in Italia punta il focus.

La mostra allestita dal 15 al 30 giugno, oltre ai kimono esposti, lo spazio sarà allestito con la speciale serie di fotografia di Alberto Moro, Presidente di Giappone in Italia e autore del libro "il Mio Giappone". Esposti tutti i ritratti di chi senza essere giapponese, ha provato ad indossarlo per una passeggiata in città e l'ha fatto proprio.

 

Kimono Experience dà infatti a chiunque la possibilità di provare, letteralmente sulla propria pelle, un tocco di Sol Levante.

Non ci si vuole fermare alla pura esperienza folkloristica del kimono come espressione di tradizione e alterità. Al contrario. L'obiettivo di Giappone in Italia in collaborazione con Milano Kimono, è quello di superare il rigore di un kimono indossato solo in Giappone e solo da giapponesi. La bellezza della moltitudine di volti e colori, di sguardi ed espressioni che ognuno, avvolto da un kimono, può sentire, mostrano come questo indumento trasporti ogni singolo individuo in un' esperienza unica. Chi ha ricordi, chi desideri, chi curiosità... ognuno di noi lega il kimono a qualcosa di proprio, e si lascia trasportare in Giappone da uno spirito diverso.

TENOHA Milano è il luogo perfetto dunque per iniziare questo percorso, regalando ai visitatori un angolo di vero Giappone a Milano.

Non solo dunque i volti e i colori dei soggetti ritratti, ma quelli degli stessi visitatori! E' possibile infatti prenotarsi per la propria Kimono Experience.

Tra le vibrazioni di un'estate giapponese da TENOHA Milano, avvolti in un fresco yukata, come in un matsuri di Kyoto o Tokyo, in una città che vuole sempre con più energia ridisegnare i confini e le distanze. Anche grazie all'abile lavoro della Maestra Yurie Sugiyama, avrete la possibilità di provare il vero Giappone qui a Milano.

Alla vestizione seguirà lo shooting fotografico a cura di Alberto Moro, Presidente di Giappone in Italia e autore del libro "il Mio Giappone", sempre nella bellissima location di TENOHA Milano.

La mostra è visitabile dal 15 al 30 giugno, dalle 10 alle 20, allo spazio Pop-up di TENOHA Milano, in Via Vigevano 18.

I giorni di vestizione sono dal 17 al 20 e dal 24 al 27 giugno, dalle 10.30 alle 13 e dalle 15 alle 18.00. La vestizione sarà gratuita: nel form da compilare verrà richiesta una caparra di prenotazione che sarà restituita all'evento.

Kimono Experience con Giappone in Italia e Milano Kimono. PRENOTA ORA LA TUA KIMONO EXPERIENCE. 


“JAPANORAMA. Ukiyo-e Today”, la mostra a ESH Gallery tra contemporaneità e tradizione

Il 20 aprile 2021 ESH Gallery ha inaugurato “JAPANORAMA. Ukiyo-e Today”, prima mostra collettiva dedicata alla stampa giapponese. La collezione rimarrà visitabile con prenotazione fino al 25 giugno, dal lunedì al venerdì 11-18.30. 

La galleria, collocata nella zona di Milano Porta Genova, è uno spazio espositivo che dedica la sua attenzione ad artisti italiani e internazionali, con particolare cura per l’Oriente e la sua estetica. La proposta di ESH Gallery, ben rappresentata da “JAPANORAMA”, è quella di un dialogo tra tradizione e contemporaneità, nella scoperta di nuove forme espressive ed estetiche. 

 

ESH Gallery e Ukiyo-e Project

“JAPANORAMA” unisce materie prime e tecnica tradizionale a visioni della contemporaneità. Le opere, infatti, sono realizzate nel genere Ukiyo-e: stampa artistica impressa su carta con matrici di legno, presente in Giappone a partire dal periodo Edo. Le immagini, però, non sono quelle di città, cortigiane, attori o paesaggi, ma rappresentano alcuni personaggi della scena musicale del XX secolo. 

A partire dal XVII secolo le stampe Ukiyo-e rappresentano un tipo di forma artistica seriale ed economica, con temi riguardanti la quotidianità. Spaccati di vita dall’epoca Edo in poi, con alcuni temi tipici come la città, le cortigiane, attori, lottatori di sumo e samurai. Nel tempo l’evoluzione di questa forma d’arte inizia a includere anche scene di paesaggio. 

Il progetto è in collaborazione con Ukiyo-e Project, azienda fondata da Yuka Mitsui. Dal 2014 vengono realizzate stampe di icone musicali moderne per cui il Giappone e la sua cultura sono stati fonte di ispirazione. L’intento è quello di preservare le tecniche di produzione antiche, con uno sguardo rivolto al presente. Come viene illustrato sul sito dell’azienda: «Le parole "ukiyo" ed "e" significano rispettivamente "ora" e "immagine" - così il termine ukiyo-e significa letteralmente "immagine che rappresenta il presente"». Così, come le stampe del periodo Edo erano uno spaccato di alcune realtà del tempo, Ukiyo-e Project si propone di soffermarsi su figure iconiche e paesaggi del presente. 

La produzione delle stampe coinvolge differenti figure di artigiani: illustratore, intagliatore e stampatore. Ogni artigiano è specializzato in una specifica fase creativa. Viene utilizzata la carta giapponese washi, in una qualità particolare chiamata Echizen Kizuki Housho, prodotta nella prefettura di Fukui. Questa carta è forte e flessibile, particolarmente adatta a resistere a più passaggi di stampa. Viene usata per questo tipo di produzioni da più di trecento anni. 

 

 

ESH Gallery, con "JAPANORAMA. Ukiyo-e Today", presenta tre serie di xilografie dedicate a David Bowie, i Kiss e gli Iron Maiden. Ciascuna stampa è prodotta a mano in serie limitata. L’esposizione ospita anche una serie dedicata a vedute contemporanee del quartiere Tsukuda di Tokyo: con questa visione sarà possibile comprendere il processo produttivo delle stampe. 

 

 

Il mistico David Bowie

L’immagine di David Bowie e dei suoi diversi alter ego porta naturalmente con sé riferimenti all’Oriente, in particolare al Giappone. Nota la sua collaborazione con lo stilista Kansai Yamamoto, si pensa anche che il personaggio di Ziggy Stardust conservi elementi dell’estetica del teatro kabuki giapponese. 

Davide Bowie viene ritratto come Takezawa Toji II, mago e illusionista del periodo Edo. La figura mistica e carismatica che Bowie incarnava porta a pensare che questo sia un accostamento particolarmente centrato. La stampa, in cui il cane è rappresentato come una volpe a nove code, è ispirata alle foto di Terry O’Neill di Diamond Dogs.

