Penne del Sol Levante - Mille gru di Yasunari Kawabata
Bentornati nella rubrica Penne del Sol Levante! Oggi parliamo di un classico della letteratura giapponese, Mille gru di Yasunari Kawabata.
Questo romanzo breve è colmo di immagini oniriche e scorci estetici, qui l'autore fa di tutto per invitarci a godere della bellezza di ogni singolo dettaglio della narrazione. Un oggetto d'arredo, una stoffa, il panorama oltre una porta scorrevole, una tazza da tè. Ogni cosa racchiude un piccolo mondo di armonia, leggerezza, contemplazione. Come il fazzoletto dal motivo mille gru, indossato da una delle protagoniste, che non solo dà il titolo al romanzo, ma si erge anche a simbolo di giovinezza e speranza. E' questa la forza e la bravura di Kawabata, far sì che il lettore venga immerso in una miriade di stimoli sensoriali. Ne abbiamo ulteriore prova dall'uso che fa della cerimonia del tè, arte antichissima che in Giappone viene praticata ancora oggi.
Nella storia una delle protagoniste indiscusse è proprio questa cerimonia, luogo non solo della tradizione, ma anche spazio fisico rappresentato dal tempio Engakuji di Kamakura e infine ambiente in cui si dipana tutto il groviglio amoroso della trama.
Il giovane Kikuji vive cercando di crearsi uno spazio libero dall'opprimente figura del padre defunto, a cui tutte le donne che lo circondano erano legate in un modo o in un altro. E sono queste stesse figure femminili a invadere la quieta vita solitaria del ragazzo, tentando di trovargli una moglie.
Alle sue vicende sentimentali e disincantate si sovrappone la storia della sua famiglia, del padre e delle sue amanti, della figura fuggevole della madre.
Consiglio questo breve romanzo a chi ha voglia di conoscere, o riscoprire, un Giappone antico, nostalgico, puro. Le bellissime descrizioni, i colori e la grande capacità narrativa di Kawabata ci restituiscono una visione incantevole di questi personaggi e dei loro turbamenti.
Sperando che questa breve presentazione vi abbia incuriosito, vi rimando a Penne d'Oriente dove troverete la recensione completa e i dati tecnici del libro.
Buona lettura!
Penne del Sol Levante - Una storia crudele di Natsuo Kirino
Penne del Sol Levante - Natsuo Kirino
Oggi vi diamo il benvenuto in una nuova rubrica del sito, Penne del Sol Levante, dedicata alla letteratura giapponese e agli scrittori del Giappone.
Iniziamo con una storia dalle tinte forti, creata dalla maestra del thriller nipponico, l'autrice Natsuo Kirino. Ormai il suo nome è noto anche ai lettori italiani, sono infatti state tradotte molte delle sue opere e a breve uscirà il suo ultimo lavoro, dal titolo In. La scrittrice, il cui vero nome è Mariko Hashioka, è nata a Kanazawa nel 1951 e ha al suo attivo diversi premi letterari conquistati grazie ai suoi romanzi.
Il libro di cui voglio parlarvi oggi si chiama Una storia crudele ed è l'autobiografia di una scrittrice, Ubukata Keiko, che da piccola era stata rapita da un uomo e tenuta prigioniera nella sua casa per un anno. Una sera, desiderosa di raggiungere il padre in un quartiere notturno, la bimba viene avvicinata da uno sconosciuto che tiene in braccio un gatto; una volta soli in un vicolo, l'uomo la stordisce e se la porta via.
In un fluire infinito di ricordi e considerazioni veniamo a conoscenza della vita di Keiko, divisa tra una madre indifferente e un padre molto amato; incontriamo Abekawa Kenji, il rapitore, un ragazzo di venticinque anni che vive in un mondo tutto suo e che farà di Keiko una sorta di animaletto da compagnia, per soddisfare il suo bisogno di affetto e comprensione.
Quando la scrittrice all'improvviso scompare il marito ritrova il suo ultimo manoscritto, dove lei si libera di tutti i ricordi relativi a quell'episodio, da sempre rimasto segreto. L'analisi introspettiva della donna ci permetterà di comprendere le incoerenti ma efficaci modalità che usa l'essere umano per preservarsi e sopravvivere in situazioni di estremo pericolo e paura.
La scrittura della Kirino è essenziale, descrizioni ben delineate ed efficaci si accompagnano a una attenzione estrema per la psicologia dei personaggi. Forse il suo pregio più grande è proprio la capacità di coinvolgere il lettore e riuscire a trasmettergli le forti sensazioni della protagonista.
Se la storia vi intriga e volete saperne di più potete trovare la recensione completa sul mio blog Penne d'Oriente, dedicato alla letteratura asiatica.
