AINU - IL POPOLO DEL NORD
“Ainu” è il nome di una popolazione indigena del Giappone. Infatti, nonostante si pensi che nel Paese del Sol Levante ci sia una completa uniformità etnica composta dai Wajin (giapponesi), sono esistite e talvolta ancora esistono, delle varietà etniche, come quella rappresentata dagli antichi abitanti di Okinawa o, appunto, dagli Ainu. Sin dal periodo Jomon (12,000 - 2500 AC) essi hanno vissuto nella regione settentrionale chiamata comunemente “Hokkaido”, oltre che nel Nord dell’Honshu, sull’isola di Sachalin e sulle isole Curili.
Gli Ainu erano soliti vivere in villaggi (kotan), in armonia con la natura: praticavano la caccia, la pesca, la raccolta di prodotti naturali e l’agricoltura. Si impegnavano anche nel commercio marittimo, esportando prodotti in seta e raffinati manufatti in vetro. La loro era una religione di tipo animistico, cioè che riconosceva il sacro in ciò che apparteneva al mondo naturale. Portatori di una cultura unica all’interno dell’arcipelago nipponico, essi avevano anche una propria lingua.
A partire dall’epoca feudale, i crescenti contatti culturali e commerciali coi giapponesi, influenzarono reciprocamente i due popoli, seppur col passare del tempo, gli Ainu furono sempre più sfruttati e impoveriti. Col periodo Kamakura i Wajin rafforzarono la loro presenza nella regione settentrionale finendo per limitare le libertà e gli spazi degli Ainu. La coesistenza arrivò anche a punti di rottura, dove schieramenti di giapponesi e Ainu si diedero battaglia per il controllo del territorio, come avvenne per la battaglia di Koshimain (1457) e di Shakushian (1669). Usciti sconfitti dagli scontri, gli Ainu si trovarono sempre più dentro la sfera di controllo socioeconomico del clan Matsumae, il quale, a partire dal 1604, aveva ricevuto pieno potere dallo shogun Tokugawa Ieyasu per le zone interessate. Il clan Matsumae riorganizzò il territorio dividendolo tra “Wajinchi” (insediamenti giapponesi a meridione) e “Ezochi” (insediamenti “del resto” di Hokkaido). Dato che nel Nord era difficile far crescere il riso, gli Ainu divennero sempre più dipendenti dai giapponesi, seppur gli fosse permesso di commerciare con loro solo attraverso canali ufficiali., i cui tassi di cambio erano spesso sfavorevoli.
Fu specialmente nelle zone di confine che gli Ainu, a volte aiutati da qualche mercante, cercarono di entrare in contatto coi giapponesi per cercar di far valere le loro ragioni e migliorare le loro condizioni. Sono in queste aree che si diffusero indumenti e oggetti della cultura Ainu, come “Attusi” (vestiti ricavati da fibre dell’olmo della Manciuria), “Chikarukarupe” (indumenti di cotone), ma anche intarsi, vasellame ed altri manufatti quali “Ikupasuy” (un bastone rituale per offrire sake agli Dei). Anche strumenti musicali come “Mukkuri” (simile ad un’arpa), “Tonkori” (a cinque corde), “Yukar” (storie tramandate oralmente) e danze tradizionali. Inoltre, rituali religiosi come “Icharupa”(onorare gli antenati) e “Iomante” (“rimandare indietro” gli spiriti degli orsi) erano alla base della vita religiosa degli Ainu.
L’ultima sollevazione armata degli Ainu si ebbe nel 1789 ma, sconfitti, essi non poterono che assistere come spettatori al passaggio del Giappone all’età moderna in cui, anche per far fronte a possibili rivendicazioni della Russia sui territori settentrionali, venne deciso che, senza tener conto della distinzione con l’Ezochi, tutti gli abitanti della regione a Nord erano de facto giapponesi e che il nome dell’isola sarebbe stato “Hokkaido”. Gli Ainu si trovarono liberi dai loro vincoli socioeconomici, ma per sopravvivere dovettero fare i conti con una cultura dominante che esigeva la loro assimilazione: data la regolamentazione sul possesso delle terre, agli Ainu fu impedito l’accesso alle zone in cui tradizionalmente cacciavano, pescavano, e raccoglievano prodotti naturali. Le loro pratiche sociali furono vietate, mentre fu favorito il graduale disuso della loro lingua a favore del giapponese. Ciononostante, differenze evidenti coi Wajin li portarono ad essere a volte discriminati alla stregua di una casta inferiore. A tale riguardo, la messa in legge dell’atto per la protezione degli ex-aborigeni dell’Hokkaido nel 1899, seppe solo sensibilmente migliorare il loro tenore di vita.
Dopo il secondo conflitto mondiale il governo introdusse misure atte ad alleviare le difficoltà della comunità Ainu, costruendo per loro luoghi di ritrovo e garantendo loro servizi speciali, così da contrastare fenomeni di povertà ed esclusione sociale, ma con pochi risultati. Fu verso il 1975 che, in seno alla comunità Ainu, prese campo un movimento che seppe dare nuova vita ai loro rituali tradizionali (come “Icharupa” e “Iomante”), oltre che promuovere l’insegnamento della loro lingua. Nel 1997 poi venne approvato l’"atto per la promozione culturale degli Ainu”, secondo cui le nuove generazioni poterono studiare il loro idioma e partecipare a scambi con altre comunità indigene, al fine di rafforzare la propria identità. Sebbene non esistano più insediamenti di soli Ainu, la maggior parte di loro vive ancora nell’Hokkaido insieme ai giapponesi. Sono pochi quelli che ancora sanno parlare correntemente il loro idioma, anche se certe parole in lingua Ainu vengono pronunciate nei loro discorsi.
