Geisha - Le origini
La parola Geisha per noi occidentali evoca l’immagine della bella bambolina dal kimono sgargiante, che sorride accanto ad un ciliegio in fiore o ad una pagoda. Un simbolo, come può esserlo il Kinkakuji o il monte Fuji. La realtà è molto più complessa e cercherò in questo mio scritto di descrivere le varie fasi della vita di una Geisha, dal suo ingresso nell’Okiya, fino al raggiungimento della sua maturità professionale.
Origini Geisha
Se è vero che le Geisha non sono prostitute, è anche vero che questa figura storica del Giappone nasce da un particolare modo di vedere le donne da parte degli uomini giapponesi del 1600. La donna era inferiore all'uomo nella società, i matrimoni erano combinati dalle rispettive famiglie e la moglie diventava una domestica che viveva insieme a lui e ai suoi genitori, il cui compito principale era quello di concepire un figlio.
La figura della cortigiana nasce dunque per la soddisfazione sessuale dell’uomo e vi erano vari tipi di classi di cortigiane in base alla loro bellezza e raffinatezza.
La figura della Geisha nascerà invece per soddisfare un desiderio non per forza sessuale ma anche, e a mio avviso, soprattutto, di corteggiare una donna, di poterla frequentare e forse conquistare. La donna nel minuscolo mondo delle Geisha, non sarà solo un oggetto sessuale ma più che altro una persona di piacevole compagnia. Esperta nelle arti tradizionali e capace di intrattenere brillanti conversazioni, al contrario di quanto si pensa, la Geisha è un personaggio apparso solo di recente nella storia del Giappone.
Molti sono i personaggi che nei secoli hanno contribuito a far nascere questa figura leggendaria, ormai simbolo del suo paese. A partire dalle Saburuko del periodo Nara, alle danzatrici Shirabyoshi del periodo Kamakura fino alle cortigiane del primissimo periodo Edo. Un minimo comune denominatore le unisce, erano tutte donne forti, con una gran voglia d’indipendenza.
SABURUKO
Saburuko significa “persona che serve” e sono il risultato del cambiamento della società alla fine del 7° secolo. Molte donne dovettero prostituirsi per sopravvivere. La maggior parte di queste donne proveniva dal basso ceto, ma c’erano fra queste molte donne istruite e di talento, provenienti famiglie benestanti cadute in povertà.
Queste in particolare erano ballerine o cantanti e spesso venivano invitate per intrattenere e servire gli aristocratici. Fra la fine del periodo Heian e l’inizio del periodo Kamakura la storia si ripete. Nascono le danzatrici Shirabyoshi.
SHIRABYOSHI
白拍子Shirabyoshi è il nome di un tipo di danza praticato da giovani donne provenienti da famiglie aristocratiche cadute in povertà e che, per sopravvivere hanno cominciato a danzare.
Essendo esperte musiciste, ballerine o cantanti, erano spesso ospiti di aristocratici come i Fujiwara e i Taira
Le danzatrici Shirabyoshi si vestivano in stile Shinto con un cappello da uomo, una spada ed eseguivano danze per i Kami, le divinità giapponesi. Recitavano inoltre ballate basate su preghiere buddhiste.
Le più famose erano Kamagiku, concubina dell’imperatore in ritiro a Gotoba, e Shizuka Gozen, concubina di Minamoto No Yoshitsune.
La storia di Shizuka Gozen è molto triste. Lo Shogun Yoritomo ordinò l’assassinio del fratello Yoshitsune, al quale lei era legata, perchè credeva che volesse, grazie alla sua popolarità, salire al trono al suo posto. Lei venne dunque arrestata e quando Yoritomo si accorse che era incinta, attese la nascita del figlio e, scoperto che era un maschio, lo uccise per evitare eredi che potessero vendicarsi. Yoshitsune fu catturato e ucciso a Kamakura. Yoritomo volle Shizuka accanto a se quando gli portarono la sua testa, poi la costrinse ad esibirsi per lui e sua moglie. Lei danzò, dedicando però la sua esibizione all’amato. Una volta liberata, la giovane Shizuka, allora solo 18enne, entrò in convento. Morì di crepacuore nel 1189.
Se 芸 Gei di Arte e 者 Sha di persona, significano Artista, forse possiamo definire le danzatrici Shirabyoshi le prime Geisha in assoluto. Donne che, per sopravvivere, reinventarono se stesse. Forti e indipendenti, in un’epoca in cui le donne non potevano esserlo.
