Danjiri Matsuri: la corsa dei carri

Il Danjiri Matsuri è uno dei festival più caratteristici del Giappone e senz'altro il più iconico di Osaka. Nato nel sedicesimo anno dell'era Genroku (1703) sulle basi del già esistente Inari Matsuri, fu creato dal daimyo (signore feudale) del castello di Kishiwada al fine di pregare per un abbondante raccolto. Molti signori di Kishiwada si alternarono negli anni ma il festival, che fin da subito riscosse un enorme partecipazione popolare, rimase un appuntamento fisso della città. Solo per quell'occasione i cancelli che impedivano agli abitanti della città l'accesso al castello venivano lasciati aperti e tanta era l'entusiasmo che il festival venne soprannominato Kenka Matsuri (matsuri del combattimento), in quanto una vera e propria forma di competizione venne presto ricercata dai partecipanti.

Abitando vicino Tokyo avevo solo sentito parlare di questo matsuri, come del più animato e perfino pericoloso del suo genere. Nel mese di settembre però, ospite di Yasuhiro, un amico di Osaka, ho deciso di andare a vedere coi miei occhi di cosa si trattasse. Quando arriviamo alla stazione di Kishiwada sono circa le dieci del mattino e le strade sono già piene di gente. Vedo subito molta gente vestita in abito tradizionale da festival, disposta attorno a degli speciali carri, i danjiri, delle costruzioni in legno alte 3.8 metri, lunghe 2.5 e con ognuno un peso di 4 tonnellate. Ogni carro, decorato con intarsi (horimono) rappresentanti scene di celebri battaglie e racconti di guerra, viene trainato dalle 500 alle 1000 persone per mezzo di funi lunghe circa 200 metri. Seppur i partecipanti ridano e parlino animosamente tra loro, nell'aria si avverte il fermento di una grande festa che sta per iniziare.

Il gruppo in carica di trainare ogni danjiri è composto dagli abitanti di un cho (un'area composta da un certo numero di isolati), ognuno con dei kanji distintivi impressi sugli abiti: ciò porta a un senso di comunità tra gli abitanti di Kishiwada e della città stessa.

I carri e le persone iniziano a muoversi lentamente verso uno dei tre santuari della zona per ricevere il miya-iri, la benedizione shintoista prima della corsa. Osservando, noto che ogni persona attorno ai danjiri ha un ruolo ben preciso, come infatti Yasuhiro, ormai grande conoscitore dell'evento, mi conferma: c'è chi ha la funzione di trainare il carro, chi di aprire la strada al suo passaggio, chi di tenere alto lo spirito dei partecipanti con incitamenti e percussioni di tamburi ed infine chi, solo uno per ogni gruppo, ha l'onore di posizionarsi sopra il carro durante la corsa. Essi sono i daigu-gata, i carpentieri del quartiere che hanno preso parte attiva alla realizzazione del danjiri, e sulla cui sommità si esibiscono in danze evocative.

Oramai ci siamo, i carri sono usciti dai santuari cominciano a compiere il loro tragitto attorno all'area del castello aumentando sempre di più la loro velocità. Siamo quindi nel vivo del matsuri, e io e Yasuhiro decidiamo di posizionarci in uno dei punti dove è possibile assistere allo yari-mawashi, ovvero la svolta dell'angolo. Esso è uno dei tratti distintivi del danjiri matsuri in quanto, senza diminuire la velocità, gli enormi carri vengono fatti svoltare in delle strette curve, mentre gli osservatori assistono in trepidazione alla scena.

Vista anche la pericolosità della manovra (in passato ci sono stati incidenti molto gravi) certe aree sono chiuse per i “non addetti ai lavori” e l'unico modo di entrarci è indossare un indumento che dimostri la propria appartenenza, o familiarità, con uno dei quartieri di Kishiwada.

Io e Yasuhiro ci troviamo quindi al limite dell'area consentita al pubblico e in mezzo a tanta altra gente ci sporgiamo un po' di qua e un po' di là per riuscire a veder meglio lo spettacolo. Forse incuriosita dalla presenza di uno straniero tra gli spettatori oppure mossa da semplice bontà, una donna già nel vivo della celebrazione mi mette al collo una sciarpa coi kanji del quartiere dicendomi: “ Vai, ma solo per 5 minuti!”. Io e Yasuhiro ci guardiamo un attimo e subito oltrepassiamo la zona interdetta al resto del pubblico trovandoci, tra gli sguardi stupiti dei presenti, molto vicino a dove il danjiri svoltava dopo la curva. Assistiamo quindi alla scena da vicinissimo dopodiché, soddisfatti, torniamo a riconsegnare il “lasciapassare” alla donna insieme coi nostri ringraziamenti.

