Il magewappa arriva in Italia

Un altro assaggio di artigianato giapponese a Milano ci è stato offerto da Time & Style, che ha appena ospitato una mostra di oggetti realizzati con la tradizionale tecnica magewappa, la quale prevede la piegatura del legno attraverso il trattamento col vapore acqueo o la bollitura del materiale.

Time & Style è un brand di arredamento giapponese che vanta diversi showroom a Tōkyō, Ōsaka, Amsterdam e Milano, dove vengono esposti i loro prodotti di design. Questi spaziano dai mobili alle stoviglie, dalle lampade ad altri oggetti di uso quotidiano, e sono realizzati incorporando le tecniche di lavorazione tradizionali giapponesi con un gusto moderno, rispettando sempre il materiale utilizzato.

È in questo elegante contesto che è stata allestita la mostra “ODATE MAGEWAPPA Handcrafted Japanese Akita Cedar Objects for Everyday Life”. Prima di arrivare sugli scaffali di Time & Style, gli oggetti esposti si trovavano già in Italia presso l’Università degli Studi di Milano, grazie a una collaborazione con la città di Ōdate, nella prefettura di Akita, luogo d’origine della tecnica magewappa. La città giapponese ha poi voluto continuare l’esposizione, scegliendo gli spazi dello showroom come sede della mostra, che verrà poi ospitata in altre città italiane in un vero e proprio tour culturale, il quale in autunno vedrà come prossima tappa Faenza.

Il legno lavorato con la tecnica magewappa a Ōdate è tradizionalmente quello di cedro, materiale da cui sono stati ricavati tutti gli oggetti in mostra. Il legno, che conferisce all’oggetto il suo tipico aroma, presenta due caratteristiche particolari: curvatura e venature, lineari e sottili, che testimoniano il clima freddo del nord del Giappone. La curvatura, dovuta come anticipato precedentemente dalla lavorazione, viene solitamente fissata con dei ganci durante il processo di essiccazione del materiale per mantenere l’oggetto nella forma desiderata. La tecnica tradizionale prevede l’utilizzo di riso bollito schiacciato, che essendo glutinoso funge da collante, insieme a una cucitura in corteccia di ciliegio. Comprensibilmente, al giorno d’oggi il riso non viene più utilizzato e viene sostituito da un collante più resistente.

Set di bicchieri e contenitore, courtesy Time & Style.

La tecnica magewappa veniva inizialmente impiegata per produrre lunchbox o bicchieri per il sakè, ma oggi le applicazioni sono molto varie: si possono creare non solo diversi tipi di contenitori, ma anche vassoi, piatti e portafrutta, dimostrando quanto questa tecnica, antica più di quattrocento anni, abbia ancora molto da dare e dimostrare.

Set di piatti dalla bottega Kurikyu di Akita, courtesy Time & Style.
Portafrutta, courtesy Time & Style.

Gli oggetti in mostra derivano da cinque laboratori diversi di magewappa, tutti con base a Ōdate. Questi puntano a mantenere viva la tradizione, non solo producendo oggetti esteticamente belli, ma soprattutto cercando di educare un pubblico sempre più vasto ad apprezzare la ricerca, il materiale, la storia che sta dietro a essi, sia intesa come radici che come tempo impiegato per la realizzazione. Inoltre, i laboratori non solo puntano alla preservazione del magewappa, ma ne indagano nuove e moderne sfaccettature, ad esempio impiegando colorazioni a contrasto con il colore naturale del legno o realizzando pattern sulla sua superficie, gettando le fondamenta per una nuova evoluzione e reinterpretazione del magewappa di Ōdate.

Tazze dipinte parte della mostra, foto dell'autore.

La sopravvivenza dell’artigianato è un problema generale e impellente, che emerge criticamente in tutto il Mondo. Per questo, gli sforzi in atto per contrastare la perdita di know-how e cultura, che stanno alla base di queste tecniche, sono sempre maggiori, come dimostra l’impegno della città di Ōdate nel far conoscere questa sua tradizione unica e preziosissima.

 

Francesca Mora


Il kimono, l’artigianato tessile giapponese e gli italiani: un legame sempre più stretto

Uno dei temi alla base della mostra “The line between kimono and art vol. II”, tenutasi presso la Fondazione Matalon fino allo scorso 13 luglio, è stato senza dubbio l’artigianato. Il focus su questo aspetto era certamente presente nei kimono “finiti” esposti sui manichini, firmati da Koji Fukumoto, ma era soprattutto visibile nelle opere curate da Mamiko Ikeda, che mettevano invece in risalto il tessuto, la tintura della stoffa e le tecniche utilizzate per dare texture particolari o caratteristiche speciali al tessuto. Ne era un esempio la stoffa di Hakata, nella prefettura di Fukuoka, la cui particolarità risiede in una tessitura molto fitta volta ad aumentarne significativamente la resistenza.

Esempi di Hakata-ori, la tessitura tipica di Hakata, Mamiko Ikeda, foto dell'autore
Koji Fukumoto e Mamiko Ikeda alla Fondazione Matalon, foto di Alberto Moro Photographer

Non è però una novità che l’artigianato abbia un’importanza particolare per Ikeda. Il suo interesse per le tecniche manifatturiere tradizionali sta infatti alla base del suo percorso personale: la sua volontà di tramandare ai giovani e ai posteri la tradizione del kimono e della sua manifattura è da anni il suo obiettivo. In Giappone ci sono già sforzi dedicati a questa causa, perciò ha unito il suo obiettivo con la sua passione per l’Italia, volgendo quindi lo sguardo al nostro Paese, trovando, dice Ikeda, una cultura dell’artigianato tessile simile nei due Paesi, portando quindi giapponesi e italiani ad avere una sensibilità affine nell’apprezzare e nel cercare di mantener vive le tradizioni.

Questa sensibilità si può vedere anche nell’apprezzamento che hanno gli italiani per l’abito tradizionale giapponese. Ikeda spiega infatti che ci sono due macro-tipologie di kimono per quanto riguarda lo stile: una si focalizza sui pattern, quindi presenta una grande quantità di disegni realizzati per esempio con la tecnica yūzen, che prevede l'applicazione del colore a mano e l’utilizzo di diversi stencil per creare il design; mentre l’altra pone l’accento sul tessuto con tecniche come quella shibori, una sorta di tie-dye tradizionale con pigmenti naturali. Non è difficile per un non giapponese capire e apprezzare un kimono dal design ricco come può esserlo uno realizzato con la tecnica yūzen, mentre invece approcciarsi a un tessuto apparentemente più grezzo, a causa della texture particolare e della tintura non uniforme, può risultare più complesso. Tuttavia, secondo Ikeda, gli italiani riescono ad apprezzare entrambi questi stili molto diversi e a riconoscere la presenza (e il valore) di un abile artigiano dietro alla manifattura dei tessuti, nonostante questa sia molto più evidente nei kimono della prima tipologia.

