Tsukimi, il festival della Luna e il Coniglio lunare
photo credits: asiancustoms.eu Queste parole si riferiscono all’usanza tradizionale giapponese di celebrare la Luna e il raccolto autunnale. In Giappone si ritiene che la luna più bella dell’anno sia quella autunnale, visibile durante il plenilunio di settembre, noto come plenilunio del raccolto o harvest moon: la luna piena più vicina all’equinozio d’autunno. Ma non solo per il Giappone, questo periodo è speciale in tutta l’Asia: in Cina si celebra la Festa di Metà Autunno, in Giappone si osserva la luna Tsukimi , mentre in Corea si festeggia Chuseok, la festa della Luna del Raccolto. E quest’anno la festa dello Tsukimi cade il 29 settembre, proprio questo venerdì. I due termini giapponesi vogliono sottolineare i festeggiamenti che comprendono la Luna e l’equinozio d’autunno. Jugoya è una parola che intende la quindicesima notte dell’ottavo mese nel calendario lunare, usato nella tradizione giapponese, nella quale cade la Luna piena più vicina all’equinozio autunnale, mentre Tsukimi è la parola utilizzata per chiamare il festival giapponese della Luna, e significa letteralmente “Guardare la Luna”. La tradizione dello Tsukimi nasce nell’Epoca Heian, influenzata dall’usanza del festival autunnale cinese dell’élite aristocratica, che si ritrovava per ascoltare musica e recitare o comporre poesie al chiaro di luna. Solo nel 1600 questa celebrazione passo dall’essere festeggiata unicamente dall’aristocrazia giapponese al diventare parte della tradizione popolare, nella quale non si festeggiano più solo le arti musicali e letterarie, ma anche la festa del raccolto autunnale, dove il riso veniva offerto agli Dei come ringraziamento. Lo Tsukimi entrando a far parte delle tradizioni esistenti giapponesi, prese ad essere una festa piuttosto solenne. Questo portò alla creazione di cibi tradizionali per l’evento, il più famoso lo Tsukimi dango un tipo particolare di gnocco di riso, rotondo e bianco che celebra la bellezza della luna, e si dice che porti felicità e buona salute nell’anno successivo se mangiato durante la notte di luna piena; delle decorazioni particolari, come ad esempio il susuki, o erba della pampa, posta nel luogo dove si osserverà la luna, perché si crede difenda l’area dal male; e anche visite al santuario, bruciare incenso nei templi e offrire cibo agli Dei. Inoltre questa festa, celebrando la Luna, porta alla luce una credenza giapponese che posiziona i conigli come abitanti del suolo lunare, e noi, di Giappone in Italia, che abbiamo come simbolo della nostra associazione un coniglio siamo pronti a spiegarvi nei dettagli da dove nasca questa credenza. I giapponesi non sono gli unici a credere nella presenza di questi animali sulla luna, anche i cinesi e i coreani condividono la stessa idea dove, “non sia l’uomo a camminare sulla Luna, ma i conigli”. La più antica testimonianza del mito del coniglio lunare risale al Periodo dei regni combattenti dell’antica Cina (453 a.C. al 221 a.C), nel quale viene menzionata la credenza per la quale sulla Luna, insieme ad un rospo, si troverebbe un coniglio occupato a sminuzzare nel suo pestello le erbe per l’immortalità. Tuttavia questo mito narra solo della sua presenza sul satellite terrestre, mentre solo leggendo il Śaśajâtaka, un racconto buddhista, si può scoprire come questi piccoli animali siano arrivati così lontano. Il racconto narra di quattro amici animali, una scimmia, una lontra, uno sciacallo ed un coniglio che, nel giorno sacro buddista di Uposatha (dedicato alla carità e alla meditazione) decisero di cimentarsi in opere di bene. Avendo incontrato un anziano viandante, sfinito dalla fame, i quattro si diedero da fare per procacciargli del cibo; la scimmia, grazie alla sua agilità, riuscì ad arrampicarsi sugli alberi per cogliere della frutta; la lontra pescò del pesce e lo sciacallo, sbagliando, giunse a rubare cibo da una casa incustodita. Il coniglio invece, privo di particolari abilità, non riuscì a procurare altro che dell’erba. Triste ma determinato ad offrire comunque qualcosa al vecchio, il piccolo animale si gettò allora nel fuoco, donando le sue stesse carni al povero mendicante. Questi, tuttavia, si rivelò essere la divinità induista Śakra e, commosso dall’eroica virtù del coniglio, disegnò la sua immagine sulla superficie della Luna, perché fosse ricordata da tutti. È quindi grazie al suo spirito virtuoso e caritatevole che il coniglio arrivò sul suolo lunare. Da questo racconto nacquero, con il tempo diverse versioni, con protagonisti a volte diversi, ma sempre con il medesimo finale, una divinità celeste che porta o pone la figura del coniglio sulla Luna. Ad esempio ecco un’altra versione, una leggenda giapponese che racconta: “Molto tempo fa, il Vecchio della Luna decise di visitare la Terra. Si travestì come un vecchio mendicante e chiese a Saru (scimmia), Kitsune (volpe) e Usagi (coniglio) un po‘ di cibo. Saru, la scimmia, si arrampicò su un albero e gli portò qualche frutto. Kitsune, la volpe, andò ad un corso d’acqua e gli afferrò un pesce. Ma