Articolo di Francesca Gambera.
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Tōdaiji - Il grande tempio di legno di Nara
Il Tōdaiji (東大寺, Grande tempio orientale) è uno dei più grandi templi del Giappone: costituisce infatti la più grande struttura lignea mai costruita. Edificato intorno al 752 d.C, il tempio rappresentava il punto di riferimento per tutti i santuari buddisti sparsi per il territorio giapponese. Sebbene le dimensioni attuali rappresentino solo due terzi dell'estensione nel periodo di massimo splendore (terremoti e incendi non sono stati caritatevoli), il Tōdaiji rimane una struttura dalle dimensioni colossali che custodisce al suo interno un vero tesoro.
Nandaimon
L'ingresso principale al Tōdaiji è il Nandaimon, la Grande porta del Sud. L'originale del periodo Nara è stato distrutto da un tifone, e infatti questo portale è una ricostruzione del periodo kamakura. Il portale di legno non è solo sorvegliato dai numerosissimi cervi che vagano per il santuario, ma anche da due guardie d'eccezione. Disposti nelle logge laterali si trovano infatti due Ni-ō, i due re guardiani del Nandaimon. Le statue colossali (più di 8 metri d'altezza) secondo la tradizione sarebbero state realizzate in soli 69 giorni, in un incredibile sforzo creativo. Il loro aspetto guerresco e l'espressione spaventosa si addicono perfettamente alla loro natura di guardiani.
Daibutsuden
All'interno del Daibutsuden (Sala del grande Buddha) si trova la più grande statua in bronzo di tutto il Giappone, il Daibutsu (大仏), ossia la statua del Buddha Vairocana. Alta ben 15 metri, si narra che per la costruzione di queste 440 tonnellate di scultura vennero consumate tutte le risorse di bronzo del paese e che in seguito questo materiale scomparve per secoli prima di poter essere riutilizzato. La colossale effige del Buddha è accompagnata da altre sculture che adornano la sala centrale. Davanti al Daibutsuden si trova la famosa lanterna ottagonale, costruita in contemporanea al santuario. La lanterna, dalla tipica forma a pagoda, poggia su una base di pietra. I pannelli presentano bellissime immagini di musicisti.
Chiosco del Tōdaiji
Il daibutsuden è preceduto da un vastissimo chiosco e da un gigantesco portale, il chūmon o portale principale; un tempo, ai due lati dell’edificio, esistevano due spettacolari pagode a cinque piani che purtroppo andarono distrutte in uno dei molti incendi da cui l’antica capitale fu flagellata nel corso della sua storia. Il chiosco consiste di una vasto camminamento centrale che conduce al daibutsuden, circondato da verde, alberi e dalla mura che abbracciano gli edifici del complesso. Nei pressi del chiosco è possibile trovare la Torre della Campana, una struttura in legno risalente al primo decennio del 1200 che ospita al suo interno un'enorme campana di circa 26 tonnellate.
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Tanabata, la festa delle stelle innamorate - Tra mito e tradizione
Tra le numerose ricorrenze del Paese del Sol Levante, particolare importanza è riconosciuta ai gosekku, cinque feste molto sentite che scandiscono, nel corso dell'anno, i cambi di stagione e i periodi di raccolto. Tra queste, la festa di Tanabata è sicuramente una delle più amate e costituisce ancora oggi un appuntamento importante nelle estati giapponesi.
Storia del Tanabata
Come gli altri gosekku, le origini culturali del Tanabata sono da cercare nella tradizione cinese dove viene celebrata una ricorrenza simile nello stesso periodo, chiamata Qixi. Il Giappone del periodo Nara (710-784), succube dell'influenza culturale cinese, tra l'VIII e il X secolo iniziò a importare numerose festività e tradizioni dal continente, tra le quali anche il Tanabata. Tradizionalmente, l'introduzione di questa festa in Giappone è attribuita all'Imperatrice Koken, nel 755 d.C. Nonostante le origini antichissime, la festa di Tanabata diventa popolare soprattutto all'inizio del periodo Edo (1603-1868). Prima era festeggiata soprattutto all'interno della corte imperiale. È proprio in questo periodo che nel Tanabata confluiscono molte delle tradizioni e delle usanze tipiche dell'Obon, un'altra festa nipponica che cade il 15 agosto. Per la vicinanza temporale, le due ricorrenze hanno finito per influenzarsi reciprocamente.