Alla fine della giornata lascio Kishiwada per andare a vedere un'altra zona di Osaka, ma con la sensazione di aver assistito a qualcosa di speciale, un evento capace di unire tutti gli abitanti della città attorno ad un'unica tradizione, parte integrante della loro identità.         

      

Marco Furio Mangani Camilli


Kyudo - Alle origini della via del guerriero

Codificato già nel XV secolo, il kyudo o la “Via dell'Arco” è oggi una delle arti marziali tradizionali più emblematiche del Giappone.

Quando si pensa a guerrieri ed arti marziali giapponesi è facile che alla mente salti il nome samurai e la naturale associazione di questi con la sua spada, la katana. Tuttavia è bene sapere che l'identificazione della spada come “l'anima del samurai” nacque specialmente durante il periodo Edo (1603-1868). In epoca antica invece molta importanza veniva data alla “via dell'arco e della freccia” (kyusen no michi), considerate le armi base del guerriero giapponese. In un famoso testo composto intorno al 1120 (fine del periodo Heian), il Konjaku Monogatari, troviamo moltissimi riferimenti al tiro con l'arco nei racconti riguardanti le gesta di guerrieri nipponici.

Con la sua codificazione il kyudo si fece anche rituale e da quel momento l'obiettivo della disciplina fu la ricerca di unità tra lo spirito e la tecnica: né solo virtuosismo pratico né solo forma spirituale, ma una sintesi perfetta dei due.

L'arciere che si appresta al tiro procede per fasi. Per primo si posiziona in linea col bersaglio, poi assume la corretta postura del busto e del corpo. Mentre con una mano regge l'arco, con l'altra afferra la corda, il tutto mantenendo lo sguardo fisso sul bersaglio. A quel punto il kyudoka (praticante di kyudo) solleva l'arco e tende la corda. Questa fase è particolarmente importante: chiamata nobiai, il praticante cerca di raggiungere la massima estensione orizzontale e verticale del proprio corpo. Se ci riesce la tensione prodotta non è solo fisica ma anche ricca di energia spirituale, in cui il momento di maggiore concentrazione (Yagoro) è anche il momento per scoccare.

Si giunge così alla fase detta hanare, ovvero “rilascio”. Fino a questo punto l'arciere ha saputo estraniarsi dal resto del mondo e concentrarsi solo su di sé, sul proprio arco, sulla freccia e sul bersaglio da colpire. Tuttavia nel momento di massima tensione anche questi elementi diventano altro e abbracciano il “tutto”: l'istante in cui il non-essere tocca l'esistenza in ogni cosa. In quell'attimo lo sgancio avviene quasi involontariamente e le frecce volano a colpire il bersaglio (atari). Al praticante è richiesto di di superare il naturale soliloquio mentale degli attimi precedenti il tiro, in quanto ciò può condizionare l'istante del rilascio e far mancare il bersaglio. Mantenendo invece viva la disciplina e un senso di autocritica, il kyudoka può migliorarsi e mantenersi sulla Via.

Oggi in Giappone, come anche in molte altre parti del Mondo, le persone praticano Kyudo per esercitarsi a dominare il corpo, ricercare la vera natura del sé oltre sistemi ideologici e idee personali, e portarne così i benefici nella vita quotidiana.

Nel kyudo l'esercizio della tecnica si incontra con la conoscenza e cura della spirito, e non deve sorprendere se infatti kyudo e il buddhismo giapponese Zen hanno spesso viaggiato su linee parallele.

Marco Furio Mangani Camilli

 


Tsukimi, una serata dedicata alla bellezza

In molte culture del mondo il nostro unico satellite, la luna, è stato, in alcune è tutt’ora, venerato come divinità o più semplicemente usato come indicatore del trascorrere del tempo. In Giappone ancora oggi il plenilunio del mese di settembre è un’occasione per ammirare (Tsukimi significa proprio "vedere la luna"), insieme ad amici e famigliari, questo splendido corpo celeste.

 

La luna è il solo e unico satellite terrestre e anche il corpo celeste più vicino al nostro pianeta. La sua vicinanza ci permette di osservarlo molto bene a occhio nudo e per molte popolazioni antiche è stato, per secoli, l’unico modo per misurare il tempo. 

Ogni cultura le, o gli, attribuisce poteri e significati, valenze maschili o femminili, simbologie positive o negative. In Giappone ha sempre avuto un’importanza duratura nei secoli, sia come elemento necessario al calcolo temporale, sia come divinità, sia come soggetto estetico. Già in tempi antichissimi la luna è stata ispiratrice di artisti, letterati, artigiani, maestranze di ogni periodo storico che hanno impresso la sua bellezza su ogni tipo di supporto per lasciarla in eredità alle generazioni future.

Un plenilunio in particolare è soggetto di speciali attenzioni, quello di settembre. Viene chiamata Tsukimi la festa in onore di quella che è considerata la luna più bella dell’anno.