Realizzazione di stoffa per kimono con la tecnica yūzen, courtesy Chiso Kyoto
Esempi di stoffa tinta con la tecnica shibori, House of Hattori (Igetaya), courtesy Arimatsu Japan Heritage (Nihon Isan Arimatsu)

Per raggiungere il suo scopo, Mamiko Ikeda ha quindi fondato “Kimono Wajaku”, attività di noleggio, vestizione e lezioni di vestizione del kimono con base a Milano. Il focus delle lezioni offerte è rivolto al fornire agli studenti le basi per poter vestire il kimono in modo autonomo, così da portarlo con serenità e sicurezza, anche grazie a eventuali modifiche e tocchi di stile personali. Secondo Ikeda, infatti, la chiave per far proprio il mondo del kimono è il divertimento: andare oltre alla lezione formale e portare il kimono liberamente, facendo quindi della veste giapponese un proprio indumento quotidiano senza aspettare un’“occasione” per farlo. Per questo motivo gli abbinamenti con capi e accessori moderni vanno visti come un’espressione della personalità e creatività di chi li indossa, oltre all’amore per il kimono. L’obbiettivo di Ikeda si può quindi riassumere nel riuscire a trasmettere principalmente le conoscenze di base affinché lo studente possa poi giocare con forme, colori e stili secondo il proprio gusto e stile, tramandando la tradizione seppur facendola evolvere e proiettandola verso il futuro.

Dopo più di una decina d’anni di esperienza con “Kimono Wajaku”, l’anno scorso Ikeda ha partecipato all’evento “Kimono Experience” nell’ambito della mostra “Storie di donne samurai” presso Tenoha. In quest’occasione ha potuto vestire con uno yukata, il kimono estivo in cotone, 700 italiani, a testimonianza del riscontro positivo con il pubblico e dell’interesse sempre crescente che gli italiani nutrono nei confronti dell’abito tradizionale giapponese. Tuttavia, Ikeda sente che si può fare ancora molto per coinvolgere sempre più persone, anche a livello europeo, e trasmettere loro la passione per continuare a preservare il tesoro culturale dell’artigianato tessile giapponese, tanto ricco quanto fragile, ma tutto da scoprire.

 

 

Francesca Mora


“Un Anno a Tokyo” - un libro di Marzio Broda

“Un Anno a Tokyo – Diario sentimentale di viaggio”, edito da scritturapura.it, è un libro di Marzio Broda, uno scrittore che si è scoperto scrittore proprio grazie a questa esperienza che si chiama Giappone.

Marzio è un ingegnere che per lavoro viaggia molto, quelli che fa sono viaggi professionali e veloci quindi non ha modo di abituarsi alle realtà straniere che lo circondano, ma riesce comunque a viverli con il fascino di chi ha lo spirito di avventura.
É sempre il lavoro che per un anno lo manda in missione a Tokyo, da solo senza la sua famiglia, che rimane in Italia, e senza i suoi colleghi.

“E adesso cosa farai, dipingerai anche a Tokyo?”, il libro comincia con questa domanda, perchè Marzio è anche un artista, così riflette sul fatto che probabilmente non ci sarà molto spazio ne tempo per dedicarsi alla sua passione. Ma durante la sua permanenza a Tokyo si accorge che può esprimere la sua sensibilità artistica tramite la fotografia e la scrittura. Una scrittura che scopre nel piacere di raccontare mentre messaggia su Whatsapp con i suoi amici e familiari.
Si accorge che tramite i messaggini si sta creando una narrazione, un racconto, un diario di viaggio.

Tokyo con la sua atmosfera magica, sospesa tra tecnologia e tradizione, e le sue persone gli rivela ogni giorno sempre di più un mondo straordinario e totalmente diverso da quello che Marzio è abituato a conoscere.
Ecco che così nasce un libro che è un diario, ma che è anche una guida pratica e spirituale, dedicato a chiunque voglia andare in Giappone e che voglia non solo scoprirlo ma anche farne un po' parte.

 

 

Intervista all'autore

D. Perchè hai scelto il kanji del cuore come copertina per il tuo libro e cosa significa per te?

R. La copertina, è stata una proposta dell'editore.
Quando me l'hanno proposto non ne conoscevo il significato ma mi piaceva molto graficamente.
Poi ho parlato con il mio amico giapponese e gli ho chiesto cosa ne pensasse di quel kanji e lui mi ha detto che letteralmente significava cuore , ma il significato più esteso è quello di “spirito giapponese”.
Così ho pensato che ben si adattava a questo “diario sentimentale di viaggio”
Poi per un po' di tempo ho iniziato ad avere qualche dubbio su quello che mi aveva detto il mio amico giapponese, perchè lui è un ragazzo molto spiritoso, così ho pensato: “magari in realtà significa che Marzio è un pollo”, ma per fortuna non era così! (ride)

D. Come hai vissuto la città di Tokyo e la cultura giapponese?

R. Ho avuto l'opportunità di vivere la città di Tokyo non come turista ma come cittadino.
Ho condiviso i lunghi orari in ufficio con i colleghi e dopo il lavoro insieme a loro e ai responsabili andavamo tutti in qualche locale a passare la serata. I giapponesi chiamano questo momento “nomikai”, un momento di relax e di svago dopo una lunga giornata di lavoro.
Ovviamente ho sfruttato l'occasione anche per viverla da turista, musei, parchi, zone ecc,
Nel periodo primaverile ho avuto l'occasione di andare a vedere con gli amici giapponesi i ciliegi in fiore, i “Sakura”, e di apprezzarne la bellezza.
Posso dire che più che il jogging nei bellissimi parchi ho apprezzato tantissimo la cucina giapponese, che mi manca veramente moltissimo!
Ho potuto apprezzare dei giapponesi il loro profondo rispetto delle regole, la programmazione di ogni loro attività e la loro organizzazione.
Ma soprattutto mi è piaciuto molto il grande senso di appartenenza di quanto è pubblico, perchè ciò che è pubblico appartiene a tutti e quindi va rispettato. Una cosa fondamentale che manca in Italia, perchè la percezione che si ha da noi è che ciò che è pubblico non appartiene a nessuno e quindi può anche essere trattato male.

