Il libro del ramen: Intervista a Stefania Viti
Abbiamo incontrato Stefania Viti, giornalista ed esperta di Giappone contemporaneo, per parlare del suo ultimo successo editoriale Il libro del ramen pubblicato da Gribaudo-Feltrinelli.
Come nasce l’idea di scrivere un libro sul ramen?
L’idea nasce all’interno di un percorso che sto facendo insieme alla casa editrice Gribaudo-Feltrinelli avviato nel 2013. Per Feltrinelli ho curato il volume Il Sushi, uscito nella collana Real Cinema insieme al DVD Jiro e l’arte del sushi, nel 2015 con Gribaudo ho pubblicato L’arte del sushi, edizione ampliata, aggiornata e illustrata del primo volume e nel 2016 ho chiuso questa trilogia con Il sushi tradizionale. Ora abbiamo deciso di approfondire un altro piatto simbolo della cucina giapponese, il ramen, che in questo periodo sta godendo di grande popolarità, prova ne è anche il fatto che questo libro, uscito nel novembre 2017, già nel febbraio 2018 è andato in ristampa!
Com’è strutturato il libro?
Il libro segue quella che mi piacerebbe diventasse la mia cifra stilistica di raccontare la cultura giapponese. Nei miei libri c’è infatti sempre molta cultura, che diventa la chiave di lettura per raccontare un paese. La prima parte introduce la storia del ramen e le curiosità a essa legate. Il ramen è un piatto declinato localmente, per questo numerose pagine sono dedicate alla geografia di questo piatto e dunque alla scoperta delle varie regioni del Giappone. Il libro porta così a scoprire un intero Paese e il ramen è una sorta di filo rosso di tutto il viaggio. Anche se in modo diverso rispetto al sushi, anche quella del ramen è una ricetta molto complessa. Ho inserito quindi una parte propedeutica che introduce gli ingredienti di base, per proseguire con una seconda parte riservata alle ricette di base per fare i brodi. Nella terza parte si arriva presento i piatti realizzati dagli chef di alcuni famosissimi ristoranti giapponesi. Il libro si avvale della collaborazione di Ramen Expo, uno dei maggiori eventi dedicati al ramen in Giappone, che qui presenta numerose ricette originali. A queste si aggiungono altre ricette di tre Ramenya (ristoranti specializzati in ramen) italiane, che propongono, ciascuna, un tipo diverso di ramen.
Racconti di come il ramen rappresenti “il Giappone in una ciotola” e ogni zona o regione del paese siano caratterizzate da una particolare ricetta. Quali sono le preparazioni di base e quali le specialità?
La preparazione del ramen non ha delle regole fisse, ma esistono quattro tipologie classiche di brodi: il miso ramen, lo shio (sale) ramen, lo shōyu (soia) ramen e il tonkotsu ramen (fatto con le ossa di maiale). Il ramen è così raccontato attraverso il suo brodo. Col tempo queste tipologie si sono mescolate, contaminate. Nella parte delle ricette dei ristoranti giapponesi molte vanno sotto l’etichetta di “Brodi misti”, perché ottenuti dalla mescolanza di vari tipi di brodo. Per esempio, nelle ricette di Casa Ramen si arriva alla completezza del brodo mescolandone tre diversi tipi.
Esiste un vero e proprio galateo del ramen. Hai qualche aneddoto in merito?
Il galateo del ramen procede al contrario rispetto al nostro. Uno degli aspetti più curiosi è il fatto che i popoli asiatici quando mangiano la pasta lunga fanno rumore, sia come segno di apprezzamento, sia per favorire il raffreddamento della pietanza. Questo non è visto come una cosa sconveniente o maleducata, anzi… Un’altra “regola” è che prima di iniziare a mangiare si assaggi il brodo. Solo dopo si va a “distruggere” l’armonia di colori e forme. Il brodo dà il timbro del gusto, da esso si capisce la qualità del piatto.
Nel libro ti soffermi sul legame tra ramen, letteratura, cinema e manga. Com’è diventato così popolare questo piatto?
In Giappone il ramen è sempre stato un piatto popolare, ma davvero nel senso etimologico del termine: un piatto per il popolo. Nonostante sia un piatto ricco di ingredienti, sostanzioso, completo, mantiene un prezzo abbordabile. Caratteristica che per il sushi non è sempre vera, dato che esistono sushiya molto care ma anche i kaitenzushi dove il sushi è ancora a buon prezzo. Il sushi è nato come cibo di strada, ma con la Seconda Guerra Mondiale è diventato un cibo di élite, mangiato di nascosto, anche perché non c’era il riso. Parlo del sushi perché è sempre stato una sorta di “antagonista” del ramen. Il sushi è diventato un simbolo alto, raffinato, portatore di un’estetica zen, della filosofia del “less is more”. Negli anni Ottanta ha fatto proseliti nella cultura culinaria internazionale, mentre il ramen è rimasto nei confini del Giappone. Negli anni Ottanta e Novanta l’immagine delle pentole di ramen non si confaceva all’immagine internazionale del Giappone che si stava diffondendo. Il ramen è però rimasto presente in tutta la cultura underground, nei manga, negli anime (Doraemon per esempio mangia i ramen). Poi è arrivato Jūzō Itami con il film Tampopo che nel 1985 ha segnato una riscoperta del ramen. Jūzō fa una specie di “spaghetti western” ambientato in una locanda di ramen. Il ramen diventa simbolo di un Giappone autentico da difendere dall’assalto della controparte occidentale. Il nemico è rappresentato simbolicamente dagli “spaghetti” appartenenti a una cultura lontana. L’Occidente è in quel momento un mondo poco definito per il Giappone tanto che la scena degli spaghetti è girata in un ristorante francese. Il film comunque più che la storia delle gang locali racconta l’artigianalità del ramen, la sua preparazione e l’esperienza della degustazione. Nel 1988 Yoshimoto Banana in Kitchen fa diventare il ramen il fulcro del racconto, un’esperienza quasi spirituale. Per arrivare al boom di oggi fino al boom di oggi grazie anche all’azione di promozione e valorizzazione portata avanti dai primi anni 2000 da Food Japan.
Come è stato accolto il ramen in Italia?
Oggi è accolto benissimo! Addirittura diverse testate giapponesi mi hanno intervistata proprio per capire come io vedessi successo e diffusione di questo piatto nel nostro Paese. D’altra parte da noi è già ben radicata la cultura della pasta lunga. Inoltre, il ramen è un piatto molto più facile da mangiare rispetto al sushi perché non c’è il pesce crudo.