La ricorrenza ha origine nella cultura dell’antica Cina, poi introdotta in Giappone nel periodo Heian (784-1185 d.C.), adattandosi molto bene ai canoni estetici dell’epoca che tengono in gran conto la natura e le sue manifestazioni. In questa serata particolare, la nobiltà aveva l’abitudine di riunirsi in luoghi dove la Luna fosse ben visibile per celebrare il suo chiarore con canti e poesie.

Hiroshige “La luna vista attraverso le foglie d’acero”, serie "Tra le ventotto visioni della luna", 1832, Honolulu, Accademy of Arts.

Una testimonianza significativa dell’importanza data a questa festa è un luogo esistente ancora oggi, si tratta della villa imperiale Katsura, situata a ovest di Kyoto. Edificata a partire dalla fine del XIV secolo per volere del principe Toshihito, fratello dell’imperatore Goyōzei, la villa venne progettata in modo da avere una terrazza, chiamata , per l'appunto, della luna (Tsukimadai), dove fosse possibile ammirare questo plenilunio.

Ancora oggi la festa di Tsukimi costituisce una delle celebrazioni più affascinanti e suggestive del Giappone. Usanza vuole che le case vengano abbellite con i rami della pianta susuki (erba della pampa), particolarmente indicata per i suoi riflessi argentati, e si offrano alla Luna dei dolcetti di riso a forma sferica, che ricordano la forma della Luna piena e, secondariamente, per festeggiare la fine del raccolto.

È una festa da trascorrere con amici e parenti, per ammirare le suprema bellezza di un chiarore antico, compagno discreto degli artisti di tutte le epoche.

Valentina Meriano

Fonti: "La villa imperiale di Katsura attraverso la tradizione letteraria giapponese” di Priscilla Inzerilli (2013)


Tōrō-nagashi​ - Un festival sul filo dell'acqua

Oggi vi vogliamo parlare del festival Tōrō-nagashi​, che si svolge ogni anno a Tokyo nella zona di Asakusa. Il significato del termine è, letteralmente, “lanterne che scorrono”.

Ogni anno, verso il tramonto, piccole lanterne dalla leggera struttura in legno, in cui sono state inserite delle candele, vengono rilasciate sul fiume Sumida. Si tratta del Tōrō-nagashi, uno degli appuntamenti più attesi della stagione estiva.​ Lo spettacolo è per gli occhi a dir poco emozionante: centinaia e centinaia di lanterne fluttuanti illuminano il letto del fiume che lento, scorre libero verso l'oceano. Si pensa che le lanterne servano da guida agli spiriti degli avi che, tornati durante l'O-bon a far visita ai loro cari, possano far ritorno nell'aldilà e rinascere.

L'evento ha avuto luogo per la prima volta nel 1946 dopo il secondo conflitto mondiale, diventando ogni anno sempre più famoso, con centinaia di migliaia di partecipanti. A causa della costruzione di speciali argini che impedivano l'accesso al fiume, il festival è stato interrotto nel 1965, ma dal 2005, grazie alla costruzione della Sumida River Terrace dotata di aree pedonali ed aree ricreative, la suggestiva tradizione è stata ripresa.

Quest'anno, il 12 Agosto, circa 2500 lanterne verranno rilasciate dal lato est del fiume Sumida tra il ponte Azuma e Kototoi.

Se si vuole semplicemente assistere all'evento, dalla stazione di Asakusa, ci si può recare al parco di Sumida, proprio accanto alla sponda dell'omonimo fiume, preferibilmente non più tardi delle 18:00, così da trovare un buon posto e aspettare l'inizio del festival alle 18:30.

Ma se invece uno se la sente, perché non provare a prendere parte attiva al Tōrō-nagashi​? In tal caso suggeriamo come fare: dalla stazione ci si può recare alla reception dell'agenzia per escursioni in barca “Tokyo Cruise” (vista l'affluenza di partecipanti meglio andarci prima delle 14:00) e acquistare la vostra lanterna per 1500 yen (poco meno di 15 euro). Nei pressi della reception si possono trovare degli appositi spazi dove poter personalizzare la lanterna con disegni, nomi e messaggi augurali per amici e familiari.

Una volta che la lanternina sarà pronta, ci si mette in fila (prima delle 18:00) per arrivare nel punto in cui finalmente sarà possibile lasciarla in acqua e vederla scorrere, in compagnia di altre centinaia, lungo il fiume. Per chi lo compie, il gesto è carico di significato: si dice infatti che le luci rappresentino la saggezza, chiamata di dissipare l'oscurità e l'incertezza dal proprio cammino.

Infine, che si desideri prendere parte al Tōrō-nagashi​ in prima persona o che si voglia assistervi da una posizione più defilata, esso resta un appuntamento simbolo dell'estate di Tokyo assolutamente da non perdere.