D. Perchè hai deciso di scrivere questo libro?

R. Ho iniziato a scrivere questo libro innanzi tutto per me, per tracciare... per non dimenticare.
Volevo registrare le cose che vedevo per non perderle una volta che sarei poi tornato in Italia
Devo dire che ho avuto la fortuna di viaggiare molto per lavoro in giro per il mondo, però sono sempre stati viaggi mordi e fuggi, nel senso vai per una riunione rimani poco e torni presto. Diciamo, viaggi grazie ai quali riesci a sentirti cittadino del mondo ma non sufficienti per capirci qualcosa.
Invece a Tokyo ci sono stato un anno e quindi ho avuto modo di viverla e di avere un'esperienza vera.
Poi devo aggiungere che il Giappone è davvero molto diverso dalla nostra Europa.
È diverso per regole sociali, cultura, gastronomia, tradizioni, quindi c'erano gli elementi per scrivere un libro. Diciamo che scrivere “un anno a Cilavegna” sarebbe stato più difficile! (ridiamo perchè poco prima avevo raccontato all'autore di essere di questo piccolo paesino che sia chiama Cilavegna)

D. Che consiglio vuoi dare ai tuoi lettori?

R. Mi sento di dare tre consigli ai lettori!
Il primo è che un viaggio in Giappone è un'esperienza che dovrebbero fare tutti nella propria vita, perchè è un mondo così diverso che bisogna vederlo con i propri occhi per capire.

Come secondo consiglio è che non bisogna organizzare questo viaggio come semplice vacanza estiva, anche perchè da giugno ad agosto il clima è molto umido e piove spesso, dunque non è piacevole girare per la città.
Mentre raccomando di programmare il viaggio nei mesi invernali, oltretutto Tokyo da dicembre fino a metà febbraio è tutta illuminata da miliardi di luci, lampadine led avvolgono le chiome degli alberi, tronchi e monumenti , è uno spettacolo nello spettacolo, poi l'aria è più frizzante e fresca e il cielo è blu, quasi greco direi.

Il terzo è che il viaggio in Giappone non deve essere un mordi e fuggi, ma qualcosa a cui dedichiamo del tempo. Una settimana a Tokyo, che è quello che generalmente riusciamo a fare, non basta per coglierne lo spirito e la bellezza.
Innanzi tutto ci sono otto ore di fuso orario che pesano molto e se non ci si è abituati è facile sentirsi frastornati, anche da tutta la differenza che la città impone.
Dunque l'ideale sarebbe un viaggio lento che dia modo di entrare dentro la modalità giapponese e che possa far apprezzare queste differenze.
Io la prima volta che sono stato a Tokyo, appunto solo per una settimana, non mi era piaciuta. Ero rimasto frastornato da tutta quella diversità, ma il diverso non è brutto è solo diverso e Tokyo è una città bellissima tutta da scoprire!

Cristina Solano

 

Un Anno a Tokyo - sito web: unannoatokyo.it

Instagram: @un.anno.a.tokyo

 


Dall'Italia al Giappone: intervista all'artista Gianluca Malgeri

L’incontro tra Giappone in Italia e l’artista Gianluca Malgeri è avvenuto nel contesto di un recente progetto che ha coinvolto lo spazio espositivo di una delle vie più famose di Milano: Viavài, mostra di arte contemporanea nelle vetrine di Via della Spiga. Il progetto, ormai concluso, avveniva in piena emergenza covid19, con l’intento di utilizzare gli spazi dei negozi vuoti a causa della pandemia in prospettiva creativa. La mostra presentava opere di diversi artisti contemporanei, è stata presentata da VIA (Visiting Installation Art) e curata da Federica Sala, ospite insieme a Gianluca Malgeri in una delle dirette Instagram dell’Associazione.

Gianluca Malgeri, di origini calabresi, da anni lavora tra Firenze e Tokyo. Ha esposto le sue opere in Europa e Giappone. Attraverso Playground Project la sua produzione artistica si intreccia nel 2015 con quella di Arina Endo, artista giapponese e sua partner. Il punto di partenza della collaborazione artistica tra i due è la mostra tenuta a Venezia Edge of Chaos (2015), sebbene l’intuizione alla base di questa esposizione abbia radici più profonde. Prima in Danimarca e successivamente in un viaggio in India durato sei mesi, Gianluca e Arina incontrano per le prime volte quei luoghi che saranno di ispirazione per le loro successive opere: i playground. I playground sono parchi all’aperto per i bambini, aree progettate e dedicate al gioco.

Quella sui playground è una vera e propria ricerca, tra forme e percorsi quasi labirintici, che vengono divisi e assemblati da Gianluca nei propri collage. Proprio come un gioco, l’artista sperimenta, compone le parti delle strutture per ottenerne sempre di nuove e differenti. Le sculture in metallo sono la naturale continuazione di queste opere, come se la costruzione si protraesse fino al di fuori del collage e ne mantenesse le modalità di composizione.

Il progetto dei playground prosegue con la mostra a Roma nel 2015-2016, Homo ludens e negli ultimi anni, dal 2017 ad oggi, si concretizza nel lavoro di ricerca collocato proprio in Giappone, a Tokyo. Esemplificativa dell’evoluzione di questo progetto è la mostra Mery-Go-Round (Tokyo, 2019), in cui le sculture di Gianluca e Arina si fanno sempre più leggere, galleggiano sospese.

Di recente, nel 2020, Gianluca e Arina portano a termine anche un progetto per l’allestimento delle vetrine di Hermès in Giappone: Taking an Airing.

Proprio per la sua lunga esperienza in terra nipponica, Giappone in Italia invita Gianluca Malgeri al racconto della sua esperienza come artista in Giappone. Abbiamo incontrato Gianluca e gli abbiamo posto alcune domande.

 

 

Cosa ricordi maggiormente delle tue prime esperienze in Giappone?

Ci sono diverse cose che mi tornano alla mente se penso alle mie prime esperienze in Giappone. Una su tutte è il modo di comunicazione che sono stato quasi un po’ costretto ad adottare agli inizi, che mi ha fatto in un certo senso avvicinare alla cultura giapponese. Ho subito notato come il primo approccio alla comunicazione sia stato di tipo grafico: per me, che ancora non conoscevo nulla della lingua giapponese, l’unico modo per chiedere indicazioni o informazioni era quello di passare attraverso i disegni. I giapponesi credo siano abituati più di noi a questo tipo di mezzo comunicativo. Mi è capitato molto spesso che, di fronte alla realizzazione del fatto che io non potessi comprendere la loro lingua, pur di aiutarmi si siano messi a disegnare indicazioni stradali o informazioni di diverso genere. Questo mi ha fatto pensare all’approccio molto più diretto che questo popolo ha con il disegno: i kanji giapponesi sono vere e proprie miniature del mondo grafico, la scrittura è anche tecnica pittorica. Direzione, precisione, pressione maggiore o minore, velocità o lentezza del tratto, essenzialità della rappresentazione. A questo i giapponesi sono abituati sin da piccoli.

Questo tipo di comunicazione essenziale e orientativa mi ha fatto anche pensare alle descrizioni che Roland Barthes fa della lingua giapponese e delle città nel suo scritto “L’impero dei segni”. Lo scrittore fa subito notare come in Giappone i significati eccedano in un certo senso le parole. Come sia un’idea dell’Occidente il fatto che la comunicazione passi in prima istanza e in modo privilegiato dalla parola. In Giappone possiamo avere esperienza di come i significati comunicativi abbiano molte altre vie per essere espressi. Il disegno, ad esempio.