Chi sono i più importanti chef di Ramenya in Italia? Come hai sviluppato la collaborazione con alcuni di loro per il libro?
Il libro non vuole essere una guida, non illustra un panorama generale. Ho scelto tre diversi chef i cui ristoranti propongono tre diverse tipologie di ramen: Misoya perché fa ramen al miso, Casa Ramen per il tonkotsu, Niko Niko Ramen & Sake fa shio ramen. Sono storie e varietà differenti, non si sovrappongono tra loro.
Dopo il sushi e il ramen, continuerai in questo percorso di promozione e valorizzazione in Italia della cucina giapponese?
Sì certo. Stiamo già lavorando ai prossimi argomenti da trattare. Se il pubblico continua a seguirci proseguiremo sicuramente: c’è ancora tanto da dire e da raccontare! È importante avere testi in Italia che non siano semplici traduzioni da altre lingue. È il momento giusto perché gli studiosi italiani possano essere valorizzati. L’Italia è molto sensibile all’arte culinaria. Abbiamo specialità, nicchie, eccellenze. Noi italiani possiamo essere quelli giusti per raccontare una cucina e una cultura culinaria così sofisticate, come quelle del Giappone. E poi, magari, saranno i nostri libri a essere tradotti!
Parli tanto di cucina nei tuoi libri, ma tu sai cucinare?
In realtà cucino poco… O non cucino affatto. Però mi piace mangiare! Il mestiere degli chef è quello di fare cose buone, il nostro mestiere – di giornalisti e scrittori - è quello di saperle riconoscere e raccontare. Credo il mio compito sia proprio quello di raccontare le ricette e contestualizzare la cultura gastronomica di cui si parla: operazione che ritengo estremamente necessaria quando parliamo di paesi, piatti e culture molto distanti e diverse dalle nostre. Quindi, lasciamo cucinare i cuochi e lasciamo scrivere gli scrittori!
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Intervista a Hiromi: "La mia casa è il palcoscenico"
Hiromi Uehara è una delle pianiste giapponesi più famose e apprezzate. Autrice di uno stile jazz personalissimo, si distingue - oltre per la capigliatura "esplosiva" - per l'energia che mostra sul palco e per il suo uso assolutamente non convenzionale dello strumento pianoforte. L'abbiamo raggiunta nel backstage del Blue Note di Milano, in occasione del suo concerto dello scorso 7 ottobre, per farle qualche domanda e conoscerla meglio. Ecco cosa ci ha raccontato!
Ciao, Hiromi! Benvenuta su Giappone in Italia. Come stai?
Bene! Grazie per l'intervista!
Iniziamo subito. Sei venuta tante volte a suonare in Italia. Cosa ne pensi del nostro paese? Com'è suonare qui?
È davvero un paese meraviglioso. C'è tanta passione per la musica, che dimostrate continuamente. Il pubblico italiano è molto emotivo e caloroso e questo lo si sente sul palco. In più in Italia avete un'ottima cucina. Musica e cucina sono le mie due più grandi passioni, quindi è proprio il paese che fa per me. [ride]
Come sta andando il tour con Edmar Castañeda?
Sta andando benissimo. Sai, quando la gente sente parlare di un duetto di piano e arpa, prima di sentirci suonare, spesso si chiede "Piano e arpa? Insieme? Cosa possono offrire?". È davvero una combinazione unica, che molte persone non hanno mai avuto modo di ascoltare. Poi, quando arrivano allo show, si sorprendono di quello a cui stanno assistendo. Probabilmente non si aspettano che un'arpa possa venire suonata in quel modo. Nemmeno io me lo immaginavo prima di conoscere Edmar. [ride] Ed è stupendo assistere alle loro reazioni. Prima sono quasi shockati, poi lo stupore lascia spazio alla gioia. È quello che succede quando si scopre qualcosa di totalmente nuovo. Come in un'avventura.
Quando è iniziata la vostra collaborazione?
Ci siamo conosciuti nel 2016 a Montreal, dove ci siamo trovati a condividere il palco. Era la prima volta che lo vedevo e sono rimasta a bocca aperta sentendolo suonare. E anche per lui è stato lo stesso. Mi ha sentito suonare per la prima volta ed è rimasto molto sorpreso. Ci siamo scambiati i contatti con la promessa di suonare insieme poi in futuro. Un mese dopo, avevo uno spettacolo al Blue Note di New York, così l'ho invitato a suonare come special guest. Si è creata una connessione magica così ci siamo detti "dobbiamo assolutamente andare in tour insieme!".
Pensi anche che la musica che suonate abbia finito per influenzarvi reciprocamente?
Oh, sì. Naturalmente. È normale quando passi tanto tempo con una persona influenzarsi a vicenda.
La tua musica è molto ricca e variegata. Si possono riconoscere tantissime influenze. Quali sono le tue maggiori fonti di ispirazione?
Ce ne sono troppe! [ride] Tutti quelli che ci sono sui muri del Blue Note, hai visto le foto? [ride] [Ndr: Hiromi si riferisce alle gigantografie di numerosi musicisti jazz che adornano le pareti del locale]. Vedi, tutte le volte che ascolto della musica, imparo qualcosa di nuovo. I primi due pianisti che ho ascoltato, quando a otto anni prendevo lezioni di pianoforte, sono stati Errol Garner e Oscar Peterson. Entrambi mi hanno insegnato un'importante lezione, quando si parla di improvvisazione. Sono anche andata in tour con Peterson, anche se non abbiamo mai suonato insieme. È stata una grande emozione.
Puoi descriverci il tuo processo creativo? Da cosa trai ispirazione per nuove idee, quando stai scrivendo dei nuovi brani?
Tento di scrivere nuova musica tutti i giorni, proprio come se stessi tenendo un diario. È come se la mia musica fossero le parole del mio diario. Voglio sempre scrivere e così cerco continuamente nuove esperienze che possano emozionarmi e che possano essere fonte d'ispirazione.
Hai intenzione di collaborare con altri artisti in futuro?
Naturalmente. Non so ancora chi sono destinata a incontrare o quando, ma so che saprò riconoscerlo all'istante non appena inizierà a suonare. E quando inizieremo a collaborare è come se suonassimo insieme da sempre.
Sei sempre in tour in giro per il mondo, viaggiando da un continente all'altro. In che modo questo stile di vita influenza la tua sfera personale?