Il cantante è rappresentato anche come un’altra figura mistica del racconto popolare giapponese: lo stregone e incantatore di serpenti Kidomaru. La stampa questa volta è ispirata alla copertina dell’album Aladdin Sane, iconica immagine del viso di Bowie con un fulmine dipinto sul volto. 

©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery
©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery
©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery
©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery

 

I Kiss e il kabuki

Quattro e diverse le stampe che ritraggono la band. In due di queste, i Kiss vengono ritratti come samurai e poi yokai, mostri giapponesi. Evocativa quella in cui il musicista Paul Stanley è intento a truccarsi allo specchio, motivo questo ispirato a Token Gonbei, Kuniyoshi Moyo Shofuda Tsuketari Genkin Otoko di Utagawa Kuniyoshi. Interessante notare come la poesia sullo sfondo sia la traduzione giapponese di “I wanna rock and roll all night and party everyday. You keep shoutin, you keep on shoutin”, testo di Rock and Roll All Nite (1975). Il trucco e il kimono indossati sono molto simili a quelli di un attore di kabuki

Nell’ultima stampa viene ritratta una battaglia musicale tra i Kiss e il gruppo giapponese Momoiro Clover Z. L'illustrazione è ispirata alla copertina della loro collaborazione. 

A ESH Gallery è presente una stampa con le firme degli stessi membri del gruppo dei Kiss, parte di una tiratura limitata di 100 copie. 

 

 

©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery
©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery

 

©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery
©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery

Iron Maiden, Eddie infuria in Giappone

Il protagonista di entrambe le stampe è Eddie, la mascotte degli Iron Maiden. Come per la stampa dei Kiss, ritorna il tema dello specchio, molto popolare negli Ukiyo-e della tradizione. L’illustrazione fa riferimento alla storia di un uomo che, recatosi a Yoshiwara per incontrare una bellissima cortigiana, scopre – guardandola allo specchio – che il suo viso è solo una maschera. In un'ulteriore stampa, Eddie è ritratto come un samurai sanguinario, rende omaggio alla copertina dell’album Killers. Sono presenti simboli che ricordano la band. 

 

©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery
©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery
©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery
©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery

 

Tokyo – Tsukuda ni Nokoru no Omokage (Vestigia di Edo a Tsukuda)

Questa serie, tra le opere presenti nello spazio espositivo, è di particolare interesse per apprezzare ancor meglio le tecniche di stampa degli artigiani. 

Tsukuda è un fiume che nell’attuale Tokyo non esiste più. È stato da tempo bonificato, ma nella moderna metropoli il suo affluente continua a scorrere tra le strade e sotto a un ponte rosso vermiglio. La tradizione insita nella realizzazione di una stampa Ukiyo-e può riportarci al tempo in cui a Edo potevamo veder scorrere Tsukuda

Il tempo scorre all’indietro, i grattacieli spariscono. Il nostro viaggio attraverso i secoli è facilitato dai colori del paesaggio in diverse stagioni, e della versione con solo il tratto nero, dove i grandi edifici sono assenti. A ESH Gallery è inoltre presente un album esplicativo delle tecniche artigianali di produzione: l’illustrazione viene colorata in fasi diverse di stampa, in ogni sua parte. Inoltre, l’attenzione è posta su una tecnica particolare degli artisti shin-hanga (dal XX secolo): l’obiettivo quello di ottenere colorazioni diverse con un unico set di tavole in legno. Così, con questo unico set iniziale, è possibile rappresentare lo scorrere del tempo, delle stagioni, il cambiamento. 

 

©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery
©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery

 

“JAPANORAMA. Ukiyo-e Today” vi aspetta a ESH Gallery, tra tecniche artigianali tradizionali e visioni di contemporaneità, alla scoperta di un particolare tipo di produzione ed estetica del Giappone. 

 

 

 

Fonti e link utili: 

https://ukiyoe.today

https://www.eshgallery.com/it/exhibitions/japanorama/

Foto credits: ©Ukiyo-e Project e ©ESH Gallery

 

 

 

Susanna Legnani


TRASPARENZA: Sou Fujimoto e House NA

Il quinto articolo della serie “La percezione dello spazio nella visione degli artisti giapponesi contemporanei” prende in considerazione uno spazio abitativo: House NA della Sou Fujimoto Architects. 

House NA è una residenza costruita nel 2011 a Tokyo, nel quartiere di Koenji. La struttura complessa, in una relazione particolare tra piani e altezze, spazi visibili e nascosti, è stata realizzata per una giovane coppia del posto. 

La casa non è decisamente ciò che ci si aspetterebbe di trovare in un quartiere residenziale, sebbene Koenji sia una zona in cui sperimentare un ambiente alternativo in Giappone. La struttura è composta da 21 piani sfalsati di differenti altezze, non sono presenti veri e propri muri all’interno e le stanze sono tutte collegate. Un unico spazio, dunque, ma anche molteplici spazi: in questa residenza è possibile sentirsi nello stesso momento vicini e lontani. I piani sono in relazione attraverso scale e l’uso del vetro.

Sou Fujimoto paragona la vita in questo edificio a quella su un albero: ci si può arrampicare sulla cima o rimanere sui rami più bassi, ma tutti gli spazi sono collegati al tronco, al terreno. Il colore prevalente è rigorosamente chiaro, bianco. La struttura interna è in acciaio, e il tutto è corredato da dettagli in legno di betulla. La trasparenza del vetro, oltre a garantire una buona luminosità all’interno della casa, restituisce la sensazione di continuità tra le stanze e con l’esterno. 

La struttura di House NA si sviluppa in verticale, con un soffitto che arriva all’altezza di 5/6 metri. L’idea di Sou Fujimoto fu quella di creare uno spazio con cui fosse possibile dialogare. In un’intervista di Noriko Takiguchi egli afferma: «The resident is free to choose how to combine the steps, which makes the space more interactive. A house that allows you to rearrange its meaning in any way that you like is kind of contemporary» (Il residente è libero di scegliere come combinare i passi, il che rende lo spazio più interattivo. Una casa che permette di riorganizzare il suo significato in qualsiasi modo piaccia è un po' contemporanea).

Lo spazio è interattivo, non fortemente caratterizzato. In questo senso, ogni piano risulta inizialmente vuoto, attende che gli venga conferita una funzione, un significato, che può ogni volta cambiare. Questo potrebbe ricordare una caratteristica della casa tradizionale giapponese: l’utilizzo di alcuni spazi a seconda dell’occasione o del momento della giornata. House NA è la nuova casa giapponese, in cui le divisioni tra stanze sono sfumate e i luoghi vengono adattati alla necessità di chi vi abita. È il gioco di reinventare la propria casa in sempre nuovi e diversi modi. 