Usagi, il coniglio non trovò nulla per lui da mangiare, se non l’erba. Così, invece, Usagi chiese al mendicante di accendere un fuoco. Dopo che il mendicante costruì il fuoco, Usagi vi saltò dentro e si offrì come pasto. Improvvisamente, il mendicante si trasformò di nuovo nel Vecchio della Luna e salvò Usagi dalle fiamme. E gli disse: “Usagi-san, non farti del male per causa mia. Dal momento che sei stato il più gentile di tutti, io vi porterò indietro sulla luna a vivere con me.” Ed è tramite questi racconti dal contenuto educativo e testi mitici, che si è arrivati a credere che la luna sia abitata da conigli il cui lavoro è schiacciare erbe per l’immortalità o altri ingredienti, come ad esempio il riso per creare il tipico dolce giapponese chiamato mochi, anche perché il termine mochizuki in giapponese significa luna piena, ma suona anche come la parola per preparare i mochi, “mochizukuru”. Cosa ne pensate, questo venerdì osservando la luna cercherete la figura di un coniglio intento a lavorare? photo credits: asiancustoms.eu Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia
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Tsukimi e Jugoya
Tsukimi, il festival della Luna
Il Coniglio lunare
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L’ARTE CULINARIA GIAPPONESE: RAPPRESENTAZIONE DEL CIBO NEGLI ANIME e MANGA
Gli appassionati sanno che anime e manga non sono solo meri prodotti di intrattenimento. Si tratta di veri e propri strumenti per veicolare pillole di cultura giapponese fuori dai confini nipponici, in modo leggero ed accessibile a tutti. Storia, religione, consuetudini sociali, abitudini quotidiane, sport e… cucina! Il cibo diventa l’espediente perfetto per avvicinare un pubblico vasto e curioso alle tradizioni del Sol Levante. L’arte culinaria giapponese, con i suoi sapori ricchi e delicati, assume un ruolo di primo piano nella narrazione, arrivando addirittura ad essere la protagonista di alcune opere. Ciò che propongo in questo articolo è un itinerario gustativo attraverso vari titoli, per scoprire come viene rappresentata la cucina giapponese all’interno del mondo ormai conosciutissimo di anime e manga. photo credits: wikipedia.org Piatti giapponesi presentati e rivisitati in chiave gourmet. Cultura culinaria nipponica e occidentale si fondono per ottenere sapori paradisiaci, capaci di suscitare un piacere quasi erotico in chi li assaggia. “Food Wars – Shokugeki no Soma” (Sōma delle battaglie culinarie) è un’opera completamente dedicata alla buona cucina e alla cura necessaria per maneggiare gli ingredienti e concludere al meglio le preparazioni. La rappresentazione grafica dei piatti cucinati dal protagonista Sōma e dai suoi amici è assai curata e le spiegazioni delle tecniche di preparazione così appassionanti da rendere Food Wars uno dei più completi Cooking Anime, manga degli ultimi tempi. Dall’omurice al furikake, dal chazuke al curry, fino al bentō: i classici della cucina orientale vengono reinventati, accrescendo ogni volta la conoscenza culinaria del fruitore (ed anche il suo appetito!). Carry rice omuraisu photo credits: shokugekinosoma.fandom.com photo credits: images.mubicdn.net Noi italiani sappiamo bene che il cibo è convivialità, gioia di gustare insieme un buon piatto, una scusa per relazionarsi e stringere legami; prepararlo per gli altri è un gesto d’affetto. “One week friends” ci trasmette lo stesso messaggio: Kaori e Yūki consolidano la loro particolare amicizia proprio durante la pausa pranzo sul tetto della scuola, condividendo l’immancabile bentō, il cestino del pranzo che studenti e lavoratori giapponesi mangiano fuori casa. Kaori impara piano piano quali sono i gusti del suo nuovo amico e inizia a preparare il bentō anche per lui, a partire dal tamagoyaki, una frittatina giapponese arrotolata su sé stessa che appare spesso nei cestini del pranzo di anime e manga. In One week friends il cibo suscita ricordi sopiti, intreccia storie e contribuisce a mantenere intatti legami che altrimenti si spezzerebbero. bentō photo credits: myanimelist.net photo credits: imdb.com “Kaguya-sama: love is war” è una commedia romantica, non certo incentrata sul tema food. Al suo interno però non mancano riferimenti divertenti e ben congeniati alla cultura culinaria nipponica, in particolar modo a due capisaldi: il ramen e il kōcha, o tè nero, che diventano intermezzi simpatici per stemperare il ritmo della narrazione. Chika, personaggio bizzarro dai capelli rosa, si rivela essere una dei 4 Mostri Sacri del ramen, e attraverso la sua figura scopriamo le tecniche da veri intenditori per assaporare questo piatto a base di brodo, noodles e verdure. Lo stesso avviene per il kōcha: durante il festival scolastico la protagonista Kaguya serve un tè nero impeccabile a due fanatici estimatori di ramen e tè, eseguendo magistralmente i vari passaggi di pesatura e filtraggio alla base dell’arte del tè. Ramen photo credits: i.ytimg.com photo credits: wikimedia.org E se cucinare fosse un metodo per cambiare vita e redimersi? “La Via del Grembiule” è