Il Giappone e lo sport - challenge editoriale
Articolo selezionato per la challenge editoriale "Il Giappone e lo sport" - autrice Nadia Loro .
Parlando di sport vengono subito in mente le imminenti Olimpiadi di Tokyo. Si faranno? Dalle notizie si deduce che la maggior parte dei giapponesi sia contraria, vista la situazione sanitaria attuale, anche se dispiaciuti per gli atleti e le aziende coinvolte. I giapponesi amano lo sport, fa parte della loro cultura e le vecchie generazioni ricordano ancora con entusiasmo Tomba alle Olimpiadi invernali di Nagano del 1998.
Agli appassionati di lettura, questo argomento farà ricordare il recente romanzo Il guardiano della collina dei ciliegi di Franco Faggiani, in cui si raccontano i fatti storici legati al maratoneta Shizo Kanakuri alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912 e la centralità dello sport è messa in relazione con il senso dell'onore e l'impegno nei confronti dell'Imperatore.
Un'emblematica disciplina del panorama sportivo nipponico è l'Ekiden, nata intorno al 1917. Si tratta di una gara a staffetta a squadre su un percorso di lunghezza pari a quello della maratona (42,195 km) suddiviso tra un gruppo composto da 5 a 7 staffettisti e che riflette la vera passione dei giapponesi per la corsa e per il lavoro di squadra.
Parlando di sport e giochi paralimpici, come anche spiegato su Olympic Channel (https://www.olympicchannel.com/en/video/detail/make-them-run-with-the-wind-prosthetist-fumio-usui/ ), sicuramente dobbiamo ricordare il grande esperto in protesi, il dottor Fumio Usui. Di recente anche una fotografa italiana, Silvia Alessi, ha ritratto in pose artistiche dei lottatori di sumo e delle persone senza arti che indossavano le protesi create dal medico giapponese.
Lo sport in Giappone può coinvolgere anche i più pigri con il brivido della velocità della Formula 1 e i circuiti di corsa nel Sol Levante che negli anni hanno ospitato importanti e prestigiose gare automobilistiche.
Il Giappone sicuramente incentiva le attività sportive e vi investe più di altre nazioni. In generale, su incoraggiamento del Ministero dell'Istruzione, le scuole elementari e medie hanno palestre e campi da gioco. Capita spesso di vedere scuole affiancate da ampi campi da gioco ben attrezzati. Gli studenti devono praticare attività fisica durante le ore scolastiche e vengono incoraggiati a proseguire anche dopo la scuola. Alle scuole superiori è obbligatorio. Il culmine delle attività sportive scolastiche è rappresentato dal Taiku no Hi, il giorno dello sport, una festa nazionale. Nata in origine con le Olimpiadi del 1964, oggi viene celebrata il secondo lunedì di ottobre: ogni scuola organizza gare scolastiche a cui tutti gli studenti sono chiamati a partecipare per mostrate ai genitori e amici i risultati raggiunti nelle varie discipline sportive.
Se fossimo nati in Giappone che sport potremmo scegliere? Sport individuale o di gruppo? Sport tradizionale o "importato"?
Il Giappone offre un'ampia scelta perché considera lo sport come elemento di benessere fisico e spirituale. Inoltre, viene ad esso riconosciuto un ruolo fondamentale di socializzazione e partecipazione.
Sport occidentali, come il baseball arrivato in Giappone nel 1870, il golf o il tennis e il calcio sono molto apprezzati. Anche il rugby ultimamente ha riscosso maggiore successo rispetto ad alcuni anni fa, forse anche merito della Rugby World Cup del 2019, svoltasi proprio in terra nipponica.
A fianco di questi sport “importati”, troviamo quello che potremmo definire l'emblema della disciplina nazionale tradizionale giapponese: il sumo. Con radici che affondano nei riti scintoisti e nelle preghiere per raccolti abbondanti, definito sport giapponese per eccellenza è quello che viene maggiormente seguito. I lottatori di sumo attualmente sono considerati delle vere star! Ci sono poi molte arti marziali tradizionali che spesso sono state classificate e definite come discipline sportive. Le più praticate sono il kendo (la via della spada), il karatedo (la via della mano vuota), l'aikido (la via dell'armonia dello spirito), il kyudo (la via dell'arco) e il judo (la via della gentilezza). Ad accomunarle è la parola e ideogramma di Via/Strada 道(do), che sottolinea come si tratti di un percorso dell'anima, di avanzamento spirituale, oltre che fisico e mentale. Sono arti praticate per raggiungere il controllo, l'equilibrio, la precisione, la concentrazione e la strategia.
Nonostante il senso di competizione per un giapponese è importante partecipare dando il meglio di sé per il gruppo, inteso come squadra, ma anche per dimostrare il proprio rispetto agli avversari e al team che ha contribuito alla preparazione atletica. Vincere o perdere sarà il problema eventualmente successivo.
Nadia Loro
Tsubo-niwa: uno scorcio di verde
Gli tsubo-niwa iniziarono ad essere costruiti nel periodo Heian (794-1185), all’interno degli edifici e palazzi aristocratici. Essi ebbero un suo sviluppo anche nel periodo Edo (ad esempio nelle machiya), per arrivare fino ai giorni nostri in differenti forme e collocazioni. Oggi infatti è possibile molto spesso trovarne nei ryokan (alberghi tradizionali giapponesi), ristoranti, ma anche edifici pubblici e privati di diverso genere. Questo tipo di giardino è uno scorcio di verde nel bel mezzo delle città, un luogo nascosto, che invita alla tranquillità e meditazione, a prendersi una pausa da quello che c'è fuori ma allo stesso tempo metterlo in relazione con l'interno. Interno che porta il visitatore in un contesto naturale. Va sempre considerato, infatti, come l’architettura dei giardini si esprima in un interpretare la bellezza della natura, nello scoprirla in diversi modi così per com’è.