Marco Furio Mangani Camilli


Shin Godzilla, il ritorno del moderno Kami

Quando il Giappone ricerca nell’intrattenimento l’esorcizzazione delle catastrofi che lo affliggono, un nome ed un marchio tornano a far sentire il proprio ruggito: Godzilla. Il signore dei kaiju è tornato! Il 3,4 e 5 Luglio approda in Italia, in proiezione limitata, l’ultimo capitolo della decennale saga del re dei mostri, intitolato Shin Godzilla.

 

 

Uscito nelle sale giapponesi il 29 luglio 2016, Shin Godzilla è la trentunesima pellicola della serie, a dodici anni di distanza dall’ultimo Godzilla: Final Wars. A differenza delle precedenti produzioni nipponiche, non si tratta di un seguito del capostipite del 1954, ma di un vero e proprio reboot che ricomincia la saga da zero ambientandola ai giorni nostri. Molto apprezzato dalla critica, il lungometraggio vanta la firma di Hideaki Anno, celebre autore di Neon Genesis Evangelion, che insieme a Shinji Higuchi,  realizzatore degli effetti speciali, tenta di conferire un’impronta originale ad uno degli archetipi mostruosi più celebri della storia del cinema.

Più riflessivo, oscuro e cerebrale rispetto ai precedenti che sembra aver convinto gli addetti ai lavori. Dalla notte dei 40esimi Academy Awards giapponesi ne esce trionfante con sette premi vinti (miglior film, miglior regia, miglior fotografia, direzione artistica, illuminazione, montaggio e sonoro). Mai nessun episodio della saga aveva raggiunto un simile traguardo e il motivo di tale successo di critica ed incassi (oltre 76 milioni di dollari al box office mondiale) è essenzialmente dovuto ad un ragionato ritorno alle origini che la direzione creativa ha deciso di intraprendere.

Battezzato sul grande schermo da Ishiro Honda, all’insegna del terrore nucleare di Hiroshima e Nagasaki, il re dei mostri ha rapidamente conquistato un vasto pubblico imprimendosi nell’immaginario collettivo come una metafora dell’impotenza dell’individuo nei confronti di una natura degenerata e corrotta dagli errori dell’uomo stesso. Grottesco, materico ed inscalfibile, questo nuovo Godzilla nasce come una concrezione amorfa di materiale biologico devastato dalle radiazioni per poi conquistare una forma definita e il suo classico aspetto bipede.

 

 

Shinto è la via degli dei, e shin, divino, è l’aggettivo che accompagna il nome della creatura. Come un kami moderno, la sua sagoma si erge sulla baia di Kamakura e Tokyo, assolutamente noncurante di ciò che si pone dinnanzi al suo passaggio. L’icona kaiju riacquisisce ancora una volta la caratteristica dell’imparzialità e dell’indifferenza nei confronti dell’operato umano. Il panico generatosi e i conseguenti tentativi di arginare l’emergenza sono un evidente riferimento ai tragici eventi della storia recente. Così come nel ‘54 era necessario trasfigurare in un simbolo l’olocausto nucleare, allo stesso modo “Shin Godzilla” si pone nei confronti dello tsunami del 2011. È un fenomeno naturale e, come tale, semplicemente accade, trattato con timore e riverenza, ma non odiato; né “buono”, né “malvagio”. La nazione deve salvarsi da sola e pertanto il film si focalizza sulle azioni umane intorno all’evento più che sull’evento stesso.

Il tema ecologico, corroborato dal marcescente aspetto che assumono le scorie rilasciate dal mostro, rievoca l’immaginario di Miyazaki e Otomo che spesso ha posto l’accento sul pericolo derivante dalla mutazione forzata della natura. Gran parte del minutaggio è dedicata a tesissime riunioni tra i piani alti del governo, gli scienziati e gli operatori sul campo. Variando tra momenti di satira leggera e sequenze più cupe, l’organizzazione collettiva e le strategie di contenimento descritte dal film ricordano l’azione eroica e sacrificale di quei cinquanta eroi che nel marzo del 2011 decidettero di sacrificarsi per arginare il potenziale distruttivo di Fukushima.

 

 

La macchina da presa è soprattutto impiegata ad altezza d’uomo, inquadrando spesso da vicino i volti concentrati e terrorizzati che rievocano le estremizzate ed enfatiche espressioni dei personaggi degli anime di Anno. Il mostro e l’azione che lo coinvolge sono realizzati con un misto di CGI ed effetti pratici. L’uso di riprese dal vivo e miniature della Tokyo distrutta è integrato con sequenze ricreate in motion capture. Tra modernità e tradizione il Re dei mostri torna nel suo ad affascinarci e terrorizzarci, ribadendo mai una volta di troppo quanto effimero e precario possa rivelarsi l’operato umano di fronte alla forza soverchiante degli elementi.  