La mia vita personale? Ma la trascorro tra hotel e aerei. [ride]. Non posso certo dire che sia una vita facile, sempre in viaggio. Ma amo esibirmi nei miei show, è il momento in cui mi sento più viva. Ogni volta che salgo su un palcoscenico diverso, appena vedo il mio pianoforte, è come se fossi a casa mia. È una sensazione che cerco di trasmettere anche a chi mi ascolta. Voglio poter dire al mio pubblico "Benvenuti a casa di Hiromi!".
Ultima domana. Sei giapponese: pensi che la cultura o la tradizione musicale del tuo paese abbiano mai influenzato la tua musica?
È una cosa a cui non ho mai pensato. Sicuramente non cerco di inserire artificiosamente nella mia musica elementi che possano far dire "è una pianista giapponese" ma, allo stesso tempo, penso che ci siano delle caratteristiche intrinseche alla mia musica che derivano dal mio "essere giapponese" e che la gente riconosce come tali. Per esempio, quando incontro una persona nuova, mi inchino. Ma non è per far vedere che sono giapponese, ma semplicemente perché sono giapponese e inchinarsi è una conseguenza. Sono fatta così. La "giapponesità" è dentro di me e di conseguenza nella mia musica, anche se non voglio inserirla forzatamente. Dovete solo trovarla! [ride] Non voglio né nascondere, né mettere in mostra la mia giapponesità. Sono così. Sono Hiromi.
Grazie per quest'intervista, Hiromi. È stata davvero interessante. Vuoi lanciare un messaggio ai nostri lettori prima di salutarci?
Ogni cultura è straordinaria e ogni cultura è differente. Ad esempio, l'Italia e il Giappone sono estremamente diversi, ma ci sono tanti aspetti in comune. Dobbiamo cercare di mettere in evidenza gli aspetti migliori di ogni cultura.
Tra sogno e realtà - Intervista a Fuco Ueda
Fuco Ueda, classe 1979, è una delle artiste contemporanee giapponesi di maggior successo. I suoi dipinti - che normalmente vengono inseriti all'interno della corrente pop surrealista nipponica - mischiano sapientemente immagini leggere ed eteree con elementi più inquietanti. Grazie alle sue iconiche e riconoscibilissime opere d'arte, debitrici in una certa misura dell'influenza di Yoshitomo Nara, Ueda sta diventando sempre più popolare, sia in patria sia all'estero. L'abbiamo intervistata in occasione della sua prima mostra in Italia, che sarà ospitata da Dorothy Circus Gallery a partire dal 9 giugno.
-Qual è stato il suo percorso artistico?
Dopo terminato il liceo, dove ho studiato arte, ho proseguito gli studi in un'università di arte di Tokyo.
- Sembra che nelle sue opere ci numerosi elementi contraddittori. Ad esempio ci sono giovani donne e bambine innocenti, accanto a numerosi elementi macabri e orripilanti. Che significato hanno?
Nel 2011 ho pubblicato in Giappone un libro di illustrazioni dal titolo “Lucid Dream”. “Lucid Dream” (sogno lucido) è quella particolare condizione in cui durante un sogno ci si rende conto di star sognando. Ce ne accorgiamo dicendo “Ma questo è un sogno”, ma ugualmente continuiamo a sognare. Uno degli aspetti più interessanti di un sogno lucido è il venire sommersi completamente da immagini e figure che superano ampiamente la nostra immaginazione, nonostante cerchiamo di manipolare coscientemente il sogno. Ho scelto questo titolo perché si avvicina straordinariamente a quello che voglio esprimere con lo stile delle mie opere. Secondo me, nel realizzare un dipinto c'è insita la gioia di essere completamente sopraffatti dalle immagini. Ci è possibile raggiungere posti che normalmente non potremmo nemmeno sfiorare, nascosti nel profondo del nostro inconscio. I motivi delle mie opere finiscono per essere ragazze, animali, insetti e giganteschi crisantemi. Sono tutte immagini simboliche, esseri estranei a un normale rapporto servo-padrone. Forse non ci è possibile comprendere sufficientemente queste misteriose relazioni. L'ansia o la paura di non poter comprendere le altre persone, la trovo estremamente interessante e stimolante.
- Le sue opere sono state esposte, tra l'altro, alla Galleria Jonathan Levin di Jersey City, insieme ad altri artisti della Galleria Kogure. Da dove è nata questa collaborazione?
È stata la Galleria Jonathan Levin che ha contattato la Galleria Kogure. All'inizio speravo di poter organizzare una mia mostra personale, ma la Galleria Kogure ha pensato potesse essere una buona chance per presentare altri artisti giapponesi e così è diventata una mostra "a quattro".
- A questo proposito, sembra che nelle opere degli altri artisti della Galleria Kogure, come ad esempio Takuto Yamamoto o Takahiro Hirabayashi, ci siano numerose somiglianze con la sua pittura. Secondo lei quali potrebbero essere i punti di contatto?
Prima di tutto, la galleria ha una forte tendenza verso la pittura rappresentativa. Una peculiarità di questi artisti è il mix tra l'influenza della tecnica pittorica tradizionale giapponese (nihonga, cioè pittura giapponese) e differenti sottoculture giapponesi. Inoltre la galleria Kogure ha una tendenza nel preferire artista dalla tecnica molto raffinata.
- Ha esposto anche in altre galleria all'estero? Ha mai partecipato a fiere d'arte
I miei quadri sono stati esposti in varie gallerie, sia in mostre di gruppo, sia in "personali". Per esempio, a Taiwan, in Germania o in America. In particolare sono stata tante volte a Los Angeles, alla Galleria Thinkspace. Per quanto riguarda le fiere d'arte ho partecipato molte volte a quelle che si svolgono in Asia, come a Taiwan o a Hong Kong.
- Le sue opere sono state d'ispirazione per lo sviluppo del videogame The Path. È stata coinvolta direttamente nello sviluppo?
Per quanto riguarda The Path, sono stata contattata dall'autore che mi ha detto che era stato molto influenzato dalle mie opere. Purtroppo non ho giocato al gioco, quindi non posso dire precisamente.
- Da quali film, libri, opere d'arte o manga è stata maggiormente influenzata nella sua arte?
Oltre all'arte, quello che per me costituisce la maggior fonte d'ispirazione è la letteratura giapponese antica, i vecchi manga e i film. Gli autori che mi piacciono di più sono Yumiko Kurahashi, Hyakken Uchida, Yukio Mishima, Tatsuhiko Shibusawa. Di manga mi piacciono molto quelli di Jun Mihara, Moto Hagio, Sakumi Yoshino, Fumiko Takano, Katsuhiro Otomo, Kazuo Umezu. I film mi piacciono tutti. Mi piace anche la danza, ad esempio Pina Bausch.