2018, l'Anno del Cane
Secondo la tradizione cinese, il 16 febbraio inizierà il nuovo anno, che corrisponderà al segno zodiacale del Cane. I festeggiamenti, in realtà, non si esauriranno in una singola giornata ma proseguiranno fino al successivo 21 febbraio per 5 giorni di allegria e divertimento. L'anno del cane si concluderà poi il 4 febbraio 2019.
Come i più attenti tra voi avranno notato, l'anno cinese (da cui deriva il calendario giapponese tradizionale) non coincide esattamente con il nostro anno solare, iniziando circa un mese dopo rispetto al nostro. Per questo motivo, un bambino nato nel 2018 non sarebbe automaticamente del segno del cane. Se nasce prima del 16 febbraio, infatti, sarà del segno dell'anno precedente, in questo caso del Gallo (dal 28 gennaio 2017 al 15 febbraio 2018).
Sono del segno del cane i nati negli anni:
1922 (dal 28 gennaio 1922 al 15 febbraio 1923)
1934 (dal 14 febbraio 1934 al 3 febbraio 1935)
1946 (dal 2 febbraio 1946 al 21 gennaio 1947)
1958 (dal 18 febbraio 1958 al 7 febbraio 1959)
1970 (dal 6 febbraio 1970 al 26 gennaio 1971)
1982 (dal 25 gennaio 1982 al 12 febbraio 1983)
1994 (dal 12 febbraio 1994 al 30 gennaio 1995)
2006 (dal 29 gennaio 2006 al 17 febbraio 2007)
Il cane, così come altri animali dello zodiaco cinese tra cui il gallo, la capra o il bue, deriva direttamente dalla tradizione contadina. A fianco di animali domestici e della vita di tutti i giorni, troviamo invece animali più inusuali (scimmia o tigre) o addirittura creature leggendarie (come il drago) che simboleggiano invece buona fortuna e felicità.
L'elemento associato al 2018 sarà la terra.
Le caratteristiche del segno del Cane
Le caratteristiche principali delle persone del segno del Cane sono, secondo la tradizione, la lealtà, l'onestà e l'intelligenza. La tradizione vuole che il Cane sia un partner solido, sincero e affidabile. Tra le sue caratteristiche negative, invece, troviamo l'eccentricità e talvolta l'egoismo.
Esiste, ovviamente, anche una supposta tabella di compatibilità sentimentale del Cane con altri segni. In particolare, il feeling maggiore si dica esista con i nati nel segno del Coniglio, seguito da Topo, Tigre, Scimmia e Maiale.
Suo segno antagonista per eccellenza è il Drago.
Kokeshi: le bambole in legno giapponesi
Le kokeshi sono bambole giapponesi, realizzate in legno, molto colorate. La loro origine, e il loro significato del loro nome sono avvolti dal mistero.
Le kokeshi sono piccole bambole in legno, colorate, della tradizione giapponese, prodotte prevalentemente nella regione di Tohoku. Le bambole sono realizzate a mano da artigiani. Queste creazioni, formate a partire da un blocco di legno, sono molto stilizzate, prive di arti, formate dalla sfera del viso.
Per quanto riguarda la loro origine, e il significato del loro nome, è tutto avvolto nel mistero. La loro produzione iniziò alla fine del periodo Edo (1600-1868). Furono create per essere vendute ai turisti della zona, tuttavia il vero successo iniziò nel XIX secolo, tanto che ispirarono la famosa matriosca russa.
Per il termine kokeshi esistevano diverse grafie, e diversi dialetti, ed è qui che ha origine il disaccordo riguardante il significato. Secondo alcuni il termine significa "piccoli papaveri", per altri "bambole di legno" o "piccole bambole". Con il Convegno Nazionale Kokeshi del 1939 fu decisa la scrittura convenzionale.
Attorno a una storia poco chiara possono crearsi ulteriori episodi carichi di fantasia, come quello di Alan Booth, causato da un errore nella scrittura. Secondo lo scrittore inglese, che visse in Giappone per un lungo periodo, il termine vuol dire "eliminazione del bambino". Per Alan, questi oggetti, erano dedicati dalle madri ai propri figli uccisi dopo la nascita, tuttavia non c'è nessuna testimonianza che questa interpretazione sia veritiera. Più probabilmente le bambole erano degli amuleti a protezione dei bambini e della casa, o dei portafortuna.
Le bambole si dividono in due gruppi. Le kokeshi tradizionali hanno un busto più lungo e testa piccola, sono decorate in nero, rosso e giallo. Le kokeshi "creative" invece, si caratterizzano per un busto più corto e arrotondato, e i colori sono utilizzati in modo più libero. Per quanto riguarda la lavorazione, il legno viene tagliato nella forma desiderata, levigato e infine colorato. Le decorazioni presentano volti femminili, motivi floreali e i tradizionali kimono.