Inoltre, recentemente, un anime (cartone animato) giapponese chiamato “Golden Kamuy” la cui trama ruota attorno alle avventure di un soldato giapponese e di una ragazza Ainu nei primi anni del novecento, ha aiutato a far ulteriormente conoscere e sensibilizzare il grande pubblico verso la storia e la cultura di questo popolo indigeno del Giappone.
Nonostante lo stile di vita sia divenuto molto simile a quello dei giapponesi, la comunità Ainu continua tutt’oggi a preservare e promuovere la propria lingua e tradizioni.
Marco Furio Mangani Camilli
Il Giappone si prepara a lanciare in orbita Gundam in vista delle Olimpiadi
Tokyo 2020. L’inizio dei nuovi Giochi Olimpici è ormai dietro l’angolo. E il Giappone sta giocando in anticipo preparando un inconsueto benvenuto per gli atleti che parteciperanno. Infatti in concomitanza con il 40esimo anniversario dell’uscita della prima serie di Mobile Suit Gundam, la Commissione Olimpica e Paralimpica il 15 maggio ha annunciato al mondo il progetto di lanciare nello spazio proprio dei modelli in scala dei robot dalla serie cult in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Giapponese (JAXA). Entro l’anno i modelli in plastica rivestiti da materiali speciali adatti allo spazio verranno ultimati e spediti alla Stazione Spaziale Internazionale nel Marzo 2020 per poi cominciare il loro viaggio spaziale ad Aprile.
(source Soranews24 )
Gundam e la sua nemesi Zaku saranno trasportati da un micro-satellite (“G-satellite”) equipaggiato con ben sette macchine fotografiche per immortalarli durante il loro viaggio. Una volta iniziati Giochi a Luglio, messaggi di incoraggiamento e buona fortuna in diverse lingue saranno trasmessi su un piccolo schermo posto alla base dei due robot per poi essere immortalati dalle macchine fotografiche e postate sui social media nel corso delle Olimpiadi. Gli autori del progetto intendono chiedere alla gente di tutto il mondo di partecipare scrivendo proprio questi messaggi di buon auspicio.
“Le Olimpiadi e le Paralimpiadi sono una manifestazione che porterà atleti da tutto il mondo a Tokyo e in Giappone per competere uno contro l’altro. Con l’aggiunta dello spazio come una nuova dimensione per Tokyo 2020, spero che i Giochi diventeranno un evento ancora più grande. Non vedo l’ora di ammirare Gundam e Zaku mentre sostengono gli altleti e i Giochi dallo spazio” ha dichiarato Koji Murofushi, il direttore sportivo di Tokyo 2020 alla stampa.
( source Geek.com )
L’idea del progetto è nata con Haruka Amano, un membro della Gruppo di Promozione e Innovazione della Commissione Organizzativa e grande fan di Gundam circa un anno fa. Prendendo ispirazione da Sochi 2014, quando la torcia olimpica venne portata a spasso nello spazio, Amano decise di alzare ancora di più l’asticella. Tuttavia si dovette ben presto scontrare con gli enormi costi del progetto. In suo soccorso arrivò però Shinichi Nakasuka, un professore di ingegneria dell’Università di Tokyo che è riuscito a ridurre sia il budget che le tempistiche impossibili inizialmente previste.
Oltre alla sfida concreta di superare i limiti per creare qualcosa di sensazione che unisse gli spettatori di tutto il mondo, Amano con questo progetto intende rompere gli stereotipi di un Giappone troppo serio o legato soltanto ai fiori di ciliegio o ai samurai. Amano vuole mostrare un Giappone che guarda al futuro, capace di sognare in grande e di lanciarsi in nuove avventure. In un certo senso Gundam stesso è il simbolo di questo ardente sogno perché è riuscito a trasmettere al suo pubblico il desiderio sognare al di là di ogni limite, anche di essere un pilota di un robot nel mezzo dell’universo.
(Immagine Privata... ebbene sì, sono andata alla sede ufficiale di Gundam a Odaiba)
Yoshiyuki Tomino, il creatore di Gundam, ha sottolineato come 50 anni fa quando uscì la prima serie di Gundam, l’idea di andare nello spazio fosse ancora qualcosa di irraggiungibile mentre al giorno d’oggi non è più soltanto una fantasia. Quello che spera è che sempre più sogni diventino realtà. E sicuramente Gundam trasmetterà questo messaggio a Tokyo 2020. Quello che bisogna chiedersi però è allora cosa verrà dopo, quale altro sogno impossibile decideremo di realizzare? Per adesso keep on dreaming.
Erika Micozzi
ATTRAVERSO GLI STEREOTIPI. IL VOLTO APERTO DEL DISEGNO MANGA
PRIMO APPROCCIO AL CHARACTER DESIGN
Tsundere, Yandere, Kuudere… chi è appassionato di manga da diverso tempo come l’autore sicuramente li avrà già sentiti nominare e potrà proseguire l’elenco con diversi altri elementi.. Ma non è così scontato che chiunque abbia letto o aspiri a disegnare manga sappia cosa vogliano dire questi termini. Eppure sono fondamentali per capire una delle peculiarità che ci permettono di distinguere in un certo qual modo il manga dal fumetto occidentale. Ormai si è di fronte a quella situazione in cui l’accoglienza popolare di un fenomeno hanno equipaggiato lo stesso di etichette che col tempo si sono sedimentate ed evolute con lui. Con il genere manga in particolare, questo discorso è tale da averlo reso, anche suo malgrado, un modello di trasformazione e ispirazione per lo stile di disegno di molti, oltre che una delle principali caratteristiche e via stessa di trasmissione della cultura POP giapponese (è poi il caso di dire che il manga sia stato forgiato in un’ottica POP fin dai suoi albori, figlio della cultura e delle arti popolari..).