- Cosa ne pensa dell'arte giapponese contemporanea?
Penso che la scena giapponese sia un po' stagnante. Potrebbe essere dovuto alla cattiva influenza della lingua giapponese. Moltissimi artisti non parlano inglese - me compresa purtroppo - e questo non fa altro che creare ancora più distanza con il mondo dell'arte occidentale. In più, la sottocultura degli anime e dei manga che si è sviluppata in modo del tutto peculiare in Giappone, ha conquistato i cuori di molti più giapponesi rispetto all'amore per l'arte contemporanea. L'arte purtroppo non ha avuto la stessa forza aggregante, capace di cementificare una sottocultura attorno a essa. Gli artisti di successo lavorano per lo più all'estero, mentre le attività in Giappone sono molto limitate.
- Questa è la prima volta che espone una mostra in Italia. Quali sono le sue aspettative?
Ho grandi aspettative per questa mostra! L'Italia è la terra d'origine delle belle arti, non vedo l'ora di girare e visitare musei. E poi vorrei anche mangiare qualche cibo prelibato. Voglio proprio godermi questa trasferta in Italia.
Intervista e traduzione di Federico Moia
Nendo: Invisible Outlines - Video-intervista al designer giapponese
https://vimeo.com/212215800
La nostra video-interview al designer giapponese Nendo, uno dei protagonisti della Milano Design Week 2017.
Video e intervista a cura di Giuseppe De Francesco
Architettura invisibile - Sou Fujimoto tra uomo e natura
Roma, 2 marzo – Nell'elegante cornice dell'Aula dei Gruppi Parlamentari, partecipiamo alla lezione di Sou Fujimoto, architetto giapponese di fama internazionale, capo dello studio Sou Fujimoto Architects. L'incontro si svolge nell'ambito degli eventi collaterali della mostra “Architettura invisibile”, ospitata dal 19 gennaio al 26 marzo presso il Museo Carlo Bilotti. Non è la prima volta che l'architetto si reca a Roma. Ha già visitato la nostra capitale quando era ancora studente e si recò in viaggio-studio in Europa, alla scoperta degli stili architettonici del Vecchio Continente.
“Architettura invisibile” è un'espressione che riassume efficacemente la filosofia dietro ai lavori di Fujimoto. La spiegazione ce la fornisce lui stesso, proprio all'inizio della conferenza, raccontandoci il contesto geografico e sociale in cui è vissuto. Sōsuke, il suo vero nome, è nato e cresciuto in un piccolo paesino sperduto tra le foreste dell'Hokkaidō, in cui si conoscevano tutti e le porte delle case erano sempre aperte. La giovinezza è trascorsa giocando nei boschi tra gli alberi. È proprio qui che ha avuto la prima ispirazione che ha contribuito alla formazione del suo concetto di architettura. Lo spazio-foresta non è delimitato da pareti o colonne, ma da tutta una serie di piccoli elementi che ne plasmano la struttura, in cui anche i vuoti e le trasparenze contribuiscono a rafforzare la spazialità esistente. La sensazione è quella di essere in uno spazio intimo e familiare. La stessa peculiare caratteristica, secondo la sua testimonianza, si può ritrovare nelle strade di Tokyo, dove si è trasferito per frequentare l'università, nonostante in questo caso si tratti di uno spazio completamente artificiale. Anche qui la spazialità era definita da una serie di elementi apparentemente scollegati, come possono essere pali della luce, panchine o distributori automatici, a ognuno dei quali ci si relaziona con un differente comportamento, un differente approccio. Il suo duplice background, spiega come mai una delle sue principali preoccupazioni sia l'unione armoniosa tra artificiale e naturale, tra uomo e natura, tra visibile e invisibile.
Questa sua inusuale concezione dell'architettura, continua a spiegare, ha trovato la sua massima espressione nel Serpentine Pavillion, realizzato ad Hyde Park, a Londra, nel 2013, “costruzione” che l'architetto considera il suo miglior lavoro. Non si tratta di un edificio vero e proprio, quanto dell'unione di innumerevoli singoli elementi – una successione irregolare di pali e piattaforme bianche – che singolarmente presi non significano nulla, ma nel complesso creano un ambiente liberamente fruibile. Il pubblico è incoraggiato a esplorarlo e a capire in quale modo approcciarvisi. Lo si può esplorare, cercare un tavolo per mangiare o una panchina per sdraiarsi. Ci si può anche arrampicare in cima. È uno spazio veramente pubblico. Inoltre, grazie al modo in cui è realizzato, non esistono veri limiti tra il dentro e il fuori, e tutta la costruzione è immersa completamente nella natura, senza creare contrasti forti. È una soluzione in cui il naturale e l'artificiale si fondono, in cui non si percepisce la linea di demarcazione tra i due. Fujimoto insiste che si tratta di una nuova interpretazione di architettura. Non tanto tecniche di costruzione, quanto capacità di saper reinterpretare lo spazio.
Giochi di prospettive, rapporti mutevoli tra interno ed esterno, tra pubblico e privato – sono le caratteristiche fondanti dello stile di Fujimoto, e si possono ritrovare in ogni sua opera, sia pubblica che privata. I due progetti di abitazione House NA e House N, ad esempio, che uniscono la visionarietà di Fujimoto alla più antica tradizione architettonica nipponica. Nelle case del Giappone classico, infatti, i locali erano separati da una semplice parete scorrevole di carta di riso, che pur delimitando lo spazio non costituiva una netta separazione tra le varie stanze. Allo stesso modo in House NA la divisione tra i vari locali, così come tra interno ed esterno, viene meno. Tutto è unico e la funzione di ogni spazio dipende unicamente da come le persone vogliono interpretarlo. Un pavimento può diventare un tavolo, una sedia può diventare una mensola, un soffitto può essere un letto. Si tratta solo della ripetizione dello stesso modulo in dimensioni e rapporti diversi, proprio come nel padiglione Serpentine. La coppia che ha commissionato il progetto ha raccontato all'architetto di usare gli ambienti della casa in modo non convenzionale, per esempio leggendo in cucina o mangiando sul letto. Fujimoto ha così creato per loro una casa in cui tutto può essere tutto. In House N, invece, la distinzione tra dentro e fuori è completamente ribaltata grazie ai vari moduli che si contengono a vicenda e al fatto che il più esterno non è chiuso. Non si può mai dire di essere del tutto dentro o del tutto fuori. Altri progetti di Fujimoto basati su queste idee sono Public toilet, la nuova biblioteca dell'Università di Musashino, l'auditorium Forest of Music o il complesso residenziale Arbre blanche.