Michele Mariani
articolo completo su --> https://goo.gl/nWxQtE


Tra gyaru e visual kei: alla scoperta della moda giapponese

Il Giappone contemporaneo non è il Paese rigido e quadrato che molti immaginano. Tra gli strati della società, convivono e si influenzano reciprocamente numerose sottoculture, caratterizzate da altrettanti stili d'abbigliamento. Questo viaggio cercherà di analizzare alcune tra i kei (stili) più importanti e che maggiormente hanno plasmato la moda e l'immaginario giapponese degli ultimi decenni.

 

Decora Fashion: il termine decora è un adattamento fonetico dell'inglese decorative. Come suggerisce il nome, questa moda è caratterizzata dall'uso spropositato di accessori e dai numerosi strati di vestiti, che si sovrappongono gli uni gli altri. Di solito, i colori usati negli abiti sono tinte neon, che rendono questo look facilmente riconoscibile. Non sono rari, tuttavia, toni più neutri, come il rosa chiaro o il grigio. Nato a fine anni '90, raggiunge il picco della popolarità  a metà anni 2000, dopodiché è sfumato nel fairy kei.

 

 

Bōsō Zoku: letteralmente, “bande della guida spericolata”. Il termine indica le gang di motociclisti amanti delle corse, della velocità e dei veicoli modificati. Popolari dalla fine degli anni '80, ancora oggi vengono identificati come teppisti dediti al disturbo della quiete pubblica. Il look è caratterizzato da giacche di pelle molto lunghe, bende, borchie e catene. Spesso i loro abiti sono decorati con kanji e simboli dell'Impero Giapponese. Nella cultura di massa sono celebrati da manga come Shonan Junai Gumi e film come God Speed You! Black Emperor.

 

 

Dolly kei: moda popolare negli ultimi anni, che punta ad avere un vibe fiabesco, rifacendosi all'aspetto di bambole antiche, con abiti ricercati e un po' rococò. Pur dividendosi in molte sottocategorie, ci sono vari elementi ricorrenti: stratificazione degli abiti, diversi tipi di tessuto e abbondanza di laccetti, ricami e fiocchi. Gli immancabili accessori vanno da croci e rosari (tipici della sottocategoria Cult Party kei) fino a teschi, ossa e pezzi di bambole rotte. Anche i colori sono molto eterogenei e si passa dalle tinte pastello del Mori kei (stile della foresta, che fa uso abbondante di motivi legati alla natura e materiali sostenibili) fino a tonalità più scure. Altra sottocategoria è il Fairy kei, che, rispetto al Dolly kei, punta ad elementi più pop, ispirati alle icone degli anni '80. Colore predominante? Rosa, ovviamente.

 

Gyaru: gyaru è la traslitterazione giapponese dell'inglese girl, o gal. Il nome deriva da una marca di jeans, chiamata gurls, in voga negli anni '90, rivolti a un pubblico giovanile. Ora, invece, la moda gyaru è apprezzata tanto da studentesse (chiamate kogals, ovvero giovani gals), quanto da giovani lavoratrici. Anche in questo caso, il look gyaru racchiude un'infinità di sottocategorie. Caratteristiche comuni a tutte sono il look estremamente glamour, la pelle abbronzata, il make up vistoso - con ciglia finte - e una grande attenzione per l'acconciatura (spesso "irrobustita" da parrucche o extension). 

 

Visual kei: stile collegato alla scena musicale J-rock e J-metal, a cui spesso si fa riferimento proprio come visual kei. Caratterizzato da un look molto glam e sfarzoso, derivato dalla moda glam metal anni '80, con capelli cotonati, trucco pesante e abiti esagerati. Abiti che spesso fanno leva sull'ambiguità sessuale, puntando a uno stile androgino, come la famosa band Versailles. Gli iniziatori di questo stile furono gli X Japan a inizio anni '90, che coniarono il termine a partire da uno dei loro slogan: visual shock. Il visual kei annovera tra le sue fonti d'ispirazione anche la moda vittoriana, creando numerosi punti di contatto con lo stile gothic lolita. È popolare soprattutto tra i fan delle band che seguono questo stile.


Tre haiku di Filippo Minacapilli

Il poeta Filippo Minacapilli ha voluto condividere con noi tre suoi recenti componimenti poetici, ispirati agli haiku giapponesi.

Fior di ciliegio
Delicate emozioni
Sgorga l'amore

 

 

La luna rossa
silenziosa sui tetti
stupisce il poeta

 

 

Calice rosso
Una sera di giugno
Desidero te

 

Filippo Minacapilli è un poeta italiano, autore di due raccolte poetiche che contengono sia poesie libere che haiku.
Le sue due raccolte antologiche sono "Magia di luce in versi" (Edizioni DivinaFollia) e "Riflessi d'acqua" (Bertoni Editori), che ha come tematica l'amore, inteso come incanto e tormento.