 

Un concetto ampio di trasparenza

Il vetro utilizzato per House NA risulta elemento predominante. Potrebbe quasi sembrare che in questa struttura la privacy venga meno, ciò giunto al fatto che l’edificio sia sprovvisto di veri e propri muri interni. In realtà, nonostante ciò, la ramificazione dei piani permette un gioco di visione e nascondimento. Tuttavia, questa trasparenza è ciò che rende la struttura leggera, insieme alla verticalità e al telaio sottile in acciaio. Questo non significa che sia possibile vederci attraverso o cogliere tutto ciò che accade all’interno. Piuttosto, significa veicolare un senso di leggerezza e dialogo, sia tra le stanze della casa che verso l’esterno. Sebbene la casa sia una struttura del tutto particolare, è collocata nell’eccentrico quartiere di Koenji ed esprime tutta la vitalità di questa zona. 

Sou Fujimoto afferma «It seems to me that an architect's job is based entirely on attentive looking and listening» (mi sembra che il lavoro di un architetto si basi interamente sul guardare e ascoltare attentamente). Guardare e ascoltare le necessità del cliente, ma anche il luogo e la temperie in cui l’edificio verrà inserito. Trasparenza, dunque, anche per le circostanze, per quello che si vede e si ascolta in quel luogo e per quelle persone.

«My personal orientation and my sense of values regarding architecture is inspired by the circumstances, and the climatic and natural features of the project. Even though the value my architecture creates is minimal, I want to establish a sense of diversity rooted in understanding and possibility» (Il mio orientamento personale e il mio senso dei valori riguardanti l'architettura sono ispirati dalle circostanze e dalle caratteristiche climatiche e naturali del progetto. Anche se il valore che la mia architettura crea è minimo, voglio stabilire un senso di diversità radicato nella comprensione e nella possibilità). 

Gli spazi vuoti non caratterizzati e le strutture sottili sono altri elementi che alimentano questo senso di trasparenza. Lo spazio acquisisce il significato che gli si vuole conferire, di volta in volta, mentre i muri all’interno vengono meno in favore della continuità. 

L’edificio sembra voglia protrarsi verso l’esterno e verso l’alto, ma allo stesso tempo possiede angoli nascosti agli sguardi dei passanti. È interessante quest’illusione per cui tutto appare esposto: l’uso delle trasparenze è proprio ciò che è utilizzato per celare. L’ambiguità degli spazi interni ne è ulteriore testimonianza. Una trasparenza apparente, che nasconde. Come in una casa tradizionale giapponese: gli spazi vuoti e connessi restituiscono la sensazione che tutto sia sotto ai nostri occhi, ma la realtà è ben diversa.

 

 

http://www.sou-fujimoto.net

 

 

Susanna Legnani


TEMPO: Tatsuo Miyajima e Time Garden

Il quarto articolo della serie “La percezione dello spazio nella visione degli artisti giapponesi contemporanei” si sofferma su Time Garden, giardino progettato da Tastuo Miyajima.

Time Garden è un’installazione realizzata nel 2002 per il sito specifico di Izumi City Plaza, Osaka. In questo centro è presente un giardino di bambù, dove sono stati collocati 120 contatori LED. Luci color smeraldo che brillano nelle notti scure. Prima di prendere in considerazione l’opera specifica occorre soffermarsi su alcuni punti chiave nella produzione di Tatsuo Miyajima. Ciò anche per comprendere come il tema del “tempo” sia implicato nelle sue opere. 

Tatsuo Miyajima è un’artista la cui produzione comprende installazioni, sculture, disegni e performaces. Caratteristico delle sue opere è l’utilizzo di contatori LED con sequenze numeriche dal numero 1 al 9: segno di un tempo che scorre e non si ferma mai. L’uso dei LED risale circa al 1987, e persiste in soluzioni differenti fino agli ultimi anni. Lo stesso artista dichiara quali siano i principi che guidano la sua arte, rendendo esplicita la relazione che collega i progetti alla tradizione, al Buddhismo in particolare. Tuttavia, questa non si limita a essere una reinterpretazione di alcuni motivi tradizionali. È un tipo di produzione totalmente originale e che tenta di riscoprire attraverso l’arte alcune esperienze legate alla tradizione. Queste esperienze sono riassunte da Miyajima in tre punti: 

 

“Keep Changing” – il continuo divenire e mutare

Tutto cambia. Niente è destinato a rimanere com’è. Nello scorrere del tempo, il mutamento è insito nella stessa realtà. È qualità della realtà il fatto di essere affetta dal tempo, il fatto di non permanere mai uguale a sé. Questo ricorda la dottrina buddhista dell’impermanenza di tutte le cose, periture ed effimere. Come si comporta l’arte di fronte a questo tipo di realtà? Accetta in modo positivo il cambiamento e lo rappresenta nelle sue proprie modalità. In un certo senso, dunque, l’arte diviene esperienza di conoscenza delle caratteristiche del reale. 

 

“Connect with Everything” – la naturale relazione che corre tra le cose

Niente è indipendente, tutto interagisce. Le cose della realtà non godono di autonomia propria, ma trovano il loro senso solo nella naturale relazione che intercorre da sempre tra loro. Anche in questo caso, l’insegnamento buddhista riecheggia: non autosussistenza, interdipendenza tra tutte le cose, tra uomo e natura. L’arte come interpreta questo? Deve interagire con le cose, non isolarsi dal mondo, ma esserne parte. L’arte che non tocca la realtà è arte sterile. 

 

“Continue Forever” – una linea senza fine

Il cambiamento continua all’infinito. Come una serie numerica che non tocca mai il punto zero, il tempo scorre senza un limite. L’arte rappresenta in un certo senso l’immortalità, ma l’immortalità del divenire. Ciò che non cambia mai è esattamente la presenza della realtà che diviene sempre. 

 

Questi concetti sono fondamentali per comprendere l’opera Time Garden. Tutto il lavoro è stato pensato sulla base della fiaba giapponese Kaguyahime o Taketori monogatari, che spesso viene tradotto con “La storia della principessa splendente”. In quest’antico racconto, un anziano tagliatore di bambù trova una bambina dentro una canna splendente e decide di crescerla come sua. Le luci tra i bambù sono dunque rappresentazione di vita, vita che nasce e splende.