L'arte di Fujimoto è quella di saper creare spazi innovativi, che sfidano le leggi dell'architettura portandoli – come dice lui stesso – all'estremo. L'ambiguità di fondo consiste nella difficoltà di etichettare le sue opere che proprio per questo motivo possono apparire troppo rivoluzionarie e di conseguenza poco funzionali. Ci racconta che spesso i suoi progetti sono stati cancellati, proprio per questi timori. Tuttavia, questa visionarietà e questo coraggio, gettano le loro basi in un background culturale ancorato saldamente al passato, alla tradizione nipponica e alla ruralità del suo paese natale, dove l'intimità condivisa, come se si trattasse di un unico nucleo familiare allargato, e lo strettissimo contatto con la natura fanno completamente decadere molte contrapposizioni manicheiste che nella società odierna diamo per scontate.
Federico Moia
Washoku kentei - A tu per tu con chi l'ha voluto portare in Italia
In Italia, la cucina giapponese è sicuramente una delle più apprezzate e popolari. E, nonostante tutto, anche una delle meno conosciute. Nell'opinione comune, infatti, è facile che la ricchissima tradizione gastronomica del Paese del Sol Levante sia appiattita al solo sushi, magari anche mangiato in uno di quei ristoranti "all you can eat" che abbondano nelle nostre città e che di giapponese non hanno quasi nulla. Per correggere questa innocente inconsapevolezza e diffondere una vera conoscenza della tradizione alimentare giapponese – chiamata anche washoku (il carattere “wa “ significa armonia, e si usa normalmente per indicare il Giappone; “shoku” è il carattere che indica “mangiare”) – Fumiaki Tamada ha deciso di portare in Italia il corso Washoku culture. Il corso, la cui prima lezione si è tenuta lo scorso sabato 25 febbraio presso i locali della scuola di lingue Eurasia Academy, continuerà fino a maggio e offrirà una ricca panoramica sulla cultura alimentare giapponese. Ma di cosa si tratta esattamente? Lo abbiamo chiesto direttamente al signor Tamada.
“Il corso washoku culture si prefigge lo scopo di diffondere la conoscenza della reale cultura alimentare giapponese, cercando di aumentare la consapevolezza verso questa tradizione gastronomica. La cucina giapponese infatti non è solo un insieme di tecniche e ricette, ma ha radici profondamente ancorate alla storia e alla cultura del nostro Paese, che oggi si tendono a ignorare. Ma senza conoscere queste basi non è possibile comprenderla fino in fondo e si rischia di dimenticare il motivo per cui certi piatti si preparino o si consumino in un certo modo.”
Il pubblico accorso alla prima lezione, in realtà, non era proprio numerosissimo. “Temo che molte persone non abbiano capito esattamente in cosa consiste il corso” ci spiega Tamada. “Noi non vogliamo insegnare le tecniche della cucina, ma la cultura della cucina, che sta dietro quelle tecniche. Alla fine del corso, dopo il superamento di un esame, si ottiene il certificato washoku kentei (kentei significa certificazione), che attesta la conoscenza della cultura alimentare giapponese.” Un corso molto sui generis, quindi, ma nel cui successo Tamada crede fermamente, senza farsi scoraggiare dai numeri iniziali. "Pensavamo fosse un momento ideale per proporre questo corso in Italia, dal momento che moltissimi giovani sono interessati alla cucina giapponese e, conseguentemente, alla cultura giapponese trasmessa attraverso la cucina. Alla fine, è la nostra prima volta, e anche una delle prime che viene proposto fuori dal Giappone, da quando la certificazione è stata istituita nel 2011. La prima impressione è molto positiva. Durante la lezione, c'è stata una bella atmosfera, molto familiare. I partecipanti hanno creato subito un rapporto diretto con la maestra, cosa che ha favorito anche le domande e gli interventi. E' stato anche un esempio della squisita ospitalità giapponese.”
Ma a chi è rivolto esattamente un corso così particolare? Anche su questo, Tamada ha le idee ben chiare. “Il nostro corso è indirizzato sia ai semplici appassionati di cucina giapponese, che ai professionisti operanti nel settore della ristorazione. Non voglio criticare nessuno, ma oggi c'è davvero poca consapevolezza circa la vera tradizione gastronomica giapponese, anche da parte degli addetti ai lavori. Grazie alla collaborazione dell'Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi e del suo presidente Minoru Hirazawa – o, come è più conosciuto, Shiro-san di Poporoya – ho già raccolto numerosi contatti di professionisti interessati. Per ora c'è un unico corso base, ma pensiamo di crearne in seguito uno esclusivamente dedicato agli addetti ai lavori. Per i semplici appassionati, invece, c'è anche la possibilità di frequentare solamente una singola lezione, un'ottima soluzione per chi non ha la possibilità di essere sempre presente nei tre mesi di corso”
Dopo averci parlato entusiasticamente della sua creatura, Tamada inizia a raccontarci la sua storia, e delle circostanze che lo hanno spinto a proporre il washoku kentei agli Italiani. "Sono arrivato in Italia nel 1979, alle dipendenze di un calzaturificio giapponese che collaborava con vari brand italiani. In seguito mi sono messo in proprio, spostandomi da Roma a Milano. Sono più di 30 anni che la mia società opera nel trading nel settore tessile. Negli ultimi anni, una flessione degli affari mi ha spinto a cercare nuove strade da percorrere. Grazie ad alcuni amici giapponesi, ho conosciuto la realtà del washoku kentei, che in quel momento stava cercando proprio alcuni collaboratori all'estero per poter diffondere i loro corsi anche fuori dal Giappone. Conoscendo la grande passione degli Italiani per il cibo e la cucina giapponese, ho deciso di tentare la sfida”.
Una vicinanza forse scomoda quella di due tradizioni alimentari così importanti, entrambe, non a caso, inserite nel novero dei Patrimoni Culturali Immateriali dell'Unesco. Tamada, tuttavia, non reputa che le due culture culinarie siano così distanti.”Senza dubbio non ci sono delle vere e proprie somiglianze, visto che le due tradizioni sono frutto di due culture differenti, e il rapporto che esiste tra queste è molto profondo. È dalla cultura che nascono i piatti. Ci possono però essere in futuro vari punti di contatto, o delle reciproche influenze. Basti vedere come oggi chef e cuochi italiani si ispirino sempre più alle tecniche di lavorazione o agli ingredienti della cucina giapponese. È una cosa che fa capire come sia ricercata e richiesta la vera tradizione alimentare giapponese. Credo molto in uno scambio di questo tipo, di materiali, di tecniche e di idee, anche per poter avviare dei progetti insieme.”