Ma dove sta l’errore comune? E qui torniamo all'incipit di questo articolo. Tsundere ad esempio, è chiamato un personaggio dal carattere apparentemente aggressivo e strafottente che in realtà maschera una fragilità che lo rende facile all'imbarazzo, corredato di espressioni e frasario tipico. (fig.1) Yandere invece è chiamato un personaggio dall'atteggiamento dolce e gentile, a tratti quasi remissivo, che nasconde invece una tendenza a diventare ossessivo verso l’oggetto delle sue cure fino a delle forme, anche violente, di persecuzione. (fig.2) E via discorrendo..
Salta subito all'attenzione come le caratteristiche siano unicamente di tipo caratteriale, e siano sempre accompagnate da un elemento inaspettato che consente, nel corso della storia, di creare un plot twist psicologico ed emotivo. Questo è, a personale giudizio dell’autore, il vero fulcro del cosiddetto genere manga. Lo stile grafico ne è una conseguenza; parlare di manga come tipologia di disegno è un ingenuo e innocente pregiudizio che non consente, ad esempio, di notare come in realtà gli stili siano estremamente differenti tra autore e autore, e ciò che viene evidenziato come elemento accomunante (occhi grandi, sproporzioni, eccessiva caricatura in alcune scene, per citare i più comuni) non sia altro che la comune risposta ad un altrettanto comune necessità narrativa. Più che ti stereotipi si parla di maschere.
Questo si riflette anche nelle scelte registiche, nella tipologia di personaggi proposti e nelle regole che spesso si trovano nei manuali di disegno. Tuttavia è fondamentale comprendere che fino a che non si entra nell'ottica di creare “storie” manga, difficilmente si può sviluppare uno “stile” di disegno manga. Che sia una storia di supereroi, un poliziesco, ambientato in un mondo distopico o nel passato, tra i banchi di scuola in Giappone o nello spazio, il discorso non cambia: tutto confluisce a creare un’atmosfera che è la vera narratrice delle vicende, che trascende per questo le regole anatomiche, atmosferiche e (quasi in ogni scena) fisiche.
Nella fase del character design è fondamentale avere non solo il background del personaggio, ma anche le previsioni della sua evoluzione, che si rifletteranno nella resa grafica delle varie emozioni. Quali sono le caratteristiche anatomiche che ci permettono ad uno sguardo di capire qualcosa del personaggio? Come mostrare l’unicità dei suoi sentimenti? Spesso si prepara una serie di schizzi con le diverse espressioni, ma come rendere in modo chiaro e inequivocabile tale rosa di sfumature espressive?
A volte davvero basta alzare un sopracciglio..
Beatrice Varriale
In occasione de La Festa del Giappone, che si terrà il 9 giugno presso il Circolo Magnolia di Segrate, si terrà un workshop di character design manga, in cui potrete cimentarvi nella creazione di un personaggio, seguendo le tecniche di base più usate nello stile manga: bozzetto, inchiostrazione, colorazione con i copic. Scoprite come partecipare cliccando qui.
Marie Kondo e il magico potere del riordino
La guru del clean-up giapponese Marie Kondo ha aiutato le persone di tutto il mondo a riordinare in grande stile. Qual è il segreto di tutto questo successo?
Tra il 2015 e il 2016, la scrittrice Marie Kondo diventa un caso letterario mondiale (tanto da venire inserita nella lista delle 100 persone più influenti secondo Time Magazine), grazie ai suoi manuali di "economia domestica" Il magico potere del riordino e 96 lezioni di felicità, due volumi che, oltre a fornire pratici consigli su come riordinare e organizzare l'ambiente domestico, aiutano a mettere ordine dentro noi stessi.
"Secondo il metodo KonMari, infatti, il riordino fisico è un rito che produce incommensurabili vantaggi spirituali: aumenta la fiducia in noi stessi, libera la mente, solleva dall'attaccamento al passato, valorizza le cose preziose, spinge a fare meno acquisti inutili. Rimanere nel caos significa invece voler allontanare il momento dell'introspezione e della conoscenza. Il metodo KonMari si basa su 65 regole da seguire nella corretta sequenza. I segreti di base sono: eliminare tutto in un'unica sessione pulire a fondo e poi riorganizzare quello che rimane"
La caratteristica di questo metodo consiste nel criterio di scelta in base al quale conservare o buttare un oggetto, scegliendo di tenere solo gli oggetti che ci trasmettono gioia e felicità. Bisogna comunque sempre trattare con grande rispetto ciò che si possiede, anche le cose che si ha intenzione di buttare. I numerosi clienti che a lei si rivolgono, persone di tutte le età e professioni, sono accomunate dalla ricerca di un efficace metodo di riordino, collegato inconsciamente ad un modo per sentirsi meglio con sé stessi. Stando alle parole di Marie Kondo "durante il processo di riordino, spesso torna alla luce il passato dei miei clienti e dunque la mia diventa anche un'operazione di consulenza che comprende veri e propri consigli di vita".
Oltre a lavorare ad un'app in grado di aiutare a mettere in ordine, Marie Kondo ha collaboratori in tutto il mondo, per aiutarla a diffondere il suo metodo e, perchè no, organizzare il mondo. Come Kondo, anche i suoi consulenti offrono consigli su tutto ciò che riguarda il riordino, da come sfruttare gli spazi a come creare e mantenere un ambiente ben ordinato. Lykke Anholm è l'unica consulente KonMari certificata ad operare in Italia e, al mondo, occupa il 40esimo posto tra i massimi esperti di questo metodo.