Nato ad Aidone (EN), Minacapilli è stato docente di Scienze umane in diversi istituti superiori. Fa parte di associazioni culturali, collabora con giornali on line, occupandosi prevalentemente di temi sociali e culturali ed è giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta, attività che gli consente di approfondire dinamiche sociologiche e di affrontare problematiche interpersonali complesse. La sua passione poetica, nata casualmente, si è consolidata nel tempo. Molto apprezzati gli Haiku, cui l’Autore riserva ampio spazio nella sua scrittura con notevole padronanza della tecnica e dello stile.


Tra sogno e realtà - Intervista a Fuco Ueda

Fuco Ueda, classe 1979, è una delle artiste contemporanee giapponesi di maggior successo. I suoi dipinti - che normalmente vengono inseriti all'interno della corrente pop surrealista nipponica - mischiano sapientemente immagini leggere ed eteree con elementi più inquietanti. Grazie alle sue iconiche e riconoscibilissime opere d'arte, debitrici in una certa misura dell'influenza di Yoshitomo Nara, Ueda sta diventando sempre più popolare, sia in patria sia all'estero. L'abbiamo intervistata in occasione della sua prima mostra in Italia, che sarà ospitata da Dorothy Circus Gallery a partire dal 9 giugno.

 

-Qual è stato il suo percorso artistico?

Dopo terminato il liceo, dove ho studiato arte, ho proseguito gli studi in un'università di arte di Tokyo.

 

 

- Sembra che nelle sue opere ci numerosi elementi contraddittori. Ad esempio ci sono giovani donne e bambine innocenti, accanto a numerosi elementi macabri e orripilanti. Che significato hanno?

Nel 2011 ho pubblicato in Giappone un libro di illustrazioni dal titolo “Lucid Dream”. “Lucid Dream” (sogno lucido) è quella particolare condizione in cui durante un sogno ci si rende conto di star sognando. Ce ne accorgiamo dicendo “Ma questo è un sogno”, ma ugualmente continuiamo a sognare. Uno degli aspetti più interessanti di un sogno lucido è il venire sommersi completamente da immagini e figure che superano ampiamente la nostra immaginazione, nonostante cerchiamo di manipolare coscientemente il sogno. Ho scelto questo titolo perché si avvicina straordinariamente a quello che voglio esprimere con lo stile delle mie opere. Secondo me, nel realizzare un dipinto c'è insita la gioia di essere completamente sopraffatti dalle immagini. Ci è possibile raggiungere posti che normalmente non potremmo nemmeno sfiorare, nascosti nel profondo del nostro inconscio. I motivi delle mie opere finiscono per essere ragazze, animali, insetti e giganteschi crisantemi. Sono tutte immagini simboliche, esseri estranei a un normale rapporto servo-padrone. Forse non ci è possibile comprendere sufficientemente queste misteriose relazioni. L'ansia o la paura di non poter comprendere le altre persone, la trovo estremamente interessante e stimolante.

 

 

- Le sue opere sono state esposte, tra l'altro, alla Galleria Jonathan Levin di Jersey City, insieme ad altri artisti della Galleria Kogure. Da dove è nata questa collaborazione?

È stata la Galleria Jonathan Levin che ha contattato la Galleria Kogure. All'inizio speravo di poter organizzare una mia mostra personale, ma la Galleria Kogure ha pensato potesse essere una buona chance per presentare altri artisti giapponesi e così è diventata una mostra "a quattro".

 

- A questo proposito, sembra che nelle opere degli altri artisti della Galleria Kogure, come ad esempio Takuto Yamamoto o Takahiro Hirabayashi, ci siano numerose somiglianze con la sua pittura. Secondo lei quali potrebbero essere i punti di contatto?

Prima di tutto, la galleria ha una forte tendenza verso la pittura rappresentativa. Una peculiarità di questi artisti è il mix tra l'influenza della tecnica pittorica tradizionale giapponese (nihonga, cioè pittura giapponese) e differenti sottoculture giapponesi. Inoltre la galleria Kogure ha una tendenza nel preferire artista dalla tecnica molto raffinata.

 

- Ha esposto anche in altre galleria all'estero? Ha mai partecipato a fiere d'arte

I miei quadri sono stati esposti in varie gallerie, sia in mostre di gruppo, sia in "personali". Per esempio, a Taiwan, in Germania o in America. In particolare sono stata tante volte a Los Angeles, alla Galleria Thinkspace. Per quanto riguarda le fiere d'arte ho partecipato molte volte a quelle che si svolgono in Asia, come a Taiwan o a Hong Kong.