la storia spassosa di Tatsu, Drago Immortale della Yakuza che decide di abbandonare gli ambienti mafiosi per dedicarsi anima e corpo al lavoro di casalingo a tempo pieno. Sono numerose le scene in cui il protagonista si muove con maestria davanti ai fornelli, cucinando pietanze tipiche e torte di compleanno per sua moglie, mentre frequenta corsi di cucina insieme alle signore del vicinato e sceglie meticolosamente i prodotti in sconto al supermercato, armato della sua amata Carta Fedeltà. Nel frattempo si occupa delle faccende domestiche e cerca di convertire i suoi vecchi alleati e rivali mafiosi alla dura vita del casalingo. Qui l’arte culinaria giapponese rappresenta un medium di rottura degli schemi sociali giapponesi e degli stereotipi di genere, azzardando che anche l’uomo più temibile della Terra può occuparsi di compiti spesso e volentieri attribuiti alla casalinga, come la cucina. photo credits: animeclick.it “Fruits Basket”, cioè il cesto di frutta. Un’opera in grado di utilizzare il cibo come metafora di vita e lanciare un messaggio importante: ci sarà sempre spazio per te da qualche parte, quindi non convincerti di valere meno degli altri. Vorrei concludere l’articolo proprio con due storie raccontate in Fruits Basket, nelle quali l’onigiri (polpetta di riso giapponese con ripieno di vario tipo) ha un ruolo allegorico e centrale. La prima riguarda i ricordi d’infanzia della protagonista, quando veniva derisa dai suoi compagni di scuola durante il gioco fruits basket, corrispettivo del nostro ‘lupo mangiafrutta’; invece di un frutto, le veniva affibiato l’onigiri, in modo che non potesse essere chiamata e quindi non potesse partecipare nel vivo del gioco. Ecco qui che l’onigiri diventa metafora di esclusione. La seconda è il racconto dell’onigiri ripieno di umeboshi (prugne disidratate salate): immaginiamo ogni essere umano come un’onigiri con la sua umeboshi incastonata sulla schiena. Tutti gli altri possono vederla tranne il proprietario. Allora quest’ultimo, che però riesce a vedere a sua volta le prugne degli altri, si convince di valere meno. Ciò che non sa, è che anche lui ha la sua umeboshi: basta soltanto trovare qualche amico che glielo ricordi. Ecco qui che l’onigiri diventa metafora di inclusione e l’umeboshi metafora del valore di ciascuno di noi. Onigiri photo credits: cookaround.com Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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ONE WEEK FRIENDS
KAGUYA-SAMA: LOVE IS WAR
LA VIA DEL GREMBIULE – LO YAKUZA CASALINGO
FRUITS BASKET
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L'anguilla un piatto estivo che porta fortuna
photo credits: skywardplus.jal.co.jp In Giappone sin dal Periodo Nara (710-749) si racconta come l’anguilla sia uno dei migliori cibi contro il caldo estivo, di come questo cibo grasso e ricco di vitamina A aiuti l’alleviamento della fatica e migliorare l’appetito per contrastare la calura estiva, che causa a molti di sentirsi male. Servita grigliata, bagnata da una salsa buonissima di cui sappiamo avere come base la salsa di soia e nulla di più, per via di come i suoi ingredienti sono tenuti segreti dai vari ristoranti che la servono. Viene poi servita su un letto di riso bianco, prendendo il nome di unadon. Termine che si crea all’unione delle parole giapponesi unagi (anguilla) e donburi (ciotola), che può anche identificare una tipologia di cibi giapponesi caratterizzati da una ciotola contenente riso sulla quale vene posto un ingrediente, come in questo caso. Questo cibo che per la sua pesantezza potremmo non vedere collegato ai leggeri e freschi cibi estivi deve la sua fama ad una festività del periodo Edo che lo ha reso il suo piatto principale. Tale festività prende il nome di Doyō no ushi no hi che in italiano possiamo tradurre con ‘Il giorno del bue di metà estate’, è una festività basata sul calendario lunare e sui suoi dodici animali dello zodiaco. Il ‘Giorno del bue’, secondo tra i dodici animali dello zodiaco, cade in quello che viene definito doyō, i 19, 18 giorni prima del cambio di stagione, che in questo caso è nel mese di luglio, per questo tradotto con ‘metà estate’ in italiano. Il collegamento tra il piatto a base di anguilla e la festività non si sa bene come sia nato, se sia davvero dovuto alla ricchezza dei nutrienti dell’anguilla o per altri motivi, tuttavia, vi vorrei proporre oltre ad una motivazione nutrizionale, quella che potremmo definire una divertente leggenda. Si narra infatti che sia stato un certo Gennai Hiraga ad aver suggerito questa usanza nel periodo Edo. Un giorno il Sig. Gennai ricevette la visita di un negoziante che aveva paura di non riuscire più a vendere le sue anguille nel periodo estivo. Gennai ci pensò su e come soluzione gli propose di pubblicizzare la vendita dell’anguilla durante il Giorno del Bue, poiché mangiare qualcosa che inizi con la ‘U’ durante questa festività avrebbe portato molta fortuna. Ora per noi una frase del genere ha tanto senso quanto chi ci consiglia di guardare il sole quando non riusciamo a starnutire, ma