L’opera è un’installazione di 120 contatori LED color verde smeraldo, in un giardino nel sito dell’Izumi City Plaza. L’arte, dunque, interagisce con la realtà e con lo spazio in cui è inserita: i contatori segnano sequenze di numeri che vanno da 1 a 9, senza mai raggiungere il numero zero. Rappresentano una continuità, un tempo che scorre senza una fine. Il punto zero non è toccato, ma sostituito da una fase di buio: come a dire che la morte fa parte dello scorrere della vita. L’arte rappresenta la realtà, il divenire e il mutare delle cose, attraverso la sequenza di numeri che non si ferma mai. 

Interessante è anche il fatto che quest’installazione fu completata attraverso partecipanti a workshops e sostenitori del progetto. Queste persone, la cui lista di nomi è disponibile sul sito ufficiale di Tatsuo Miyajima, sono stati decisori fondamentali per l’allestimento. Infatti, essi hanno deciso la velocità e impostato i timer dei LED, interagendo attivamente con l’opera. Questa, dunque, per differenti motivi, risulta strettamente legata alla realtà e vita quotidiana: si trova in uno spazio pubblico di aggregazione, in un giardino e quindi in armonia con la natura, allestita grazie all’opera di più di 120 persone che hanno collaborato. Questa collaborazione mette in evidenza un altro principio caro a Miyajima: il fatto che l’arte possa essere per tutti. Non solo, un’opera che si realizza in questo modo permette di comprendere la naturale relazione tra le cose e l’attinenza dell’arte alla vita. 

 

Fonti e foto:

 

https://tatsuomiyajima.com

 

Susanna Legnani

 


Miki Midori l'artista giapponese del "Kawaii"

Miki Midori è una giovane artista giapponese che sviluppa la sua ricerca artistica all'interno della cultura “Kawaii”(可愛い o かわいい) . Quel mondo fatto di tutto ciò che può essere considerato grazioso, carino, adorabile, buffo e genuino. E' una parte significativa del mondo giapponese che spesso diventa un vero e proprio stile di vita.

In Giappone “Kawaii” è un termine che viene utilizzato come aggettivo. Nel corso dell'epoca moderna il suo significato ha creato una vera e propria subcultura, rafforzata anche dalle opere manga, anime e dai video game oltre che dagli oggetti loro collegati. Si sviluppa soprattutto nei contesti giovanili in cui diventa una forma di espressione fatta di modi di vestirsi, di adornarsi, di parlare, di scrivere, di comportarsi. Il “Kawaii” dunque diventa un modo di essere e di pensare, un gusto estetico della cultura pop contemporanea giapponese.

Si possono ritrovare molti artisti, nell'arte contemporanea giapponese, che hanno fatto del “Kawaii” la loro ricerca artistica. Si possono fare esempi come Takashi Murakami con i suoi iconici allegri fiorellini e i suoi irriverenti personaggi manga, oppure Yoshitomo Nara con i suoi carinissimi bimbi imbronciati. Miki Midori invece ci propone un delicato mondo femminile fatto di un gusto minimal ma estremamente “Kawaii”. Un mondo dove il cioccolato, i popcorn e il colore rosa sono protagonisti.

Con la sua sensibilità, l'artista giapponese Miki Midori vuole mettere in luce tanto una profonda dolcezza quanto la forza di una giovane donna che insegue i suoi sogni. Allo stesso modo incoraggia il pubblico a seguire il suo esempio, andandogli incontro e invitandolo a far parte della sua dimensione anche solo per un piccolo istante. Una dimensione che vuole riscaldare l'animo di chi ne viene accolto e che vuole regalare fiducia e speranza, senza però pretendere di nascondere la realtà, a volte anche amara, della vita.

 

 

GIFT-Ordinary Special things

La mostra “GIFT-Ordinary Special things”, tenuta nella prefettura di Tokushima presso il Clement Plaza Tokushima fino allo scorso febbraio 2021 è un percorso surreale disposto in vari ambienti del palazzo che accoglie lo spettatore trasportandolo in un gentile paese dei balocchi.
Attraverso l'ideale estetico del Kawaii, l'artista giapponese Miki Midori, concepisce le opere presenti come doni con lo scopo di rendere un po' più libero e leggero il cuore di ogni persona.
Nella sua mostra è dunque presente il desiderio di poter scacciare anche per poco il pensiero di un mondo profondamente scosso dalle difficoltà che spesso si trova ad affrontare, così come è accaduto negli ultimi tempi con la pandemia che ancora oggi ci rende difficile tornare alla normalità.

Nel pian terreno dell'edificio troviamo “Pink Chocolate GIFT” una grande installazione alta 2 metri composta da 1300 barrette di cioccolato rosa. Le barrette sono create con resine, alluminio e carta stampata con la classica grafica utilizzata per il famoso cioccolato giapponese Meiji. L'artista giapponese le posiziona per formare un grosso regalo avvolto da un luccicante nastro dorato.
“Strawberry Popcorns Gift”, un'enorme busta regalo di plastica dorata e trasparente piena di popcorn rosa accuratamente fatti a mano dall'artista.
Infine “Chocolate sprinkles” una serie di dipinti a olio rappresentanti cioccolatini colorati mischiati a “oggettini carini”. Tra queste tele troviamo “Chocolate Sprinkles Gift - Pink Party” un dipinto a olio di 1m x 1m che posizionato orizzontalmente su un supporto quadrato e dorato trasmette allo spettatore la voglia di immergersi in una dimensione decisamente "Kawaii".

Il complesso di installazioni sono posizionate affinchè il visitatore possa avere anche una suggestiva visione dall'alto man mano che sale verso i piani superiori del palazzo, tramite l'utilizzo di scale mobili che si affacciano sul pian terreno.
Proseguendo al secondo piano ci si imbatte in un altro “Pink Chocolate GIFT” questa volta con il cioccolato rosa composto a formare una grossa barretta, sempre rilegata dal solito luccicante nastro d'oro.
Anche le entrate principali del Clement Plaza Tokushima vengono curate dal gusto e dal design della giovane artista, preparando così lo spettatore ad essere accolto dalla calda e dolce atmosfera del fantastico mondo “Kawaii” di Miki Midori.

 

Cristina Solano

 

Miki Midori sito web: http://www.mikimidori.com/

Miki Midori Instagram: https://www.instagram.com/miki_midori/?hl=it

 


Dall'Italia al Giappone: intervista all'artista Gianluca Malgeri

L’incontro tra Giappone in Italia e l’artista Gianluca Malgeri è avvenuto nel contesto di un recente progetto che ha coinvolto lo spazio espositivo di una delle vie più famose di Milano: Viavài, mostra di arte contemporanea nelle vetrine di Via della Spiga. Il progetto, ormai concluso, avveniva in piena emergenza covid19, con l’intento di utilizzare gli spazi dei negozi vuoti a causa della pandemia in prospettiva creativa. La mostra presentava opere di diversi artisti contemporanei, è stata presentata da VIA (Visiting Installation Art) e curata da Federica Sala, ospite insieme a Gianluca Malgeri in una delle dirette Instagram dell’Associazione.