Per comprendere il significato del termine “tsubo-niwa” è interessante fare riferimento al volume di Marc Peter Keane Japanese Garden Design. L’architetto spiega come la parola indichi innanzitutto un’unità di misura: lo tsubo 坪 corrisponde alla misura di due tatami (di solito la misura di uno si aggira intorno ai 1800 x 900 mm), niwa 庭 significa invece “giardino”. Gli tsubo-niwa dunque possono essere giardini di modestissime dimensioni, ne esistono di diversi, e vanno dai più piccoli aventi la misura di base dello tsubo fino a multipli della stessa. La parola tsubo però, spiega l’autore, può avere molteplici significati. Può fare riferimento al ki 気 (ovvero il soffio, l'energia) e al suo equilibrio: il giardino interno regola il flusso di energia dell’edificio. A questo proposito Keane ricorda anche il significato di tsubo che si riferisce al vuoto: nell’ambito di taoismo e buddhismo zen, l’individuo deve conoscere se stesso come vuoto attraverso il pensiero del sé come un contenitore cavo, un vaso: tsubo 壺. Così il giardino è uno spazio di meditazione, cavo rispetto all’edificio, invito ad abbandonare la propria individualità per conoscere ciò che al fondo siamo: vuoto, come la natura e tutte le cose.
Ha solitamente una struttura semplice: formato da alcune piante e alberi, piccoli specchi d’acqua, pietre e pochi altri elementi (lanterne, piccoli ponti, sentieri). A volte è possibile trovarvi un temizu, una vasca contenente acqua dove è possibile purificarsi. La vegetazione riceve la luce dall’estero, in misura differente a seconda della struttura dell’edificio che la ospita. Il giardino è nascosto, si trova nella parte interna dell'architettura, ma allo stesso tempo cerca la luce, le piante si protendono verso l'esterno. Invita alla meditazione ma non dimentica cosa esiste al di fuori.
Lo tsubo-niwa permette di scoprire un luogo altro all’interno del tessuto urbano, un luogo dove potersi rifugiare in tranquillità, a contatto con la natura. L’edificio vive in simbiosi con il giardino stesso, che in un certo senso amplia i suoi spazi attraverso l’immersione dello spettatore in un luogo diverso, verde. Esso è concepito sia per essere visitato, ma molto spesso (soprattutto nel caso degli tsuboniwa di piccole dimensioni) anche solo guardato dall’interno della struttura. Infine, è possibile percepirvi quel legame che gli interni hanno con gli esterni, che l’architettura ha con il paesaggio circostante.
Susanna Legnani
Una nuova serie Netflix: “L’Era dei Samurai”
È uscita il 24 febbraio sull’ormai nota piattaforma di streaming legale, una nuova seria con protagonista la storia giapponese: “L’Era dei samurai.”
Come ben molti avranno avuto l’occasiona di notare, si tratta di una docu-serie che alterna testimonianze di storici e studiosi del periodo a scene recitate dei fatti accaduti.
Essa dona una panoramica dell’era Sengoku, un’epoca caratterizzata da feudi divisi e in lotta tra loro, e dei suoi protagonisti, i cosiddetti “tre unificatori”: Oda Nobunaga, Toyotomi Hideyoshi e Ieyasu Tokugawa.
L’inizio del Sengoku-Jidai si ebbe con lo scoppio della guerra di Onin nel 1467, causata dalle numerose rivolte dei daimyo, signori feudali locali fedeli alle direttive dello Shogunato fino ad allora detenuto dalla famiglia Ashikaga.
Con la caduta del governo centrale, ogni daimyo formò un proprio Stato in lotta con gli altri per il controllo sui territori, finché, uno di loro, Oda Nobunaga, iniziò una sanguinosa campagna militare con lo scopo di raggiungere l’unificazione nazionale.
Dopo la sua morte, avvenuta nel 1582, tale obbiettivo venne portato avanti da Toyotomi Hideyoshi e concluso, infine, da Ieyasu Tokugawa nel 1603, quando, a seguito della battaglia di Sekigahara, gli venne conferito dall’Imperatore il titolo di Shogun.
Ebbe così inizio l’era Tokugawa, ultimo governo feudale del Giappone, che si protrasse per più di due secoli.
La docu-serie presenta subito la figura di Nobunaga, personaggio controverso e conosciuto soprattutto per la sua grande abilità e ferocia militare e allo stesso tempo per le sue aperture alle correnti occidentali, ad esempio il Cristianesimo, e ne segue le vicende con attenta minuziosità storica.
La serie, diretta da Stephen Scott, è composta di 6 episodi da 40 minuti ed è disponibile su Netflix.
Di certo un’occasione in più scoprire e conoscere parte della storia giapponese.
Buona visione!