Mitologia del Tanabata
Le origini culturali del Tanabata sono comunemente ricondotte alla leggenda delle divinità Orihime e Hikoboshi, personificazioni delle stelle Vega e Altair. Orihime, la principessa tessitrice, figlia dell'Imperatore Celeste, Tentei, dedita a cucire gli abiti degli dei; Hikoboshi giovane pastore, a guardia delle greggi del cielo. Vedendo sua figlia triste, Tentei decise di farle incontrare l'altro ragazzo, affinché i due potessero sposarsi. Tra loro fu amore a prima vista e i due giovani si abbandonarono alla passione, dimenticandosi dei rispettivi compiti. Ne conseguì che nessuno più cuciva gli abiti per le divinità e i buoi di Hikoboshi, senza nessuno che li controllasse, scorrazzavano sfrenati per i pascoli celesti. Rei di non aver assolto i propri doveri, Tentei decise punire i due amanti, costringendoli a non vedersi mai più, separati dal fiume della Via Lattea. Solo per un giorno all'anno, tuttavia, a Orihime e Hikoboshi fu permesso di potersi rincontrare, attraversando il fiume celeste. E quel giorno è proprio Tanabata.
Tradizioni e Usanze
Tradizionalmente, la festa viene celebrata il settimo giorno del settimo mese. La data stabilita per il Tanabata è dunque il 7 luglio. In realtà, quest'usanza è relativamente recente, visto che è solo con l'introduzione del calendario gregoriano - alla fine dell' '800 - che il settimo mese è luglio. Prima, secondo il tradizionale calendario lunisolare nipponico, che fa iniziare l'anno da febbraio, il settimo mese era agosto, ed è per questo motivo che in molte località del Giappone i festeggiamenti sono"rimandati" di un mese. Inoltre, la sua presenza in agosto aiutava maggiormente gli agricoltori a identificare i periodi di raccolto. Per questo motivo, il Tanabata continua a essere festeggiato ad agosto soprattutto nelle zone rurali.Tra le molte tradizioni del Tanabata, la più famosa è senza dubbio l'usanza di scrivere i propri desideri su alcune striscioline di carta, chiamate tanzaku, e di appenderle ai bambù. Si pensava che l'unione ben augurante delle due divinità avrebbe senza dubbio aiutato i desideri a realizzarsi.
L'usanza di scrivere su striscioline di carta deriva dal fatto che, in epoca Edo, i bambini in occasione del Tanabata esprimevano il desiderio di migliorare la propria calligrafia e di conseguenza si allenavano scrivendo vari caratteri su piccoli ritagli di carta. Le bambine, invece, erano solite chiedere più bravura nei lavori manuali.Tra le altre decorazioni tipiche della festa, sono le lanternine di carta (zen-washi), i kimono di carta (kamigoromo) e i fukinagashi (filamenti di carta) che richiamano i fili degli abiti tessuti da Orihime. Molte città giapponesi si trasformano radicalmente in vista del Tanabata. Tra le celebrazioni più sfarzose, c'è sicuramente quella di Sendai. La città viene addobbata da più di 5.000 decorazioni che abbelliscono le strade per i tre giorni in cui dura la festa (dal 6 all'8 agosto), e i festeggiamenti sono preceduti da un attesissimo spettacolo pirotecnico.
Tanabata in Italia - 2018
In questo articolo vi proponiamo tutti gli eventi Tanabata organizzati in Italia e previsti per il 7 luglio.
Tanabata in Italia - Luglio 2018
Il 7 luglio in Giappone si festeggia il Tanabata, celebrazione tradizionale legata alle stelle. Per scoprire le origini storiche e mitologiche della festa vi rimandiamo a questo articolo.
Anche quest'anno in Italia sono stati organizzati alcuni eventi nelle maggiori città per trasmettere lo spirito del festival Tanabata.
Milano
Presso il Civico Planetario di Milano si terrà l'incontro Tanabata. La festa delle stelle innamorate, patrocinato dal Consolato Generale del Giappone a Milano e dal Planetario Gingaza di Tokyo. L'evento si propone di approfondire le radici mitologiche di questa festa attraverso l'analisi astronomica della Dott.ssa Chiara Pasqualini.
QUANDO: sabato 7 luglio, in due spettacoli, alle 15:00 o alle 21:00
DOVE: Civico Planetario di Milano
PER MAGGIORI INFORMAZIONI: pagina dell'evento
Firenze
Villa Vogel a Firenze ospiterà uno splendido festival organizzato dall'Associazione Culturale Lailac: due giornate di workshop, giochi di ruolo, degustazioni, esibizioni musicali e riti tradizionali.