Marianna Scardeoni
Fureai Sekibutsu no Sato: il parco abbandonato del Giappone
Lo spettrale parco in Giappone, voluto da Mutsuo Furukawa come luogo turistico. Oggi si è trasformato in un luogo spettrale, in cui le statue sembrano fissarti.
"Fureai Sekibutsu no Sato" significa letteralmente "il villaggio dove si possono incontrare statue buddiste". Il parco fu realizzato da Mutsuo Furukawa, imprenditore giapponese, che pagò una cifra altissima, corrispondente a 6 miliari di Yen.
Il parco, nella mente dell'imprenditore, sarebbe dovuto diventare un'attrazione turistica, una zona di riposo per chiunque avesse voluto rilassarsi nella zona. Le sculture, che sono più di 800, furono realizzate nel 1989. Le statue, nella fisionomia, ricordano divinità buddiste, gente comune o persone vicine a Mutsuo Furukawa, in modo da preservarne la memoria e renderli immortali attraverso l'arte. All'epoca erano stati messi a disposizione autobus gratuiti per collegarlo al centro della città più vicina.
Fino agli anni 2000 il parco è stato utilizzato e visitato da molto persone, oggi purtroppo è abbandonato, lasciato in balia delle erbe infestanti e degli agenti atmosferici. Le foto appartengono a Ken Ohki, fotografo giapponese, che mentre stava viaggiando nella prefettura di Toyama, si è imbattuto in quest'opera che appare surreale. Suo pane quotidiano visto che gira per il mondo proprio alla ricerca di quello.
Mi sono sentito come fossi accidentalmente inciampato in qualche zona proibita. Incredibile essere in realtà arrivato in un parco con oltre 800 diverse statue di pietra scolpite a somiglianza di divinità buddiste e persone vicine al fondatore del parco Mutsuo Furukawa. La sua idea era di rendere questo parco una popolare destinazione turistica, dove la gente sarebbe venuta a rilassarsi. Bella idea, certo. Ma, con il passare del tempo le statue hanno fatto svanire l'atmosfera di relax rendendo il parco più raccapricciante.
Questi personaggi in pietra, sembrano fuoriuscire improvvisamente dall'erba. Se all'inizio questi dovevano dare una sorta di sacralità al parco, oggi, lo rendono un luogo spettrale, sembrando un'opera di Medusa.
Marianna Scardeoni
Furoshiki - L'arte del packaging ante litteram
L'imballaggio attraverso l'arte del furoshiki. La stoffa quadrata, preziosa e decorata utilizzata per avvolgere doni e oggetti quotidiani.
Il termine furoshiki indica un tessuto quadrato, più o meno decorato, utilizzato per avvolgere oggetti e scatole con diverse modalità di piegature e nodi, in modo da risultare sempre diverso e innovativo, ma comunque elegante. È un oggetto che dimostra la raffinatezza e il gusto estetico così sviluppati nella cultura giapponese. Scegliere e annodare un furoshiki è diventata un’arte che si tramanda di generazione in generazione.
Nel passato, durante il periodo Nara (710-784), questo era utilizzato per fasciare gli oggetti appartenenti alla famiglia imperiale. Successivamente, durante l'epoca Heian (794-1185) il suo uso si allargò fino a comprendere il trasporto e la conservazione dei kimono, utilizzati dai nobili di corte.
Tracce storiche dell’esistenza del furoshiki esistono a partire dal periodo Muromachi (1392-1573), quando i cortigiani erano soliti portarlo con sé al grande edificio termale costruito dal generale Yoshimitsu Ashikaga. Noto con il termine di hirazutsumi, questo antenato del furoshiki serviva a contenere il cambio di abiti da indossare dopo il bagno.
La parola tuttavia non esisteva ancora; la sua nascita risale al 1600, grazie all'atmosfera dei bagni pubblici. Il furoshiki che nasce dalle parole "furo" (bagno) e "shiki/shiku" (stendere), indica un precursore del moderno asciugamano, che veniva steso a terra per sedersi. In epoca Edo (1603-1868) diviene un oggetto fondamentale per la classe lavoratrice. Lentamente le sue dimensioni cambiano, adeguandosi alle misure di qualunque oggetto si voglia donare o trasportare in modo pratico.
Il furoshiki, alla fine dell'800, cadrà nell'oblio a causa dell'avvento delle buste di plastica. I temi centrali degli ultimi anni, come l'inquinamento ambientale, portano però a una sua riscoperta. Grazie alla coscienza ecologista formatasi, diventa il simbolo dell'imballaggio ecosostenibile, visto che risulta compatto e riutilizzabile, andando a imporsi sulle buste di plastica.
