"A Tōkyō con Murakami. La città che gira le viti del mondo" di Sallusti Giorgia
A Tōkyō con Murakami. La città che gira le viti del mondo “A Tōkyō con Murakami. La città che gira le viti del mondo” è il nuovo titolo di Passaggi di dogana, la collana di Giulio Perrone Editore che indaga i luoghi a partire dagli autori che li hanno vissuti e raccontati. L’opera scritta da Giorgia Sallusti è in uscita il 26 Gennaio per mostrarvi una Tōkyō mai vista prima. Così come dice il titolo, il viaggio in cui ci trasporta la scrittrice prevede di farci scoprire i vari luoghi toccati dall’esperienza del nostro amato Murakami e riportarti direttamente dalla sua penna. Se vi piace viaggiare, se vi manca Tokyo o volete conoscerla, o se Murakami Haruki è già nelle vostre librerie, il 26 Gennaio correte alla scoperta di “A Tōkyō con Murakami. La città che gira le viti del mondo” di Giorgia Sallusti. Photo credits: Giulio Perrone Editore Volete saperne di più sull’autrice? Giorgia Sallusti, (Roma, 1981) è libraia, yamatologa, traduttrice. Laureata in lingue e civiltà orientali alla Sapienza, ha aperto Bookish, libreria indipendente specializzata in letterature del Nord Africa, del Medio e dell’Estremo Oriente. È autrice e voce del podcast “Yamato. Un viaggio nel Giappone che non vi hanno mai raccontato” (Emons Record). Ha tradotto “Io, lui e Muhammad Ali” di Randa Jarrar per Racconti edizioni, e “Ace. Cosa ci rivela l’asessualità sul desiderio, la società e il significato del sesso” di Angela Chen per Mondadori. Scrive di libri per «Il manifesto» e «Altri animali», rivista di cui è anche editor, occupandosi di Giappone, Oriente e femminismi. Testo di Danila Alfano, danilaalfano0@gmail.com
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La scrittrice ci accompagna non solo tra vari quartieri, tra le situazioni più comuni che si possono vivere nella più grande metropoli del mondo ma soprattutto tra le narrazioni di Murakami Haruki: sono i posti vissuti dai suoi personaggi e i loro pensieri e punti di vista a dare un contorno e una luce diversa alla Tokyo che conosciamo o crediamo di conoscere.
Ma leggendo questo libro, troviamo una piacevolissima sorpresa! Il viaggio che compiremo non è solo uno: Giorgia Sallusti, accennandoci le sue esperienze passate e raccontandoci aneddoti e retroscena storici legati alla costruzione della Tōkyō che ci si presenta sotto gli occhi, ci porta in una Tokyo diversa da come ve la ricordavate.
Con una fluidità di scrittura che la scrittrice fa sembrare naturale, questo libro trasporta il lettore non in una città, ma in molteplici mondi, quasi come se, con l’ausilio di svariate porte, si possa entrare e uscire da Tōkyō per ritrovarla sempre nuova e diversa.Segui Giappone in Italia
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HAYAO MIYAZAKI
Un giovane ragazzino si trasferisce e, affiancato da un airone parlante, scopre che la sua nuova dimora nasconde l’ingresso di un mondo fantastico. Questa è la brevissima sinossi del più recente lungometraggio targato Hayao Miyazaki, il grande maestro dell’animazione giapponese conosciuto per essere regista, sceneggiatore, produttore, animatore, mangaka e fondatore del famoso studio di produzione cinematografica Ghibli. Il film in questione si intitola Il ragazzo e l’airone (君たちはどう生きるか, Kimi-tachi wa dō ikiru ka. 2023) ed è forse l’ultimo della serie lunghissima di capolavori usciti dalla mente e dalle mani di questo artista giapponese. Photo credits: http://ciakmagazine.it BIOGRAFIA DI UN MAESTRO Photo credits: http://unive.it Myazaki nasce nel 1941 nei pressi di Tōkyō, durante il secondo conflitto mondiale, da famiglia benestante; il padre produceva componenti di aerei militari nella fabbrica di sua proprietà, arricchendosi grazie alla guerra e suscitando per questo l’antipatia del figlio, mentre la madre soffriva di tubercolosi spinale, una malattia che la costrinse a letto per molti anni. L’infanzia di Hayao fu costellata da numerose letture di fumetti giapponesi, i cosiddetti manga, un interesse che ben presto si trasformò in una passione così forte da spingere lo stesso Miyazaki a disegnare le sue idee e storie su carta, nello stesso periodo in cui Osamu Tezuka, il Dio dei Manga, operava al suo massimo splendore. Nel 1985 Miyazaki fondò il suo personale studio d’animazione, lo studio Ghibli, dove sono nati i più celebri lungometraggi del maestro, i più maturi e utili per capire appieno i suoi temi cari: il volo, l’ambientalismo, i bambini come portatori di speranza nel futuro, la guerra contrapposta all’amore e alla pace, armi contro una società sempre meno umana… Temi specifici dell’autore che meritano di essere approfonditi attraverso l’analisi di alcuni di questi film. TEMI CARI ALL’AUTORE Il mio vicino Totoro (となりのトトロ, Tonari no Totoro. 1988) Photo credits: http://studioghibli.it La maggior parte dei protagonisti di Miyazaki sono bambini, ma in questo lungometraggio più che in altri il tema centrale è proprio il mondo infantile come rifugio dalla tristezza della vita: due sorelline si trasferiscono con il papà in campagna, per stare più vicine alla mamma che è ricoverata in un ospedale della zona. Qui incontreranno creature fantastiche di ogni tipo, tra cui Totoro, il paffuto custode del bosco metà orso e metà procione. Porco Rosso (紅の豚, Kurenai no buta. 1992) Photo credits: http://mymovies.it In questa pellicola Miyazaki affronta i temi del volo, della guerra (soprattutto aerea) e dell’amore senza limiti: il protagonista è il pilota d’aereo Marco, cacciatore di taglie che insegue sul suo biplano rosso i “pirati del cielo”, aviatori rimasti disoccupati dopo la fine della guerra che hanno iniziato a rubare per vivere. Marco