Amanda De Luca
Le stagioni di Azuma Makoto
Azuma Makoto (1976), artista dall’anima punk rock, decide di trasferirsi sin da giovane dalla città di Fukuoka a Tokyo per realizzare il sogno di suonare con la sua band. È in questo luogo frenetico che avviene l’incontro con ciò che animerà il suo lavoro e la sua arte: il mondo della composizione floreale. Comincia lavorando nel mercato di fiori di Ota, uno dei più grandi del mondo. Con il tempo comprende come tutto ciò per lui non si limiti a essere solo un'occupazione per sostenersi, e comincia a impegnarsi per aprire un negozio tutto suo. Progetto questo che si realizza nel 2002 insieme al fotografo Shunsuke Shiinoki, quando apre JARDIN des FLEURS, originariamente nel quartiere della moda di Ginza a Tokyo. Nel 2005, oltre all'attività nel negozio di fiori, inizia la sua sperimentazione. È in questi anni che l’artista comincia a creare ciò che si potrebbe chiamare “sculture botaniche”, delle vere e proprie sculture e installazioni composte unicamente da piante e fiori. Nel 2009 costituisce un gruppo sperimentale chiamato AMKK, il cui intento è quello di sviluppare progetti di diverso genere nell'ambito della composizione floreale.
Il lavoro di Azuma Makoto è molto vario. Il negozio aperto nel 2002 si configurava inizialmente come una boutique haute couture. Lo stesso Makoto confessa in alcune interviste di aver faticato a trovare un vero e proprio target a cui destinare le sue composizioni, molto complesse e articolate, per quello che ai tempi le persone vedevano come un semplice negozio di vendita di fiori. Con il passare degli anni questo luogo cominciò a essere riconosciuto e – continuando il lavoro di vendita e composizione su commissione – si venne ad articolare anche la parte maggiormente sperimentale del rapporto di Azuma Makoto con il mondo delle piante.
In un documentario girato da The New Yorker, in cui egli si autodefinisce “a punk florist”, Makoto spiega come i fiori siano elementi che possono esprimere le emozioni di chi li arrangia e di chi li osserva. La varietà, i colori, la disposizione di questi possono dare vita a universi completamente differenti, veicolando sensazioni sempre diverse. L’artista, inoltre, commenta: «Flowers are living things. You always need to be aware of this». Questa frase ha diversi significati importanti, ed è essenziale per comprendere il suo lavoro. Innanzitutto il fatto che i fiori, essendo esseri viventi, debbano essere rispettati e trattati con delicatezza, prendendone in considerazione tutte le caratteristiche specifiche. I tempi di lavoro e di creazione non sono più quelli dell’artista e del compositore, ma sono quelli del fiore: quelli recisi hanno un ciclo di vita breve, ed è in questo lasso di tempo che occorre completare l’opera. Questa, infine, non è qualcosa di eterno: muta, cambia la sua forma, i suoi colori, i gambi si piegano e i petali cadono, la pianta appassisce.
La composizione è qualcosa di effimero, i fiori hanno un ciclo di vita che piano piano si esaurisce. Nella bellezza di queste opere, l’osservatore riesce a percepire la vita che pulsa – così varia e caratterizzata da diversi colori – ma anche intuisce le brevità della stessa, il destino comune che condividiamo con gli elementi della natura.
DROP TIME – LO SCORRERE DEL TEMPO
Non è mai concessa la possibilità di schiacciare il pulsante “pausa” nel trascorrere dei giorni: rincorriamo ciò che rende felici, rifuggiamo i momenti di dolore, cerchiamo di allontanare l’istante in cui anche noi appassiremo. Le stagioni si avvicendano, alcuni fiori sbocciano mentre altri piegano le loro corolle verso il terreno. Azuma Makoto ritrae il ciclo di vita dei fiori in numerosi esperimenti, tra cui i video chiamati “Drop Time”. Questi sono visionabili sul suo canale ufficiale di YouTube, mostrano differenti tipi di composizioni esaurire il loro ciclo di vita in pochi secondi, per poi nuovamente rifiorire.
https://www.youtube.com/watch?v=GikdxpbIwcg
Video dal canale YouTube Azuma Makoto Kaju Kenkyusho
DISLOCAZIONE
Oltre alle sculture botaniche, un’altra interessante pratica nella sperimentazione dell’artista è quella della collocazione delle opere in contesti in cui le piante di solito non sono presenti. Azuma Makoto è infatti famoso per aver lanciato una composizione floreale nella stratosfera. Questi progetti proseguono in direzioni sempre differenti: sott'acqua, nel deserto, in mezzo al mare, nel ghiaccio.
Il tentativo è quello di comprendere il modo in cui questi elementi naturali reagiscono in condizioni anormali, in luoghi in cui non si trovano solitamente. In molte di queste occasioni è interessante osservare come la delicatezza di questi fiori si tramuti in forza e tenacia della natura. Natura che lascia trapelare nuove sfumature di bellezza attraverso queste collocazioni inusuali e inaspettate: che sia cristallizzata in un ghiacciaio o travolta dalle acque dell'oceano, lasciata fluttuare dove manca l'aria o posta in un luogo deserto e senza spettatori, essa suscita ogni volta nuove suggestioni.
https://www.youtube.com/watch?v=8qWnTH30O7Q
Febbraio 2018, Hokkaido, Giappone. Video dal canale YouTube Azuma Makoto Kaju Kenkyusho
Fonti:
Canale YouTube Azuma Makoto Kaju Kenkyusho
Sito web dell'artista https://azumamakoto.com
Documentario di The New Yorker
a cura di Susanna Legnani
Uno sguardo al primo Japan Film Festival Online
Organizzato dalla Japan Foundation in collaborazione con le varie sedi estere, tra cui l’Istituto Giapponese di Cultura in Roma è stato presentato in 20 paesi del mondo il primo festival di cinema giapponese online: il Japan Film Festival Plus.