Il furoshiki può essere considerato un antenato del packaging, e oggi presenta una varietà esorbitante di fantasie, dimensioni e materiali. Per i giapponesi questo risulta fondamentale visto che, secondo la loro cultura, è considerato irrispettoso regalare un oggetto che non sia adeguatamente confezionato.
Per informazioni sul corso di furoshiki del 14 dicembre cliccate qui.
Marianna Scardeoni
"Aki no aware": la compenetrazione emotiva nell’autunno di Dolls e Little Forest
Siamo agli albori dell’XI secolo, quando la dama di corte Murasaki Shikibu compone ciò che i critici letterari contemplano come primo esempio di romanzo psicologico, nonché cardine della letteratura giapponese: ci riferiamo senza dubbio al Genji monogatari. Uno dei maggiori contributi dell’opera, che ruota intorno alle vicende amorose del “Principe Splendente”, è quello di aver riportato in auge un concetto basilare dell’estetica giapponese, il mono no aware.
Nel Genji monogatari, infatti, questo termine raggiunge la massima espressione, acquisendo una rinnovata definizione. Più che concetto estetico volto a sottolineare una bellezza che desta un coinvolgimento personale alla vista, il mono no aware assume un carattere di melancolia derivante dalla consapevolezza che ciò che si osserva sarà destinato a sfiorire.
La “sensibilità (aware 哀れ) delle cose (mono 物)” delinea così una percezione che accomuna ciascun soggetto nella partecipazione emotiva alla trasformazione degli elementi naturali nel tempo. Alla base della cultura estetica, della poesia e della letteratura giapponese, questo concetto ha fortemente influenzato anche gran parte delle opere cinematografiche moderne e contemporanee.
Registi del calibro di Mizoguchi Kenji e Ozu Yasujirō, in film come Tarda primavera (Banshun, 1949) e Tardo autunno (Akibiyori, 1960), hanno tentato di suscitare l’empatia dello spettatore nei confronti dei personaggi attraverso una poetica incentrata sull’ordinarietà della vita quotidiana e l’inevitabile susseguirsi delle stagioni. E di certo, a rivelare maggiormente la sensazione di caducità, disillusione e isolamento dell’essere umano nel suo rapporto complesso con la natura è, tra tutte le stagioni, l’autunno (aki 秋).
Il capolavoro Dolls (2002), diretto da “Beat Takeshi” Kitano, ne è una chiara testimonianza. Il film si svolge su un intreccio di tre vicende che indagano il tema dell’amore. Quello rappresentato da Kitano, però, non è l’amore ardente e impulsivo che prelude a un intuibile lieto fine. Al contrario è silenzioso e all’apparenza celato, tuttavia carico di una potenzialità emotiva che sfocia in disperazione, follia e inevitabilmente violenza.
In particolare, la condizione di incomunicabilità che affligge i personaggi (tematica affrontata in modo magistrale da Michelangelo Antonioni nel cinema italiano) è evidente nel primo episodio, il più emblematico. I due “vagabondi legati”, Matsumoto e Sawako, iniziano infatti un lento cammino senza meta, quasi come unica reazione possibile a un legame ormai compromesso. E’ in questo processo di accettazione del destino che il senso di solitudine, il silenzio e la frustrazione prendono il sopravvento sulle personalità dei personaggi, indifferenti alle risa dei passanti e all’incessante scorrere del tempo.
La cura dell’altro e la dipendenza reciproca generano così un progressivo autoannullamento dei due innamorati, fisicamente legati soltanto da una corda rossa durante l’intero cammino. Nessuna possibilità di evasione, ma in fin dei conti nessuna vera intenzione. Qui l’allusione romantica del regista è riconducibile al “filo rosso del destino” (Unmei no akai ito), una leggenda popolare cinese diffusa in Giappone secondo cui ogni persona è legata alla propria anima gemella da un indistruttibile filo rosso.
Il principale riferimento culturale della pellicola, da cui la scelta del titolo, riguarda però le marionette dello spettacolo bunraku. Il film si apre infatti con una scena dell’opera teatrale I Messi dell'Inferno (Meido no hikyaku) di Chikamatsu Monzaemon. E’ proprio il drammaturgo del periodo Edo, ribattezzato lo "Shakespeare del Sol Levante", ad aver rappresentato in alcuni suoi drammi la pratica dello shinjū (心中), letteralmente il “doppio suicidio d’amore”.