Riferimenti ambigui e per approssimazione, una definizione particolare dello spazio e un tipo di orientamento legato a punti di riferimento visivi: R. Barthes parla anche della difficoltà di orientamento nella città giapponese, senza indirizzi come li intendiamo noi, dove le vie non hanno un nome ma le città sono divise in quartieri, blocchi.

Ciò mi ricorda, oltre a tutte le volte che ho chiesto indicazioni e mi è stato risposto con una mappa disegnata ed essenziale del luogo, il modo in cui abbiamo stampato le locandine della mostra di Mery-Go-Round. Dietro agli inviti avevamo inserito, oltre all’indirizzo, una mappa, la quale era decisamente orientativa: segnava riferimenti visivi importanti come stazioni della metro o convenience store, che tutti avrebbero potuto riconoscere.

Mi piacerebbe in futuro lavorare a un progetto in questo senso, attraverso tutti i disegni che mi sono rimasti dalle mie visite in Giappone, spererei solo di non perdere la freschezza e spontaneità che stava dietro a queste espressioni grafiche.

 

 

Quali altre esperienze hanno segnato i tuoi primi viaggi/permanenze in Giappone?

Le prime volte che viaggiai in Giappone fu a Kyoto. Decisi di trasferirmi a Tokyo con Arina solo successivamente.

Ricordo che in un Bed & Breakfast in cui sono stato feci esperienza di ciò che Giappone penso significhi ospitalità: alla fine del mio soggiorno il proprietario mi salutò con un regalo. Mi sono dispiaciuto a posteriori di non aver pensato a qualcosa da lasciare a questo signore anch’io. Mi resi conto come in Giappone vigesse un vero e proprio culto dell’ospitalità, un’attenzione particolare alla persona. Compresi che non si trattava solo di gentilezza, ma di un vero e proprio codice.
Questa sensazione di essere sempre i benvenuti si è spesso intrecciata e scontrata con un’altra sensazione, che credo non si sperimenti solo in Giappone ma un po’ ovunque all’estero: quella dello smarrimento e del sentirsi straniero. Forse, in alcune situazioni, in Giappone questa sensazione potrebbe essere più accentuata che in altri luoghi, per diverse ragioni. Lo straniero, però, ancora oggi fa sempre un po’ curiosità e allo stesso tempo paura. Tuttavia, anche a livello artistico questo mi ha spinto ancor di più a cercare di comprendere la diversità. È un momento in cui la sensibilità si amplifica, si comincia a comprendere meglio l’altro e anche maggiormente se stessi. Ammetto che, in quanto persona del sud trasferita al nord, ho avuto in me questa sensazione di diversità in diverse occasioni. Il Giappone mi ha aiutato a comprendere questo ancora più profondamente.

Un’altra esperienza molto importante per me è stato l’incontro con la famiglia della mia fidanzata. Sentivo sarebbe stato un grande passo, soprattutto in una famiglia giapponese legata alle tradizioni.
Mi è sembrato di avvicinarmi ancora di più alla cultura giapponese, poiché ho avuto diverse occasioni di comprendere come queste tradizioni si leghino alla contemporaneità.

Non conoscevo Kyoto, in quell’occasione uscendo di casa e passeggiando nei dintorni trovammo per caso un Cafè. Questo luogo avrà avuto più di cinquant’anni, a conduzione familiare. Mi sembrò che fossimo entrati in un’altra epoca. Percepivo come a Kyoto tradizione e modernità convivessero, e questo in un certo senso mi aveva ricordato l’Italia con tutta la sua storia. Spesso si cerca l’autenticità e invece si trova il souvenir, ma non era questo ciò che mi ritrovavo a sperimentare ogni giorno per le strade di Kyoto.

 

 

Parliamo adesso un po’ delle tue opere. Mi piacerebbe che mi parlassi dei playground, fonte di ispirazione per i tuoi progetti.

Il progetto dei playground nasce da un viaggio che feci in India con Arina. L’idea di playground parte da quella di parco, giardino pubblico. In India il viaggio fu faticoso, nelle grandi capitali caotiche come Nuova Delhi un buon posto per riposare era proprio quello dei parchi, oasi di tranquillità rispetto al resto, dove le regole urbane si sfaldavano.
Anche in Giappone ho fatto esperienze di questo genere, anche qui i parchi e i playground sono luoghi determinanti. Usando l’immaginazione, potremmo dire che quando la società adulta si chiude negli uffici, rimangono due mondi: quello dell’infanzia e quello delle persone anziane. Ciò che immagino sono città incantate prese di possesso dai bambini quando l’adulto è chiuso in ufficio durante le ore di lavoro. Da una parte vi è il dovere e il dover produrre, dall’altra l’idea di conoscere il mondo tramite il gioco. I playground sono il luogo in cui questo avviene.

In Giappone il mondo dell’infanzia è una realtà molto curata e delicata. Dico questo solo da persona che osserva, mi sembra che in Giappone esistano veri e propri luoghi – come questi playground – in cui l’infanzia si sviluppa e affinché il gioco aiuti a conoscere. I bambini vengono molto responsabilizzati, ma allo stesso tempo il loro mondo è rispettato.

 

 

Come ti sei trovato a Tokyo e come ti approcci all’arte contemporanea giapponese? Ho notato che nella tua produzione più recente (come, ad esempio, nella mostra Mery-Go-Round), le sculture si fanno sempre più leggere. Come si è svolto questo cambiamento nelle opere?

L’arte contemporanea, il design e l’architettura giapponese mi affascinano molto, ma devo dire che ancora ho difficoltà nel comprenderne alcune declinazioni poiché possiedo un background estetico completamente differente. Sto cercando di entrare in questo codice visivo, di comprendere quale sia stato il percorso che dalla tradizione porta all’arte di oggi.

Piano piano ha iniziato a farsi strada tra noi la percezione che le nostre sculture non dovessero per forza essere dense ma è cominciato un processo di semplificazione. Già dal 2015 iniziamo a pensare a questo, dove “semplificare” non significa rendere semplice, ma piuttosto fa riferimento a un processo di sintesi.

In Mery-Go-Round alcune sculture sembrano galleggiare, sono sospese. L’intuizione della sintesi si è unita qui al fatto che in una delle sale della galleria non fu percorribile la scelta di posare le sculture a terra: era uno spazio in cui una volta era presente una cisterna d’acqua ed erano rimasti i pilastri che la sostenevano. Lo spazio ci ha portato a pensare che sarebbe stato interessante utilizzare il soffitto. Anche l’uso dei colori nelle sculture è stato pensato in relazione al fatto che nella sala della galleria predominasse il colore grigio. Ci sembrò l’occasione giusta per sperimentare con i colori.
L’intuizione, comunque, parte dai collage. I collage sono l’estensione pittorica delle sculture, come le sculture sono continuazione naturale dei collage. La libertà con cui compongo i collage è la stessa che ci ha portato a pensare di collocare le sculture nell’aria, invece che sul pavimento.