In occasione de La Festa del Giappone, che si terrà il 9 giugno presso il Circolo Magnolia di Segrate, Lykke sarà presente con un workshop di ben 90 minuti, in cui illustrerà il metodo e le migliori strategie, per categoria, di riordino. Inoltre, terrà per un numero ristretto di persone, incontri individuali per studiare in maniera più approfondita, casi specifici. Scoprite come partecipare cliccando qui.
Successo a Milano per le madri guerriere di Luca Vecchi
Oltre centocinquanta persone sono intervenute alla Ad Gallery per Okaa-Sama, la mostra fotografica personale del regista fondatore del collettivo The Pills
Inizia alla grande alla AD-Gallery di via Errico Petrella a Milano Okaa-Sama | Onorevole Madre, la mostra personale di fotografie d’autore di Luca Vecchi, regista, attore e fondatore del collettivo “The Pills”. La mostra, che vede il sostegno dell’associazione Giappone in Italia, dopo l’appuntamento inaugurale alla fondazione Besso di Roma ha proposto alle oltre 150 persone intervenute nel capoluogo lombardo l’originale interpretazione che Luca Vecchi ha saputo dare della figura della donna e della femminilità: un profilo combattente e guerriero che vede le madri vestire le tipiche armature rituali Yoroi della tradizione giapponese, per comporre un tributo alla figura della donna che sceglie di essere madre e generare la vita.
"Sono molto soddisfatta”, dichiara Anna Deplano, titolare di AD-Gallery: “Il tema è molto accattivante, partiamo dall’idea che i samurai siano sempre stati maschi; in questo contesto allora mettere in evidenza la donna è una scelta audace e l'autore la sviluppa appieno. Sono immagini imponenti che stravolgono una certa retorica".
Le madri combattenti di Luca Vecchi sono proposte in composizioni fotografiche a tiratura limitata, in formule composite: trittici, dittici e foto singole, stampate su carta baritata fine art con cornice. Okaa Sama è alla AD-Gallery di Milano, via Errico Petrella 21, fino a domenica 12 maggio alle ore 19. “Ringrazio il pubblico milanese che ci ha accolto con questo affetto”, conclude Luca Vecchi, “vi aspettiamo nei prossimi giorni”.
Okaa Sama - Mostra fotografica personale di Luca Vecchi
Okaa Sama
Mostra fotografica personale di Luca Vecchi
a cura di Paola Aloisio
Luca Vecchi (Roma, 1985) è volto noto al grande pubblico come sceneggiatore, regista e attore comico; cofondatore di The Pills, collettivo ironico e scanzonato con all'attivo oltre otto anni di attività su cinema, web e tv, Vecchi coltiva parallelamente una variegata gamma di interessi, fra cui spicca da sempre la passione per l’arte e la cultura giapponese.
La fotografia lo accompagna fin dagli anni degli studi in Tv e Cinematografia ed è come sintesi di questi due percorsi che l’artista propone al pubblico OKAA-SAMA // Onorevole Madre, la sua prima personale di fotografia, che è stata inaugurata martedì 12 marzo alle ore 17.30 presso la Fondazione Marco Besso, che ha sostenuto l’esposizione mettendo a disposizione la splendida cornice della location di Largo di Torre Argentina, 11.
Un primo passo, dunque, verso un approfondimento del proprio profilo artistico personale che vedrà Luca Vecchi continuare a proporsi come interprete originale
della scena romana, accanto all’impegno con i colleghi e OKAA-SAMA // Onorevole Madre.
Per secoli le donne, nel corso dello sviluppo della civiltà, sono state confinate nell'unico ruolo che il corpo, completamente in gestione a una società patriarcale, imponeva loro: quello di procreatrici. Dopo molti anni, in cui tante hanno combattuto per uscire da una condizione subalterna e per riappropriarsi dei propri diritti fondamentali, un importante traguardo è stato raggiunto, anche se per una sparuta minoranza: oggi le donne sono libere di scegliere se essere madri o meno. Una scelta che rende consapevoli di un percorso che, come un guerriero, si è pronte ad affrontare con devozione.
In Okaa-sama Lucca Vecchi veste le sue Madri di un’armatura, la Yoroi, come un antico guerriero giapponese, instaurando un parallelo tra la scelta del Samurai e la scelta che porta una donna a diventare Madre. Le Yoroi, imitando le fisionomie animali, erano concepite con lo scopo d’incutere terrore nell’avversario per penalizzarlo nello scontro: gli occhi e la bocca oscurati dal Kabuto (elmo) e dal Menpo (la maschera d’acciaio) contribuivano alla spersonalizzazione del guerriero, trasfigurandolo in una sorta di demone.
Nel lavoro di Vecchi, da queste terribili corazze emergono, delicate, forme femminili di diverse costituzioni ed età, colte nel momento dell’attesa. Le curvature dei soggetti, visti di profilo seguono alla perfezione la forma della spina dorsale o del grembo, come fossero una logica prosecuzione di essi. Un corpo investito di potere e nello stesso tempo di profonda vulnerabilità. Un corpo esposto. Il corpo nudo della donna in attesa rivela la fragilità e la maestosità dell’essere umano in una chiave che non vuole essere seduttiva, se non per il fascino che un essere superiore incute, ma celebrativa. Celebrativa di una condizione che come abbiamo detto: è voluta. Le modelle appaiono come statue nella loro severa compostezza che ispira rispetto e soggezione, immobili nell'attimo che precede la battaglia infinita che le coinvolgerà per il resto della vita. Il figlio/la spada che nascerà, potrà essere istruito/utilizzata dalla madre/ samurai per scopi morali o immorali: a fin di bene, o per conseguire il male.