bisogna tenere in conto che in giapponese il Giorno del Bue si dice Ushi no hi e che la parola anguilla in giapponese si dice unagi; quindi, mangiare anguilla il Giorno del Bue è proprio uno di quelle pietanze perfette per diventare fortunati a quanto viene affermato dal Sig. Gennai. Che questa storia sia davvero alla base di una tradizione che persiste fino ad oggi, lo lascio decidere a voi. Sicuramente dal periodo Edo la festività e il piatto culinario si sono legati molto, tanto che tutt’ora in Giappone dall’inizio di luglio è possibile trovare volantini e cartelli che pubblicizzano l’arrivo del Doyō no ushi no hi e per le strade si può già sentire il dolce profumo dell’anguilla alla brace coperta dalla sua deliziosa salsa, che ti invita ad entrare nei negozi per mangiarla. Un esempio di volantino pubblicitario. Photo credits: threaf.com Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia
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Approfondimenti: La rivolta di Shimabara
La rivolta di Shimabara fu un episodio particolarmente violento della storia del Giappone, in cui persero la vita molte persone di fede cristiana. Siete curiosi di scoprire le cause di questa ribellione e cosa successe in quei giorni? Questa è una storia che non tutti conoscono. Photo credits: alchetron.com La rivolta di Shimabara ebbe luogo nell’era Tokugawa del Giappone (1600-1868), e durò ben cinque mesi, dal dicembre del 1637 all’aprile dell’anno dopo. Tutto iniziò dal discontento che serpeggiava tra i contadini della penisola di Shimabara e Amakusa, a metà degli anni ’30 del 1600. Infatti, il popolo era stanco di dover subire le angherie dei lord locali, da cui venivano tassati in modo sproporzionato. Inoltre, gli effetti della carestia avevano fatto soffrire gli strati più bassi della popolazione, che pativano ancora la fame. I lord locali, inoltre, perseguivano gli abitanti di queste regioni perché erano cristiani. Infatti, il bando sul cristianesimo era stato introdotto dallo shogun Toyotomi Hideyoshi nel 1587, che vedeva la fede cattolica come una “perniciosa dottrina”. Photo Credits: alchetron.com Il governo centrale, infatti, temeva che il cristianesimo potesse mettere in dubbio le basi ideologiche su cui si fondava il Giappone. Di conseguenza, tale religione poteva minare il potere politico dello shogun e aprire il paese ad un’invasione europea. Per questo motivo, durante gli anni vennero fatti crocifiggere e torturare diversi cristiani giapponesi. All’insoddisfazione generale si unirono anche i rōnin (samurai senza padrone), non contenti delle condizioni nelle quali vivevano. Photo Credits: wikipedia.org L’inizio della rivolta si ebbe con l’assassinio di un magistrato locale nel 17 dicembre del 1637. Il leader della ribellione fu un giovane di sedici anni, molto carismatico, dal nome di Amakusa Shirō. I ribelli, dopo alcune battaglie, si radunarono nel castello di Hara, costruendo delle vere e proprie fortificazioni fatte di legno. Tuttavia, ben presto le forze dello shogunato Tokugawa iniziarono l’assedio della roccaforte, il più grande da quello di Osaka del 1615. A prendere parte all’assedio fu anche il famoso spadaccino Miyamoto Musashi, in qualità di consigliere di un daimyō. Di Musashi si racconta che venne disarcionato da cavallo a causa di una pietra tiratagli da un contadino. L’assedio si concluse nell’aprile del 1638. I ribelli finirono a corto di cibo e furono annientati dall’esercito alleato, non senza prima aver causato ingenti perdite a quest’ultimo. Photo credits: mag.japaaan.com I 37.000 ribelli furono tutti decapitati. Tra questi vi era anche Amakusa Shirō, la cui testa venne esposta a Nagasaki per un lungo lasso di tempo, in segno di avvertimento. Inoltre, lo shogunato sospettava che dietro alla rivolta vi fossero i cattolici europei. Per questo motivo, espulse dal paese tutti i mercanti portoghesi e rese ancora più pesante il bando sul cristianesimo. Infatti, da questo momento in poi la comunità cristiana in Giappone sopravvisse solamente grazie alla segretezza con cui venivano svolti i vari riti. Questi cristiani venivano chiamati “kakure kirishitan”, i “cristiani nascosti”, che arrivavano a camuffare statuette cristiane con icone buddiste per non farsi scoprire dalle autorità shogunali. Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNO Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNOLe cause della rivolta
L’assedio di Hara
Le forze shogunali chiesero l’aiuto dell’esercito olandese, che gli fornì munizioni e armi di particolare potenza, come i cannoni. Tuttavia, tali armamenti non ebbero l’effetto desiderato, e anzi, i ribelli sbeffeggiarono le forze shogunali, deridendole per aver chiesto aiuto a stranieri.Le conseguenze
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WEB SERIE: Guardians of Japan - Episodio 02 - Tokugawa Ieyasu
Dopo il primo episodio di Guardians of Japan, condiviso due settimane fa sul nostro canale YouTube, oggi condividiamo con voi il secondo appuntamento della serie con un focus speciale dedicato a Tokugawa Ieyasu.