Federico Moia
Kazuto Takegami - ACQUA VENTO TERRA - La mostra raccontata dall'artista
Il mondo dell'arte non si può dividere in monolitici compartimenti stagni. Esistono numerosi artisti che travalicano le barriere e le suddivisioni canoniche tra "arte occidentale" e "arte orientale", o tra "presente" e "passato", unendo nel loro linguaggio e nella loro sensibilità componenti eterogenee derivanti da più tradizioni. Uno di loro è certamente Kazuto Takegami, artista giapponese residente in Italia da quasi vent'anni, che sembra aver dedicato la sua eclettica ricerca artistica al superamento di categorizzazioni limitanti, cercando sempre il modo più autentico e immediato di trasmettere sulla tela ciò che vede e ciò che sente.
Abbiamo voluto incontrarlo a pochi giorni dalla chiusura della sua mostra "ACQUA VENTO TERRA" - ospitata da AD Gallery di Anna Deplano - per porgli alcune domande non solo sull'esposizione che si sta per concludere, ma anche sul suo modo di concepire l'arte, che quasi sempre coincide con la sua vita in generale.
"La mostra è andata molto bene" esordisce Takegami "Ha incontrato fin da subito l'interesse dei visitatori della galleria. In molti mi hanno raccontato che la prima cosa che li ha colpiti sono stati i colori e la luce che si percepiscono nei dipinti. Era proprio quanto volevo esprimere. Volevo dipingere quadri dove si sentono i rumori e si avverte il movimento. Dove si sentono l'aria e l'acqua. Uso una spatola per dipingere, perchè il pennello non è sufficiente a far capire il moto delle ombre o delle nuvole".
Takegami, nato in Giappone nel 1970, si trasferisce a Milano nel 1998, dopo aver vinto una borsa di studio dell'Accademia di Brera, e da allora non ha mai abbandonato il nostro Paese. "All'inizio avevo intenzione di rimanere in Italia solo per due, tre anni, grazie alla borsa di studio di Brera. Volevo imparare la tecnica dell'affresco, conoscere gente, creare nuovi contatti. Alla fine mi sono creato una nuova vita qui. Mi ha stupito inizialmente come tutto fosse diverso dal Giappone. Là è tutto più preciso, qua invece può capitarti di trovare una scritta su un muro o una sigaretta sul marciapiede. Ma è bellissimo, trovo un sacco di idee per dipingere". Proseguendo la conversazione, racconta di aver pensato solo una volta di tornare in Giappone, nel 2008, in seguito alla scomparsa del padre. "Mi sono trovato molto in difficoltà allora. Ho smesso di dipingere per quattro o cinque anni. Ho ricominciato a mettere i miei sentimenti sulla tela solo dopo aver iniziato a praticare triathlon. E' stato allora che sono tornato a vedere la natura e i colori".
Takegami pratica questo sport da cinque anni e dipinge quello che percepisce durante una corsa o durante un giro in bicicletta, la bellezza dell'acqua, il rumore del vento, l'ombra dei ciclisti. La mostra in corso in questi giorni è incentrata proprio su questo tema. La tela viene utilizzata come un personalissimo diario su cui l'artista scrive quello che sente, quello che prova o quello che vede. Come ci racconta lui stesso "non è solo quello che ho vissuto, ma anche quello che ho semplicemente visto." Ci sono rappresentazioni di foto o addirittura di immagini televisive con tanto di scritte in sovraimpressione e loghi dei canali fedelmente riprodotti.
Parlando delle sue principali influenze, Takegami sottolinea "Ho uno stile che cambia molto e di conseguenza sono molti gli artisti che mi piacciono e da cui in qualche modo ho imparato qualcosa. Per esempio, ho studiato molto il pittore francese Nicolas De Staël per quanto riguarda la composizione. Era un astrattista, ma alla fine della sua vita è tornato a soggetti realistici. Anche Giorgio Morandi è stato per me fonte di ispirazione, così come il napoletano Francesco Clemente. Non sono vere e proprie influenze, però, dipingo semplicemente quello che vedo e quello che sento, anche se ci sono tanti artisti che stimo e mi piacciono, altri che mi piacevano e ora non più. Quando ero giovane, ad esempio, ammiravo molto Yoshitomo Nara e Shinro Otake. Ora non mi piacciono più. Penso sia normale. E' la stessa cosa di quando in passato mangiavo sempre carne, e ora mangio solo pesce. Le cose cambiano."
Cambiamento. Questa è la parola che descrive meglio il suo stile, in costante e coerente evoluzione. "Sono arrivato dove sono arrivato. Alcuni mi dicono di percepire rimandi a Hokusai [Katsushika, il più celebre artista dell'ukiyoe N.d.R.], ma io non me ne accorgo. Solo in un caso ho voluto rifarmi volontariamente a uno stile pittorico preesistente. E' stato con la serie "A bassa voce" del 2009, dove ho voluto riprendere la tradizione pittorica giapponese a inchiostro, riproducendo in bianco e nero gli alberi, il cielo, la pioggia, l'aria. E' stato dopo la morte di mio padre. I colori sono tornati dopo."
Allo stesso modo, Takegami non percepisce una distanza o delle differenze sostanziali tra il modo occidentale od orientale di percepire l'arte. "Dentro di me non c'è un orientale o un occidentale, si tratta solo della realtà che vedo. Penso che concetti come la nazionalità abbiano poca importanza nel mondo dell'arte. Ogni artista ha uno stile unico e differente che non per forza rispecchia la sua provenienza. Anzi, a volte mi sembra che si cerchi di prendere le distanze dal Giappone, come Nara che ha vissuto per un lungo periodo in Germania. Penso che molti artisti non vogliano fare opere che urlino "sono giapponese" e i collezionisti d'arte non li cercano per quello. Non ci sono stereotipi nell'arte."