Ed è per questo che il ruolo della madre/samurai è fondamentale. Le armature scelte dall’artista sono rappresentative di ogni status e vanno da quelle più povere, fino alle armature dei guerrieri più facoltosi. Allo stesso modo le madri che hanno collaborato ad Okaa-sama provengono da diverse situazioni e ceti sociali, da diversi percorsi di vita i cui segni sono visibili sui loro corpi nudi.
Okaa-sama è dunque una visone collettiva che vuole celebrare una condizione, raccontandola con teatralità e trasgressione, con immagini forti e nell'insieme stranianti. Una condizione prettamente femminile che Vecchi interpreta
attraverso la figura del samurai e del rapporto con la sua spada.
L’artificio della ricostruzione delle armature e la scelta delle pose in studio riprendono concettualmente il lavoro di Marcelin Flandrin e la tradizione delle fotografie a banco ottico dei primi etnografi ed esploratori. Il linguaggio fotografico di Vecchi, però, è legato alle visoni ritrattistiche di Nadar e Robert Mapplethorpe, al rapporto emozionale di Richard Avedon con i suoi soggetti in un connubio tra armonia classica e caricatura grottesca, ma anche all’estetica pop dei manga giapponesi.
Un progetto fotografico audace quello di Luca Vecchi che, attraverso un percorso per immagini, coinvolgenti ed evocative ma allo stesso tempo disturbanti, conduce ad una interpretazione epica ed eroica della maternità: una visione personalissima che vuole riproporre in un certo senso l’archetipo della dea madre, culto primigenio di ogni civiltà.
La mostra è composta da 4 trittici, 8 dittici e scatti singoli fra cui una foto già premiata con il Mono Award; le opere sono proposte al pubblico in formato espositivo e a disposizione per l’acquisto in tiratura limitata.
Per informazioni
lucavecchi.press@gmail.com
3386765100 (Tc)
La principessa trecentenaria - La storia dietro l'opera
All’inizio del IX secolo la principessa Nakanohime si reca verso Yoshino, per visitare la tomba di sua madre. Per caso scorge la figura di spalle di un eremita che si affretta e si innamora perdutamente di lui. Genjo, questo il nome dell’eremita, è un componente del tempio Tengio sul monte Omine, e sta seguendo le pratiche religiose dei mille giorni. Il 999° giorno, Genjo prova a salvare un vecchio viandante che sta per morire, e deve rinunciare a completare le pratiche. Keishu, il vecchio viandante, è un bonzo cinese di grande saggezza, e gli insegna che rinunciare è il giusto gesto da compiere. Genjo, che deve togliersi la vita per non aver completato le pratiche religiose, riceve in dono da Keishu l’elisir di eterna giovinezza ed immortalità, e si salva dall’obbligo religioso. Dopo tre anni, Nakanohime e Genjo si incontrano casualmente a Kyoto. Entrambi credono che l’incontro sia segno del destino, ed iniziano a vivere insieme sul monte Omine, incuranti del divieto d’accesso alle donne sulla montagna. Gli dèi della montagna non accettano la loro scelta, e la principessa cade gravemente malata. In punto di morte, Genjo le fa prendere l’elisir dell’immortalità. Ha inizio così l’angoscia per Nakanohime che ha ottenuto la vita eterna. A causa di una frana, è costretta a dividersi da Genjo e dal figlio Chisho. Dopo 50 anni, Nakanohime incontra un bel ragazzo, Sojun, che assomiglia a Genjo. Dal loro amore nasce un bambino, ma Nakanohime scopre che in realtà Sojun è figlio di Chisho, e sconvolta dal proprio peccato scappa. Durante il suo viaggio trova la principessa Sannohime, sua sorella minore, e trova temporaneamente la pace.
Tormentata dal destino, Nakanohime scala il monte Fuji per parlare con la dea Konohanasakuyahime. Dal monte arriva il rombo di una eruzione. Fra la gente che fugge via, Nakanohime decide di sfidare il destino e prosegue la scalata, pensando “Se gli dèi vorranno che io sopravviva, faranno piovere”. Con una grande boato, il monte Fuji erutta lava, e contemporaneamente inizia a piovere e compaiono dei bellissimi boschi. Nakanohime ha salva la vita. Vagando senza meta, giunge al lago Oshino, dove si specchia sulla superficie del lago e sente una voce che le sussurra “Nakanohime, hai vissuta a sufficienza!” e subito dopo viene inghiottita dal lago. Nella sua vita successica, Nakanohime si reincarna in una carpa, e passando da Oshino verso il mare arriva in al bacino di una cascata sul monte Omine, dove viveva con Genjo.
Venite a scoprire quest'opera lirica giapponese in due atti il giorno 22 marzo, alle ore 19:00, presso il Teatro Rosetum di via Pisanello 1 a Milano (M1 Gambara). Tra i due atti verrà offerto un rinfresco a base di sakè a tutti i partecipanti.
Sia l'opera che il rinfresco sono a entrata libera e gratuita!
Recensione mostra fotografica "Il mio Giappone"
Una foto per essere bella, deve trasmettere emozioni.
E questo, a mio parere, è quello che si vive in questi giorni presso la Fondazione
Matalon a Milano, che ospita la mostra fotografica di Alberto Moro, Presidente
dell’Associazione Culturale Giappone in Italia.
Durante il percorso espositivo, si respirano l’armonia, la pace e il silenzio che
caratterizzano la cultura nipponica. Si comincia il percorso con la sezione dedicata
alla tradizione, per poi entrare nella modernità e terminare in uno spazio più intimo
del Giappone, che è quello della cerimonia del tè.