 

 

- Le sue opere sono state d'ispirazione per lo sviluppo del videogame The Path. È stata coinvolta direttamente nello sviluppo?

Per quanto riguarda The Path, sono stata contattata dall'autore che mi ha detto che era stato molto influenzato dalle mie opere. Purtroppo non ho giocato al gioco, quindi non posso dire precisamente.

 

- Da quali film, libri, opere d'arte o manga è stata maggiormente influenzata nella sua arte?

Oltre all'arte, quello che per me costituisce la maggior fonte d'ispirazione è la letteratura giapponese antica, i vecchi manga e i film. Gli autori che mi piacciono di più sono Yumiko Kurahashi, Hyakken Uchida, Yukio Mishima, Tatsuhiko Shibusawa. Di manga mi piacciono molto quelli di Jun Mihara, Moto Hagio, Sakumi Yoshino, Fumiko Takano, Katsuhiro Otomo, Kazuo Umezu. I film mi piacciono tutti. Mi piace anche la danza, ad esempio Pina Bausch.

- Cosa ne pensa dell'arte giapponese contemporanea?

Penso che la scena giapponese sia un po' stagnante. Potrebbe essere dovuto alla cattiva influenza della lingua giapponese. Moltissimi artisti non parlano inglese - me compresa purtroppo - e questo non fa altro che creare ancora più distanza con il mondo dell'arte occidentale. In più, la sottocultura degli anime e dei manga che si è sviluppata in modo del tutto peculiare in Giappone, ha conquistato i cuori di molti più giapponesi rispetto all'amore per l'arte contemporanea. L'arte purtroppo non ha avuto la stessa forza aggregante, capace di cementificare una sottocultura attorno a essa. Gli artisti di successo lavorano per lo più all'estero, mentre le attività in Giappone sono molto limitate.

 

- Questa è la prima volta che espone una mostra in Italia. Quali sono le sue aspettative?

Ho grandi aspettative per questa mostra! L'Italia è la terra d'origine delle belle arti, non vedo l'ora di girare e visitare musei. E poi vorrei anche mangiare qualche cibo prelibato. Voglio proprio godermi questa trasferta in Italia.
Intervista e traduzione di Federico Moia


Quattro haiku inediti di Floriana Porta

La poetessa Floriana Porta ha voluto condividere con noi quattro suoi recenti componimenti poetici, ispirati agli haiku giapponesi.

 

lungo le ampie
maniche del kimono
tre soli versi

rami cespugli
e ciuffi di eriche
tacito bosco

candele spente
un suono smemorato
scrive nel cielo

 

carta di riso
è ancora lontano
il primo fiato

Ricordiamo che il termine haiku deriva da haikai  (俳諧), con cui si indicava tutti quei componimenti di carattere scherzoso o dai contenuti umili, ben diversi da più prestigiosi e rigidi waka, strettamente codificati. La contrazione, in particolare, di haikai no ku (俳諧の句, verso di un haikai) è l'origine del termine haiku (俳句). Si tratta di un componimento in 17 more, e non di 17 sillabe come solitamente si pensa. La mora è l'unità fonetica minima della lingua giapponese e corrisponde a un singolo kana. Per questo motivo, in giapponese viene talvolta chiamato anche jūshichimoji (17 caratteri) o jūshichion (17 suoni).

Oltre alla lunghezza di 17 sillabe, le sue caratteristiche fondamentali sono l'inserimento di un riferimento alla stagione ( 季語, kigo, letteralmente "parola della stagione") e una parola di cesura (切れ字) che indica un capovolgimento semantico e/o concettuale nel poema. Inoltre, l'haiku deve far tornare la memoria a un avvenimento passato.

Le origini culturali dell'haiku sono invece molto discusse. Alcuni critici lo reputano una semplificazione strutturale dello waka (poesia giapponese, chiamato anche tanka, poesia breve), anche se la maggior parte degli studiosi sono concordi nel ritenerlo un derivato del renga (連歌, poesia a catena). Per la precisione, lo haiku corrisponde alla prima strofa di un componimento a catena, chiamato anche hokku (発句, strofa iniziale), con cui condivide la struttura metrica 5-7-5. Anche tematicamente lo haiku e il renga sono molto vicini. A cavallo tra il XVI e il XVII secolo, infatti, la poesia a catena divenne estremamente popolare, iniziando a trattare anche argomenti più "bassi", miscellanei.. Libera, quindi, dai dettami stilistici e retorici del tanka, questa nuova forma di poesia ottenne un grandissimo successo in tutti gli strati della popolazione.