A volte credo che ci sia un fraintendimento del ruolo che hanno i collage nella nostra produzione. Il collage è un ritorno alla pittura e un’estensione pittorica (anche se li realizzo attraverso fotografie). La matrice dei miei progetti parte dai collage. Collage è ricerca di un’immagine che documenta, poi c’è la stampa, i ritagli, poi l’assemblaggio che avviene sempre in modo diverso. Collage è gioco intuitivo pittorico di forme e colori, è un infinito assemblabile. Un’infinita possibilità di forme e costruzioni, determinate dalla ricerca che faccio attraverso le fotografie, attraverso i luoghi di gioco.

Speriamo che presto si presenti l’occasione per realizzare sculture in scala reale per i parchi di qualche città.

 

 

Qual è l’approccio che avete tu e Arina nella produzione delle opere?

Il mio incontro con il Giappone avviene con Arina e nel modo che abbiamo di lavorare insieme.
Arina ha una predisposizione alla concentrazione. Ha un approccio di dialogo con il materiale, è molto precisa. Il mio approccio è, a volte, quasi un conflitto con la materia, ho l’arroganza di volerla dominare. Arina sembra avere un rapporto naturale con i materiali. La sua scultura è armoniosa, i migliori lavori vengono quando completo qualcosa che lei ha iniziato o viceversa.
L’interessante per noi è proprio trovare un nuovo linguaggio che comprenda i nostri due modi di operare.

 

 

 

Gianluca Malgeri 

Arina Endo

Playground Project

 

 

 

intervista di Susanna Legnani


UN’IMMAGINE AUTENTICA DEL GIAPPONE

 

La Letteratura femminile del periodo Heian

 

Intervista a Paola Scrolavezza

 

Ma i monti e i fiumi consueti, così come sono, le case come le vediamo dovunque con tutta la loro autentica bellezza e armonia di forme – queste scene, per dipingerle come sono, o per far vedere che cosa si annida dietro una siepe familiare in un angolo molto appartato del mondo, o un folto d’alberi sopra un colle non particolarmente eroico, e tutto quanto con adeguata cura della composizione, proporzione e simili – sono cose che richiedono la mano del più alto maestro, e mettono a mille sbaragli il comune artigiano.

Estratto dall’ intervento di Uma no Kami, nel secondo capitolo del Racconto di Genji di Murasaki Shikibu, che proponiamo nella traduzione italiana a cura di Adriana Motti dall’inglese di Arthur Waley.

 

Nei quattro secoli circa, dall’Ottavo al Dodicesimo, in cui Heian-kyō, l’attuale Kyoto, fu capitale, si affermò un’aristocrazia illuminata, colta e sensibile agli influssi d’oltremare in cui la cultura cinese era dominante e perfettamente integrata e assimilata, con dame di corte quali indiscusse protagoniste letterarie.

Per quanto sia innegabile che numerose opere di scrittrici siano state ritenute pregevoli fin dalla loro contemporaneità, e si concordi tuttora nel ritenere il Genji Monogatari un capolavoro della letteratura giapponese di tutti i tempi, più complicato è donare ad esse il giusto merito. Insieme a Paola  Scrolavezza, docente presso l’Università di Bologna e curatrice di NipPop, ci siamo posti la domanda: Cosa rappresenta davvero la letteratura femminile del periodo Heian, apogeo culturale della storia del Giappone?

“Indubbiamente sono opere pregevoli ma il posto loro riservato all’interno della cultura Heian era di poco conto, frivolezze a cui raramente gli uomini si dedicavano e che le stesse dame di corte percepivano nulla più che un divertissement. Sarebbe sbagliato pensare che questi testi avessero nel momento in cui sono stati scritti la stessa importanza che è a loro attribuita ora, tanto più che successivamente all’epoca Heian molti di essi furono quasi dimenticati, e le dame di corte ulteriormente subordinate alla autorità maschile. Inoltre non era comunque loro concesso di scrivere in cinese, infatti il Genji Monogatari è scritto per buona parte in kana”

Murasaki Shikubu aveva studiato cinese, ma era buon costume che le donne non si mostrassero saccenti e sfoggiassero di conoscere i sinogrammi al pari degli uomini. Per scrivere il Genji Monogatari, si servì della scrittura autoctona, lo hiragana, che proprio per questo utilizzo da parte delle autrici donne venne definito onnade, “mano di donna”. “Non era una scrittura inventata dalle donne - spiega la professoressa Scrolavezza – né usata esclusivamente da loro. Anche se proprio grazie al lavoro femminile si è evoluta e diffusa, per esprimere la varietà e le sfumature di una lingua tanto ricca di omofoni come quella giapponese è sicuramente inadeguata.” La nostra domanda, dunque, sembra rimanere ancora senza risposta.

E’ l’autrice con cui abbiamo aperto questo articolo, a fornirci una chiave di lettura diversa e risolutiva, proprio con le poche righe citate: “Ma i monti e i fiumi consueti, così come sono, le case come le vediamo dovunque con tutta la loro autentica bellezza e armonia di forme… sono cose che richiedono la mano del più alto maestro”

Sono opere, quelle di Murasaki Shikibu, Sei Shōnagon, Izumi Shikibu e delle altre donne scrittrici del periodo Heian, che offrono al lettore qualcosa di introvabile nei lavori maschili: “Si tratta di sensibilità e attenzione alla vita di corte. Queste autrici ci lasciano pensieri e confidenze, descrivono la propria quotidianità con sguardo attento, spesso ironico, e con un sottile acume. Anche se la scrittura in hiragana non era una vera e propria prerogativa delle donne, era comunque a loro legata, tanto che gli uomini che volevano comporre opere afferenti a quei generi, talvolta usavano pseudonimi femminili. Possiamo ringraziare solo queste autrici, se oggi possiamo avere un’immagine autentica del Giappone all’apice del suo splendore, se possiamo vedere la corte Heian così com’era al tempo di Genji, per quanto immaginario, e – conclude – in lingua giapponese.”

di Beatrice Varriale

 

 

 


NUOVE DIRETTE INSTAGRAM!

Gli appuntamenti non sono finiti, continuate a seguire le nostre dirette su Instagram! Se vi siete persi i video precedenti li trovate su Facebook


TORNANO LE DIRETTE INSTAGRAM DI GIAPPONE IN ITALIA! Qui il calendario completo

Torniamo su Instagram con una nuova settimana ricca di eventi! Continuate a seguirci, commentare e suggerirci spunti per altri argomenti di cui vorreste ci occupassimo!

vi aspettiamo!


tokyo tsukiji

Tokyo Tsukiji

Abbiamo intervistato Nicola Tanzini, fotografo appassionato, che ha raccontato il mercato di Tsukiji a Tokyo, attraverso una serie di scatti oggi raccolti nel libro "Tokyo Tsukiji", edito da Contrasto

Come è nato questo progetto dedicato al mercato di Tsukiji?