La tradizione è rappresentata dalle foto dei vari quartieri di Kyoto, come ad esempio
il quartiere di Gion con il suo santuario di Yasaka o il tempio di Kodai-Ji, illuminato
in una splendida serata di luna. Sono quartieri silenziosi e rilassanti, lontani dalla
frenesia della vita metropolitana. Il quartiere di Gion è luogo di incontro tra le geisha
e gli uomini d’affari, ma nella foto non ne compare nessuna. Alberto Moro ci spiega
che per rispetto non è possibile fotografarle, ma quando si vedono in giro bisogna
rispettarle. Nella foto, quindi, non compaiono, possiamo solo immaginarle, come
ragazze colte e raffinate, che entrano ed escono dalle case con le loro complicate
pettinature e il trucco elaborato, strette nei loro sgargianti kimono.
La modernità è rappresentata dagli scatti fotografici delle vie di Tokyo. Noi siamo
abituati a pensare a Tokyo come una città sovraffollata e frenetica, ma le fotografie
raccontano momenti di quotidianità di giovani, uomini d’affari, operai, teenagers che
danno un taglio più umano all’ atmosfera metropolitana.
Con questa mostra, Alberto Moro esprime la sua passione verso la cultura giapponese
e si definisce un fotografo/pescatore. A differenza di un fotografo/cacciatore, più
invadente, è discreto e rispettoso: si ferma in un determinato luogo che considera
particolare e aspetta con pazienza che passi un soggetto interessante per catturarlo in
uno scatto. Notiamo questa sua squisita attitudine guardando la foto fatta nel quartiere
di Shinjuku, dove in un vicoletto buio ferma in un’istantanea il passaggio di un
uomo esattamente nell’unico cono di luce esistente.
Salendo al primo piano arriviamo all’ultima sezione della mostra, quella sul Chadō,
la Via del tè. E’ la saletta cosiddetta “più intima”, dove le foto dei bollitori, delle
fruste in bambù per mescolare il tè in polvere con l’acqua bollente e dei contenitori
raffinati rappresentano le varie fasi della cerimonia e danno un’atmosfera domestica e
familiare alla sala espositiva. Le foto comunicano quella serenità e quella quiete tanto
care ai giapponesi, ma soprattutto ci trasmettono quella particolare cura
nell’accogliere l’ospite che a sua volta dimostra riconoscimento e gratitudine verso
l’ospitante, con i tipici movimenti di riverenza in un reciproco scambio di inchini. Mi
ha colpito molto la fotografia dell’artista Jumco Sophie Okimoto. E’ inginocchiata
col suo kimono celeste e, mentre il viso rimane volutamente fuori dall’obiettivo, in primo piano vediamo le mani che con estrema delicatezza, circondano la ciotola che
le viene offerta.
Nella sala è presente una calligrafia che determina lo spirito dell’incontro: ICHIGO
ICHIE “ogni incontro è irripetibile”. Ogni cosa che viviamo è unica e irripetibile, per
questo deve essere vissuta con grande intensità. Come l’ultima goccia di tè catturata
nel tempestivo scatto di Alberto Moro.
Le mie due foto preferite sono quelle dell’artista Junko Sophie Okimoto che si
trovano all’ingresso.
E’ una donna giapponese immortalata in modo incantevole in due momenti diversi. In
uno, a casa, inginocchiata sul tatami tiene in mano una ciotola del the. Nell’altra è
sempre inginocchiata ma fuori, nel giardino del tempio di Geshin-ji, che è la sua
casa. Ha un atteggiamento amoroso e dolce. Il suo sguardo non è mai perso nel vuoto,
perché, composta nella tipica posizione inginocchiata, è determinata nel promuovere
la tradizione del suo paese. Sembra una foto calata in una realtà fiabesca, lontana dal
nostro tempo, dalla quale traspirano l’armonia, la pace interiore e il silenzio che
caratterizzano la cultura nipponica.
L’intera esposizione è un’emozionante sintesi di quello che è lo spirito del Giappone,
catturato in una bella raccolta di suggestive fotografie. Una mostra che consiglio di
visitare a tutti, appassionati e non.
Margherita Ciociano
KUSAMA-INFINITY
KUSAMA - INFINITY
di Heather Lenz
USA, 2018, 78’
Documentario
In sala dal 4 marzo
con Wanted Cinema e Feltrinelli Real Cinema
CAST ARTISTICO
REGISTA: Heather Lenz
PRODUTTORI: Heather Lenz, Karen Johnson, David Koh, Dan Braun
PRODUZIONE ESECUTIVA: Stanley Buchthal, Josh Braun, Ryan Brooks, Brandon Chen, Jessica
Latham, Troy Craig Poon, Alice Koh, Simone Haggiag, Hajime Inoue
MONTAGGIO: Keita Ideno, Shinpei Takeda, Carl Pfirman, Heather Lenz, Sam Karp,
John Northrup, Nora Tennessen
MUSICHE: Allyson Newman
SINOSSI
Yayoi Kusama, icona giapponese per eccellenza, è una delle artiste più influenti della storia dell’arte
contemporanea, colei che ha fatto delle sue allucinazioni un’arte diventando l’artista donna più
venduta al mondo. Il film esplora la sua ascesa verso il successo mostrando da vicino il suo talento, le
sue ossessioni, la malattia mentale e le difficoltà incontrate durante il suo percorso, la sua significativa
importanza artistica e culturale.