però è rimasto vittima di un incantesimo durante una battaglia di cui è l’unico sopravvissuto, ed ora ha la faccia di un maiale (secondo la visione culturale giapponese, essere l’unico sopravvissuto in battaglia è un disonore). Questo difetto però non impedirà a Fio di innamorarsi di lui, a dimostrazione che l’amore non conosce confini. È un film pregno di riferimenti storici e anche politici, come suggerisce l’aggettivo rosso nel titolo. Principessa Mononoke (もののけ姫, Mononoke-hime. 1997) Photo credits: http://mymovies.it Durante il periodo Muromachi (1336-1573), il clan dei Tatari sfrutta le risorse naturali senza sosta e ritegno, quindi per sopravvivere alla barbarie umana, il Dio della Foresta trasforma gli animali in grandi e forti bestie. Un giorno il guerriero ed eroe Ashitaka uccide per sbaglio una di queste, attirando su di sé una potente maledizione che lo costringe a chiedere aiuto al clan dei Tatara; mentre si reca da loro incontra la Principessa Mononoke, una ragazza metà donna e metà lupo che ha il potere di comunicare con la Natura e odia gli esseri umani per il modo in cui trattano la natura. Il messaggio sotteso è lampante: Miyazaki auspica la convivenza pacifica tra Natura e Uomo denunciando la crudeltà con cui gli esseri umani si appropriano di ciò che non appartiene loro ergendosi a padroni del mondo. Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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Da mangaka ad animatore il passo fu breve, considerato il forte legame simbiotico che ancora oggi lega il linguaggio del manga e quello dell’anime: con il lungometraggio pionieristico La leggenda del serpente bianco (白蛇伝, Hakujaden. 1958) Hayao Myazaki debutta come animatore, per poi acquisire sempre più esperienza negli anni a venire presso la casa di produzione Toei Doga e collaborando a prodotti animati del calibro di Le Avventure di Lupen III (ルパン三世, Rupan Sansei 1972) e Heidi (アルプスの少女ハイジ, Arupusu no shōjo Haiji. 1974).
Il parallelismo con la situazione familiare del piccolo Hayao è chiaro e nel corso della pellicola si comprende come la figura di Totoro e il mondo incantato da cui proviene siano la rappresentazione della fantasia sconfinata delle bambine, che così sfuggono al dolore provato per le condizioni di salute della mamma.Segui Giappone in Italia
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LE ORIGINI DELL’ANIMAZIONE GIAPPONESE
AGLI ALBORI 1958: La casa di produzione Toei Doga, oggi operante nel settore come Toei Animation (madre di Dragon Ball, Slam Dunk, Sailor Moon e One Piece, tra gli altri) produce il primo lungometraggio animato e a colori del Giappone, che verrà proiettato solo al cinema: Hakuja den, ovvero La leggenda del serpente bianco, storia del travagliato amore tra uno studente e una principessa che in realtà è un demone, il Serpente Bianco per l’appunto. Lo stile è disneyano, con animazioni fluide, colori delicati e inserzioni musicali, ancora lontano dalle caratteristiche grafiche tipiche degli anime, ad esempio gli occhi grandi e le espressioni caricaturali; ciò nonostante Hakuja den apre le porte all’era dell’animazione giapponese anche sul piccolo schermo, poiché vince come miglior film per ragazzi alla Mostra del Cinema di Venezia e ottiene il primo premio al concorso Mainichi, raggiungendo così una buona popolarità. È interessante sapere che il lungometraggio precursore di tutti gli anime tratti di una leggenda cinese e sia stato creato dalla Toei proprio per tendere un ponte tra Cina e Giappone dopo i brutti trascorsi storici e politici tra i due Paesi. Photo credits: festival-cannes.com OSAMU TEZUKA, IL DIO DEI MANGA 1963: Il manga, cioè il fumetto giapponese, diventa la base principale da cui attingere materiale da animare. Figura chiave di questo importante passaggio è Osamu Tezuka, autore del celeberrimo Tetsuwan Atom (Astro Boy in occidente): mangaka di spicco che diede una spinta innovativa al fumetto giapponese e poi si affacciò al mondo dell’animazione fondando la casa di produzione Mushi Production; viene ricordato come “Dio dei manga” ed egli stesso definì le sue passioni per il fumetto e per l’animazione rispettivamente coma “una moglie e un’amante”. La sua opera, Atom dal Braccio di Ferro (traduzione di Tetsuwan Atom), narra delle avventure belle e brutte Di un piccolo automa dalla storia simile a Pinocchio, di nome Atom. Prima personaggio su carta, acquisisce fama anche all’estero quando diventa il protagonista di una trasposizione animata, serializzata in TV. Ecco che nasce il concetto di anime a puntate con continuità narrativa, episodio dopo episodio. Inoltre Tetsuwan Atom presentava le caratteristiche grafiche e stilistiche proprie degli anime come li conosciamo noi oggi, dettandone i canoni per gli anni a seguire. PAROLA D’ORDINE: INNOVAZIONE È sempre lui, un passo avanti a tutti quando si tratta di innovazione: nel 1965, Osamu Tezuka con la sua Mushi Production, rilascia la prima serie TV animata a colori, tratta dall’omonimo manga di Osamu dal nome Jungle Taitei (Kimba il leone bianco). La scelta a colori, sicuramente più accattivante per lo spettatore ma più costosa in termini di produzione, costrinse le altre case d’animazione ad adattarsi velocemente al cambiamento per non essere tagliate fuori dal mercato e in alcuni casi, portò anche ai primi casi di spionaggio industriale. L’anno dopo, nel 1966, ci fu un’altra novità: il primo anime per ragazze, fetta di pubblico completamente trascurata fino ad allora. Stavolta arriva prima la casa Toei, con la trasposizione animata del manga Mahōtsukai Sally (Sally la maga), che come dice il nome fu il precursore del genere Mahō Shōjo, anime pensati per un pubblico femminile caratterizzati dalla presenza di maghette. Si pensi per esempio a Ojamajo Doremi (Magica Doremì) o a Card Capture Sakura. Infine, per citare un altro dei tanti sviluppi che hanno costellato il panorama dell’animazione giapponese nel suo decennio di nascita, si può parlare dell’ascesa dell’horror nel 1968 e di come il mondo dell’animazione abbia colto la palla al balzo per lavorare a nuovi progetti in linea con le nuove tendenze macabre. Un prodotto di questo fenomeno è l’anime GeGeGe no Kitarō (tradotto letteralmente come Kitaro dell’eh-eh-eh), la storia di uno yōkai dalle sembianze di un ragazzino, quindi una creatura spettrale del folklore giapponese, che con l’aiuto di suo padre fa da tramite tra il mondo degli umani e il mondo degli spettri, cercando di mantenere la pace. Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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TRA KAPPA, ROKUROKUBI E IKIRYŌ
Photo credits: hyakumonogatari.com Yōkai. È un termine generico che indica qualsiasi mostro, spettro o creatura magica protagonista di racconti e leggende tradizionali giapponesi. Solitamente si tratta di animali antropomorfi o di esseri mutaforma, oppure ancora di strani individui in grado di padroneggiare poteri soprannaturali e arrecare danni agli esseri umani. Nella maggior parte delle narrazioni, gli Yōkai sono entità malvagie e pericolose per gli uomini, che le temono e cercano di starne alla larga, pena incontri spiacevoli, maledizioni o addirittura morte. Esistono innumerevoli storie e leggende popolate dagli Yōkai, molto spesso raccontate ai bambini per spaventarli, intrattenerli o divertirli. Si parla ad esempio di Kappa, rane umanoidi che mangiano i più piccoli, di Rokurokubi, mutaforma che possono allungare a dismisura il proprio collo, e di Ikiryō, spiriti infestanti che perseguitano i vivi. Famose sono anche le Kitsune, entità ingannevoli che possono assumere forma di donna e di volpe, e la Yuki-Onna, una ragazza bellissima che strega gli uomini di passaggio sui monti innevati. Offritegli un cetriolo e vi lascerà andare. è il Kappa, uno Yōkai piccolo quanto un bimbo, ma verde e squamoso come una rana. Viene raffigurato con guscio da tartaruga e becco d’uccello, sempre vicino ad un corso d’acqua perché quello è il suo habitat naturale: nella tradizione si apposta a riva del fiume e aspetta che arrivi qualche bambino da mangiare. Per capire a fondo questa rappresentazione va saputo che in epoca passata, nei villaggi giapponese era uso abbandonare i bambini nati morti alla corrente dei fiumi e lasciarli al loro destino, magari nelle grinfie di un Kappa affamato. Questa creatura del folklore però è temuta soprattutto perché rapisce bambini e animali dai villaggi, per poi annegarli e divorarli. Allora cosa fare per rendere innocuo un Kappa? Basta regalargli un cetriolo, di cui va matto, o svuotare la depressione piena d’acqua che ha sulla testa, dalla quale trae energia vitale. Photo credits: tradurreilgiappone.com Gli umani sono costantemente animati da sofferenza, odio, rammarico, invidia, gelosia, e mossi da questi sentimenti negativi commettono peccati o gravi atrocità che nella narrazione tradizionale giapponese vengono puniti in un modo singolare. Attraverso una maledizione. È quello che succede ai Rokurokubi, normali uomini e donne di giorno, spiriti in grado di allungare il collo all’infinito di notte; la testa “si stacca” dal corpo per vagare tormentata, sfogare così i suoi malesseri interiori, terrorizzando chi se la ritrova davanti al chiaro di luna o attaccando piccole prede. I Rokurokubi non sono consci della maledizione con cui convivono, infatti si considerano esseri umani a tutti gli effetti. Peccato che a volte siano riconoscibili agli occhi degli altri grazie ad un minuscolo particolare: un livido rosso alla base del collo. Photo credits: yokai.com Anche il folklore popolare occidentale è popolato dai fantasmi. Basti pensare ai castelli infestati o alle case abbandonate, ambientazioni perfette per storie e film sugli spettri. Mentre i fantasmi occidentali sono le anime dei morti che non riescono a lasciare questo mondo perché hanno delle questioni in sospeso da risolvere, in Giappone gli Ikiryō sono le anime che escono dal corpo ancora vivo del proprietario per perseguitare le vittime della sua collera e del suo odio; veri e propri fantasmi viventi generati da un sentimento così cupo e radicato da non riuscire a rimanere chiuso in corpo. Photo credits: yokai.com Nel Giappone antico le donne, soprattutto quelle bellissime e misteriose, venivano associate alla malizia e all’inganno. Erano fonte di problemi per gli uomini che rimanevano ammaliati dalla loro bellezza sovraumana e perdevano la testa. Nel folklore nipponico infatti le figure ingannevoli sono rappresentate da donne incantevoli e incomprensibili, che appaiono all’improvviso sul cammino dei viaggiatori per prendersi gioco di loro. Tra le più famose abbiamo la Kitsune, in giapponese volpe, uno Yōkai mutaforma che si presenta come animale, ma può trasformarsi in donna e anche rendersi invisibile (la sua presenza è tradita solo dagli specchi d’acqua, dove si riflette indipendentemente dalla forma che assume). Photo credits: ramen-nation.com La Yuki-Onna, o Donna delle Nevi, è invece uno spettro pallido, vestito di bianco, con capelli neri e occhi penetranti che terrorizzano i viandanti durante le tempeste di neve nei boschi; ha il potere di confondere gli uomini fino a condurli alla morte. Photo credits: bakemono.lib.byu.edu Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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GIAPPONISMO, le influenze giapponesi nell'Europa dell'Ottocento.