Alla fine dell'episodio inoltre, potete trovare un'intervista esclusiva ad Hayate Masao, attore che ha interpretato proprio Tokugawa Ieyasu nello show Netflix "Age of Samurai: battle for Japan"! Godetevi l'episodio e fateci sapere cosa ne pensate nei commenti!!
Questa web serie è stata originariamente creata da Japan Italy Bridge che ha gentilmente deciso di donare il contenuto e la distribuzione all'Associazione Culturale Giappone in Italia.
WEB SERIE: Guardians of Japan
Arriva finalmente la nuova Web Serie di Giappone in Italia: Guardians of Japan! Dedicata ai Samurai, in compagnia di Angie ed Erika andremo ad esplorare vari argomenti legati ad uno dei lati e mondi più affascinanti del Giappone.
Cominciamo subito con la review dello show Netflix "Age of Samurai: battle for Japan"! Godetevi l'episodio e fateci sapere cosa ne pensate nei commenti!!
Questa web serie è stata originariamente creata da Japan Italy Bridge che ha gentilmente deciso di donare il contenuto e la distribuzione all'Associazione Culturale Giappone in Italia.
Approfondimenti: L’Ambasciata Tenshō
Il 2015 è stato il 530° anniversario dell’arrivo in Italia dell’Ambasciata Tenshō, in giapponese 天正遣欧少年使節 Tenshō ken’ō shōnen shisetsu (letteralmente “Missione in Europa dei ragazzi dell’era Tenshō”): il primo marzo del 1585 i giovani partecipanti all’Ambasciata sbarcarono infatti a Livorno, proseguendo poi il loro viaggio verso altre città della penisola fino ad arrivare a Roma, dove incontrarono il Papa. Con l’arrivo di Francesco Saverio nel 1549 il cristianesimo iniziò a diffondersi e sempre più missionari si recarono in Giappone. Per questo motivo il daimyō Oda Nobunaga, che all’epoca aveva conquistato la maggior parte del Paese, concesse la costruzione di numerosi seminari cristiani per la diffusione della religione, e così molti giapponesi diventarono credenti. Proprio da uno di questi seminari vennero scelti i quattro ragazzi che avrebbero partecipato alla Missione Tenshō, in un viaggio che dal Giappone avrebbe portato loro alla volta dell’Europa. I quattro ragazzi facenti parte dell’Ambasciata vennero scelti personalmente da Alessandro Valignano, gesuita italiano impegnato in attività missionarie, nonché ideatore dell’Ambasciata stessa: fu così che furono selezionati Itō Mancio, Michele Chijiwa, Giuliano Nakaura e Martino Hara, tutti dell’età di circa 13 anni e studenti presso un seminario nel Kyūshū, l’isola a Sud del Giappone. photo credits: wikipedia.org La nave dell’Ambasciata partì il 20 febbraio del 1582 dal porto di Nagasaki, sotto il comando del capitano Ignacio de Lima. Dopo essere sbarcati a Macao il 9 marzo, i quattro giovani dovettero aspettare fino alla fine dell’anno per ottenere i mezzi che permettessero loro di raggiungere l’Europa, dove giunsero l’11 agosto del 1584, al termine di un viaggio lungo e faticoso. Da Lisbona, dove l’Ambasciata venne presentata all’arcivescovo della città e al famoso autore Fray Luis de granada, si recarono poi a Toledo e a Madrid, in cui visitarono numerose chiese e cattedrali, oltre a essere ricevuti da Filippo II. L’anno successivo arrivarono in Italia, dove parteciparono a un banchetto indetto dal Duca e dalla Duchessa della Toscana, per poi recarsi a Pisa e infine a Roma, nel 22 marzo del 1985, dove incontrarono Papa Gregorio e il suo successore, Papa Sisto V. Il 3 giugno, alla fine di numerose cerimonie e un intenso scambio di doni e conoscenze, l’Ambasciata partì da Roma per tornare in Giappone: durante il viaggio passarono anche per Venezia, in cui erano in atto le celebrazioni per il patrono della città, San Marco, e per Milano, in cui i quattro giovani vennero ritratti da Urbano Monte, e questi disegni sono l’unica prova rimasta ad oggi che ci mostri il loro aspetto. Nel 1587 Toyotomi Hideyoshi aveva ordinato l’espulsione di tutti i missionari cristiani dal Giappone e non fu perciò facile per i membri dell’Ambasciata fare ritorno in Giappone: dopo lunghi negoziati Valignano e i ragazzi riuscirono a sbarcare a Nagasaki il 21 luglio del 1590, otto anni e mezzo dopo la loro partenza, e vennero successivamente ricevuti da Hideyoshi stesso con un grande banchetto in cui i giovani raccontarono del loro viaggio e delle loro impressioni sull’Europa. Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNO Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNOLe origini dell’Ambasciata
I partecipanti
Il loro viaggio aveva un duplice scopo: da una parte far avvicinare il Giappone all’Occidente, dando occasione agli europei di entrare in contatto con gli orientali; dall’altro ottenere dal Papa aiuti finanziari e la conferma del monopolio per la Compagnia di Gesù sulle missioni nel Paese.Il viaggio
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Approfondimento: Yasuke, il samurai mozambicano