Gianluca Malgeri, di origini calabresi, da anni lavora tra Firenze e Tokyo. Ha esposto le sue opere in Europa e Giappone. Attraverso Playground Project la sua produzione artistica si intreccia nel 2015 con quella di Arina Endo, artista giapponese e sua partner. Il punto di partenza della collaborazione artistica tra i due è la mostra tenuta a Venezia Edge of Chaos (2015), sebbene l’intuizione alla base di questa esposizione abbia radici più profonde. Prima in Danimarca e successivamente in un viaggio in India durato sei mesi, Gianluca e Arina incontrano per le prime volte quei luoghi che saranno di ispirazione per le loro successive opere: i playground. I playground sono parchi all’aperto per i bambini, aree progettate e dedicate al gioco.

Quella sui playground è una vera e propria ricerca, tra forme e percorsi quasi labirintici, che vengono divisi e assemblati da Gianluca nei propri collage. Proprio come un gioco, l’artista sperimenta, compone le parti delle strutture per ottenerne sempre di nuove e differenti. Le sculture in metallo sono la naturale continuazione di queste opere, come se la costruzione si protraesse fino al di fuori del collage e ne mantenesse le modalità di composizione.

Il progetto dei playground prosegue con la mostra a Roma nel 2015-2016, Homo ludens e negli ultimi anni, dal 2017 ad oggi, si concretizza nel lavoro di ricerca collocato proprio in Giappone, a Tokyo. Esemplificativa dell’evoluzione di questo progetto è la mostra Mery-Go-Round (Tokyo, 2019), in cui le sculture di Gianluca e Arina si fanno sempre più leggere, galleggiano sospese.

Di recente, nel 2020, Gianluca e Arina portano a termine anche un progetto per l’allestimento delle vetrine di Hermès in Giappone: Taking an Airing.

Proprio per la sua lunga esperienza in terra nipponica, Giappone in Italia invita Gianluca Malgeri al racconto della sua esperienza come artista in Giappone. Abbiamo incontrato Gianluca e gli abbiamo posto alcune domande.

 

 

Cosa ricordi maggiormente delle tue prime esperienze in Giappone?

Ci sono diverse cose che mi tornano alla mente se penso alle mie prime esperienze in Giappone. Una su tutte è il modo di comunicazione che sono stato quasi un po’ costretto ad adottare agli inizi, che mi ha fatto in un certo senso avvicinare alla cultura giapponese. Ho subito notato come il primo approccio alla comunicazione sia stato di tipo grafico: per me, che ancora non conoscevo nulla della lingua giapponese, l’unico modo per chiedere indicazioni o informazioni era quello di passare attraverso i disegni. I giapponesi credo siano abituati più di noi a questo tipo di mezzo comunicativo. Mi è capitato molto spesso che, di fronte alla realizzazione del fatto che io non potessi comprendere la loro lingua, pur di aiutarmi si siano messi a disegnare indicazioni stradali o informazioni di diverso genere. Questo mi ha fatto pensare all’approccio molto più diretto che questo popolo ha con il disegno: i kanji giapponesi sono vere e proprie miniature del mondo grafico, la scrittura è anche tecnica pittorica. Direzione, precisione, pressione maggiore o minore, velocità o lentezza del tratto, essenzialità della rappresentazione. A questo i giapponesi sono abituati sin da piccoli.

Questo tipo di comunicazione essenziale e orientativa mi ha fatto anche pensare alle descrizioni che Roland Barthes fa della lingua giapponese e delle città nel suo scritto “L’impero dei segni”. Lo scrittore fa subito notare come in Giappone i significati eccedano in un certo senso le parole. Come sia un’idea dell’Occidente il fatto che la comunicazione passi in prima istanza e in modo privilegiato dalla parola. In Giappone possiamo avere esperienza di come i significati comunicativi abbiano molte altre vie per essere espressi. Il disegno, ad esempio.

Riferimenti ambigui e per approssimazione, una definizione particolare dello spazio e un tipo di orientamento legato a punti di riferimento visivi: R. Barthes parla anche della difficoltà di orientamento nella città giapponese, senza indirizzi come li intendiamo noi, dove le vie non hanno un nome ma le città sono divise in quartieri, blocchi.

Ciò mi ricorda, oltre a tutte le volte che ho chiesto indicazioni e mi è stato risposto con una mappa disegnata ed essenziale del luogo, il modo in cui abbiamo stampato le locandine della mostra di Mery-Go-Round. Dietro agli inviti avevamo inserito, oltre all’indirizzo, una mappa, la quale era decisamente orientativa: segnava riferimenti visivi importanti come stazioni della metro o convenience store, che tutti avrebbero potuto riconoscere.

Mi piacerebbe in futuro lavorare a un progetto in questo senso, attraverso tutti i disegni che mi sono rimasti dalle mie visite in Giappone, spererei solo di non perdere la freschezza e spontaneità che stava dietro a queste espressioni grafiche.

 

 

Quali altre esperienze hanno segnato i tuoi primi viaggi/permanenze in Giappone?

Le prime volte che viaggiai in Giappone fu a Kyoto. Decisi di trasferirmi a Tokyo con Arina solo successivamente.

Ricordo che in un Bed & Breakfast in cui sono stato feci esperienza di ciò che Giappone penso significhi ospitalità: alla fine del mio soggiorno il proprietario mi salutò con un regalo. Mi sono dispiaciuto a posteriori di non aver pensato a qualcosa da lasciare a questo signore anch’io. Mi resi conto come in Giappone vigesse un vero e proprio culto dell’ospitalità, un’attenzione particolare alla persona. Compresi che non si trattava solo di gentilezza, ma di un vero e proprio codice.
Questa sensazione di essere sempre i benvenuti si è spesso intrecciata e scontrata con un’altra sensazione, che credo non si sperimenti solo in Giappone ma un po’ ovunque all’estero: quella dello smarrimento e del sentirsi straniero. Forse, in alcune situazioni, in Giappone questa sensazione potrebbe essere più accentuata che in altri luoghi, per diverse ragioni. Lo straniero, però, ancora oggi fa sempre un po’ curiosità e allo stesso tempo paura. Tuttavia, anche a livello artistico questo mi ha spinto ancor di più a cercare di comprendere la diversità. È un momento in cui la sensibilità si amplifica, si comincia a comprendere meglio l’altro e anche maggiormente se stessi. Ammetto che, in quanto persona del sud trasferita al nord, ho avuto in me questa sensazione di diversità in diverse occasioni. Il Giappone mi ha aiutato a comprendere questo ancora più profondamente.