QUANDO: sabato 7 luglio e domenica 8 luglio dalle 17:00 alle 23:00
DOVE: Villa Vogel
PER MAGGIORI INFORMAZIONI: pagina dell'evento
Bergamo
L'Associazione Kokoro propone un Tanabata Matsuri presso il ristorante Gu' di Bergamo. Oltre alle degustazioni di cibo e bevande, tornei, laboratori e piccoli spettacoli teatrali, oltre alla tradizionale vestizione Yukata e dimostrazioni di Shodo.
QUANDO: sabato 7 luglio dalle ore 17:00
DOVE: ristorante Gu' di Bergamo
PER MAGGIORI INFORMAZIONI: pagina dell'evento
Casale Monferrato
La Festa delle stelle innamorate organizzata dall'Associazione Culturale Yamato permetterà a tutti i partecipanti di scrutare il cielo con dei telescopi e di decorare i propri Tanzaku. L'evento avverrà sullo sfondo del Castello di Casale Monferrato.
QUANDO: sabato 7 luglio, dalle ore 20:30 alle 23:30
DOVE: Castello di Casale Monferrato (Piazza Castello)
PER MAGGIORI INFORMAZIONI: pagina dell'evento
Genova
Il Museo d'Arte Orientale Edoardo Chiossone organizza una serata di workshop e laboratori per celebrare il Tanabata. A partire dalle 17:30 di sabato 7 luglio, presentazioni e discussioni termineranno con la produzione di Tanzaku da decorare.
QUANDO: sabato 7 luglio, dalle ore 17:30 alle 19:30
DOVE: Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone (Piazzale Giuseppe Mazzini, 4)
PER MAGGIORI INFORMAZIONI: pagina dell'evento
Penne del Sol Levante - Nipponia Nippon di Abe Kazushige
Benvenuti all’appuntamento con la rubrica letteraria Penne del Sol Levante! Oggi parliamo di uno scrittore ben poco conosciuto in Italia, ma già un colosso in Giappone, Abe Kazushige e il suo romanzo Nipponia Nippon.
Il libro narra la storia del diciottenne Toya Haruo, un ragazzo problematico e mentalmente squilibrato, che decide di escogitare un grande piano per uscire dall'anonimato di una vita insignificante. La sua idea è semplice quanto ben congeniata: raggiungere il Centro per la salvaguardia dell'ibis crestato giapponese (nome scientifico Nipponia Nippon) sull'isola di Sadogashima e liberare o sterminare gli ultimi esemplari rimasti. Le due alternative, diverse quanto efficaci, permangono vive nella sua mente fino agli ultimi giorni. Indeciso, Haruo, non sa come comportarsi con gli uccelli e l'unica sicurezza che ha è di voler cambiare l'ordine delle cose. Entrambe le soluzioni gli paiono ottimi metodi per diventare famoso, solo alla fine deciderà il destino degli ibis.
Haruo si sente molto legato, in via eccezionale, con questi volatili. Questo perché un giorno, quando frequentava ancora le medie, aveva scoperto che il primo carattere cinese del suo nome si poteva leggere anche come toki, altro nome dell'animale. Questa scoperta lo lega indissolubilmente agli ibis, si convince così che il loro destino sia unito e condiviso.
Seguono mesi oscuri in cui il piano si fa strada nella sua mente, fino a concretizzarsi sempre di più. Ormai Haruo vive da solo a Tokyo, allontanatosi forzatamente dalla cittadina natale e dai suoi genitori dopo un misterioso incidente scolastico. Il ragazzo, ritrovatosi completamente solo e isolato nel nuovo appartamento, inizierà a preparare il suo piano e il viaggio fino a Sadogashima, con puntualità e grande attenzione.
Ogni minimo dettaglio dovrà essere perfetto e lui prende in esame ogni inconveniente possibile, così da trovarsi preparato a tutte le evenienze. Decide anche una data ben precisa: il 14 ottobre, sei mesi dopo il suo diciottesimo compleanno. E' convinto che tutti lo saluteranno come un eroe, aprendo finalmente gli occhi di fronte a quella grande mistificazione che è la questione Nipponia Nippon, come lui l'ha soprannominata sul suo diario.
Se volete saperne di più sul romanzo e su Abe Kazushige venite a leggere la recensione completa su Penne d’Oriente! Buona lettura!