Quella di Yasuke è una storia molto affascinante e particolare, che forse non tutti conoscono. L’uomo africano servì sotto Oda Nobunaga in qualità di samurai e lo assistette in innumerevoli battaglie e scontri. Yasuke fu testimone di alcuni dei momenti più cruciali della storia del Giappone. Le origini di Yasuke non sono ancora del tutto chiare. Vari studiosi nel corso degli anni hanno provato a determinare da dove provenisse l’uomo, senza tuttavia raggiungere una conclusione unanime. È possibile che Yasuke fosse mozambicano, così come la maggior parte degli africani che sbarcavano in Giappone nel XVI secolo al seguito dei portoghesi. Un’altra teoria è che fosse etiope, dal momento che gli uomini etiopi spesso erano venduti come schiavi ai portoghesi. Yasuke sbarcò in Giappone nel 1579 al servizio di Alessandro Valignano, famoso gesuita e supervisore delle missioni cristiane nelle Indie. Il suo arrivo nella capitale nel 1581 destò molta curiosità nel popolo giapponese, che non aveva mai visto una persona africana. Ugualmente incredulo fu il daimyō Oda Nobunaga, al quale Yasuke fu presentato. Infatti, Nobunaga credeva che la sua pelle fosse colorata con inchiostro nero. Ordinò allora di spogliarlo dalla vita in su e di strofinarglela. Quando il daimyō realizzò che la sua pelle era nera, si interessò a lui e, dopo qualche tempo, lo fece samurai al suo servizio. È probabile che Yasuke sapesse parlare giapponese, avendolo forse imparato da Valignano. È certo che a Nobunaga piacesse intrattenere delle conversazioni con lui. Infatti, l’interesse del daimyō era tale che si stima che Yasuke fosse probabilmente il suo unico servitore non giapponese. Inoltre, al samurai africano venne data una residenza e, forse, una katana cerimoniale. Sfortunatamente, il samurai africano venne fatto prigioniero dall’esercito di Mitsuhide, generale nemico di Nobunaga. Una versione della storia è che tale generale avesse risparmiato Yasuke, dicendo che era una bestia e non un uomo. Per questo non andava ucciso, ma portato nella chiesa cristiana di Kyoto. Tuttavia, non ci sono prove che ciò sia realmente accaduto. Non ci sono ulteriori informazioni su di lui negli scritti posteriori. Di conseguenza, le sorti di Yasuke sono sconosciute. La figura di Yasuke ha ispirato molti prodotti di intrattenimento non solo in Giappone, ma anche nel resto del mondo. Infatti, il samurai africano è stato raffigurato in molteplici opere, a partire proprio da manga, anime e videogiochi. Ad esempio, il videogioco storico Nioh del 2017 include una raffigurazione di Yasuke, che è diventato protagonista dell’anime Yasuke prodotto da Netflix nel 2021. Inoltre, nel 2019 è stato annunciato un film con attori in carne ed ossa incentrato proprio sulla figura del samurai africano. Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNO Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNOLe origini
La storia di Yasuke
La storia documentata di Yasuke giunge alla fine con il suicidio di Nobunaga nel 1582 a Kyoto. Il daimyō era infatti assediato dalle forze nemiche, che Yasuke aiutò a combattere.L’eredità di Yasuke
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Approfondimenti: L'ultimo Samurai, la vera storia
“L’ultimo samurai”, diretto da Edward Zwick e uscito nelle sale nel 2003, ha affascinato il pubblico con la sua epica, il suo dramma e le sua atmosfera suggestiva. Ispirato ad una storia vera, la pellicola ripercorre le gesta di un militare straniero che prima viene convocato nella terra del Sol Levante per combattere dei ribelli ma che poi passa dalla parte del presunto nemico, tutto questo durante un periodo di cambiamenti sociali decisivi per la storia del Giappone. Ma quanto c’è di vero nel lungometraggio? E in cosa differisce dai fatti realmente accaduti? Scopriamolo insieme! photo credits: wikipedia.org Partiamo esaminando la storia vera che c’è dietro l’opera di Zwick, e iniziamo dal contesto storico in cui versava il Giappone all’epoca. Siamo a metà del XIX secolo, e il Paese è una nazione isolata e fortemente ancorata alle tradizioni. La volontà dell’Imperatore vede il Giappone proiettato in un’era di prosperità e supremazia militare e politica assoluta, ma la sua è una visione difficile da realizzare e minata da diverse problematiche. Tuttavia le cose cambiano quando nel 1853 l’ammiraglio statunitense Matthew Perry giunge sulle coste nipponiche con le sue navi, in un momento dove i giapponesi si stavano pian piano aprendo, ancora timidamente, all’estero, almeno sul piano commerciale. Quello che porta Perry, però, fa gola all’Imperatore, che trova una risposta ai suoi dilemmi e ai suoi piani: l’americano era infatti arrivato con navi moderne, e con la conoscenza di tecnologie e strumenti avanzati che potevano sopperire all’arretratezza giapponese. A seguito di queste novità, e dei successivi scambi con l’occidente, dal 1866 al 1869 iniziò il periodo della Restaurazione Meiji: era intenzione dell’Imperatore Mutsuhito modernizzare e industrializzare il Giappone, ponendolo in una posizione di rilevanza nello