photo credits: arteworld.it Con il termine Japonisme, o Giapponismo nella versione italianizzata, si intende definire un fenomeno diffusosi nell’Ottocento in Europa e più massicciamente in Francia: artisti e mecenati europei subirono il fascino dell’oggettistica e delle stampe giapponesi che in quegli anni raggiunsero l’Occidente in grandi quantità, influenzando lo stile artistico di grandi pittori e scultori dell’epoca, come Claude Monet, Éduard Manet, Edgar Degas, Gustav Klimt e Vincent Van Gogh. La domanda sorge spontanea: come mai nell’Ottocento si verificò questa grossa importazione di opere provenienti dal Giappone? Quali furono gli eventi storici alla base del Giapponismo? Nel 1641, lo Shōgun (comandante dell’esercito feudale) Tokugawa Iemitsu emanò un editto con il quale diede inizio al cosiddetto Sakoku, ovvero “Paese incatenato”, un periodo di chiusura semi-totale del Giappone verso gli altri paesi; un governo conservatore che limitò severamente i commerci con l’estero, permettendo l’accesso di navi straniere solo da determinati porti, e minimizzò gli scambi culturali con il resto del mondo. Fino al 1853, quando uno degli avvenimenti più controversi della storia giapponese interruppe il Sakoku: le Navi da guerra del commodoro statunitense Matthew Perry attraccarono nella baia di Tōkyō, durante l’Epoca Edo, sancendo l’inizio di una serie di pressioni e trattative insistenti volte alla riapertura del Giappone. Fu proprio la fine del Sakoku a facilitare l’arrivo di merce giapponese in tutta Europa (e negli Stati Uniti): dalle suppellettili, alle stoffe, fino alle “immagini del mondo fluttuante”, le ukiyo-e, che affascinarono talmente tanto gli artisti dell’epoca da modificare permanentemente il loro modo di fare arte. Commodoro Matthew Calbraith Perry (1794-1858) photo credits: musubi.it photo credits: thecollector.com Durante il Periodo Edo (1603-1868), nelle città più grandi del Giappone, sì andò pian piano consolidando un nuovo ceto sociale assente dalla rigida piramide sociale che rappresentava il sistema feudale vigente: la figura del cittadino borghese, abitante dei grandi centri urbani, personaggio principale del “mondo fluttuante”, ovvero della trama socioeconomica che intesseva le grandi città. Il cittadino di ceto medio era colui che conduceva un’esistenza dissipata, rincorrendo ai piaceri della vita nella bolla illusoria ed effimera della sua città. Le stampe Ukiyo-e erano pensate proprio per rappresentare le bellezze come i vizi di questa società: molte infatti raffigurano scene ambientate nei quartieri proibiti delle città, dove i cittadini incontravano geisha e cortigiane, altre invece raffigurano paesaggi innevati, ciliegi in fiore e la potenza del mare, altre ancora attori di teatro impegnati nelle loro performance o semplicemente scene di vita quotidiana. Fu soprattutto grazie all’osservazione e alla collezione delle ukiyo-e che i pittori impressionisti francesi si cimentarono in nuovi stili più esotici, costellando le loro opere di personaggi orientaleggianti come geisha e samurai. A chiusura lascio i riferimenti dei tre quadri in foto all’inizio dell’articolo, come esempio lampante del Giapponismo pittorico caratterizzato da forme essenziali, asimmetria e spesso assenza di prospettiva, colori piatti ma vivaci e contorni accentuati: Ritratto di Père Tanguy di Vincent Van Gogh, Ritratto di Émile Zola di Édouard Manet e Mary Cassatt al Louvre di Edgar Degas. Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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DAL MONDO FLUTTUANTE ALLE TELE FRANCESI
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JIDAI MATSURI il "Festival delle Ere"
photo credits: japan-guide.com Kyōto, 22 ottobre. Le strade che conducono dal Palazzo Imperiale fino al Santuario Heian si popolano di una moltitudine di spettatori in trepida attesa. Che cosa sta per succedere? Qualcuno, dal ciglio della carreggiata, indica un punto laggiù, verso il Palazzo Imperiale: ecco che inizia la parata! La musica di tamburi e flauti tradizionali accompagna il passaggio del famoso condottiero Oda Nobunaga, che tentò di riunificare il Giappone, del samurai filo-imperiale Sakamoto Ryōma, considerato uno dei padri fondatori del Giappone moderno, della scrittrice e poetessa Murasaki Shikibu, dama di corte durante l’epoca Heian, e di tanti altri travestimenti che celebrano il vasto patrimonio storico e artistico del Giappone. Stiamo parlando del Jidai Matsuri, tradotto come “Festival delle Ere”, riproposto ogni anno dal 1895 per ripercorrere i periodi storici attraversati dal Giappone nei secoli in cui Kyōto era capitale dell’impero (794-1868) e non solo: un potpourri di costumi, oggetti tradizionali e personaggi che attirano ogni anni giapponesi e turisti. photo credits: japan-guide.com photo credits: japanitalybridge.com La sfilata del Jidai Matsuri è suddivisa in blocchi, partendo dai rappresentanti dell’Era Meiji (1868-1912), la più recente nel tempo, arrivando alla più antica Era Heian (794-1185), nella quale Kyōto divenne capitale sostituendo la città di Nara, per passare poi da altre epoche di mezzo come i periodi Kamakura (1185-1333), Muromachi (1336-1573), Azuchi-Momoyama (1568-1600) ed Edo (1603-1868), quando la capitale si spostò da Kyōto a Edo, nome antico dell’attuale Tōkyō. Il Festival delle Ere è un viaggio nel tempo