Un’altra esperienza molto importante per me è stato l’incontro con la famiglia della mia fidanzata. Sentivo sarebbe stato un grande passo, soprattutto in una famiglia giapponese legata alle tradizioni.
Mi è sembrato di avvicinarmi ancora di più alla cultura giapponese, poiché ho avuto diverse occasioni di comprendere come queste tradizioni si leghino alla contemporaneità.

Non conoscevo Kyoto, in quell’occasione uscendo di casa e passeggiando nei dintorni trovammo per caso un Cafè. Questo luogo avrà avuto più di cinquant’anni, a conduzione familiare. Mi sembrò che fossimo entrati in un’altra epoca. Percepivo come a Kyoto tradizione e modernità convivessero, e questo in un certo senso mi aveva ricordato l’Italia con tutta la sua storia. Spesso si cerca l’autenticità e invece si trova il souvenir, ma non era questo ciò che mi ritrovavo a sperimentare ogni giorno per le strade di Kyoto.

 

 

Parliamo adesso un po’ delle tue opere. Mi piacerebbe che mi parlassi dei playground, fonte di ispirazione per i tuoi progetti.

Il progetto dei playground nasce da un viaggio che feci in India con Arina. L’idea di playground parte da quella di parco, giardino pubblico. In India il viaggio fu faticoso, nelle grandi capitali caotiche come Nuova Delhi un buon posto per riposare era proprio quello dei parchi, oasi di tranquillità rispetto al resto, dove le regole urbane si sfaldavano.
Anche in Giappone ho fatto esperienze di questo genere, anche qui i parchi e i playground sono luoghi determinanti. Usando l’immaginazione, potremmo dire che quando la società adulta si chiude negli uffici, rimangono due mondi: quello dell’infanzia e quello delle persone anziane. Ciò che immagino sono città incantate prese di possesso dai bambini quando l’adulto è chiuso in ufficio durante le ore di lavoro. Da una parte vi è il dovere e il dover produrre, dall’altra l’idea di conoscere il mondo tramite il gioco. I playground sono il luogo in cui questo avviene.

In Giappone il mondo dell’infanzia è una realtà molto curata e delicata. Dico questo solo da persona che osserva, mi sembra che in Giappone esistano veri e propri luoghi – come questi playground – in cui l’infanzia si sviluppa e affinché il gioco aiuti a conoscere. I bambini vengono molto responsabilizzati, ma allo stesso tempo il loro mondo è rispettato.

 

 

Come ti sei trovato a Tokyo e come ti approcci all’arte contemporanea giapponese? Ho notato che nella tua produzione più recente (come, ad esempio, nella mostra Mery-Go-Round), le sculture si fanno sempre più leggere. Come si è svolto questo cambiamento nelle opere?

L’arte contemporanea, il design e l’architettura giapponese mi affascinano molto, ma devo dire che ancora ho difficoltà nel comprenderne alcune declinazioni poiché possiedo un background estetico completamente differente. Sto cercando di entrare in questo codice visivo, di comprendere quale sia stato il percorso che dalla tradizione porta all’arte di oggi.

Piano piano ha iniziato a farsi strada tra noi la percezione che le nostre sculture non dovessero per forza essere dense ma è cominciato un processo di semplificazione. Già dal 2015 iniziamo a pensare a questo, dove “semplificare” non significa rendere semplice, ma piuttosto fa riferimento a un processo di sintesi.

In Mery-Go-Round alcune sculture sembrano galleggiare, sono sospese. L’intuizione della sintesi si è unita qui al fatto che in una delle sale della galleria non fu percorribile la scelta di posare le sculture a terra: era uno spazio in cui una volta era presente una cisterna d’acqua ed erano rimasti i pilastri che la sostenevano. Lo spazio ci ha portato a pensare che sarebbe stato interessante utilizzare il soffitto. Anche l’uso dei colori nelle sculture è stato pensato in relazione al fatto che nella sala della galleria predominasse il colore grigio. Ci sembrò l’occasione giusta per sperimentare con i colori.
L’intuizione, comunque, parte dai collage. I collage sono l’estensione pittorica delle sculture, come le sculture sono continuazione naturale dei collage. La libertà con cui compongo i collage è la stessa che ci ha portato a pensare di collocare le sculture nell’aria, invece che sul pavimento.

A volte credo che ci sia un fraintendimento del ruolo che hanno i collage nella nostra produzione. Il collage è un ritorno alla pittura e un’estensione pittorica (anche se li realizzo attraverso fotografie). La matrice dei miei progetti parte dai collage. Collage è ricerca di un’immagine che documenta, poi c’è la stampa, i ritagli, poi l’assemblaggio che avviene sempre in modo diverso. Collage è gioco intuitivo pittorico di forme e colori, è un infinito assemblabile. Un’infinita possibilità di forme e costruzioni, determinate dalla ricerca che faccio attraverso le fotografie, attraverso i luoghi di gioco.

Speriamo che presto si presenti l’occasione per realizzare sculture in scala reale per i parchi di qualche città.

 

 

Qual è l’approccio che avete tu e Arina nella produzione delle opere?

Il mio incontro con il Giappone avviene con Arina e nel modo che abbiamo di lavorare insieme.
Arina ha una predisposizione alla concentrazione. Ha un approccio di dialogo con il materiale, è molto precisa. Il mio approccio è, a volte, quasi un conflitto con la materia, ho l’arroganza di volerla dominare. Arina sembra avere un rapporto naturale con i materiali. La sua scultura è armoniosa, i migliori lavori vengono quando completo qualcosa che lei ha iniziato o viceversa.
L’interessante per noi è proprio trovare un nuovo linguaggio che comprenda i nostri due modi di operare.

 

 

 

Gianluca Malgeri 

Arina Endo

Playground Project

 

 

 

intervista di Susanna Legnani


È morto Kentaro Miura, autore di Berserk

È solo di qualche giorno fa la notizia dell’improvvisa morte di Kentaro Miura, uno dei fumettisti giapponesi più influenti nel panorama internazionale e autore del famoso manga seinen ‘Berserk’.

A comunicarlo con profonda amarezza, è stato l’account twitter ufficiale della casa editrice nella giornata di giovedì 20 maggio:

“Kentaro Miura è deceduto il 6 maggio 2021 per dissezione aortica acuta. Aveva 54 anni. Miura-sensei era un maestro, artista e narratore e abbiamo avuto il grande privilegio di pubblicare molte delle sue opere più belle, incluso il suo capolavoro, Berserk. Ci mancherà molto. Le nostre condoglianze vanno alla sua famiglia e ai suoi cari.”