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Penne del Sol Levante - Il segreto della longevità di Junko Takahashi
Benvenuti alla rubrica settimanale Penne del Sol Levante, dedicata al mondo del libro in Giappone. Oggi parliamo di un saggio d’inchiesta, un testo composto da interviste, Il Segreto della longevità della giornalista Junko Takahashi, edito da DeAgostini.
L’autrice ha affrontato il tema degli ultracentenari in Giappone ( più di 65.000 nel 2016) attraverso le interviste, ed è così che scopriamo vite davvero straordinarie. Io sono rimasta letteralmente affascinata e sgomenta nel leggere di queste esistenze eccezionali. Come quella di Tsuneko Sasamoto, nata nel 1914 e prima fotoreporter giapponese negli anni '30, che opera e lavora ancora oggi. Di recente la sua ultima mostra fotografica ha richiamato visitatori da tutto il mondo. O ancora la storia di Hidekichi Miyazaki che, a 106 anni, detiene il primato mondiale nella sua categoria per i cento metri piani e può vantare trentadue medaglie d'oro ai campionati atletici asiatici e giapponesi. Saneyoshi Noh (98 anni) vive su un'isola dell'arcipelago Amami e coltiva il suo campo di canna da zucchero da un ettaro, senza l'ausilio di nessuno e con gioia, dalla mattino sino al tramonto. Tomishige Shimizu di 100 anni, appassionato di pesca e di pittura, si occupa della casa a tempo pieno e della moglie malata. Questi sono soltanto alcuni esempi di come vivano queste persone, la giornalista ha raccolto molte altre testimonianze sullo stile di vita degli ultracentenari. Quello che se ne deduce è che, infine, non esista un insieme di regole ferree o uno schema prestabilito da poter seguire per vivere in salute fino a cento anni. Non c’è alcuna posizione magica, ma soltanto un’insieme di comportamenti positivi, che sono assolutamente da imitare. Il rispetto per se stessi, per chi ci circonda e per la natura tutta, mangiare ciò che si vuole ma senza mai esagerare, trasformare ogni buona occasione della vita in un modo per migliorarsi, non arrendersi mai, pensare sempre positivo e non farsi trascinare a fondo dagli eventi tragici della vita. E questi ultracentenari lo sanno molto bene, hanno vissuto la seconda guerra mondiale, le bombe atomiche, l’occupazione americana, la recessione. Ma, tramite le loro parole, si capisce subito che non si sono mai dati per vinti, nemmeno nelle situazioni più disperate che si sono trovati ad affrontare.
Una frase che mi sono segnata e che mi ha colpito particolarmente è stata "Se si tenta si può fare tutto, se non si tenta non si può fare niente", pronunciata da Mieko Nagaoka (102 anni, annovera venticinque record mondiali e ventotto record nazionali per il nuoto, tutti presi dopo gli ottantacinque anni...tanto per dire!). Credo che questo motto riassuma perfettamente lo stile di vita, e sopratutto il modo di pensare, di questi uomini e donne straordinari. Ma, se volete saperne di più, venite a leggere la recensione completa su Penne d’Oriente. Buona lettura amici e..una lunga vita!
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Penne del Sol Levante - Il violoncellista Goshu e altri racconti
Benvenuti alla rubrica settimanale Penne del Sol Levante, oggi parliamo dell’autore classico Miyazawa Kenji e della sua raccolta di racconti.
Famoso per le sue storie dedicati ai bambini, ne ritroviamo alcune in questo libro. Ne Il violoncellista Goshu facciamo la conoscenza di un suonatore di violoncello, appunto, che suona nell’orchestra del paese. Purtroppo è negato a suonare e tutti lo deridono, tenendolo in disparte. Una sera,, tornato a casa dopo le prove, Goshu prosegue ad esercitarsi per ore e ore con l’intento di migliorarsi il più possibile. I suoi tentativi verranno però interrotti ripetutamente, notte dopo notte e da individui davvero inaspettati. La prima notte sarà la volta di un gatto maculato, poi di un cuculo, di un cucciolo di procione e infine di un topino di campagna. Tutti questi animali richiedono a Goshu, in un modo o nell’altro, di suonare per loro che sono grandi amanti del suo violoncello. Il finale inaspettato fa sorridere e per i bambini è una favola dal finale lieto.