che ricopre oltre 1000 anni di storia, tra kimono sfarzosi, armature e katane da samurai del periodo feudale, danze, canti e discipline sportive, ad esempio il tiro con l’arco a cavallo. I figuranti si impegnano per mesi nei preparativi del festival, studiando nei minimi dettagli la parte da interpretare durante la parata. photo credits: en.japantravel.com I simboli sacri del Jidai Matsuri sono i mikoshi, santuari portatili importantissimi per il culto shintoista poiché unico mezzo per il trasporto di spiriti divini. Durante il Festival delle Ere i mikoshi vengono adoperati per contenere gli spiriti di Kanmu e Kōmei, il primo e l’ultimo imperatore a governare dal Palazzo Imperiale di Kyōto. Per tutto l’anno, gli spiriti dei due imperatori albergano all’interno del Santuario Heian; l’unica ricorrenza in cui possono apparire per le strade della città e incontrare l’odierno popolo giapponese è proprio il Jidai Matsuri, quando vengono trasportati in processione all’interno dei mikoshi da figuranti preposti al ruolo, per poi fare ritorno alla loro dimora abituale fino al 22 ottobre dell’anno successivo. photo credits: giapponeinpillole.com Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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SPIRITI IMPERIALI A SPASSO PER LA CITTÀ
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MOMIJIGARI: Autunno fa rima con foliage.
photo credits: inspiringvacations.com Autunno fa rima con foliage. Le foglie degli alberi si tingono di colori vivaci, regalando al mondo paesaggi incantevoli, intrisi di una magica atmosfera autunnale; i viali, i parchi e i marciapiedi si ricoprono di foglie cadute dai rami, dipingendo le strade di giallo, arancione, rosso e marrone; lo scalpiccio divertito dei più piccoli si mescola alla meraviglia e gli adulti ne approfittano per rilassarsi ammirando i colori dell’autunno. In Giappone il rapporto tra esseri umani e natura è profondamento simbiotico, legato alla filosofia Shintoista, ovvero al culto autoctono del Giappone. Per questo non stupisce che l’atto di osservare le foglie d’autunno e ricercare i paesaggi più suggestivi abbia un nome: Momijigari. Momijigari si scrive con i kanji di “foglie rosse” e “caccia”, quindi letteralmente è la caccia alle foglie rosse, un rituale che consiste nel visitare insieme ad amici e parenti i siti più caratteristici quando le foglie cambiano colore. Proprio come in primavera per l’Hanami (“guardare i fiori di ciliegio”), anche per il Momijigari esistono previsioni metereologiche ad hoc per sapere in tempo reale dove vedere il foliage migliore. photo credits: jrailpass.com La storia del Momijigari ha origini antiche ed aristocratiche. Risale infatti all’Epoca Heian (794-1185), il periodo di massimo splendore della corte imperiale giapponese, quando i nobili si dilettavano leggendo, componendo poesie o discorrendo di temi filosofici circondati ed ispirati dalla natura autunnale. Si tratta di un passatempo così radicato nella cultura nipponica da essere descritto addirittura in opere del calibro di Man’yōshū e di Genji Monogatari, rispettivamente, la prima raccolta di poesie giapponesi giunta a noi e il più famoso romanzo di epoca Heian. CONSIGLI PAESAGGISTICI E… CULINARI Kyōtō e Nikkō possiedono sentieri e scenari rinomati per godersi il Momijigari. A Kyōtō, la Camminata dei Filosofi parte dal tempio del Ginkakuji, il Padiglione d’Argento, per arrivare al Santuario Wakaoji. Tra ottobre e novembre passeggiare lungo questo sentiero significa perdersi tra le chiome di aceri rossi che, nei giardini, imitano i colori accesi degli edifici in legno della zona. Nikkō invece è meta autunnale per chi vuole scappare dalla frenesia della metropoli e rifugiarsi tra i templi incastonati nei boschi di aceri rossi della regione. A proposito di acero rosso, albero simbolo del Giappone… avete mai sentito parlare della tenpura di foglie d’acero? Una speciale frittura giapponese ottenuta friggendo le foglie con olio di sesamo zuccherato, dopo averle lasciate per un anno immerse in acqua e sale. Da provare assolutamente! photo credits: ilgiornaledelcibo.it Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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Tsukimi, il festival della Luna e il Coniglio lunare
photo credits: asiancustoms.eu Queste parole si riferiscono all’usanza tradizionale giapponese di celebrare la Luna e il raccolto autunnale. In Giappone si ritiene che la luna più bella dell’anno sia quella autunnale, visibile durante il plenilunio di settembre, noto come plenilunio del raccolto o harvest moon: la luna piena più vicina all’equinozio d’autunno. Ma non solo per il Giappone, questo periodo è speciale in tutta l’Asia: in Cina si celebra la Festa di Metà Autunno, in Giappone si osserva la luna Tsukimi , mentre in Corea si festeggia Chuseok, la festa della Luna del Raccolto. E quest’anno la festa dello Tsukimi cade il 29 settembre, proprio questo venerdì. I due termini giapponesi vogliono sottolineare i festeggiamenti che comprendono la Luna e l’equinozio d’autunno. Jugoya è una parola che intende la quindicesima notte dell’ottavo mese nel calendario lunare, usato nella tradizione giapponese, nella quale cade la Luna piena più vicina all’equinozio autunnale, mentre Tsukimi è la parola utilizzata per chiamare il festival giapponese della Luna, e significa