Il JFF è stato ideato per promuovere il cinema giapponese nel mondo e faceva parte di un progetto, “Japanese Film Anytime, Anywhere”, inizialmente avviato nel 2016 in alcuni paesi asiatici e in Australia, per poi raggiungere progressivamente Cina, Russia e India, con l’intento di presentare le più recenti uscite cinematografiche giapponesi.
Nel 2019/20 è stato proposto in 56 città di 12 diversi paesi, registrando oltre 170.000 spettatori.
Quest’anno, dovendo far fronte all’emergenza sanitaria globale, la Japan Foundation ne ha promosso una versione online, definita Plus, per una condivisione in streaming dell’evento in ben cinque continenti.
La versione “Plus” è stata una raccolta di contenuti di vario genere, tra cui lungometraggi, video-interviste ai registi, articoli di approfondimento e corti d’animazione, poi trasmessi sulla piattaforma del festival dal 26 febbraio al 7 marzo.
I 30 titoli, che spaziavano dal thriller alla commedia, dagli anni ’50 alle ultime uscite, erano disponibili in streaming gratuito previa registrazione per un tempo limitato di 24 ore da quella di proiezione, scaglionata in tre turni mattutini: 9.00/11.00/13.00. Una volta scaduto il tempo di visione, si rendevano disponibili i film successivi, con una media di tre al giorno.
Numerose sono state le tematiche trattate, sia proprie della cultura e della società giapponesi sia riflessioni di carattere universale, ad esempio l’amore, in tutte le sue forme.
Una menzione particolare meritano i cortometraggi in Stop Motion di Yashiro Takeshi, un professionista di questa tecnica di animazione, che hanno ritratto le avventure di Norman e il suo pupazzo di neve e di una piccola e generosa volpe di nome Kon.
Una bellissima iniziativa, insomma, che ha attirato l’attenzione di curiosi e interessati, ma se ve la siete persa, non vi resta che aspettare l’anno prossimo!
Amanda De Luca
INFINITO: Yayoi Kusama e Infinity Mirrored Room Filled with the Brilliance of Life
Il secondo articolo della serie “La percezione dello spazio nella visione degli artisti giapponesi contemporanei” si affaccia sull’opera di una donna che certo non occorre presentare. Sono molti i motivi che attraversano la produzione di Yayoi Kusama, che si esplicita in differenti forme d’arte che vanno dalla pittura alla scultura, agli happenings e le installazioni. Serie e ripetizioni, accumulazione, forme, obliterazione, minimalismo e surrealismo, colore e non solo. Non basterebbe un singolo articolo per tentare di mettere in luce tutte le sfaccettature dell’arte di Yayoi: una personalità forte, che prende spesso parte alle sue stesse opere, facendosi ritrarre con esse o in modo che evolvano in performaces. L’aspetto su cui ci si soffermerà in questo contesto è quello dell’infinito. Il lavoro di ricerca sulla raffigurazione dell’infinito accompagna Kusama lungo tutto il suo percorso artistico. Dalla rappresentazione dei polka-dot, all’accumulazione delle forme, ai dipinti delle Infinity Net, Yayoi approda nella sua produzione più recente alla realizzazione di veri e propri ambienti ispirati a questa caratteristica.
Infinity Mirrored Room – Filled with the Brilliance of Life fa dunque parte della produzione tarda di Kusama, datato 2011. È una delle installazioni di maggiori dimensioni di questo genere (circa 3 × 6 × 6 m) che venne prodotta in occasione della mostra retrospettiva “Yayoi Kusama” in tre esemplari per i musei di Reina Sofia, Centre Pompidou e Tate Modern. Tra le opere dell’artista l’utilizzo di superfici a specchio ebbe dei precedenti: Infinity Mirror Room – Phalli’s Field (1965) e Kusama’s Peep Show – Endless Love Show (1966). Queste installazioni si collocano in un differente periodo della sua produzione, e prendono in considerazione maggiormente anche il tema della sessualità. In Kusama's Peep Show – Endless Love Show è interessante osservare il modo in cui lo spettatore è a contatto con l’opera: invece di una iniziale completa immersione nell'ambiente, lo sguardo viene guidato da due piccole finestre nelle pareti, da dove è possibile affacciarsi per assistere allo spettacolo di luci nella piccola stanza esagonale.
L’opera del 2011 è invece immersiva: lo spettatore che si ritrovi chiuso in questa stanza potrà perdersi nei giochi di luci e oscurità che i LED e gli specchi creano intorno a chi guarda. Essa consiste in un ambiente in cui ogni parete è ricoperta da specchi, compreso il pavimento, dove si trova una passerella. Intorno a questa passerella è presente dell’acqua, al modo che possa sembrare di guadare un fiume. Nella stanza sono appesi centinaia di LED che presentano diverse configurazioni di luce, in modo da creare effetti particolari in relazione al buio della stanza. Tutta questa struttura è atta a costituire un ambiente apparentemente infinito, attraverso i riflessi delle luci dello stesso ambiente negli specchi e nell’acqua. Lo spazio a disposizione è allora moltiplicato attraverso l'uso dei materiali e dalla composizione dell’opera, così che una piccola stanza possa essere una possibile finestra su uno spazio senza fine.