Le altre due storie, Il bosco del Parco Kenju e Il generale della guardia del Nord e i tre fratelli medici raccontano rispettivamente di un bambino e di un importante soldato. Nel primo scritto conosciamo il piccolo Kenju che vuole a tutti i costi piantare centinaia di piantine di cedro nel parco sgombro vicino alla sua casa, in aperta campagna. La sua forza d’animo e il suo impegno verranno ripagati nel corso del tempo e anche decenni più tardi quel bosco rimarrà nel cuore di molti. L’ultimo testo, invece, ci narra l’arrivo nella città di Rayu di un grande generale. Questi, però, ha un grosso problema da risolvere: infatti non riesce più a scendere dal suo cavallo e per questo motivo cerca disperatamente l’ausilio di un dottore. Ne troverà ben tre ad aiutarlo!
Mirabile particolarità delle edizioni La Vita Felice è il testo giapponese a fronte, per i fortunati che leggono questa lingua il testo sarà doppiamente soddisfacente. Per saperne di più su questa raccolta (non solo di favole, ma anche di poesie) venite su Penne d’Oriente. Grazie e vi auguro una buona lettura per tutta la settimana!
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Kyōgen, l’antica farsa giapponese – scuole, teorie e addestramenti
Secondo articolo di approfondimento sul mondo del kyōgen, l'antica farsa giapponese. Dopo aver dato dei cenni storici di quest'antica arte performativa, questa volta analizzerò le scuole di questa arte tradizionale, le teorie di recitazione e le tecniche di addestramento.
Il processo di formazione del kyōgen come lo conosciamo oggi, era quasi completo verso la fine del periodo Muromachi (1392-1573), tuttavia raggiunse una struttura immobile e stabile durante il regime Tokugawa (1600-1867), con la standardizzazione dei testi.
Tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo si formarono le tre principali scuole di kyōgen: Ōkura 大蔵, Sagi 鷺 (ora scomparsa) e Izumi和泉. Originate da attori collegati al sarugaku e al dengaku della provincia di Omi 臣, spesso in competizione tra loro, furono portatrici di un professionismo attento e consolidarono la loro posizione di preminenza per un lungo periodo.
Durante il regime Tokugawa, il kyōgen raggiunse una condizione di stabilità, passando dalla pratica dell’improvvisazione su un canovaccio, ancora in uso nella prima decade del periodo Tokugawa, all’abitudine di servirsi di un testo fissato. Dopo di ciò, invalse pure l’abitudine di seguire una coreografia fissa di movimenti e di schemi di azioni. Tuttavia c’era più flessibilità del nō, per la natura più realistica del dialogo e per la necessità, tra la feroce competizione delle scuole, di mantenere un fresco ed originale senso dell’umorismo.
Satira sociale e humour controllato traspaiono nei rapporti dei personaggi che popolano il kyōgen, di cui l’astuto servo Tarō-kaja 太郎冠者 e il suo goffo signore feudale ne sono esempi, e dalle teorie sul kyōgen di Ōkura Toraaki大蔵虎明 (1597-1662) si evince un importante contributo per la comprensione dell’essenza del comico. Nella sua guida Waranbegusa 童子草(Note per i giovani), il libro più importante sulle teorie del kyōgen, datato al 1651, ma corretto e rivisto fino alla sua morte, Ōkura stabilì le regole della tradizione ortodossa, accettando i parametri di Zeami e riconoscendo il monomane物真似 , l’imitazione, come elemento principale del kyōgen.
Il monomane, nel caso specifico del kyōgen, era concentrato sull’uomo comune, sul mondo concreto, mantenendo sempre e comunque l’atmosfera solenne e raffinata creata dalle rappresentazioni nō che precedevano e seguivano la performance kyōgen; quindi erano bandite risate volgari e grossolane e realismi privi di gusto che avrebbero potuto offendere il pubblico nobile e colto del nōgaku. Nella teoria di Ōkura il nō rende visibile e concreto ciò che è invisibile ed astratto, mentre il kyōgen rende irreale il più concreto e reale dei mondi. Si delinea così, agli occhi degli spettatori, l’uomo comune, stilizzato e proiettato in un mondo di fantasia: trasportando sciocchi signori feudali e servitori intelligenti in un’ ‘altra’ dimensione, si scopre l’autenticità sotto il velo della beffa, purché non sia rappresentata con grossolanità e superficialità.