letteralmente “Guardare la Luna”. La tradizione dello Tsukimi nasce nell’Epoca Heian, influenzata dall’usanza del festival autunnale cinese dell’élite aristocratica, che si ritrovava per ascoltare musica e recitare o comporre poesie al chiaro di luna. Solo nel 1600 questa celebrazione passo dall’essere festeggiata unicamente dall’aristocrazia giapponese al diventare parte della tradizione popolare, nella quale non si festeggiano più solo le arti musicali e letterarie, ma anche la festa del raccolto autunnale, dove il riso veniva offerto agli Dei come ringraziamento. Lo Tsukimi entrando a far parte delle tradizioni esistenti giapponesi, prese ad essere una festa piuttosto solenne. Questo portò alla creazione di cibi tradizionali per l’evento, il più famoso lo Tsukimi dango un tipo particolare di gnocco di riso, rotondo e bianco che celebra la bellezza della luna, e si dice che porti felicità e buona salute nell’anno successivo se mangiato durante la notte di luna piena; delle decorazioni particolari, come ad esempio il susuki, o erba della pampa, posta nel luogo dove si osserverà la luna, perché si crede difenda l’area dal male; e anche visite al santuario, bruciare incenso nei templi e offrire cibo agli Dei. Inoltre questa festa, celebrando la Luna, porta alla luce una credenza giapponese che posiziona i conigli come abitanti del suolo lunare, e noi, di Giappone in Italia, che abbiamo come simbolo della nostra associazione un coniglio siamo pronti a spiegarvi nei dettagli da dove nasca questa credenza. I giapponesi non sono gli unici a credere nella presenza di questi animali sulla luna, anche i cinesi e i coreani condividono la stessa idea dove, “non sia l’uomo a camminare sulla Luna, ma i conigli”. La più antica testimonianza del mito del coniglio lunare risale al Periodo dei regni combattenti dell’antica Cina (453 a.C. al 221 a.C), nel quale viene menzionata la credenza per la quale sulla Luna, insieme ad un rospo, si troverebbe un coniglio occupato a sminuzzare nel suo pestello le erbe per l’immortalità. Tuttavia questo mito narra solo della sua presenza sul satellite terrestre, mentre solo leggendo il Śaśajâtaka, un racconto buddhista, si può scoprire come questi piccoli animali siano arrivati così lontano. Il racconto narra di quattro amici animali, una scimmia, una lontra, uno sciacallo ed un coniglio che, nel giorno sacro buddista di Uposatha (dedicato alla carità e alla meditazione) decisero di cimentarsi in opere di bene. Avendo incontrato un anziano viandante, sfinito dalla fame, i quattro si diedero da fare per procacciargli del cibo; la scimmia, grazie alla sua agilità, riuscì ad arrampicarsi sugli alberi per cogliere della frutta; la lontra pescò del pesce e lo sciacallo, sbagliando, giunse a rubare cibo da una casa incustodita. Il coniglio invece, privo di particolari abilità, non riuscì a procurare altro che dell’erba. Triste ma determinato ad offrire comunque qualcosa al vecchio, il piccolo animale si gettò allora nel fuoco, donando le sue stesse carni al povero mendicante. Questi, tuttavia, si rivelò essere la divinità induista Śakra e, commosso dall’eroica virtù del coniglio, disegnò la sua immagine sulla superficie della Luna, perché fosse ricordata da tutti. È quindi grazie al suo spirito virtuoso e caritatevole che il coniglio arrivò sul suolo lunare. Da questo racconto nacquero, con il tempo diverse versioni, con protagonisti a volte diversi, ma sempre con il medesimo finale, una divinità celeste che porta o pone la figura del coniglio sulla Luna. Ad esempio ecco un’altra versione, una leggenda giapponese che racconta: “Molto tempo fa, il Vecchio della Luna decise di visitare la Terra. Si travestì come un vecchio mendicante e chiese a Saru (scimmia), Kitsune (volpe) e Usagi (coniglio) un po‘ di cibo. Saru, la scimmia, si arrampicò su un albero e gli portò qualche frutto. Kitsune, la volpe, andò ad un corso d’acqua e gli afferrò un pesce. Ma Usagi, il coniglio non trovò nulla per lui da mangiare, se non l’erba. Così, invece, Usagi chiese al mendicante di accendere un fuoco. Dopo che il mendicante costruì il fuoco, Usagi vi saltò dentro e si offrì come pasto. Improvvisamente, il mendicante si trasformò di nuovo nel Vecchio della Luna e salvò Usagi dalle fiamme. E gli disse: “Usagi-san, non farti del male per causa mia. Dal momento che sei stato il più gentile di tutti, io vi porterò indietro sulla luna a vivere con me.” Ed è tramite questi racconti dal contenuto educativo e testi mitici, che si è arrivati a credere che la luna sia abitata da conigli il cui lavoro è schiacciare erbe per l’immortalità o altri ingredienti, come ad esempio il riso per creare il tipico dolce giapponese chiamato mochi, anche perché il termine mochizuki in giapponese significa luna piena, ma suona anche come la parola per preparare i mochi, “mochizukuru”. Cosa ne pensate, questo venerdì osservando la luna cercherete la figura di un coniglio intento a lavorare? photo credits: asiancustoms.eu Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia
Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNO Unisciti a noi! Giappone in Italia è un’associazione culturale no profit. Le nostre attività sono possibili grazie anche al tuo contributo che ti permetterà di godere sempre di nuovi e originali contenuti! 20€/ANNOAvete mai sentito parlare del Tsukimi o del Jugoya?