Obiettivi per il futuro? "Finita questa mostra, ho qualche progetto che vorrei concretizzare. All'inizio della mia carriera ho partecipato ad alcune mostre in Giappone, ma da allora non ce ne è più stata l'occasione. Ora grazie a una mia amica gallerista di Nagoya - triatleta anche lei - vorrei cercare di portare alcune mie opere in Giappone il prossimo anno. Dobbiamo ancora definire i particolari, ma l'interesse è forte da entrambe le parti. Mi piacerebbe provare a mostrare in Giappone quello che ho imparato in Italia, come la tecnica dell'affresco, così come qui a Milano ho cercato di utilizzare tecniche di origine giapponese, come la pittura a inchiostro. Alla fine, l'arte italiana e l'arte tradizionale giapponese si assomigliano molto. Sono entrambe frutto di tecnica, precisione e cura ai dettagli, proprio come l'arte artigianale giapponese - quella della lavorazione della ceramica o dei kimono, ad esempio."
Federico Moia
Portierra, la pelle etica Made in Japan amica dell’uomo e dell’ambiente
Portierra, la pelle etica Made in Japan amica dell’uomo e dell’ambiente, ha presentato a Lineapelle 2016 Portierra White
Il suo nome è Portierra ed è un innovativo tipo di pellame Made in Japan ricavato dalla pelle di cervo, che fa della sicurezza e del rispetto per l’uomo e l’ambiente la sua massima priorità. Il nome deriva dalla lingua spagnola e significa “per la terra”. Infatti, grazie alla messa a punto di una tecnica unica e originale, durante la concia non vengono utilizzati prodotti chimici dannosi come cromo o aldeidi, i quali vengono sostituiti anche nella fase di tintura con polifenoli e coloranti vegetali.
A Lineapelle 2016 IFB Co. Ltd, l’azienda giapponese produttrice di Portierra, ha presentato Portierra White, il nuovo progetto per la concia di pelle bianca che – pur non avvalendosi di decolorazioni o tinture con sostanze chimiche – riesce ad ottenere un colore bianco splendente, utilizzato anche per la realizzazione di scarpe e capi per bambini. La pelle Portierra è talmente sicura per l’uomo da essere stata rinominata “pelle commestibile”.
Parallelamente Portierra presenta anche il progetto “Cervi, animali preziosi” per la valorizzazione degli “animali nocivi” e il recupero e riutilizzo delle loro pelli. Il progetto Portierra è stato ideato e fortemente voluto da Fumio Miki, fondatore di IFB Co. Ltd, il quale dopo numerosi tentativi è riuscito a creare un processo sperimentale unico e originale per la concia della pelle, durante il quale non si utilizzano materiali dannosi.
Intervista a Junzo Shigeoka - Direttore della divisione internazionale Portierra
Come è nato il progetto Portierra? La nostra azienda è nata nella città di Tatsuno, nella prefettura di Hyogo, una delle zone più famose per la produzione di pelle in Giappone. Quando il mercato locale della pelle iniziò a entrare in crisi spostandosi in Cina e in altri paesi asiatici Fumio Miki, il fondatore, iniziò a pensare che servisse qualcosa di nuovo che potesse ridare vita al mercato della pelle giapponese nella nostra città. Fu determinante l’incontro con il produttore di una delle più importanti compagnie giapponesi di tessuti che perseguiva già lo scopo di diventare un’azienda ecosostenibile eliminando l’utilizzando di prodotti chimici dannosi per l’ambiente. Il signor Miki decise così di introdurre questa nuova tecnologia, applicandola alla concia delle pelli e alla loro colorazione, creando così una nuova metodologia per la lavorazione della pelle. Si tratta di una tecnologia in costante sviluppo e la stiamo sempre migliorando. La nostra tecnica di tintura ecologica è totalmente rispettosa dell’ambiente, il che significa che non utilizziamo sostanze chimiche tossiche né per l’uomo né per l’ambiente, come metalli pesanti o cromo. Miki decise di far conoscere questo metodo all’estero, ed è per questo motivo che partecipiamo a Lineapelle per il quinto anno consecutivo.
Dove vengono prese le pelli di cervo utilizzate nel progetto Portierra White? In Giappone il problema dei cervi selvatici è piuttosto grave: il loro numero continua ad aumentare e a danneggiare l’economia giapponese. Il governo ha così deciso di intraprendere una politica mirata allo sfoltimento del numero dei cervi in tutto il Giappone ed adesso la proporzione tra il numero di cervi e quello dei cacciatori, che è in diminuzione, sta trovando un nuovo bilanciamento. Noi recuperiamo le pelli di cervo direttamente dai cacciatori che ce le offrono talvolta gratuitamente, talvolta a un pezzo di favore.
E per quanto riguarda la carne dei cervi uccisi, viene consumata? Sì, talvolta viene mangiata anche se in Giappone non è popolare come quella di manzo, pollo o maiale. Alcune aziende stanno cercando un modo per poter trattare la carne di cervo e reimmetterla sul mercato, ma non è un business in particolare espansione.
Il progetto Portierra White fa del suo pilastro una pelle di cervo totalmente bianca. Qual è il concept dietro a questo progetto e perché è stato scelto il bianco come colore principale? La tintura al cromo utilizzata solitamente nella concia classica rende il colore della pelle tendente al blu. Al contrario, utilizzando il processo di concia l’acido fosforico la pelle assume un colore bianco puro. Il colore denota la differenza tra i due metodi di concia e tintura che subiscono le pelli. Abbiamo partecipato a questa fiera cinque volte e abbiamo sempre notato che i clienti erano molto interessati a questa pelle bianca, perché è un colore davvero insolito. Per ottenere il colore bianco generalmente è necessario tingere la pelle mentre la nostra pelle invece è bianca senza subire alcun processo di tintura.
Come si inseriscono in questo progetto i prodotti rivolti all’infanzia? Abbiamo scelto di dedicare dei una linea di prodotto ai bambini, come quella delle scarpe, perché la nostra pelle non fa appunto uso di sostanze chimiche dannose o tossiche per l’uomo. Anche se fosse ingerita sarebbe totalmente sicura per loro.
Come nasce dunque il concetto di “Pelle commestibile”? E’ stato il nostro presidente, il signor Miki Fumio a pensare a questo nome. Il concetto che sta dietro al nostro progetto è che la nostra pelle è totalmente innocua, non tossica e non fa uso di nessuna sostanza nociva, né per l’uomo né per l’ambiente, quindi volendo si potrebbe anche mangiare.