La totale assenza di dialogo o di contatto fisico definisce così l’apatica fuga delle “bambole”, che percorrono le quattro stagioni tra giardini in fiore, spiagge deserte, boschi autunnali e interminabili distese di neve. E dove non riescono i personaggi nell’intento di esprimere le proprie emozioni, il compito è lasciato all’impatto visivo della natura e dei suoi colori ricorrenti, primo su tutti il rosso della foglia d’acero che percorre le vicende trasportata dal fiume, creando una perfetta analogia con il sangue sull’asfalto.
Insomma, più mono no aware di così, si muore.
L’imprescindibile legame tra essere umano e natura è tema fondamentale anche in Little Forest di Mori Jun'ichi, una miniserie basata sull’omonimo “slice of life” manga di Igarashi Daisuke. Complessivamente, l’opera è divisa in 2 parti: Summer/Autumn (2014) e Winter/Spring (2015).
Il racconto si svolge nella fittizia e circoscritta comunità di Komori (“piccola foresta”) nella regione del Tōhoku, dove la giovane Ichiko, interpretata dall’incantevole Hashimoto Ai, vive da sola in seguito all’inaspettata partenza della madre. In totale armonia con l’ambiente rurale che la circonda, Ichiko è immersa nelle tradizioni culinarie giapponesi e si dedica con meticoloso impegno a tutte le attività agricole necessarie per il proprio sostentamento. In base alle variazioni climatiche scandite dalla graduale evoluzione delle stagioni, la protagonista ci mostra la ripetitività delle azioni quotidiane nella vita agreste, come la coltivazione del riso, il taglio del legname e infine la preparazione dei piatti.
Anche Little Forest presenta pochissimi dialoghi, perlopiù inerenti agli incontri di Ichiko con gli amici Yūta e Kikko e con gli altri abitanti della comunità. Gran parte del parlato consiste di fatto in monologhi e descrizioni dettagliate delle ricette e dei metodi agricoli, nonché commenti conclusivi sulla riuscita o meno dei piatti. A intervallare i momenti di solitudine sono alcuni flashback, in cui la ragazza ricorda gli insegnamenti di cucina della madre, e gli autoreferenziali “itadakimasu” pronunciati prima delle degustazioni.
Nonostante lo stile pressoché documentaristico del film e la staticità generale della trama, Little Forest offre una miriade di spunti riflessivi. Innanzitutto, l’opera rimanda implicitamente alle differenze di vita tra campagna e città, un leitmotiv del cinema giapponese moderno. Ichiko mostra infatti sentimenti contrastanti riguardo al suo ritorno nel paese natale, una scelta perlopiù forzata, e rivela in varie occasioni le sue incertezze riguardo a una permanenza futura.
Accompagnato da una colonna sonora piuttosto suggestiva e da favolose immagini dei paesaggi circostanti, il film espone così il conflitto interiore della giovane nel suo delicato viaggio introspettivo alla ricerca di un posto nel mondo, nella costante riflessione su una possibile ricongiunzione con la madre.
Decisamente consigliato per gli appassionati di cucina giapponese. Come afferma Ichiko nell’episodio dedicato all’autunno, “nel periodo in cui gli alberi cambiano colore, le castagne candite diventano protagoniste”. Un invito da cogliere al volo, no?
Lorenzo Leva
Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.
Contatti:
lorenzo.leva@gmail.com
Kintsugi - L'arte di riparare l'arte
Kintsugi (dal giapponese kin 金 (oro) e tsugi 継ぎ (riparare) è una tecnica artistica giapponese nata alla fine del 1400 con la quale si utilizza l'oro - o un altro metallo prezioso - per saldare insieme frammenti di un oggetto rotto. Dalla sua terra d'origine, il Giappone, si è rapidamente diffusa in tutto il mondo. Anche in Italia, naturalmente, è conosciuta e apprezzata. Scopriamola insieme.
Kintsugi è una tecnica artistica ideata alla fine del 1400 da ceramisti giapponesi per riparare tazze tenmoku in ceramica per la cerimonia del tè (Cha no yu). Le linee di rottura, unite con lacca urushi, sono lasciate visibili, evidenziate con polvere d’oro. Gli oggetti in ceramica riparati con l’arte kintsugi, diventano vere opere d'arte. Impreziosirle con la polvere d'oro ne accentua la loro bellezza, rendendo la fragilità un punto di forza e perfezione.
L’arte kintsugi vede la sua origine in Giappone nel periodo Muromachi, sotto lo shogunato di Ashikaga Yoshimasa (1435-1490). Yoshimasa ruppe una delle sue tazze tenmoku che venne affidata a ceramisti cinesi che la cucirono, seguendo le linee di rottura, con graffe in ferro. Furiosa fu la reazione dell'ottavo shogun quando vide la sua tazza così rovinata. I maestri ceramisti giapponesi cercarono di mettervi riparo usando l'estetica del wabisabi e i materiali a loro disposizione. Per incollare i pezzi rotti del tenmoku venne usata la lacca urushi; le linee di rottura vennero ricoperte con polvere d'oro. Il risultato ottenuto fu apprezzato da Yoshimasa: la sua tazza non solo era stata riparata ma aveva preso una vita nuova, carica delle sue imperfezioni e proprio per questo ricca di bellezza: era diventata unica.