Una morte improvvisa, perciò, lo ha separato dalla sua più grande passione in vita, coltivata sin dall’infanzia, il disegno.

È noto a molti, infatti, che Miura realizzò il suo primo manga stampato all’età di soli dieci anni.

Ai tempi delle medie, pubblicò su una rivista Il suo primo dōjinshi (storie a fumetti) e dopo il liceo, fece domanda presso un collegio artistico, che venne subito accolta.

Il progetto che gli permise l’ammissione, gli fece anche guadagnare il premio di Miglior Nuovo Attore nella rivista Shounen Noa.

E in seguito ai primi successi, arrivarono anche le pubblicazioni ufficiali, tra cui troviamo Berserk - The Prototype, nel 1988: un manga di 48 pagine, che costruì le basi per il futuro successo planetario che diventerà Berserk.

Non unica opera dell’autore, ma da sempre considerata il suo capolavoro, Berserk è un manga horror fantasy ambientato in un universo di ispirazione medievale che segue le vicende di Gatsu, un guerriero maledetto costretto a vagare senza sosta per sopravvivere.

Nonostante la brutalità che lo caratterizza, Berserk riscontrò una notevole popolarità che portò alla produzione di un una serie anime nel 1997, due serie televisive nel 2012 e nel 2016 e numerosi videogiochi ad esso ispirati.

Inoltre, valse a Miura il premio culturale Osamu Tezuka nel 2002, un riconoscimento annuale conferito agli autori di manga più meritevoli.

È davvero un peccato, però, che purtroppo non ne conosceremo mai la conclusione.

 

Amanda De Luca


Lo sguardo catturato - il vetro di Ōki Izumi

Il vetro è un materiale strettamente legato al concetto di passaggio. Non ad un passaggio fisico, quanto ad un passaggio spirituale, nel quale il corpo immobile è spinto oltre dal solo sguardo.

Il vetro usato da Ōki Izumi blocca questo passaggio in un attimo temporale, lo arresta a metà del suo svilupparsi. Assume una forma, si muove e dialoga con lo spettatore, rivendica la sua esistenza come materia, fragile, pericolosa, sensuale, disegnandosi da sola con gli incastri delle listelle che compongono la sua forma, la sua architettura. Lo sguardo altro non può fare che fissarsi, impossibilitato a procedere oltre anche laddove il retro dell'opera sia visibile, come l'ipnotico incedere dell'acqua ci distrae dal fondale, con solo la luce a passarvi attraverso.

Le sculture di Ōki Izumi non rifuggono in alcun modo da questa analogia. La stratificazione delle listelle, il movimento incessante di saliscendi di angoli e tramezzi, fanno apparire la superficie dell'opera modellata dal vento, e ne cristallizzano la bellezza. Lo sguardo si dimentica così di andare oltre, e si perde prima ancora di concludere il passaggio in quel limbo che è il concetto stesso di andare attraverso. Avvicinandosi all'opera, lo spettatore cade inevitabilmente all'interno del labirinto di geometrie.

Guidato dall'evocazione di forme e architetture, senza un “altrove” in cui andare, lo spettatore è spinto alla meditazione, al ritrovare se stesso come meta. Ecco emergere l'altra qualità del vetro industriale, indiscusso protagonista dei lavori di Ōki Izumi, la riflessione. La stessa riflessione a cui conduceva l'azione teofanica delle grandi vetrate gotiche, in un epoca in cui la visione era percepita come un'esperienza tattile, in un reciproco toccarsi dell'occhio e dell'oggetto attraverso fantasmi e luce.

Il vetro come resa materica della trasparenza offre un'infinita ricchezza comunicativa, che nessun artista potrà mai gestire nella sua completezza. La consapevolezza di Ōki Izumi nel saper di poter svolgere solo il lavoro di “primo motore” verso la riflessione affidata al pubblico, è espressa nella semplicità e precisione formale delle sue sculture, in tensione verso una direzione evidente che le fa gradualmente svanire. A rimanere è il procedimento di creazione da parte dell'artista e da parte dell'immaginazione dello spettatore. A rimanere è il passaggio tra l'occhio e l'oggetto.

All'interno della mostra Tra l'acqua e il cielo, le sculture di Ōki Izumi dialogano con gli scatti di Gianni Pezzani, e con essi suggeriscono allo spettatore nuove straordinarie mete estetiche. La mostra sarà visitabile fino a fine maggio alla galleria Kanalidarte, in via Alberto Mario 38 a Brescia.

Le foto presenti nell'articolo provengono dal sito della galleria, nella pagina dedicata visitabile a questo indirizzo link.

 

Beatrice Varriale


Il giardino del Ryōan-ji, forma e assenza di forma

Il giardino del tempio Ryōan-ji è sicuramente uno dei più famosi giardini zen. Variamente interpretato e studiato in diverse circostanze, cattura l’attenzione anche di artisti moderni e contemporanei. Il musicista John Cage gli dedica un pezzo silenzioso intervallato da suoni isolati, W. Gropius – scrivendo a Le Corbusier – vi individua gli stessi principi di semplicità ed essenzialità che animavano la sua produzione. L’origine di questo giardino è antica e si colloca nel periodo Muromachi; probabilmente in passato non aveva la forma che è possibile vedere oggi: diversi scritti testimoniano come esso avesse avuto l’aspetto di un paesaggio in prestito, uno shakkei. Oggi il giardino secco del Ryōan-ji è formato da una superficie rettangolare non attraversabile, composto da sabbia bianca e quindici pietre sistemate in diversi gruppi. Il muro e gli alberi alti all’esterno hanno oscurato quello che in tempi antichi fu un paesaggio catturato e incorporato nell’architettura, in continuità tra interni ed esterni, una moltiplicazione dello spazio.

Il giardino secco viene chiamato in giapponese karesansui 枯山水. È interessante soffermarsi sul significato di questa parola: se si considerano i kanji utilizzati, si può vedere che kare 枯significa “povero, secco”, mentre sansui 山水 è un accostamento dei kanji di “montagna” e “acqua”. Questa analisi della parola già dice molto sulle caratteristiche di questo tipo di giardino.