Il progetto è nato casualmente. Ero a Tokyo per svolgere un lavoro fotografico, ma non avevo ipotizzato o preparato nulla su Tsukiji. Sono andato a Tsukiji da turista e, per caso, la prima volta che ci sono stato, sono arrivato quando le attività erano già concluse. Però ormai ero lì e quindi ho deciso di visitarlo: mentre stavo passeggiando per questa struttura enorme, sono stato colpito da una persona che, in maniera molto naturale, stava fumando una sigaretta. Ho cominciato a vedere che intorno a me c'erano tantissime persone che, come lui, si stavano rilassando in tanti modi diversi al termine della giornata di lavoro, dedicando un attimo a se stessi. Certo, una cosa normalissima che viviamo quotidianamente. Ma da lì è nata l'idea. Anche se il progetto è ambientato totalmente dentro il mercato del pesce, non è una rappresentazione di esso: è un lavoro che vuole affrontare un momento quotidiano normalissimo, all'interno di Tsukiji.

Devo dire che oggi questo lavoro sta assumendo anche un altro lavoro al quale io, con tutta onestà, non avevo pensato, che è quello di essere documento anche storico, visto che Tsukiji sta chiudendo e verrà spostato altrove. Ho appreso dalle tante persone con le quali mi sto confrontando, che questo lavoro piace proprio per il suo valore documentale, e la cosa mi fa molto piacere, anche se non era stato pensato con questo spirito

Ha avuto modo di confrontarsi con le persone fotografate?

C'è molta interazione nelle foto, non sono scatti rubati. Non sono ritratti posati, ma loro sapevano di essere fotografati, tranne quelle foto scattate mentre le persone stanno svolgendo un lavoro ecco. Non ho mai avuto riscontri negativi: mi ricordo solo di poche persone che mi hanno chiesto molto gentilmente di non essere fotografate e ho ovviamente rispettato la loro volontà. Un lavoro dedicato alla presentazione di uno stato d'animo e fisico non aveva bisogno di essere in qualche modo rubato: è tutto spontaneo nel senso che non c'è niente di posato, però nelle tante immagini dove c'è stata un'interazione, c'è stata un'assoluta accettazione della cosa da parte dell'interlocutore

Su quali progetti sta lavorando adesso?

Il lavoro su Tokyo non è ancora concluso. E comunque rientra in un progetto più ampio a cui sto lavorando, dedicato ad alcune grandi metropoli: New York, Shanghai, Tokyo, Milano e Londra. Un percorso abbastanza lungo ancora in fase di elaborazione. Un lungo reportage che vuole raccontare, attraverso aspetti particolari della città, sia le ambientazioni che le persone che la popolano. 

 

 

Una selezione di 30 scatti è esposta fino al 4 novembre 2018 presso Leica Store di Milano: l'esposizione, curata da Benedetta Donato, è patrocinata dall'Istituto Giapponese di Cultura di Roma.

Intervista di Federica Lucrezia Tornaghi


Iroiro

Iro Iro. Il Giappone tra pop e sublime - Intervista a Giorgio Amitrano

La pubblicazione di Iro Iro – da pochi giorni in libreria – ha immediatamente suscitato nell’universo degli appassionati di Giappone un vastissimo interesse. Forse perché i saggi sul Paese del Sol Levante davvero meritevoli di attenzione non sono così frequenti. O più probabilmente per l’esperienza dell’autore, Giorgio Amitrano, sicuramente uno dei nipponisti più famosi in Italia. Da quasi 30 anni è una delle voci più apprezzate sul tema nel nostro Paese ed è grazie a lui che molti scrittori e romanzi nipponici sono conosciuti anche nel nostro Paese, in primis quelli di Murakami Haruki e Yoshimoto Banana. Grazie a De Agostini, abbiamo avuto modo di incontrarlo e di fargli alcune domande sia sul nuovo libro sia sulla sua carriera. Ci accoglie sorridente in un piccolo bar vicino a Brera, a Milano, e l'intervista si trasforma presto in una chiacchierata a ruota libera in cui le domande e le risposte si avvicendano armonicamente. Ecco la sintesi del nostro piacevole colloquio.

 

Esce oggi in tutte le librerie Iro Iro, un libro davvero molto atteso da migliaia di appassionati di Giappone. Può presentarlo in breve ai nostri lettori?

Il libro nasce in realtà da un'idea della casa editrice De Agostini, che mi ha proposto di pubblicare un testo sul Giappone di tono divulgativa, una cosa che non avevo mai fatto prima. Avevo scritto sul Giappone soprattutto in occasioni accademiche. Ho anche scritto un certo numero di articoli per giornali e riviste, quindi in una forma un po' più scorrevole, però non avevo mai scritto un'opera organica con questo approccio. È stata preziosa l’opportunità che mi hanno dato. All'inizio non è stato molto facile per me, proprio perché ero abituato a scrivere testi o articoli con note a pie' di pagina, rivolti a un pubblico più limitato. E poi nel farlo mi sono appassionato ed è stato bello raccontare il Giappone in questa chiave adatta a un pubblico non specialistico, una sfida appassionante e creativa.

 

L'idea iniziale però è nata, in realtà, molti anni fa. Nell'introduzione dice che il primo a suggerirgli di scrivere un testo del genere è stato Cesare Garboli, critico-scrittore tra i più grandi del Novecento italiano.

Per me era come un maestro. Mi aveva consigliato più volte di scrivere un libro più creativo, da scrittore e non da professore. Però non ero abituato a un approccio del genere e l'ho rimandato a lungo, per molti e molti anni. La proposta della casa editrice mi ha permesso di riprendere in mano un vecchio progetto che avevo messo in pausa. Il senso del libro per me è quello di raccontare il Giappone, senza volerlo spiegare. Non vuole essere un'introduzione al Giappone. Non vuole essere un "Japan for beginners". È un libro in cui io racconto attraverso la mia esperienza un Paese che amo molto e che mi appassiona.

 

Il libro è quasi una raccolta di miscellanee, una serie di impressioni sul Giappone che, come suggerisce nell'introduzione, quasi si incanala nel genere dello zuihitsu, un genere letterario giapponese in cui il pennello rincorre il flusso dei pensieri, liberamente. È così?

Il genere è quello, anche se non è mia intenzione volermi paragonare a testi che sono dei classici della letteratura giapponese. Invece il mio vuole essere un libro molto leggero, semplicemente un racconto in cui mi sono preso la libertà di passare da un argomento all'altro, seguendo il flusso dei pensieri. Come quando si chiacchiera e non c'è un tema da seguire a tutti i costi. Come quando si racconta una storia vissuta a un amico. Anche il titolo, Iro Iro (molte cose, di tutto un po'), vuole sottolineare questo.