Utilizzando il materiale d’archivio e quello inedito, viene raccontata in modo intimo la storia di
Kusama, attraverso le sue stesse parole e le toccanti interviste a direttori di musei, galleristi, curatori,
critici, collezionisti, amici e collaboratori. Esito di oltre un decennio di attività della regista, il
documentario getta una nuova luce su una protagonista assoluta dell’arte contemporanea del
Novecento e della nostra epoca.
La sua storia personale e professionale si intrecciano, il trauma di essere cresciuta in Giappone durante
la seconda guerra mondiale in una famiglia che scoraggiava le sue ambizioni creative, gli esordi non
facili in Patria, il trasferimento a New York dove era ostacolata dal sessismo e il razzismo che
caratterizzavano il mondo dell’arte a cavallo degli anni ’60 passando per i problemi connessi con la sua
salute mentale fino ai giorni d’oggi. Divenuta ormai l’artista più popolare al mondo, ideatrice di
abbaglianti e fantasiose creazioni a pois e conosciuta ai più per le enormi zucche colorate e le sue
Infinity Room, Kusama continua a dedicarsi all'arte a tempo pieno realizzando innumerevoli opere che
abbracciano varie discipline come la pittura, la scultura, l’arte performativa, il design e registrando con
le sue mostre record di pubblico nei principali musei internazionali.
NOTE DI REGIA
Ho conosciuto per la prima volta l'arte di Kusama mentre mi laureavo in Storia dell'Arte e Belle Arti.
All'epoca, studiavo storia dell'arte attraverso libri di testo spessi due pollici che raramente contenevano un solo paragrafo sull'arte prodotta dalle donne. Quando ho visto per la prima volta l'arte di Kusama, ho
immediatamente percepito un legame istantaneo con essa.
Mentre imparavo di più sulla vastità di lavori che Kusama ha creato durante la sua vita, in particolare a New York tra il 1958 e il 1973, ho realizzato che i suoi contributi al mondo dell'arte americano non erano stati adeguatamente riconosciuti. Successivamente, mentre studiavo per un MFA in Cinematic Arts alla USC, decisi di fare un film su Kusama per condividere la sua storia con un pubblico più ampio. Lì per lì non avrei mai potuto immaginare che Kusama sarebbe diventata l'artista femminile più venduta al mondo! Sebbene Kusama sia famosa per la sua parrucca rossa e i suoi pois colorati, ho pensato che includere il lato oscuro della sua storia da bambina durante la seconda guerra mondiale potesse aiutare a trasmettere quella parte della sua vita a un pubblico che non la conosceva onde evitare che venisse dimenticata. La sua è la storia di una pioniera che ha dovuto superare il sessismo, il razzismo e la malattia mentale per perseguire il suo sogno di essere un’artista. Spero che le persone trovino il film stimolante.
BIOGRAFIE
Yayoi Kusama (Artista)
La carriera di Yayoi Kusama, essendosi svolta per diversi decenni, ha oltrepassato due dei più importanti
movimenti artistici del XX secolo: la Pop art e il Minimalismo. l suoi lavori altamente influenti comprendono dipinti, performances, stanze a grandezza naturale, installazioni scultoree all’aperto, lavori letterari, film, moda, design e alludono tutti contemporaneamente a universi microscopici e macroscopici.
Ormai una delle artiste più famose al mondo, Kusama continua ad attirare un numero record di visitatori alle sue mostre a livello internazionale mentre le foto delle sue Infinity Mirror Room spesso diventano virali sui social media.
Kusama, che attualmente vive a Tokyo, continua irrefrenabilmente a creare arte e partecipare a mostre.
Negli ultimi anni ha esibito i suoi lavori presso prestigiose istituzioni internazionali tra cui il Centre Georges Pompidou, la Tate Modern, il Whitney Museum of American Art, il National Centre of Art di Tokyo e il Museo di Hirshhorn. L'anno scorso, Kusama ha aperto il suo museo personale a Tokyo con la mostra inaugurale “Creation Is a Solitary Pursuit, Love is What Brings You Closer to Art”.
Heather Lenz (Regista e Produttrice)
Scrittrice, regista e produttrice, Heather Lenz è appassionata di documentari e film biografici. È attratta
dalle storie di persone con menti creative che non hanno intrapreso un sentiero battuto (come Yayoi
Kusama). Il suo primo cortometraggio su un inventore di biciclette, Back to Back, è stato nominato per gli Academy Awards studenteschi ed è stato proiettato in festival cinematografici in tutto il mondo.
Lenz ha una laurea in Storia dell'Arte e Belle Arti presso la Kent State University. Ha anche conseguito un MFA in Cinematic Arts presso la University of Southern California. Lenz si è interessata per la prima volta a Kusama mentre studiava arte all’inizio degli anni '90. Quando ha visto per la prima volta il lavoro dell'artista giapponese è stato amore a prima vista. Ha capito subito che i contributi di Kusama nei confronti del
mondo dell'arte americano erano stati in gran parte trascurati. Kusama ha creato alcune delle sue opere più innovative dalla fine degli anni '50 fino ai primi anni '70 mentre viveva a New York, un periodo di tempo di circa quindici anni. Lenz ha dato origine al film su Kusama e ha lavorato per oltre un decennio per portare sullo schermo la sua incredibile storia e non avrebbe mai immaginato che durante la realizzazione del film Kusama sarebbe diventata l'artista femminile più venduta al mondo.
Durante la realizzazione del documentario, Lenz si è sposata con un giapponese. Il suocero (un ministro
buddista della 17esima generazione) e la suocera (esperta dell'arte morente della cerimonia del tè
giapponese) provengono entrambi dalla zona di Hiroshima e, come i genitori di Kusama, hanno avuto un matrimonio combinato. Il nonno di suo marito è stato ucciso dalla bomba atomica caduta su Hiroshima. È molto importante per Lenz che il suo film su Yayoi Kusama contenga i dettagli del lato oscuro della sua infanzia durante la seconda guerra mondiale, per far si che ciò venga tramandato ad una generazione più giovane ed evitare che venga dimenticato.