scacchiere economico mondiale come potenza capitalista. Per portare a compimento tutto questo, si attuarono una serie di riforme e trasformazioni, tra cui quelle che vedevano una nuova casta sociale emergere a scapito di quella vecchia: un sistema di prefetture e amministrazioni locali date in mano a funzionari statali avrebbe preso il posto dello shogunato e dei samurai, privando de facto questi ultimi di tutto il loro potere e della loro autorità. Ma lo shogun Tokugawa e i suoi guerrieri erano tutt’altro che d’accordo nel venire oscurati, e da qui cominciò una ribellione e una serie di battaglie che prendono il nome di Guerra Boshin. photo credits: wikipedia.org Per contrastare i rivoltosi, l’Imperatore chiese aiuto all’Occidente, per cui al suo servizio si presentò l’ufficiale francese Jules Brunet. Questi aveva combattuto in Messico a supporto della Francia dal ’62 al ’64, ricevendo i più alti riconoscimenti militari. Esperto di artiglieria e di tattiche di ingaggio europee, fu selezionato come candidato perfetto per aiutare gli imperialisti giapponesi. Tuttavia, col passare del tempo, Brunet si ritrovò a lottare a fianco dei Tokugawa, allenando a sua volta i samurai nell’uso delle armi occidentali e delle strategie di guerra moderne. Tutt’oggi si sa poco circa la figura del soldato francese e delle motivazioni che lo spinsero a cambiare bandiera, ma molti ipotizzano si trattasse di un idealista che, affascinato dallo spirito e dalla mentalità dei clan appartenenti allo shogun, avesse ritenuto giusto schierarsi a loro favore, contrastando quella che di fatto era una tirannia. Jules Brunet prese parte a molte battaglie spalleggiando i Tokugawa, durante la Guerra Boshin, ma l’Impero era troppo forte. A seguito dell’editto del 1868 che scioglieva in maniera definitiva tutti i poteri e l’autorità legata allo shogun e che perseguiva ogni samurai rimasto, i ribelli continuarono a subire diverse sconfitte, sia sul campo che sul piano morale: numerosi signori feudali decisero infatti di arrendersi e passare dalla parte dell’Imperatore, ritenendo che fosse la cosa più saggia da fare non solo per la loro sopravvivenza ma anche per l’unità e il futuro prospero del Giappone. Non potendo contare su un appoggio completo da parte della madre patria, giacché avrebbe significato una guerra tra nazioni, Brunet lasciò la terra del Sol Levante e tornò in Europa, dove avrebbe continuato la sua carriera militare coinvolto in altre campagne. Nel frattempo, l’epoca dei samurai e dello shogunato vedevano il loro tramonto. photo credits: wikipedia.org Il film del 2003 condivide alcune analogie con i fatti realmente accaduti, mentre differisce in altre cose. Questo ha portato ad aspre critiche, sia verso Hollywood sia verso l’idea stereotipata e miticizzata che gli occidentali hanno degli orientali. Ma andiamo con ordine. Nella pellicola, il personaggio ispirato al francese Jules Brunet è qui un ex capitano del Settimo Cavalleria statunitense, chiamato Nathan Algren. Convocato dall’Imperatore per sedare la ribellione, sia allea con i samurai e sposa i loro ideali solo dopo esser stato fatto prigioniero da loro, superando l’iniziale avversione nei confronti di Matsumoto (il leader portavoce della rivolta) e della sua gente. Il periodo in cui si colloca il racconto per il grande schermo, inoltre, si svolge nei tardi anni ’70 del 1800, quindi un decennio dopo la vera Guerra Boshin (1868 – 1869). Per finire, altri due elementi: viene omesso che parte dei samurai passarono dalla parte dell’Impero, asserendo invece che tutti andarono contro il nemico e perirono di conseguenza; non viene nemmeno indicato che anche i rivoltosi dello shogun utilizzavano armi occidentali, dato che ne L’ultimo Samurai questi ultimi combattono ancora con metodi e armi tradizionali e all’antica. Come abbiamo visto, ci sono certe similitudini con le vicende di Jules Brunet, ma Edward Zwick ha tralasciato (volontariamente o meno, questo non possiamo saperlo) certi dettagli e si è preso delle libertà narrative. Se da una parte è normale che ciò accada per adattare al meglio una storia, anche secondo un personale gusto e una volontà di mandare un certo messaggio, dall’altra quando si tocca la storia con la ‘s’ maiuscola è bene fare attenzione a certe cose. Come accennato prima, alcuni critici si sono lamentati proprio di questo, redarguendo la pochezza degli americani, i quali avrebbero dipinto la casta samurai come retrograda e talmente testarda da non scendere a compromessi. Questo, sempre secondo le accuse, perché il film doveva veicolare quei valori tipici e cari allo spettatore medio: onore, liberismo e sfida al progresso. A questo si aggiungerebbe anche una visione troppo pura e romantica dei samurai stessi, che in realtà, già a partire dal XVII secolo, con la conclusione delle guerre intestine al Paese, si erano disabituati alla lotta e avevano ceduto all’ozio e alla corruzione dei costumi. Per quanto legittime e fondate possano esser state le criticità all’opera di Zwick, è sempre bene ricordare che nell’industria dell’intrattenimento bisogna arrivare a patti. Il pubblico vuole la sua parte, così come i produttori e gli azionisti. Condannare in toto L’ultimo samurai sarebbe quindi ingiusto, poiché, veridicità o meno, si andrebbe a toccare una grandiosa gemma appartenente alla settima arte, a partire dalle ottime prove attoriali, passando per una messa in scena poetica e idilliaca, per poi finire con le maestose musiche di Hans Zimmer. Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. 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Jules Brunet e il suo ruolo nella Guerra Boshin