Gli specchi e l’acqua hanno molto in comune: sono due “vuoti”, accolgono ciò che sta intorno. Riflettono, moltiplicano, alterano lo spazio reale aprendo lo sguardo a uno spazio di immaginazione, in cui ci si ritrova persi in un luogo senza punti di riferimento, dove anche la percezione del soggetto come distaccato dall’opera viene meno. Nel buio della stanza si perde l'intuizione del proprio corpo come indipendente dal resto: anch’esso viene riflesso, anch’esso si disperde nell’infinito entrando in relazione con l’opera, che non è più solo un oggetto esterno, ma interagisce con noi, come noi interagiamo con essa. Qui si può sentire quella «brilliance» della vita che anima la stanza, rappresentata dai LED: lo scintillare di momenti, che si accendono e spengono, che si moltiplicano, emergono dal buio.
In differenti interviste Kusama testimonia come il suo interesse verso l’individualità sia da sempre intrinsecamente legato a un interesse per questa in relazione: con l’opera, con il mondo, con la società e gli altri individui. Jo Applin, studiosa di storia dell’arte contemporanea e docente all’Università di New York, mette in evidenza come la raffigurazione dell’infinito sia parte di quel viaggio che Yayoi compie nel senso della obliterazione del sé, e dunque della relazione all’altro, agli individui e all’ambiente. Dunque, il modo di espressione personale della stessa Yayoi naufraga e allo stesso tempo prende vita in una specifica concezione del rapporto tra artista e opera: non qualcosa da osservare o solo ammirare, ma un ambiente in cui vivere e perdersi, in cui comprendere la propria relazione con il resto. Ambiente in cui la nostra immaginazione, le nostre fantasie, ma anche ossessioni, allucinazioni, possono prendere vita.
L’infinito è rappresentato attraverso accorgimenti che moltiplicano lo spazio, fanno perdere allo spettatore il senso dell’orientamento e lo invitano a percepirsi in relazione a ciò che lo circonda, a considerarsi una parte di questo infinito. È uno spazio di immaginazione: vuoto, accoglie ciò che si trova nei suoi pressi e concede lo spazio alla creatività, lascia che la mente e i sensi vaghino senza posa.
Fonti sull'opera: https://www.tate.org.uk/art/artworks/kusama-infinity-mirrored-room-filled-with-the-brilliance-of-life-t15206
a cura di Susanna Legnani
Il giardino del Tenryū-ji: la tecnica dello shakkei
L’epoca Muromachi (1336-1573) fu un periodo di fioritura delle arti legate alle pratiche zen, sviluppo delle quali venne patrocinato in particolare dagli shōgun del clan Ashikaga.
Le arti che subiscono l’influenza o addirittura nascono come pratiche zen sono caratterizzate da un’attenzione particolare per il contesto naturale e per gli elementi della natura in genere, nei quali viene colta la relazione profonda con l’uomo. Tra queste arti emergono la cerimonia del tè, l’ikebana e anche l’arte della composizione di giardini. Quest’ultimo tipo di arte è particolarmente importante poiché influenza la strutturazione stessa degli spazi del quotidiano nella vita dei giapponesi.
Una forma interessante di architettura di giardini è quella che viene chiamata shakkei, proprio perché attraverso questo tipo di struttura è possibile osservare quel rapporto particolare tra costruzione ed elementi naturali. Il giardino del Tenryū-ji è una delle forme più compiute, note e studiate di shakkei, termine che viene solitamente tradotto come “paesaggio in prestito” e che fa riferimento a una specifica tecnica di composizione. Questa tecnica consiste nel tentare di incorporare il paesaggio circostante, al modo che giardino e natura si trovino in continuità. Tutto ciò viene realizzato attraverso una disposizione particolare di alcuni elementi. Nel caso specifico del giardino del Tenryū-ji, il paesaggio preso in prestito è quello delle colline di Arashiyama e Kameyama. Queste colline completano la disposizione degli elementi del luogo, progettato dal monaco buddhista Musō Soseki.
Guardando il paesaggio dall’Hojō, ovvero le antiche abitazioni dei monaci nel tempio, è possibile osservare una prima parte del giardino composta da ghiaia, un laghetto con pietre di diverse dimensioni, sullo sfondo poi gruppi di piante che indirizzano lo sguardo direttamente sulle colline retrostanti. Lo spazio così è illusoriamente dilatato, e non si percepisce più la differenza tra interno ed esterno. Gli studiosi paragonano l’osservazione di questo tipo di paesaggio all’esperienza che si fa nel momento in cui ci si trova davanti a un dipinto: essi spiegano come esso non si attraversi tanto con il corpo, quanto con lo sguardo.
In particolare, lo studioso di architettura Teiji Itō scrive molto a proposito delle tecniche di composizione dei giardini, e analizza il sito del Tenryū-ji mettendo in evidenza questa relazione di interno ed esterno, in uno spazio dilatato e continuo. Soffermandosi a parlare di shakkei egli fa notare come la traduzione “paesaggio in prestito” non sia la migliore per veicolare il significato di ciò che accade nella strutturazione di questo tipo di giardino, ma crede sia meglio parlare di paesaggio «captured alive».