Floriana Porta

http://www.florianaporta.it/
https://www.facebook.com/floriana.porta


Hanami - Le origini della tradizione

Il fiore di ciliegio – sakura – è da tempo immemorabile uno dei simboli più cari ai giapponesi e l’hanami, la rituale gita fuori porta per andarne ad ammirare la fioritura, è una delle ricorrenze più sentite dell’anno. L’origine della tradizione affonda le sue radici nella tradizione agricola, per poi evolversi e arricchirsi nel corso dei secoli di altri significati, contagiando anche l’arte, la letteratura e la filosofia. E arrivando così a forgiare alcuni dei concetti estetici più importanti della cultura nipponica.

“Se mi chiedessero quale sia lo spirito di questa nostra isola, risponderei un ciliegio in fiore che rifulge nel sole del mattino.”

Con questa frase Motoori Norinaga (1730 - 1801), uno dei più importanti studiosi delle tradizioni giapponesi, riassume efficacemente l'amore che i giapponesi nutrono da secoli verso i fiori di ciliegio, i sakura, e ci aiuta a comprendere come mai ogni anno la ricorrenza dell'hanami sia così sentita.

 

Una veduta dei sakura a Yokohama.

 

Hanami significa letteralmente "ammirare i fiori", che nella cultura giapponese sono, per antonomasia, quelli di ciliegio. Questa completa sovrapponibilità dei due termini ha origini antiche, tanto che nella maggior parte delle poesie di epoca Heian (794 – 1185) sono usati come sinonimi. La tradizione trova le sue origini nella cultura agricola, quando le antiche popolazioni dell’arcipelago giapponese festeggiavano l’inizio della primavera, cioè della stagione in cui era nuovamente possibile dedicarsi al raccolto. Il periodo della fioritura dei ciliegi, in particolare, corrisponde al momento in cui avvengono le prime piantumazioni del riso, alla base dell’alimentazione giapponese. Si può capire, quindi, come mai questo momento fosse così sentito.

Per vari secoli, in realtà, l’oggetto di attenzione dell’hanami non erano solamente i sakura, ma numerose altre specie floreali, tra i quali il più popolare era il fiore di susino (ume). Questo primato del fiore di susino è confermato anche dalla frequenza con cui il termine ricorre nel Man’yoshu, un’antologia poetica del 759. L’ume è soggetto di ben 110 componimenti, mentre appena 43 poesie mettono al centro i sakura. Tale tendenza viene poi ribaltata in epoca Heian, quando il fiore di ciliegio diventa ufficialmente il più popolare. La data simbolica in cui, si dice, il sakura assurga a fiore simbolo del Giappone è l'830, quando l'imperatore Ninmyo decide di sostituire un susino all'interno di uno dei cortili del palazzo imperiale con un ciliegio, via via rinnovato nella posizione originaria fino ai nostri giorni.

Il ciliegio che l'imperatore Ninmyo piantò al posto del susino all'interno del palazzo imperiale, chiamato anche Sakonzakura

 

Da questo momento in avanti, la popolarità dei fiori di ciliegio non accenna più a diminuire. Durante il periodo Meiji (1868 – 1912), in cui iniziano a svilupparsi le idee alla base del nazionalismo nipponico, il cui apogeo viene poi toccato tra le due Guerre mondiali, il fiore di ciliegio viene anche usato in maniera propagandistica, paragonandolo alle vite dei giovani soldati. Un parallelo, in realtà, già presente nella cultura samuraica, ma che qui assume un significato del tutto nuovo, in quanto si vuole glorificare i soldati morti in guerra paragonandoli a uno dei simboli più cari ai giapponesi.

 

Il contrasto tra la moderna Tokyo e i fiori di ciliegio che si affacciano sul fiume Meguro.

 

In effetti, il fiore di ciliegio si presta particolarmente a questa similitudine. Dal momento in cui sboccia a quello in cui sfiorisce non passano che due settimane. La bellezza caduca di questo fiore è sempre stata molto apprezzata dai giapponesi e costituisce il paradigma di uno dei concetti estetici fondamentali dell’arte e della letteratura del Sol Levante, il mono no aware, cioè stupore, meraviglia delle cose. Il concetto esprime l’idea di una bellezza straordinaria, che lascia senza parole, ma che è fragile e destinata a svanire in fretta. Questo effimero splendore genera un sentimento di malinconia. Si può capire facilmente come questo concetto sia intrinseco alla vita giapponese, se si pensa alla precarietà determinata dalle condizioni ambientali nell’arcipelago. I frequenti fenomeni sismici o i tifoni rischiano, infatti, di cancellare da un momento all’altro la vita e le opere dell’uomo. E solo negli ultimi decenni le tecnologie costruttive stanno facendo svanire questa cultura collettiva.

Forse anche per questo i giapponesi hanno sempre mostrato un’elevata sensibilità verso quella bellezza fragile e delicata, che può svanire da un momento all’altro.
Federico Moia