Differenze con “L’ultimo Samurai”
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Approfondimenti: Il rapporto dei giapponesi con la religione
Il contesto religioso giapponese sembra essere alquanto differente dal nostro, ma nonostante questo il concetto di religione “occidentale” fu introdotto in Giappone nel periodo moderno. Quali sono le religioni in Giappone? Ma soprattutto, che rapporto hanno i giapponesi con la religione? Scopriamolo insieme! Chiunque abbia avuto la fortuna di visitare il Giappone si sarà accorto di come i giapponesi si impegnino spesso in varie attività religiose. All’interno del paese è possibile trovare un tempio buddhista o un santuario shintoista a poca distanza l’uno dall’altro. Mentre gli scaffali di una qualsiasi libreria sono spesso pieni di libri riguardanti tematiche spirituali o appartenenti alle cosiddette “nuove religioni”. Per molti, inoltre, è normale impegnarsi in varie attività religiose. Ad esempio, il 1° di gennaio molti giapponesi si recano nel tempio vicino casa per celebrare l’arrivo del nuovo anno, in una pratica chiamata Hatsumōde. Negli ultimi anni, poi, sono aumentati i matrimoni di tipo cristiano, favoriti spesso su quelli shintoisti per la loro atmosfera romantica. Come vediamo, quindi, il panorama delle religioni in Giappone si distingue per la sua natura sincretica, per via delle varie religioni presenti nel paese. Il termine religione (shūkyō宗教) fu introdotto per la prima volta in Giappone con l’ingresso dei dizionari buddhisti dalla Cina. Tuttavia, il senso attribuito a questo termine oggi ha la sua origine nella parola inglese di “religione”, diventando quindi la traduzione di un concetto occidentale. In particolare, il termine fu un prodotto di origine moderna, adottato in seguito all’apertura del paese al resto del mondo intorno al 1870. Durante i primi anni, però, la parola fu utilizzata quasi esclusivamente dagli intellettuali e dagli ufficiali di governo. Successivamente, l’entrata delle teorie scientifiche (in particolare quelle di Darwin) spinse la religione a far parte della sfera privata e non scientifica. In questo, però, il governo giapponese escluse da questa categoria lo Shintō e lo rese una religione di stato, per i suoi collegamenti con l’imperatore. Fu solo dopo la Seconda guerra mondiale, infatti, che venne inclusa anch’essa nella categoria e staccata definitivamente dagli organi di stato. Come abbiamo detto, il panorama religioso giapponese si caratterizza per il suo sincretismo. Sicuramente le religioni tradizionali hanno ancora il loro peso all’interno della società, non tanto in termini di affiliazioni ma di diffusione delle pratiche. Infatti, oltre alle varie festività che si celebrano in santuari e templi, lo shintoismo da una parte offre ancora vari servizi come ad esempio la benedizione dei terreni. Il buddhismo, invece, ha ancora il suo peso nelle pratiche funerarie anche se negli ultimi anni ne sono nate di nuove non religiose. Esistono, però, ancora due tipologie di religioni, ossia le cosiddette “nuove religioni” e “nuove nuove religioni”. Le prime sono nate verso la fine dell’800 e prendono molti elementi dalle religioni tradizionali. Ugualmente le seconde si rifanno alle altre religioni, ma riprendono elementi anche dal movimento New Age di origine statunitense e sono nate verso la fine del ‘900. Per rispondere a questa domanda occorre prima di tutto chiarire cosa si intende per religioni in Giappone. Sia ora che in antichità la fede religiosa è stata sempre staccata dall’attività. Quindi, partecipare ad una cerimonia, comprare un amuleto o leggere un libro sulla spiritualità non significa necessariamente essere credenti. Oggi, complici anche i vari cambiamenti socioeconomici, una cospicua percentuale di giapponesi risponderebbe che non è credente di nessuna religione. Secondo una statistica del giornale Yomiuri, infatti, il numero di credenti in una qualsiasi religione calò dal 56% nel 1965 al 22,9% nel 2005. Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNO Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNOStoria del termine “religione”
Le religioni in Giappone
I giapponesi sono religiosi?
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