«Captured alive» è un’espressione che evoca contrasti. A volerla tradurre si potrebbe dire che la tecnica del paesaggio in prestito è operata attraverso un luogo di sfondo che è “catturato vivo”, dove il gesto del “catturare” non è però sinonimo di ingabbiare, ma fa pensare più che altro al gesto di chi scatta una fotografia. Il paesaggio in questo caso non è un ornamento, non ha una funzione decorativa, rimane vivo, «alive». La natura che pervade i giardini giapponesi è una natura viva, che è soggetta al mutare del tempo e delle stagioni. I cambiamenti che accadono nella struttura fanno parte della bellezza di questa: quando le foglie mutano il loro colore in autunno, quando un uccello fa il nido su un albero, quando il legno del tempio invecchia. Tutto ciò fa parte della bellezza di questo giardino, ed è allora come osservare un dipinto in movimento.
Questo modo di pensare l’arte è profondamente connesso al rapporto dei giapponesi con la natura, rapporto che trova parte delle sue radici non solo nello shintoismo, ma anche nella tradizione buddhista zen. Alcuni elementi naturali possiedono un’aura di sacralità poiché possono essere luogo in cui risiedono i kami, allo stesso tempo le dottrine buddhiste ricordano la relazione di tutte le cose tra loro, dunque anche tra uomini e natura. Quest'ultima comincia sin dall’antichità ad assumere una bellezza particolare (soprattutto a partire dal periodo Heian), e allo stesso tempo ciò che è bello viene chiamato naturale, attraverso la denominazione di shizen. È questo che nello shakkei spinge il costruttore a non separare il giardino dal paesaggio circostante, e che lo porta a poche modifiche dello stesso paesaggio: gli elementi di questo vengono piuttosto valorizzati nel loro contesto.
Fonti:
Teiji Ito, Space and Illusion in the Japanese Garden
a cura di Susanna Legnani
RELAZIONE: Tadao Ando e Water Temple
Per il primo articolo della serie “La percezione dello spazio nella visione degli artisti giapponesi contemporanei” si prenderà in considerazione un edificio di culto, luogo che presenta particolarità molto interessanti e che fa emergere nello specifico una caratteristica che è possibile riscontrare in molte altre architetture in Giappone.
Water Temple è un’opera molto conosciuta di Tadao Ando ed è un tempio buddhista Shingon, collocato sull’isola di Awaji e chiamato anche Honpukuji. L’isola di Awaji si affaccia sulla baia di Osaka, e si trova a una/due ore di distanza dalla città stessa. Viene completato nel 1991, posizionato in un contesto extraurbano e attorniato da colline e spazi verdi. Non è certo un classico tempio giapponese, o almeno non apparentemente: la costruzione in cemento che lo accoglie nulla ha a che vedere con le antiche architetture in legno con pagode che spesso accostiamo ai luoghi sacri del buddhismo. Eppure, la sua costruzione prende forma – forse implicitamente – anche dagli insegnamenti buddhisti, e si colloca nel verde, proprio come accade per i templi antichi, sempre provvisti di un giardino o immersi nella natura.
Honpukuji viene considerato da alcuni come esso stesso un tipo di giardino acquatico, proprio perché accoglie sulla sua superficie una vasca in cemento contenente acqua e fiori di loto (simbolo di illuminazione nel buddhismo). Al di sotto, nel cuore del terreno, ospita il vero e proprio luogo di culto. Dunque, una specie di giardino, che è già struttura architettonica, il quale custodisce in sé il tempio.
Vediamo dunque com’è strutturata quest’architettura: perché si è parlato di “relazione” come una delle caratteristiche di questo luogo?
Avvicinandosi alla piccola collina che ospita il complesso, incontriamo per prima cosa delle pareti in cemento, che dobbiamo costeggiare per giungere alla vasca ovale. Questa vasca, seppur posta in una zona rialzata, ci appare probabilmente come uno spazio concavo rispetto a ciò che ci circonda: tutt’intorno si è circondati da alture, verde che si riflette nell’acqua della vasca. Nonostante dunque questa sia costruita in cemento e rappresenti un perfetto ovale, si pone in relazione con gli elementi che la circondano e con il territorio. E cosa significa relazione in questo contesto? Non due poli indipendenti che interagiscono ma, anche seguendo gli insegnamenti buddhisti, due realtà interdipendenti, che hanno da sempre bisogno l’una dell’altra e non sussisterebbero l’una senza l’altra. La vasca accoglie nel suo riflesso il paesaggio circostante e custodisce il tempio nel cuore della sua struttura. È una tipicità dei progetti di Ando il cercare di utilizzare i livelli sotterranei, moltiplicando di fatto lo spazio e disposizione senza dislocarlo su una maggiore superficie. La vasca è attraversata in parte da una striscia geometrica, rettangolare, che con una scala invita il visitatore a discendere, dalla luce all’oscurità. Come a dire: è qui, nel buio e mistero della terra, nelle profondità della natura, che il sacro risiede.
Da un apparente momento nell’oscurità si è invitati nuovamente a costeggiare delle mura, dove l’atmosfera si tinge di colore rosso, fino ad arrivare al centro del luogo sacro: un luogo di culto dove è presente una statua di Buddha, e uno scorcio di luce naturale che proviene da dietro di essa, creando nell’ambiente diverse sfumature di colore rosso.