Tsukimi e Jugoya
Tsukimi, il festival della Luna
Il Coniglio lunare
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L’ARTE CULINARIA GIAPPONESE: RAPPRESENTAZIONE DEL CIBO NEGLI ANIME e MANGA
Gli appassionati sanno che anime e manga non sono solo meri prodotti di intrattenimento. Si tratta di veri e propri strumenti per veicolare pillole di cultura giapponese fuori dai confini nipponici, in modo leggero ed accessibile a tutti. Storia, religione, consuetudini sociali, abitudini quotidiane, sport e… cucina! Il cibo diventa l’espediente perfetto per avvicinare un pubblico vasto e curioso alle tradizioni del Sol Levante. L’arte culinaria giapponese, con i suoi sapori ricchi e delicati, assume un ruolo di primo piano nella narrazione, arrivando addirittura ad essere la protagonista di alcune opere. Ciò che propongo in questo articolo è un itinerario gustativo attraverso vari titoli, per scoprire come viene rappresentata la cucina giapponese all’interno del mondo ormai conosciutissimo di anime e manga. photo credits: wikipedia.org Piatti giapponesi presentati e rivisitati in chiave gourmet. Cultura culinaria nipponica e occidentale si fondono per ottenere sapori paradisiaci, capaci di suscitare un piacere quasi erotico in chi li assaggia. “Food Wars – Shokugeki no Soma” (Sōma delle battaglie culinarie) è un’opera completamente dedicata alla buona cucina e alla cura necessaria per maneggiare gli ingredienti e concludere al meglio le preparazioni. La rappresentazione grafica dei piatti cucinati dal protagonista Sōma e dai suoi amici è assai curata e le spiegazioni delle tecniche di preparazione così appassionanti da rendere Food Wars uno dei più completi Cooking Anime, manga degli ultimi tempi. Dall’omurice al furikake, dal chazuke al curry, fino al bentō: i classici della cucina orientale vengono reinventati, accrescendo ogni volta la conoscenza culinaria del fruitore (ed anche il suo appetito!). Carry rice omuraisu photo credits: shokugekinosoma.fandom.com photo credits: images.mubicdn.net Noi italiani sappiamo bene che il cibo è convivialità, gioia di gustare insieme un buon piatto, una scusa per relazionarsi e stringere legami; prepararlo per gli altri è un gesto d’affetto. “One week friends” ci trasmette lo stesso messaggio: Kaori e Yūki consolidano la loro particolare amicizia proprio durante la pausa pranzo sul tetto della scuola, condividendo l’immancabile bentō, il cestino del pranzo che studenti e lavoratori giapponesi mangiano fuori casa. Kaori impara piano piano quali sono i gusti del suo nuovo amico e inizia a preparare il bentō anche per lui, a partire dal tamagoyaki, una frittatina giapponese arrotolata su sé stessa che appare spesso nei cestini del pranzo di anime e manga. In One week friends il cibo suscita ricordi sopiti, intreccia storie e contribuisce a mantenere intatti legami che altrimenti si spezzerebbero. bentō photo credits: myanimelist.net photo credits: imdb.com “Kaguya-sama: love is war” è una commedia romantica, non certo incentrata sul tema food. Al suo interno però non mancano riferimenti divertenti e ben congeniati alla cultura culinaria nipponica, in particolar modo a due capisaldi: il ramen e il kōcha, o tè nero, che diventano intermezzi simpatici per stemperare il ritmo della narrazione. Chika, personaggio bizzarro dai capelli rosa, si rivela essere una dei 4 Mostri Sacri del ramen, e attraverso la sua figura scopriamo le tecniche da veri intenditori per assaporare questo piatto a base di brodo, noodles e verdure. Lo stesso avviene per il kōcha: durante il festival scolastico la protagonista Kaguya serve un tè nero impeccabile a due fanatici estimatori di ramen e tè, eseguendo magistralmente i vari passaggi di pesatura e filtraggio alla base dell’arte del tè. Ramen photo credits: i.ytimg.com photo credits: wikimedia.org E se cucinare fosse un metodo per cambiare vita e redimersi? “La Via del Grembiule” è la storia spassosa di Tatsu, Drago Immortale della Yakuza che decide di abbandonare gli ambienti mafiosi per dedicarsi anima e corpo al lavoro di casalingo a tempo pieno. Sono numerose le scene in cui il protagonista si muove con maestria davanti ai fornelli, cucinando pietanze tipiche e torte di compleanno per sua moglie, mentre frequenta corsi di cucina insieme alle signore del vicinato e sceglie meticolosamente i prodotti in sconto al supermercato, armato della sua amata Carta Fedeltà. Nel frattempo si occupa delle faccende domestiche e cerca di convertire i suoi vecchi alleati e rivali mafiosi alla dura vita del casalingo. Qui l’arte culinaria giapponese rappresenta un medium di rottura degli schemi sociali giapponesi e degli stereotipi di genere, azzardando che anche l’uomo più temibile della Terra può occuparsi di compiti spesso e volentieri attribuiti alla casalinga, come la cucina. photo credits: animeclick.it “Fruits Basket”, cioè il cesto di frutta. Un’opera in grado di utilizzare il cibo come metafora di vita e lanciare un messaggio