L’addestramento e l’estrema completa dedizione all'arte erano, e sono ancora oggi, fondamentali. La tradizione è trasmessa all'interno della famiglia, di generazione in generazione, rigorosamente fedele ai modelli 型 (kata), alla danza e ai movimenti peculiari di ogni scuola. Di padre in figlio o di nonno in nipote (come vedremo più avanti, esistono delle differenze anche per la trasmissione orale) vengono tramandati, senza mai scostarsi dalle antiche tradizioni di famiglia, modelli di eleganza controllata e stilizzata anche nelle imitazioni di ubriaconi, con minime o sostanziali differenze da scuola a scuola, ma comune a tutte è la regola di cancellare ogni traccia di oscenità e volgarità nella recitazione; per esempio, anche nel caso della rappresentazione dell’ubriacone, si indossano costumi ordinati e puliti. Inoltre, è di massima importanza l’interpretazione di una pura pantomima quanto più possibile limpida e chiara, data la mancanza di qualsiasi materiale scenico. Ad esclusione di pochi attrezzi bizzarri - un coperchio straordinariamente largo per bere litri di sake immaginario, un ventaglio per innumerevoli scopi espressivi - tutti gli altri oggetti nelle rappresentazioni non esistono, devono essere immaginati dallo spettatore, quindi l’attore deve sforzarsi con tutto se stesso nel mimare più precisamente l’oggetto da rappresentare: sia esso mimato in modo stilizzato od inscenato con onomatopeiche recitate dall'attore, l’oggetto deve prendere vita nella mente del pubblico. L’originale pantomima del kyōgen è anche una delle peculiarità che rendono questa forma di teatro altamente interessante.
Un particolare ruolo riveste poi la mimica facciale. Dato il gran numero di emozioni umane inscenate nel kyōgen, gli attori devono esprimere, a volte anche in modo stilizzato ed eccessivo, tutta la gamma di sentimenti, non solo attraverso i movimenti del corpo, ma anche con espressioni del viso, senza mai perdere di vista il gusto e l’eleganza. Al contrario gli attori dei drammi nō, nel caso debbano recitare dei ruoli senza maschera, rappresentano le emozioni dei personaggi con movimenti stilizzati o con precisi schemi di danza, senza far mai trasparire alcun sentimento dalla mimica facciale mantenendo costantemente un’espressione seria.
Al kyōgenshi serve infine una grande abilità acrobatica nell'esecuzione di ruoli di animali, interpretati soprattutto da giovani attori, ma pur sempre di notevole difficoltà perché è richiesta agilità, destrezza e predisposizione all'imitazione.
Il nuovo progetto teatrale “Italo Kyogen“, mira alla divulgazione del kyōgen classico e alla creazione di un nuovo paradigma nel panorama teatrale italiano, fondendo le strutture classiche della farsa giapponese, con testi moderni in italiano creati ad hoc e successi moderni giapponesi in traduzione, per far vivere al pubblico italiano un’esperienza quanto più immersiva nel teatro comico giapponese tradizionale.
Kyōto Monogatari - Sulla mostra di Alberto Moro
Da uno scatolone estraggo le foto e faccio nuove conoscenze. Mi saluta un ortolano con l’hachimaki in testa, circondato dai toni verdi, fucsia e brillanti delle sue bancarelle. Mi sorride un cuoco alto e smilzo che poi, negli scatti successivi, inizia la preparazione degli higashi, i dolci di zucchero usati nella cerimonia del tè, di colore rosa acceso. Inizio ad allestire la mostra e mi capitano in mano le foto all’interno del chashitsu, la casa da tè presso il museo dedicato all’artista Kansetsu Hashimoto, accanto a quelle del tempio della virtù, il Daitoku-ji, dove la stanza da tè si allinea con la disciplina della scuola Rinzai. E la disciplina ritrova le sue forme non appena tiro fuori dallo scatolone le immagini del teatro Nō, nate durante l’esibizione del maestro Tatsushige Udaka, erede di una delle più rappresentative famiglie della scuola kongō. E poi cos’altro? Con cambi di registro senza
smottamento, cui la cultura giapponese ci ha abituati, appaiono le foto scattate in un ristorante specializzato in udon. E infine abbraccio lei, Junko. Junko Sophie Okimoto, per essere precisi. Scorza fredda come la cornice, volto liscio come la superficie della carta fotografica, sorriso caldo come quando un tempo la polaroid la sputava fuori subito e fra le dita era ancora tiepida. Un tempo.