Questa caratteristica che si è individuata, la "relazione", conduce dunque nella progettazione architettonica a una maggiore considerazione degli spazi esterni, in connessione profonda con quelli interni. Le due realtà non appariranno così giustapposte, ma in una situazione di non indifferenza l'una all'altra: non importa se esse siano in un rapporto di armonia o contrasto, l'importante qui è la relazione dinamica che intercorre tra le due. Questa relazione emerge proprio per il fatto che nella costruzione non vi è stata indifferenza nei confronti del luogo prescelto, ma piuttosto un profondo studio del sito e di tutte le sue caratteristiche (culturali, storiche, sociali, strutturali). Tutto ciò si esplicita in un rispetto non solo dell'ambiente, ma anche del territorio in quanto possiede alcuni attributi specifici. La relazione tra edificio e paesaggio circostante è ciò che rende gli spazi fluidi: percepiamo passaggi graduali tra interni ed esterni e non divisioni nette. Spazio interno ed esterno si compenetrano: la sensazione di essere chiusi in una struttura è quasi assente, persino sottoterra, dove penetra la luce. Così l'edificio geometrico e di pesante cemento si fa leggero, e si apre al paesaggio e agli elementi naturali che qui sopraggiungono. Emblematico è l'uso dell'acqua: elemento in continuo movimento e cambiamento, di cui la vasca in cemento è la sponda, è specchio per ciò che vi è intorno. Moltiplica all'infinito e frammenta la visione del paesaggio, rendendolo un'immagine transitoria. Infine, il fatto di pensare la struttura su diversi livelli - sempre in relazione tra loro - è qualcosa che aiuta a moltiplicare lo spazio e disposizione. Così, anche una superficie all'apparenza più modesta sarà in grado di espandersi, sfruttando la naturale collocazione del luogo.
Fonti:
https://www.archiweb.cz/en/b/vodni-chram-shingonshu-honpukuji
a cura di Susanna Legnani
Il giorno della Fondazione in Giappone
L’11 febbraio in Giappone si celebra il Giorno della Fondazione (Kenkoku kinen no hi): una ricorrenza nazionale che commemora la creazione della Nazione nel 660 a. C da parte dell’imperatore Jinmu, figura al confine tra mito e realtà.
Secondo il Kojiki e il Nihon-Shoki, antichi testi sulla storia giapponese, Jinmu sarebbe, infatti, diretto discendente della dea del sole Amaterasu, la quale avrebbe inviato sulla Terra quelle che ancora oggi sono considerate le tre insegne del potere imperiale: lo specchio sacro (yata no kagami), la spada del paradiso (kusanagi) e la gemma della dea (yasanaki no magatama), che rappresentano la saggezza, il valore e la benevolenza.
Tali testimonianze hanno avuto la funzione, oltre che di raccontare la mitologia e gli accadimenti storici giapponesi, di legittimare la famiglia imperiale e di riconoscere la figura dell’imperatore come tennō, sovrano celeste, considerato a tutti gli effetti una divinità.
Nonostante fosse celebrato da sempre, il Kenkoku kinen no hi, è divenuta una festività ufficiale solo nel 1873, con l’introduzione del calendario gregoriano durante il periodo Meiji.
Dopo la Seconda guerra mondiale e l’occupazione degli Stati Uniti sul suolo giapponese, la festa fu abolita e contemporaneamente venne promossa una campagna di “umanizzazione” della figura dell’Imperatore.
Ad oggi, infatti, egli non possiede alcun potere, ma il suo ruolo rimane altamente simbolico per la Nazione giapponese, rappresentando l’unità del suo popolo.
Il giorno della fondazione fu ristabilito nel 1966, ma con un diverso spirito celebrativo.
In questa nuova versione i riferimenti espliciti all’Imperatore e al patriottismo sono stati parzialmente rimossi, mentre si cerca di porre l’attenzione sul significato di essere cittadini giapponesi.
I festeggiamenti consistono nello sfoggio di bandiere con il simbolo del Giappone (hi no maru), parate, rituali shintoisti, fuochi d’artificio e discorsi e saluti da parte di diverse figure politiche, tra cui anche l’Imperatore.
Amanda De Luca
Roma-Tokyo 1920: il raid in due album a colori
A quasi un anno dal centenario del primo raid aereo Roma-Tokyo, il giornale giapponese Tokyo Shimbun dedica un articolo in prima pagina sul numero del 26 Gennaio a un progetto tutto particolare. È il 1920 quando il tenente Aurturo Ferrarin e altri piloti compiono, in diverse tappe, un raid aereo dalla capitale italiana a quella giapponese. Solo pochi uomini giungeranno alla meta finale, tra cui anche Ferrarin, e riceveranno una grande accoglienza con festeggiamenti da parte del popolo giapponese. Evento che segnò un punto importante nella volontà di creare relazioni tra i due stati, venne ricordato in particolare da una serie di disegni di bambini di Tokyo che a quel tempo cercarono di ritrarre questa fenomenale impresa, e che vennero poi conservati in due album che Ferrarin riportò in patria.
Le opere di questi bambini sono state raccolte e sono consultabili oggi sul sito-album https://kinencho1920.com curato dall’artista Satoshi Dobara, in collaborazione con la Famiglia Ferrarin, l’Aeronautica militare Italiana, la Fondazione Italia Giappone, il Comune di Thiene, l’Istituto italiano di cultura a Tokyo, e l’Iwai Medical Foundation.
Ma vediamo più nel dettaglio la storia di questa impresa eccezionale, di come venne dipinta nell’immaginazione dei bambini, i quali produssero disegni che oggi – grazie al progetto kinencho1920 – sono facilmente consultabili da chiunque desideri viaggiare con la fantasia a quel tempo.