La natura in questo contesto è povera e secca, inorganica, non rappresenta la vita nel momento in cui è pulsante e rigogliosa. A prima vista, dunque, questo tipo di giardino è molto differente da quelli considerati finora in questa serie. Nello shakkei e nello tsubo-niwa la natura è viva, le cose qui sono lasciate al loro divenire, in un inevitabile scorrere del tempo; nel giardino secco invece sembra quasi che questo tempo si sia fermato.
Oltre a ciò, le parole “montagna-acqua” rappresentano un ideale paesaggio. Questa denominazione del paesaggio è utilizzata anche nella pittura cinese, a dimostrazione di come l’arte dei giardini sia molto vicina all’arte pittorica. Senza soffermarsi troppo su quest’ultima, è bene tenere presente come la pittura cinese tradizionale si fondi su equilibri particolari: gli spazi vuoti del foglio si alternano alle pennellate scure, creando una dinamica e armonia specifica. Montagne e acque sono due poli del dipinto, rappresentanti diversi tipi di paesaggi, vengono armonizzati attraverso gli spazi vuoti.

L’esempio del Ryōan-ji testimonia come il giardino sia uno spazio da contemplare, un’opera che può essere osservata come un dipinto, sebbene allo stesso tempo non ricopra solo una funzione decorativa rispetto all’edificio: non è percorribile, ma è solamente osservabile dalla veranda del tempio che è presente su uno solo dei lati del giardino. Da questa veranda è possibile osservare l’esterno, sedersi e meditare.

E, a proposito di meditazione, in questo contesto emerge come sia difficile parlare di giardino secco senza prendere in considerazione le dottrine zen più nello specifico. Sebbene l’arte giapponese antica non sia solo un’arte zen, nel caso di questi giardini è impossibile parlare di una cosa senza soffermarsi anche sull’altra. Cercando di evitare la semplificazione eccessiva, ma senza soffermarsi troppo su queste dottrine (cosa che richiederebbe una riflessione molto più ampia), è bene mettere in evidenza alcuni punti fermi dello zen. Il buddhismo zen è un insieme di dottrine che traggono le loro origini da culti importati dalla Cina (buddhismo chan), dove il buddhismo Mahāyāna subisce influenze dalle dottrine del taoismo. “Zen” significa “meditazione”, esperienza atta alla comprensione della realtà, da un punto di vista non prettamente speculativo. La dinamica e fondo della realtà è vuota, ed è comune ad ogni cosa, uomo e natura: attraverso diverse esperienze, dunque, l’individuo dovrà comprendersi come parte di una realtà più ampia e capire di non essere indipendente da ciò che lo circonda, ma di essere invece in relazione al resto. Oltre a ciò, è la qualità di questa realtà comune alle cose a interessare: vuota, in divenire, ciò che rende le cose non permanenti, effimere. Il giardino, dunque, può essere – più che attraversato – contemplato, e in questa contemplazione è possibile fare esperienza di quel vuoto di cui parlano le dottrine zen. È anche nell’esperienza artistica che si compie dunque la meditazione e si comprende qualità delle cose.

Si passi ora a una descrizione concreta: il giardino è di forma rettangolare, composto da sabbia, alcune rocce e muschio. Al di là del basso muro, che percorre due lati del giardino, si può scorgere invece una natura viva, differente da quella secca del karesansui, che probabilmente in passato – come si è detto – lasciava intravedere un paesaggio di sfondo, che veniva preso in prestito e inserito nel contesto. Gli elementi semplici che costituiscono il giardino richiamano subito alla vista l’esperienza del vuoto: la sabbia bianca e le rocce sono due poli del reale, pieno e vuoto. Questi due poli sono sempre in relazione e alla base di tutte le cose.  Come in un dipinto, le rocce sono i tratti d’inchiostro nero, e la sabbia è il foglio bianco, attraverso il vuoto essi si armonizzano e ne emerge il legame. L’essenziale in questa composizione, come è stato messo in evidenza da molti studiosi di giardini e di zen, è proprio il legame che intercorre tra gli elementi e non le istanze singole. Si dice che l’architetto del giardino del Ryōan-ji abbia pensato alla struttura in modo che nessuna delle pietre presenti avrebbe potuto essere osservata singolarmente, ma anzi sempre in gruppo. Questo restituisce visivamente quella parte della dottrina zen che prende in considerazione il rapporto tra le cose, l’interdipendenza e non autosussistenza dei singoli.

Il giardino del Ryōan-ji è un paesaggio che in un certo senso rappresenta tutti i paesaggi: ne mostra la parte essenziale, semplice, povera. Attraverso questa forma artistica si può comprendere quale sia la visione della realtà per le dottrine zen: dunque una struttura specifica, un giardino particolare, che allo stesso tempo però nasconde e mostra ciò che anche tutti gli altri giardini sono, emerge quell’esperienza del vuoto che sta al fondo delle cose. Per comprendere questo è molto utile fare riferimento a ciò che il filosofo Ryōsuke Ōhashi mette in evidenza nel suo scritto Kire: il bello in Giappone. Egli parla dell’espressione «formazione dell’assenza di forma». Cosa si vuole intendere con questa frase complessa? Nel suo essere povero, secco, nella sua semplicità ed essenzialità, questo giardino è come se contenesse in sé tutti i giardini, come se desse una certa rappresentazione della realtà. E in questa rappresentazione «lì, dove montagne e acque “seccano”, vale a dire scompaiono, vengono messe in forma; lì dove la forma viene annullata, essa viene abbozzata»: è proprio nella semplicità, dove la vita viene meno, dove le cose vengono rappresentate nella loro essenzialità che si comprendono le qualità della realtà. Queste qualità emergono proprio nel momento in cui viene meno la forma, la costruzione si fa semplice e povera: la forma viene abbozzata proprio quando diviene assente, poiché è il vuoto ad essere la forma delle cose. Questo vuoto che è tutte le cose attraverso il giardino ci restituisce una realtà provvisoria, effimera, impermanente e interconnessa, dove ogni elemento è interdipendente da altri. Il giardino del Ryōan-ji attraverso la sua composizione fa emergere le qualità delle cose nel senso che esso, mettendo degli elementi in forma, disponendoli in modo da farne emergere caratteristiche particolari, attraverso l’arte permette di intravedere che le cose sono al loro fondo vuote, interconnesse, provvisorie: le pietre sono collocate in gruppi e non possono essere percepite come singoli, lo spazio bianco della sabbia è come vuoto e si relaziona a questi elementi, i quali rappresentano la vita nella sua forma di provvisorietà, povertà, semplicità.

Ōhashi conclude: «attraverso il processo di essiccazione viene alla luce l’autentico modo d’essere del fiore. Fiorire rappresenta un accrescimento della vita. In questa somma attività si manifesta la forza vitale, e tuttavia al contempo la vita cela così uno dei suoi tratti essenziali: la mortalità».

 

Susanna Legnani