Kintsugi è una tecnica complessa: abbisogna di elevata manualità e di precisione, nonché calma e pazienza. I materiali usati sono la lacca urushi, estratta dalla pianta autoctona Rhus Verniciflua (tomoko), farina di riso o di grano, polvere d'oro, bronzo e argento. Il processo di essiccazione della lacca, che viene usata e come collante per la ceramica e come collante per la polvere d'oro, avviene nel muro, un ambiente caldo (20°) con umidità relativa intorno al 70-90%. Il tempo di essiccazione varia da tre giorni a una settimana. Le linee di rottura prima stuccate e carteggiate, vengono rifinite con lacca urushi rossa a pennello su cui si lascia cadere la polvere d'oro.
L'arte kintsugi non è solo un concetto artistico ma ha profonde radici nella filosofia Zen; partendo dal wabisabi, tre sono i concetti in essa racchiusi: mushin, impermanenza (o anicca) e mono no aware. Mushin, senza mente, è un concetto che esprime la capacità di lasciare correre, dimenticando le preoccupazioni, liberando la mente dalla ricerca della perfezione. Anicca si traduce con impermanenza; l'esistenza, senza eccezioni, è transitoria, evanescente e inconstante: tutte le cose sono destinate alla fine. Accettare tale condizione è avere un approccio sereno e consapevole della vita.
Mono no aware, empatia verso gli oggetti, è una malinconia triste e profonda per le cose; apprezzandone la loro decadenza si arriva ad ammirarne la bellezza.
Chiara Lorenzetti
https://www.kintsugi.chiaraarte.it
Intervista a Hiromi: "La mia casa è il palcoscenico"
Hiromi Uehara è una delle pianiste giapponesi più famose e apprezzate. Autrice di uno stile jazz personalissimo, si distingue - oltre per la capigliatura "esplosiva" - per l'energia che mostra sul palco e per il suo uso assolutamente non convenzionale dello strumento pianoforte. L'abbiamo raggiunta nel backstage del Blue Note di Milano, in occasione del suo concerto dello scorso 7 ottobre, per farle qualche domanda e conoscerla meglio. Ecco cosa ci ha raccontato!
Ciao, Hiromi! Benvenuta su Giappone in Italia. Come stai?
Bene! Grazie per l'intervista!
Iniziamo subito. Sei venuta tante volte a suonare in Italia. Cosa ne pensi del nostro paese? Com'è suonare qui?
È davvero un paese meraviglioso. C'è tanta passione per la musica, che dimostrate continuamente. Il pubblico italiano è molto emotivo e caloroso e questo lo si sente sul palco. In più in Italia avete un'ottima cucina. Musica e cucina sono le mie due più grandi passioni, quindi è proprio il paese che fa per me. [ride]
Come sta andando il tour con Edmar Castañeda?
Sta andando benissimo. Sai, quando la gente sente parlare di un duetto di piano e arpa, prima di sentirci suonare, spesso si chiede "Piano e arpa? Insieme? Cosa possono offrire?". È davvero una combinazione unica, che molte persone non hanno mai avuto modo di ascoltare. Poi, quando arrivano allo show, si sorprendono di quello a cui stanno assistendo. Probabilmente non si aspettano che un'arpa possa venire suonata in quel modo. Nemmeno io me lo immaginavo prima di conoscere Edmar. [ride] Ed è stupendo assistere alle loro reazioni. Prima sono quasi shockati, poi lo stupore lascia spazio alla gioia. È quello che succede quando si scopre qualcosa di totalmente nuovo. Come in un'avventura.
Quando è iniziata la vostra collaborazione?
Ci siamo conosciuti nel 2016 a Montreal, dove ci siamo trovati a condividere il palco. Era la prima volta che lo vedevo e sono rimasta a bocca aperta sentendolo suonare. E anche per lui è stato lo stesso. Mi ha sentito suonare per la prima volta ed è rimasto molto sorpreso. Ci siamo scambiati i contatti con la promessa di suonare insieme poi in futuro. Un mese dopo, avevo uno spettacolo al Blue Note di New York, così l'ho invitato a suonare come special guest. Si è creata una connessione magica così ci siamo detti "dobbiamo assolutamente andare in tour insieme!".
Pensi anche che la musica che suonate abbia finito per influenzarvi reciprocamente?
Oh, sì. Naturalmente. È normale quando passi tanto tempo con una persona influenzarsi a vicenda.