 

Il sottotitolo invece è "Il Giappone tra pop e sublime" che evidenzia il rapporto particolare tra cultura tradizionale e popolare che si è creato in Giappone. Queste due componenti, una legata alle proprie radici e l'altra proiettata verso il futuro, hanno raggiunto un equilibrio perfetto, come se fossero due lati della stessa medaglia. A cosa si deve questa armonia tra le parti?

Credo che il gioco tra queste due componenti esiste in tutte le culture, solo che in Giappone è particolarmente sviluppato e funziona in maniera efficace. Forse, anche perché ha origini molto antiche. Per esempio, il Nō - forma di teatro più solenne e rituale - è inframezzato da farse Kyōgen. Anche nel Bunraku, il teatro delle marionette, o nel Kabuki c'è una continua alternanza tra elementi seri e faceti. Questo dualismo - tra alto e basso, tra drammatico e comico - è una costante della loro cultura. Quello che è molto cambiato e si è evoluto negli ultimi decenni, già a partire dal dopoguerra diciamo, è che si è sviluppata una cultura popolare molto forte, grazie all'avvento del cinema di animazione e di un certo tipo di musica. Prima erano forme contrapposte alla cultura alta, ufficiale, poi poco a poco si sono contaminate a vicenda. Un esempio emblematico in questo senso è lo stesso Murakami Haruki. Un autore di letteratura alta, che allo stesso tempo è enigmatico e popolare. Pop e sublime quindi, se si vuole usare questo termine.

 

Grazie alla nostra associazione vediamo spesso che questa capacità di apprezzare le due anime del Giappone in realtà nel nostro Paese manca un po'. Molti appassionati di cultura nipponica sono legati maggiormente alla cultura tradizionali e pensano che la cultura pop svilisca l'eredità culturale secolare del Giappone. Come mai?

Questo perché siamo poco portati ad aprirci alle novità. Lo stesso Murakami, che oggi riceve consensi universali, è stato visto con diffidenza per tanto tempo senza che gli venissero dedicati studi approfonditi e seri. Non è che non ci fossero libri su Murakami, anzi, ma erano per lo più scritti da sociologi o studiosi di altre letterature, ad esempio studiosi di letteratura francese e non giapponese. Nonostante abbia riscontrato da subito un grande successo commerciale, c'era molta diffidenza nei suoi confronti e si faticava a vedere la complessità e la profondità dei suoi scritti. Murakami è uno scrittore molto complesso e i suoi libri sono colmi di simboli.

 

Come si coniugano pop e sublime nei due autori che lei ha tradotto di più, Murakami Haruki e Yoshimoto Banana? Quale è stato il suo primo contatto con questi due scrittori?

Io ho tradotto prima Banana e poi Murakami. Il mio primo incontro con lei è stato quasi un caso. Fino a quel momento avevo sempre tradotto autori considerati classici moderni, come Kawabata Yasunari. Poi ho ricevuto Kitchen, il primo libro di Banana, che mi è piaciuto moltissimo. Ho proposto a Feltrinelli di pubblicarne una mia traduzione e così è successo. Più o meno contemporaneamente divenne famoso anche Murakami, che ottenne un grande successo con il libro che qui in Italia è stato rinominato Tokyo Blues, cioè Norwegian Wood. L'ho comprato perché in Giappone si vedeva dappertutto, senza sapere niente a proposito del libro o dell'autore, se non che stava diventando un grandissimo successo. Non molto di più. Da lì è nato il mio rapporto con Murakami, che è diventato poi uno dei miei autori preferiti e credo di aver letto quasi tutto di lui. Forse mi manca solo qualche saggio.

 

Quali sono i primi scrittori giapponesi che ha letto?

Il mio primo contatto con la letteratura giapponese è stato al liceo. Leggevo molto in generale, ero un lettore onnivoro. Tra le altre cose mi sono confrontato con i pochi autori giapponesi che erano allora tradotti in italiano, come Kawabata o Tanizaki. Al mio arrivo all'università, mi sono dedicato alla lettura di tutti i libri di autori nipponici su cui riuscivo a mettere le mani, che fossero in italiano o in inglese. Il primo autore a cui mi sono appassionato e che ho affrontato in maniera più sistematica è stato Nakajima Atsushi. E’ stato anche il primo che ho tradotto. Ho scritto la tesi di laurea su di lui e ho pubblicato una raccolta di racconti. Il secondo libro che ho tradotto credo sia stato quello di Banana, Kitchen, o forse Miyazawa Kenji.

 

Un must della letteratura giapponese? Quale può consigliare ai nostri lettori?

È difficile dirne solo uno. Tra quelli che ho tradotto io, anche se ha già avuto successo, c'è Il fucile da caccia di Inoue Yasushi". È un piccolo libro, ma è bellissimo. Un altro autore che sta avendo successo è Furukawa Hideo. È uscito di recente un suo libro edito da Sellerio intitolato Tokyo Soundtrack.  Ci sono autori di gialli molto interessanti e amati. Quella giapponese è una delle letterature più ricche, più interessanti, e anche “variopinte”.

 

 

L'articolo ti ha incuriosito e vorresti leggere Iro iro. Il Giappone tra pop e sublime?

Ti consigliamo la libreria Tanabata, specializzata in libri e oggettistica giapponesi, oppure puoi trovare "Iro iro. Il Giappone tra pop e sublime" su AMAZON.IT


Stefania Viti

Il libro del ramen: Intervista a Stefania Viti

Abbiamo incontrato Stefania Viti, giornalista ed esperta di Giappone contemporaneo, per parlare del suo ultimo successo editoriale Il libro del ramen pubblicato da Gribaudo-Feltrinelli.

 

il libro del ramen

 

Come nasce l’idea di scrivere un libro sul ramen?

L’idea nasce all’interno di un percorso che sto facendo insieme alla casa editrice Gribaudo-Feltrinelli avviato nel 2013. Per Feltrinelli ho curato il volume Il Sushi, uscito nella collana Real Cinema insieme al DVD Jiro e l’arte del sushi, nel 2015 con Gribaudo ho pubblicato L’arte del sushi, edizione ampliata, aggiornata e illustrata del primo volume e nel 2016 ho chiuso questa trilogia con Il sushi tradizionale. Ora abbiamo deciso di approfondire un altro piatto simbolo della cucina giapponese, il ramen, che in questo periodo sta godendo di grande popolarità, prova ne è anche il fatto che questo libro, uscito nel novembre 2017, già nel febbraio 2018 è andato in ristampa!

 

Com’è strutturato il libro?