Ancora sillabo la parola ed esito come chi sta pensando una definizione, quand’ecco due ultime foto impreviste in mio aiuto. Non sono di questa mostra, ma di quella su Tōkyō, quella di novembre dell’anno scorso. Solo dopo abbiamo deciso di fare il bis e di raccontare della città di Kyōto. Le ultime due foto, però, dalla mostra passata, sono ancora in bianco e nero. I nonni del nostro attuale entusiasmo, quello che racconta della vecchia capitale giapponese attraverso il colore. E quindi, senza volerlo, un paradosso: la Tōkyō moderna, il pozzo di domani, brizzolata che sembra ricordo, letteratura noir, sembra metropoli suburbana e non ancora megalopoli, e dall’altra Kyōto, un imperatore reincarnatosi in cavalletta, distopia che dimentica la restaurazione Meiji, eppure non irreale, ma tutta presente. Che genere di storia stiamo per raccontare, allora?
La mostra Kyōto Monogatari di Alberto Moro, maggio-giugno 2018 presso il teatro Corte dei
Miracoli, in collaborazione con Giappone In Italia e l’associazione “La Taiga”, non è uno di quei monogatari (物語), e cioè “storia”, alla Genji, alla Heike. Pur negli ingredienti delle sue tradizioni – teatro Nō, cerimonia del cha-no-yu, spirito Zen – dimentica per un attimo l’epica e dai suoi due generi sommi di narrazione prende il tsukuri monogatari, le storie di finzione, e ci toglie il non verosimile conservandone la cronologia, ossia il presente attuale, e poi prende l’uta monogatari, i racconti poetici, facendo a meno della nostalgia ma salvandone il lirismo. E tutto questo per ricordarci una Kyōto che esiste ancora. Un pezzo di storia, sì, ma storia dai tempi verbali correnti, da presente storico cesariano, che a prendere l’aereo per andare a verificare non ci tradirebbe. Non storia di Kyōto, insomma, ma storia a Kyōto.
Dopo averci insegnato che Tōkyō, il colosso della varietà, ha un sottofondo monocromo che ci permette di orientare, Alberto Moro adesso ci rivela che Kyōto, sotto la pellicola dello stereotipo, pulsa ancora di colore.
Federico Filippo Fagotto
Penne del Sol Levante - Piccoli racconti di un'infinita giornata di primavera di Natsume Soseki
Buon sabato affezionati lettori della rubrica Penne del Sol Levante! Oggi parliamo di una raccolta di racconti davvero particolare e di un autore che è un simbolo della letteratura giapponese moderna, Natsume Soseki.
I venticinque scritti contenuti in questo libro, edito da Lindau, non sono uniti da un genere comune o da un vero e proprio argomento cardine; piuttosto si tratta di un leitmotiv che li attraversa tutti, aleggiando sopra storie e personaggi. L’idea è quella di una lunghissima giornata di primavera, di quelle in cui il tempo è perfetto, i raggi solari scaldano ma la brezza rinfresca e il sole sembra non tramontare mai. E’ l’uomo stesso che non vuole veder finire quel magnifico giorno, sperando che le lancette dell’orologio si blocchino per un tempo infinito. Questo è il tema fluttuante dei racconti di Soseki.
Alcuni sono narrazioni di finzione, inventate, mentre altri sono ricordi e sprazzi della vita reale dell’autore. Tra questi un buon gruppo riguarda il suo soggiorno, nel 1900 e 1901, in Inghilterra. Ci si era recato su ordine dell’Università Imperiale di Tokyo per svolgere ricerche sulla lingua inglese, che già aveva studiato e insegnato in patria. L’esperienza si rivela deludente sotto certi punti di vista, lo scrittore infatti non riesce ad adeguarsi alle abitudini di vita occidentali e non comprende fino in fondo gli inglesi e ciò che lo circonda.
I racconti che ho apprezzato di più sono Il Serpente, che narra di un giovane e di suo zio che vanno a pescare sotto una pioggia nera, incessante, vera protagonista della vicenda; il secondo è La tomba del gatto, in cui l’autore osserva impotente gli ultimi stralci di vita del suo gatto, senza rendersi conto che presto se ne andrà. Proprio quando scompare, tutti in famiglia sembrano accorgersi di lui e la sua tomba diventa il vero ricettacolo di tutte quelle attenzioni mancate.
La scrittura dell’autore è fluida e delicata, la sua particolarità è che scrive cose reali. Si ha la vivida impressione che ciò che ci racconta stia succedendo davvero, da qualche parte, in un luogo lontano ma pulsante, vivo. Tutto questo è dovuto alla straordinaria immediatezza delle sue parole e allo stile con cui riesce a legarle insieme.
Se volete saperne di più venite a leggere la recensione completa su Penne d’Oriente, buona lettura!
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