La tua musica è molto ricca e variegata. Si possono riconoscere tantissime influenze. Quali sono le tue maggiori fonti di ispirazione?
Ce ne sono troppe! [ride] Tutti quelli che ci sono sui muri del Blue Note, hai visto le foto? [ride] [Ndr: Hiromi si riferisce alle gigantografie di numerosi musicisti jazz che adornano le pareti del locale]. Vedi, tutte le volte che ascolto della musica, imparo qualcosa di nuovo. I primi due pianisti che ho ascoltato, quando a otto anni prendevo lezioni di pianoforte, sono stati Errol Garner e Oscar Peterson. Entrambi mi hanno insegnato un'importante lezione, quando si parla di improvvisazione. Sono anche andata in tour con Peterson, anche se non abbiamo mai suonato insieme. È stata una grande emozione.
Puoi descriverci il tuo processo creativo? Da cosa trai ispirazione per nuove idee, quando stai scrivendo dei nuovi brani?
Tento di scrivere nuova musica tutti i giorni, proprio come se stessi tenendo un diario. È come se la mia musica fossero le parole del mio diario. Voglio sempre scrivere e così cerco continuamente nuove esperienze che possano emozionarmi e che possano essere fonte d'ispirazione.
Hai intenzione di collaborare con altri artisti in futuro?
Naturalmente. Non so ancora chi sono destinata a incontrare o quando, ma so che saprò riconoscerlo all'istante non appena inizierà a suonare. E quando inizieremo a collaborare è come se suonassimo insieme da sempre.
Sei sempre in tour in giro per il mondo, viaggiando da un continente all'altro. In che modo questo stile di vita influenza la tua sfera personale?
La mia vita personale? Ma la trascorro tra hotel e aerei. [ride]. Non posso certo dire che sia una vita facile, sempre in viaggio. Ma amo esibirmi nei miei show, è il momento in cui mi sento più viva. Ogni volta che salgo su un palcoscenico diverso, appena vedo il mio pianoforte, è come se fossi a casa mia. È una sensazione che cerco di trasmettere anche a chi mi ascolta. Voglio poter dire al mio pubblico "Benvenuti a casa di Hiromi!".
Ultima domana. Sei giapponese: pensi che la cultura o la tradizione musicale del tuo paese abbiano mai influenzato la tua musica?
È una cosa a cui non ho mai pensato. Sicuramente non cerco di inserire artificiosamente nella mia musica elementi che possano far dire "è una pianista giapponese" ma, allo stesso tempo, penso che ci siano delle caratteristiche intrinseche alla mia musica che derivano dal mio "essere giapponese" e che la gente riconosce come tali. Per esempio, quando incontro una persona nuova, mi inchino. Ma non è per far vedere che sono giapponese, ma semplicemente perché sono giapponese e inchinarsi è una conseguenza. Sono fatta così. La "giapponesità" è dentro di me e di conseguenza nella mia musica, anche se non voglio inserirla forzatamente. Dovete solo trovarla! [ride] Non voglio né nascondere, né mettere in mostra la mia giapponesità. Sono così. Sono Hiromi.
Grazie per quest'intervista, Hiromi. È stata davvero interessante. Vuoi lanciare un messaggio ai nostri lettori prima di salutarci?
Ogni cultura è straordinaria e ogni cultura è differente. Ad esempio, l'Italia e il Giappone sono estremamente diversi, ma ci sono tanti aspetti in comune. Dobbiamo cercare di mettere in evidenza gli aspetti migliori di ogni cultura.
Kuniyoshi - Visioni dal mondo fluttuante
Dal 4 ottobre 2017 al 28 gennaio 2018 a Milano presso il Museo della Permanente si terrà la prima mostra monografica italiana del maestro giapponese, Kuniyoshi, il visionario del mondo fluttuante. La mostra è prodotta da MondoMostre Skira e curata da Rossella Menegazzo. Cogliamo l'occasione per un approfondimento sulla vita e sull'opera del maestro.
Utagawa Kuniyoshi (Tokyo 1797-1861) fu uno dei più grandi, schietti e audaci maestri di ukiyo-e ("immagini del mondo fluttuante"), la tradizionale arte della stampa giapponese. Il giovane Yoshisaburo, questo il suo vero nome, proveniva da una famiglia umile. Il padre era un tintore di seta grazie al quale egli poté conoscere i colori e sviluppare la sua passione per il disegno.