Quali sono i progetti futuri di Portierra? Il nostro obiettivo è di espandere il mercato delle nostre pelli, perché la concia al cromo è ancora molto utilizzata. È vero che è più economica ma è molto dannosa per l’ambiente. La nostra pelle è più costosa, ma utilizziamo un metodo ecologico che vorremmo esportare nelle altre aziende produttrici di pelli in modo da rispettare maggiormente l’ambiente in cui viviamo. Il nostro obiettivo finale è quindi fare in modo che l’ambiente venga rispettato grazie all’utilizzo di questa tecnologia di concia ecologia.
Come pensa di poter raggiungere questo obiettivo? Ci sono già molte compagnie interessate all’utilizzo di prodotti amici dell’ambiente, ad altre invece bisogna far cambiare idea e convincerle che dovrebbero rispettare l’ambiente. Potrebbe volerci molto tempo, molti anni, ma dobbiamo farlo, per proteggere l’ambiente e portare questi prodotti rispettosi dell’ambiente in tutto il mondo.
Portierra: http://www.portierra.com/
Intervista al pianista giapponese Takahiro Yoshikawa
di Cristina Solano
Takahiro Yoshikawa è un bravissimo pianista giapponese che da anni vive e suona in Italia, che oltre a fare molti concerti da camera spesso calca il palco del Teatro alla Scala. Il maestro Yoshikawa è rinomato sia in Italia che in Giappone e molti sono i suoi tour in giro per il mondo. Di recente è uscito il suo nuovo album dedicato a Beethoven con la sua nuova etichetta discografica, la "YPSILON International LTD". Con questa intervista il maestro ci racconterà del suo amore per il pianoforte e della sua scelta nel proseguire i suoi studi e la sua professione in Italia.
Com'è nata la sua passione per la musica e per il pianoforte, e come ha capito di voler fare questo nella vita?
Io sono nato in una famiglia di musicisti. Mio padre ha studiato canto tedesco per Lieder (composizioni per voce solista e pianoforte) poi è diventato insegnante di musica alle scuole superiori, mentre mia madre ha studiato canto lirico. Così i miei genitori hanno iniziato a farmi studiare pianoforte. Quando ero bambino la mia passione non era molto forte e mio padre mi diceva che avrei dovuto continuare finché mi fosse piaciuto. I miei genitori mi hanno sempre lasciato libero di scegliere, infatti se non avessi continuato a studiare musica avrei scelto la facoltà di filosofia, ma con il passare del tempo ho capito che mi piaceva la musica classica e il pianoforte.
Qual'è il compositore che l'ha ispirato maggiormente?
A me piacciono molti compositori. Quando ero piccolo mi piaceva Johann Sebastian Bach, anche se lui ha composto, più che altro, per clavicembalo e organo. Attualmente suono un po' di tutto, ma in questo periodo la mia attenzione va ai compositori del Novecento, in particolare a Claude Debussy.
Cosa prova quando suona?
La musica trasmette molte sensazioni e suonare è diverso che ascoltare.
Quando suono sono molto concentrato e sul palco raramente mi sento libero. Ma quando riesco a raggiungere questa sensazione di libertà sento che sto raccontando qualcosa.
La musica è anche ritmo. Quando suono sento dentro di me una sensazione di movimento, il ritmo mi trasporta e mi trascina, alla fine è come se ballassi. E' difficile da spiegare!
Come mai ha scelto l'Italia per proseguire la sua passione?
L'Italia è stata una scelta nata un po' per caso.
Dopo aver conseguito il titolo di dottorato in pianoforte presso l'Università Statale di Belle Arti e Musica di Tokyo ho conosciuto la professoressa Anita Porrini (pianista), che è stata allieva di Alfred Cortot e Arturo Benedetti Michelangeli. Così sono venuto con lei, in Italia, a studiare come privatista. Poi lei mi ha consigliato di frequentare l'Accademia Teatro alla Scala di Milano, dove mi sono perfezionato nel repertorio del pianoforte in orchestra e cameristico. All'inizio pensavo di rimanera in Italia il tempo necessario per concludere i miei studi e dopo di ritornare in Giappone per fare il professore, ma poi ho capito che potevo anche andare avanti a suonare rimanendo qua. Ho conosciuto e suonato con molti strumentisti dell'Orchestra della Scala. In particolare con Fabrizio Meloni, primo clarinetto solista dell'Orchestra del Teatro e della Filarmonica della Scala, con il quale spesso suoniamo in duo. Con Fabrizio ho anche registrato un disco insieme, "Vif et Rythmique", sotto l'importante etichetta di musica classica "Deutsche Grammophon". La decisione di venire in Italia è stata anche ponderata dal fatto che io volevo suonare un po' tutto, e la scelta del Paese condiziona il repertorio di un musicista. L'Italia non ha una forte tradizione di compositori per pianoforte, però ha una grande tradizione di concertisti e di cantanti, inoltre mia madre ha studiato canto d'opera italiana, quindi me ne ha trasmesso la passione.
Di recente è uscito il suo nuovo CD dedicato a Beethoven, ce ne vuole parlare?
Si volentieri! Questo CD nasce perchè io oltre a essere un musicista sto portando avanti una strada parallela. Ho aperto una società in Giappone e ho iniziato a creare un'etichetta discografica mia, la "YPSILON International LTD", che verrà distribuita anche in Italia e in America. Il primo CD l'ho dedicato a Beethoven, perché le sue composizioni, per noi pianisti, sono un po' come la Bibbia. I suoi brani vengono studiati molto, e si può dire che tramite lui si vede un po' il pensiero del pianista. Sto già preparando il secondo e il terzo CD che saranno dedicati a Debussy e Schumann. Una percentuale dei ricavati di questo progetto saranno devoluti a Save The Children In Japan che, dopo la tragedia di Fukushima del 2011 e dopo il recente terremoto di Kumamoto, sta aiutando molti bambini in Giappone che si trovano in seria difficoltà.
Un ringraziamento va alla Casa di Riposo per Musicisti Giuseppe Verdi.
Takahiro Yoshikawa - sito: www.takahiroyoshikawa.com
Foto di Cristina Solano
Video: Intervista Esclusiva a Oki Sato - Nendo
In occasione della settimana del Salone del Mobile 2016 l'Associazione Culturale Giappone in Italia ha intervistato uno dei più grandi designer giapponesi: Oki Sato creatore e guida dello studio Nendo. L'intervista avviene in occasione della presentazione delle 30 Manga chairs realizzate da Nendo per la galleria Friedman Benda.
Per vedere l'intervista sottotitolata in italiano cliccare sull'icona CC vicino alla barra di scorrimento del video.
Oki Sato - nendo, interviewed by Giappone in Italia from Giappone in Italia on Vimeo.