Il libro segue quella che mi piacerebbe diventasse la mia cifra stilistica di raccontare la cultura giapponese. Nei miei libri c’è infatti sempre molta cultura, che diventa la chiave di lettura per raccontare un paese. La prima parte introduce la storia del ramen e le curiosità a essa legate. Il ramen è un piatto declinato localmente, per questo numerose pagine sono dedicate alla geografia di questo piatto e dunque alla scoperta delle varie regioni del Giappone. Il libro porta così a scoprire un intero Paese e il ramen è una sorta di filo rosso di tutto il viaggio. Anche se in modo diverso rispetto al sushi, anche quella del ramen è una ricetta molto complessa. Ho inserito quindi una parte propedeutica che introduce gli ingredienti di base, per proseguire con una seconda parte riservata alle ricette di base per fare i brodi. Nella terza parte si arriva presento i piatti realizzati dagli chef di alcuni famosissimi ristoranti giapponesi. Il libro si avvale della collaborazione di Ramen Expo, uno dei maggiori eventi dedicati al ramen in Giappone, che qui presenta numerose ricette originali. A queste si aggiungono altre ricette di tre Ramenya (ristoranti specializzati in ramen) italiane, che propongono, ciascuna, un tipo diverso di ramen.

 

Racconti di come il ramen rappresenti “il Giappone in una ciotola” e ogni zona o regione del paese siano caratterizzate da una particolare ricetta. Quali sono le preparazioni di base e quali le specialità?

La preparazione del ramen non ha delle regole fisse, ma esistono quattro tipologie classiche di brodi: il miso ramen, lo shio (sale) ramen, lo shōyu (soia) ramen e il tonkotsu ramen (fatto con le ossa di maiale). Il ramen è così raccontato attraverso il suo brodo. Col tempo queste tipologie si sono mescolate, contaminate. Nella parte delle ricette dei ristoranti giapponesi molte vanno sotto l’etichetta di “Brodi misti”, perché ottenuti dalla mescolanza di vari tipi di brodo. Per esempio, nelle ricette di Casa Ramen si arriva alla completezza del brodo mescolandone tre diversi tipi.

 

Esiste un vero e proprio galateo del ramen. Hai qualche aneddoto in merito?

Il galateo del ramen procede al contrario rispetto al nostro. Uno degli aspetti più curiosi è il fatto che i popoli asiatici quando mangiano la pasta lunga fanno rumore, sia come segno di apprezzamento, sia per favorire il raffreddamento della pietanza. Questo non è visto come una cosa sconveniente o maleducata, anzi… Un’altra “regola” è che prima di iniziare a mangiare si assaggi il brodo. Solo dopo si va a “distruggere” l’armonia di colori e forme. Il brodo dà il timbro del gusto, da esso si capisce la qualità del piatto.

 

Nel libro ti soffermi sul legame tra ramen, letteratura, cinema e manga. Com’è diventato così popolare questo piatto?

In Giappone il ramen è sempre stato un piatto popolare, ma davvero nel senso etimologico del termine: un piatto per il popolo. Nonostante sia un piatto ricco di ingredienti, sostanzioso, completo, mantiene un prezzo abbordabile. Caratteristica che per il sushi non è sempre vera, dato che esistono sushiya molto care ma anche i kaitenzushi dove il sushi è ancora a buon prezzo. Il sushi è nato come cibo di strada, ma con la Seconda Guerra Mondiale è diventato un cibo di élite, mangiato di nascosto, anche perché non c’era il riso. Parlo del sushi perché è sempre stato una sorta di “antagonista” del ramen. Il sushi è diventato un simbolo alto, raffinato, portatore di un’estetica zen, della filosofia del “less is more”. Negli anni Ottanta ha fatto proseliti nella cultura culinaria internazionale, mentre il ramen è rimasto nei confini del Giappone. Negli anni Ottanta e Novanta l’immagine delle pentole di ramen non si confaceva all’immagine internazionale del Giappone che si stava diffondendo. Il ramen è però rimasto presente in tutta la cultura underground, nei manga, negli anime (Doraemon per esempio mangia i ramen). Poi è arrivato Jūzō Itami con il film Tampopo che nel 1985 ha segnato una riscoperta del ramen. Jūzō fa una specie di “spaghetti western” ambientato in una locanda di ramen. Il ramen diventa simbolo di un Giappone autentico da difendere dall’assalto della controparte occidentale. Il nemico è rappresentato simbolicamente dagli “spaghetti” appartenenti a una cultura lontana. L’Occidente è in quel momento un mondo poco definito per il Giappone tanto che la scena degli spaghetti è girata in un ristorante francese. Il film comunque più che la storia delle gang locali racconta l’artigianalità del ramen, la sua preparazione e l’esperienza della degustazione. Nel 1988 Yoshimoto Banana in Kitchen fa diventare il ramen il fulcro del racconto, un’esperienza quasi spirituale. Per arrivare al boom di oggi fino al boom di oggi grazie anche all’azione di promozione e valorizzazione portata avanti dai primi anni 2000 da Food Japan.

 

Come è stato accolto il ramen in Italia?

Oggi è accolto benissimo! Addirittura diverse testate giapponesi mi hanno intervistata proprio per capire come io vedessi successo e diffusione di questo piatto nel nostro Paese. D’altra parte da noi è già ben radicata la cultura della pasta lunga. Inoltre, il ramen è un piatto molto più facile da mangiare rispetto al sushi perché non c’è il pesce crudo.

 

Chi sono i più importanti chef di Ramenya in Italia? Come hai sviluppato la collaborazione con alcuni di loro per il libro?

Il libro non vuole essere una guida, non illustra un panorama generale. Ho scelto tre diversi chef i cui ristoranti propongono tre diverse tipologie di ramen: Misoya perché fa ramen al miso, Casa Ramen per il tonkotsu, Niko Niko Ramen & Sake fa shio ramen. Sono storie e varietà differenti, non si sovrappongono tra loro.

 

Dopo il sushi e il ramen, continuerai in questo percorso di promozione e valorizzazione in Italia della cucina giapponese?

Sì certo. Stiamo già lavorando ai prossimi argomenti da trattare. Se il pubblico continua a seguirci proseguiremo sicuramente: c’è ancora tanto da dire e da raccontare! È importante avere testi in Italia che non siano semplici traduzioni da altre lingue. È il momento giusto perché gli studiosi italiani possano essere valorizzati. L’Italia è molto sensibile all’arte culinaria. Abbiamo specialità, nicchie, eccellenze. Noi italiani possiamo essere quelli giusti per raccontare una cucina e una cultura culinaria così sofisticate, come quelle del Giappone. E poi, magari, saranno i nostri libri a essere tradotti!

 

Parli tanto di cucina nei tuoi libri, ma tu sai cucinare?

In realtà cucino poco… O non cucino affatto. Però mi piace mangiare! Il mestiere degli chef è quello di fare cose buone, il nostro mestiere – di giornalisti e scrittori - è quello di saperle riconoscere e raccontare. Credo il mio compito sia proprio quello di raccontare le ricette e contestualizzare la cultura gastronomica di cui si parla: operazione che ritengo estremamente necessaria quando parliamo di paesi, piatti e culture molto distanti e diverse dalle nostre. Quindi, lasciamo cucinare i cuochi e lasciamo scrivere gli scrittori!

PUOI TROVARE "IL LIBRO DEL RAMEN" SU AMAZON.IT