Dopo un breve periodo sotto gli insegnamenti del maestro Katsukawa Shuntei, della scuola di ukiyo-e Katsukawa, Yoshisaburo nel 1811 passò alla più prestigiosa scuola di Utagawa, sotto la quale anche lo stesso grande paesaggista Utagawa Hiroshige si formò. Il suo maestro fu Utagawa Toyokuni , grande artista che si dedicò in particolare alle stampe legate al teatro Kabuki e ai ritratti degli attori stessi. Sotto la sua guida Yoshisaburo imparò molto e cambiò il suo nome, come da tradizione, diventando Kuniyoshi, unendo l'ultima parte del nome del maestro con la prima del suo e assumendo il cognome della scuola.
Finiti gli studi per il giovane artista incominciò un periodo difficile in cui non potendo mantenersi della sua arte fu costretto a fare diversi lavori tra i quali vendere e riparare tatami. All'età di 30 anni finalmente venne notato e apprezzato il suo talento grazie alle stampe che egli dedicò ai 108 eroi del Suikoden.
Le storie legate a questi eroi hanno origine da un romanzo cinese del XIV/XV secolo circa, che qui in Italia è conosciuto con il titolo di I Briganti; si tratta delle vicende di uomini che si ribellarono al governo corrotto e che andando contro le leggi diventarono manigoldi e briganti, ma che, come l'occidentale Robin Hood, la loro scelta fu in favore di ideali giusti e di libertà sia per loro che per il loro popolo, costituendo l'unica forma di giustizia contro le malefatte dei tiranni. Queste storie simboliche furono sentite molto anche dai giapponesi in periodi particolarmente difficili per il popolo.
Il maestro grazie a queste opere e ad altre legate a tematiche simili venne chiamato "Kuniyoshi delle stampe dei guerrieri", dimostrando un grande talento per le tecniche dell'ukiyo-e e per il disegno, rappresentando i suoi protagonisti in una spirale di colori e di forme con una scioltezza dei corpi che apparivano come in un groviglio di carne e di vesti dove la drammaticità e l'energia delle battaglie ne facevano da padroni, trasportando l'osservatore nel vivo del racconto.
Dopo che ebbe raggiunto il successo Kuniyoshi iniziò ad occuparsi anche di altri temi come le rappresentazioni di vita quotidiana e di scenette comiche, oppure attingeva alle storie e alle leggende di fantasmi e di spiriti di cui il Giappone ha una ricca tradizione creando un repertorio vasto e dinamico nelle sue varie composizioni. Kuniyoshi si occupava anche di illustrazioni più classiche come le rappresentazioni legate al teatro Kabuki oppure all'affascinante mondo femminile giapponese. Spesso legava questi soggetti alla figura del gatto: un animale che l'artista amava molto e che lo ammaliava con il suo essere così furbo e misterioso.
Il gatto in Giappone gode di grande considerazione. Basti pensare al famoso Maneki Neko (lett. "gatto che da il benvenuto") dalle origini molto antiche e riconosciuto da tutti come icona nipponica, che con la sua zampetta saluta i passanti invitandoli ad entrare nei negozi o nei ristoranti, quindi considerato simbolo di fortuna. Oppure è interessante notare come la figura del gatto nei miti giapponesi prenda le forme particolari di due demoni (yokai): il Nekomata ("gatto a due code") e il Bakeneko ("gatto mstruoso"), gatti dalle capacità straordinarie e sovrannaturali.
Kuniyoshi rappresenta frequentemente queste creature in varie forme e in diversi attegiamenti come se volesse carpirne i loro segreti. Addirittura il maestro ospitava molti di essi nel suo studio e capitava che lavorasse alle sue opere con qualche gatto pigramente accoccolato tra le pieghe del suo Kimono.
Kuniyoshi fu un uomo schietto e concreto nei suoi principi e nei suoi ideali. Anche dopo aver raggiunto la fama non si montò mai la testa e nelle sue opere rimase sempre molto sincero. Visse la sua pienezza da artista in un periodo in cui il Giappone si trovava in una situazione di pace coercitiva mantenuta dal severo controllo dello Shogunato Tokugawa che, però, da lì a poco sarebbe finita con l'apertura forzata dello stato nipponico all'occidente (1854). Kuniyoshi espresse sempre il suo parere politico nelle opere a tema satirico andando spesso contro le autorità, venendo multato e qualche volta vedendosi punito con la distruzione dei suoi lavori.
Utagawa Kuniyoshi fu uno degli ultimi e più grandi maestri di ukiyo-e, con un'opera vasta e visionaria nell'infinità della sua immaginzione, che egli riusciva a distribuire sullo spazio del foglio con una tecnica eccellente e una libertà di spirito invidiabile. Il maestro scomparve nell'aprile del 1861 a causa delle cattive condizioni di salute in cui si trovava, lasciando una grande eredità artistica e una scuola molto affermata, in cui si formò Utagawa Yoshitoshi, suo amato allievo e ultimo grande maestro di ukiyo-e.
Cristina Solano
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