ROMA-TOKYO, 1920
Il raid fu pensato e immaginato in prima istanza da Gabriele D’annunzio, ma venne successivamente realizzato da un gruppo di aviatori. Il progetto di volo consisteva in 29 tappe con partenza da Roma e destinazione finale Tokyo, da svolgersi nell’arco di alcuni mesi, e fu sostenuto da entrambi i governi, giapponese e italiano.
Partirono da Roma 11 aerei e 22 persone, ma solo il tenente Ferrarin e altri tre uomini arrivarono alla meta. I mezzi dei tempi non erano del tutto adeguati per affrontare un raid del genere, infatti si parlava di effettuare un viaggio di quasi 18.000 km con biplani S.V.A, aerei rudimentali in legno e metallo. Molti dei piloti che intrapresero il volo si videro costretti a rinunciare, a causa di guasti o incidenti. Il tenente Arturo Ferrarin, originario di Thiene, il suo motorista Cappannini e il pilota Masiero con il suo motorista Maretto (che tuttavia non arrivarono in Giappone con il mezzo iniziale, ma dovettero sostituirlo) furono gli uomini che riuscirono a portare a termine questo viaggio.
Il 31 maggio 1920 gli aviatori italiani vengono accolti in Giappone con moltissimo entusiasmo, tanto che viene dichiarata Festa Nazionale e le celebrazioni continuano per circa quaranta giorni.
Ferrarin e gli altri piloti ricevono diversi doni e onorificenze, e vengono anche invitati al cospetto della Imperatrice Teimei, moglie dell’Imperatore Taisho. Il tenente documenta questo incontro nel suo libro “Voli per il mondo”, dove rievoca il colloquio avuto con l’Imperatrice e parla in particolare di due album di disegni prodotti da bambini giapponesi e donatigli in quell’occasione.
I DISEGNI DEI BAMBINI DI TOKYO
In occasione del raid Roma-Tokyo, e nella prospettiva dell’arrivo dei piloti dall’Italia, l’Imperatrice del Giappone chiese ai bambini (di età tra i 7 e 15 anni) delle scuole di Tokyo di preparare dei disegni di quell’incredibile impresa che si sarebbe compiuta. Di tutti i moltissimi disegni prodotti ne furono scelti 166, e vennero raccolti in due album che l’Imperatrice consegnò a Ferrarin come regalo per lo stato italiano, chiedendo che venissero consegnati alla famiglia reale. In realtà, gli album rimasero inizialmente al tenente, e successivamente presero due strade differenti. Uno di questi rimase agli eredi della famiglia Ferrarin, mentre l’altro venne conservato nel Museo Storico dell’Areonautica Militare di Vigna di Valle.
I disegni negli album sono di una stupefacente bellezza, anche considerando la giovane età di chi li produsse: tutti di diversi generi, a colori o con pittura nera, avevano in comune il sogno del volo e il legame tra il popolo italiano e quello giapponese. Il volo compiuto non fu solamente fisico allora, ma fu anche quello dell’immaginazione di molti bambini che aspettavano con impazienza e gioia questo evento. I disegni testimoniano le non scontate capacità artistiche di quei ragazzi, ma anche la volontà di conoscenza, tra popoli e dell’ignoto. Tra questi disegni vi furono anche quelli di alcune personalità che divennero in seguito conosciute, come Tanaka Isson (pittore), Junzo Yoshimura (architetto) e Hirotsugu Inanami (ufficiale e atleta).
KINENCHO1920 E SATOSHI DOBARA
Satoshi Dobara, artista giapponese con un passato di studi a Kyoto e Firenze, è una delle persone che si sono occupate della ricerca e valorizzazione di questi album, dando vita a un interessante progetto.
Dobara, amante della cultura e arte italiana, ritrae in una serie di suoi dipinti proprio dei biplani S.V.A, che sorvolano paesaggi dell’Italia e del Giappone. Tinte e atmosfere oniriche, colori delicati e semplicità del tratto rievocano quel mondo di immaginazione in cui anche ciò che sembra impossibile diviene realizzabile. L’artista, molto legato alla vicenda del raid Roma-Tokyo, è colui che per primo sviluppa un interesse nella ricerca dei due album, e ha anche occasione di conoscere la famiglia Ferrarin e molti degli eredi dei bambini che disegnarono e sognarono l’impresa.
Kinencho è un progetto curato dall’artista e da altre istituzioni, e si propone come un sito-album dove poter ammirare i disegni di quei bambini e comprendere la storia del raid del 1920 e il suo significato per i popoli che ne ebbero testimonianza. I disegni, in particolare, sono catalogati con nome del bambino, età e nome della scuola frequentata.
Lo scopo del sito non è solo, dunque, quello di illustrare questa splendida storia e avventura, ma anche comprenderne il suo significato, attraverso gli occhi dei bambini del tempo. Inoltre, un altro obiettivo del progetto è quello di «riallacciare i rapporti tra gli autori degli Album ed i loro discendenti per riscoprire le loro storie familiari», come riporta lo stesso sito «vogliamo riportare alla luce questo pezzo di storia e non perderlo mai più».
Fonti
https://kinencho1920.com/content/about-it.php
http://www.satoshi-dobara.com/index.html
https://www.tokyo-np.co.jp/amp/article/81974
Susanna Legnani