importante: ci sarà sempre spazio per te da qualche parte, quindi non convincerti di valere meno degli altri. Vorrei concludere l’articolo proprio con due storie raccontate in Fruits Basket, nelle quali l’onigiri (polpetta di riso giapponese con ripieno di vario tipo) ha un ruolo allegorico e centrale. La prima riguarda i ricordi d’infanzia della protagonista, quando veniva derisa dai suoi compagni di scuola durante il gioco fruits basket, corrispettivo del nostro ‘lupo mangiafrutta’; invece di un frutto, le veniva affibiato l’onigiri, in modo che non potesse essere chiamata e quindi non potesse partecipare nel vivo del gioco. Ecco qui che l’onigiri diventa metafora di esclusione. La seconda è il racconto dell’onigiri ripieno di umeboshi (prugne disidratate salate): immaginiamo ogni essere umano come un’onigiri con la sua umeboshi incastonata sulla schiena. Tutti gli altri possono vederla tranne il proprietario. Allora quest’ultimo, che però riesce a vedere a sua volta le prugne degli altri, si convince di valere meno. Ciò che non sa, è che anche lui ha la sua umeboshi: basta soltanto trovare qualche amico che glielo ricordi. Ecco qui che l’onigiri diventa metafora di inclusione e l’umeboshi metafora del valore di ciascuno di noi. Onigiri photo credits: cookaround.com Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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ONE WEEK FRIENDS
KAGUYA-SAMA: LOVE IS WAR
LA VIA DEL GREMBIULE – LO YAKUZA CASALINGO
FRUITS BASKET
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L'anguilla un piatto estivo che porta fortuna
photo credits: skywardplus.jal.co.jp In Giappone sin dal Periodo Nara (710-749) si racconta come l’anguilla sia uno dei migliori cibi contro il caldo estivo, di come questo cibo grasso e ricco di vitamina A aiuti l’alleviamento della fatica e migliorare l’appetito per contrastare la calura estiva, che causa a molti di sentirsi male. Servita grigliata, bagnata da una salsa buonissima di cui sappiamo avere come base la salsa di soia e nulla di più, per via di come i suoi ingredienti sono tenuti segreti dai vari ristoranti che la servono. Viene poi servita su un letto di riso bianco, prendendo il nome di unadon. Termine che si crea all’unione delle parole giapponesi unagi (anguilla) e donburi (ciotola), che può anche identificare una tipologia di cibi giapponesi caratterizzati da una ciotola contenente riso sulla quale vene posto un ingrediente, come in questo caso. Questo cibo che per la sua pesantezza potremmo non vedere collegato ai leggeri e freschi cibi estivi deve la sua fama ad una festività del periodo Edo che lo ha reso il suo piatto principale. Tale festività prende il nome di Doyō no ushi no hi che in italiano possiamo tradurre con ‘Il giorno del bue di metà estate’, è una festività basata sul calendario lunare e sui suoi dodici animali dello zodiaco. Il ‘Giorno del bue’, secondo tra i dodici animali dello zodiaco, cade in quello che viene definito doyō, i 19, 18 giorni prima del cambio di stagione, che in questo caso è nel mese di luglio, per questo tradotto con ‘metà estate’ in italiano. Il collegamento tra il piatto a base di anguilla e la festività non si sa bene come sia nato, se sia davvero dovuto alla ricchezza dei nutrienti dell’anguilla o per altri motivi, tuttavia, vi vorrei proporre oltre ad una motivazione nutrizionale, quella che potremmo definire una divertente leggenda. Si narra infatti che sia stato un certo Gennai Hiraga ad aver suggerito questa usanza nel periodo Edo. Un giorno il Sig. Gennai ricevette la visita di un negoziante che aveva paura di non riuscire più a vendere le sue anguille nel periodo estivo. Gennai ci pensò su e come soluzione gli propose di pubblicizzare la vendita dell’anguilla durante il Giorno del Bue, poiché mangiare qualcosa che inizi con la ‘U’ durante questa festività avrebbe portato molta fortuna. Ora per noi una frase del genere ha tanto senso quanto chi ci consiglia di guardare il sole quando non riusciamo a starnutire, ma bisogna tenere in conto che in giapponese il Giorno del Bue si dice Ushi no hi e che la parola anguilla in giapponese si dice unagi; quindi, mangiare anguilla il Giorno del Bue è proprio uno di quelle pietanze perfette per diventare fortunati a quanto viene affermato dal Sig. Gennai. Che questa storia sia davvero alla base di una tradizione che persiste fino ad oggi, lo lascio decidere a voi. Sicuramente dal periodo Edo la festività e il piatto culinario si sono legati molto, tanto che tutt’ora in Giappone dall’inizio di luglio è possibile trovare volantini e cartelli che pubblicizzano l’arrivo del Doyō no ushi no hi e per le strade si può già sentire il dolce profumo dell’anguilla alla brace coperta dalla sua deliziosa salsa, che ti invita ad entrare nei negozi per mangiarla. Un esempio di volantino pubblicitario. Photo credits: threaf.com Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia
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