Lenz ha scritto sull’arte di Kusama contro la guerra per Specialten DVD Magazine.
Wanted Cinema è una società di distribuzione fondata nel 2014, che nel giro di pochi anni è diventata un punto di riferimento nel mercato cinematografico italiano, proponendosi con una linea editoriale molto chiara: un cinema di ricerca e "ricercato", per un pubblico che si aspetta non soltanto divertimento, ma anche pensiero, stimolo, dibattito, sorpresa, approfondimento.
Un catalogo di oltre 70 titoli, tra film e documentari, vincitori nei principali festival nazionali e
internazionali: premi del pubblico, della critica e con ottimi riscontri al Box Office. Tra questi: Il giovane Karl Marx, Lucky, David Lynch. The art of life, I am not your negro.
Nel 2016 partecipa a un bando di crowd-funding del Comune di Milano e viene scelta tra le realtà
meritevoli di essere supportate: la campagna è vincente e vede la nascita del CineWanted, realtà finalizzata a promuovere un’idea di cinema nuovo e socialmente impegnato. Nel gennaio 2018 inaugura il nuovo progetto Wanted Clan, nato dall'esigenza di reinventare la sala cinematografica tradizionalmente intesa proponendo uno spazio all'insegna dell'innovazione artistica e della sperimentazione mediale.
Tutti i nostri titoli: http://wantedcinema.eu/catalogo/
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Teatro Kabuki
La parola “Kabuki”, si riferisce a una forma tradizionale di teatro giapponese, ed è formata dalla somma di tre kanji: Ka (canto), Bu (danza), e Ki (abilità). Nelle opere teatrali, ricche di elementi drammatici, troviamo uno stretto rapporto tra recitazione e danza, oltre che l’impiego di canti e strumenti musicali (tamburi, flauti e shamisen a tre corde).
Il teatro Kabuki venne rappresentato per la prima volta a Kyoto nel 1596, seppur fu nel corso del periodo Edo (1603-1868) che assunse la sua forma caratteristica. Alla fine del XVII secolo infatti il Kabuki fu patrocinato da ricchi mercanti, e ciò avvenne in concomitanza con l’impoverimento e il graduale declino della casta dei guerrieri. Sviluppatosi specialmente per il divertimento del popolo, il Kabuki aiutò quest’ultimo a intraprendere la strada dell’emancipazione culturale.
Le origini del Kabuki sono intrecciate con le prime apparizioni di Okuni, una danzatrice itinerante che vantava un legame personale col santuario di Izumo. Essa era stata forse una Miko (giovane assistente) oppure una vergine del grande santuario di Izumo. La compagnia di Okuni divenne presto famosa anche per via delle esibizioni provocanti delle sue danzatrici e da conseguenti fenomeni di prostituzione. Con l’improvvisa morte di Okuni, si formarono spontaneamente altre compagnie femminili (Onna Kabuki) con le stesse caratteristiche licenziose, fino a ché però nel 1629 lo Shogunato non vietò alle donne di esibirsi, facendole rimpiazzare da giovani attori (Wakashu). Ciononostante, i problemi legati alla moralità persisterono, e non si attenuarono fino al momento in cui il governo decise di far salire sul palco solo uomini già avanti con l’età. Tale tradizione si è così conservata sino ai giorni nostri.
Nel teatro Kabuki, il palco principale in legno (Hon Butai) è leggermente decentrato sulla destra degli spettatori, mentre alla sinistra del pubblico troviamo una passerella (Hashigakari) collegata ai camerini degli attori. “Hanamichi” invece è il nome del camminamento rialzato che permette agli attori di uscire di scena.
Le opere kabuki si possono raggruppare in tre tipi: Jidaimono (opere storiche); Sewamono (opere contemporanee); e Shosagoto (opere di danza). Le prime trattano spesso delle vicende legate a guerrieri e aristocratici dei periodo precedenti a quello Tokugawa. Tra gli spettacoli di vita contemporanea invece, sono famose le rappresentazioni teatrali delle opere di Chikamatsu Monzaemon, specialmente quelle storie amorose che si concludono con un doppio suicidio.
Nel kabuki troviamo generalmente due stili di recitazione, il magniloquente Aragoto di Edo e quello più delicato, Wagoto, formatosi nell’area Kamigata (Kyoto/Osaka). Lo stile Aragoto venne introdotto verso la fine del XVII sec. dal primo Ichikawa Danjuro (1660-1704). Esso è un modo di recitare volutamente esagerato, dove le pose dei personaggi sono ispirate a rappresentazioni di divinità buddhiste dall’aspetto inquietante, come quella di Fudoomyoo. A questi personaggi, eroi chiamati a fronteggiare nemici malvagi, vengono pitturati i volti per enfatizzarne le espressioni, utilizzando una tecnica di trucco chiamato Kumadori. “Shibaraku” è considerata una delle più grandi opere in stile Aragoto.
Pioniere del più realistico e raffinato stile Wagoto fu invece Sakata Toojuroo I (1647-1709). Le tematiche trattano spesso delle travagliate vicende amorose di giovani amanti. Particolare l’opera “La vendetta dei Soga”, dove uno dei due fratelli, Goro è recitato in Aragoto, mentre l’altro, Juro, in Wagoto.
Altra carattesristica del kabuki sono le parrucche e i costumi sgargianti indossati dai personaggi. Questi ultimi sono tanto appariscenti quanto più è alto lo status sociale di chi li indossa.