TEMPO: Tatsuo Miyajima e Time Garden
Il quarto articolo della serie “La percezione dello spazio nella visione degli artisti giapponesi contemporanei” si sofferma su Time Garden, giardino progettato da Tastuo Miyajima.
Time Garden è un’installazione realizzata nel 2002 per il sito specifico di Izumi City Plaza, Osaka. In questo centro è presente un giardino di bambù, dove sono stati collocati 120 contatori LED. Luci color smeraldo che brillano nelle notti scure. Prima di prendere in considerazione l’opera specifica occorre soffermarsi su alcuni punti chiave nella produzione di Tatsuo Miyajima. Ciò anche per comprendere come il tema del “tempo” sia implicato nelle sue opere.
Tatsuo Miyajima è un’artista la cui produzione comprende installazioni, sculture, disegni e performaces. Caratteristico delle sue opere è l’utilizzo di contatori LED con sequenze numeriche dal numero 1 al 9: segno di un tempo che scorre e non si ferma mai. L’uso dei LED risale circa al 1987, e persiste in soluzioni differenti fino agli ultimi anni. Lo stesso artista dichiara quali siano i principi che guidano la sua arte, rendendo esplicita la relazione che collega i progetti alla tradizione, al Buddhismo in particolare. Tuttavia, questa non si limita a essere una reinterpretazione di alcuni motivi tradizionali. È un tipo di produzione totalmente originale e che tenta di riscoprire attraverso l’arte alcune esperienze legate alla tradizione. Queste esperienze sono riassunte da Miyajima in tre punti:
“Keep Changing” – il continuo divenire e mutare
Tutto cambia. Niente è destinato a rimanere com’è. Nello scorrere del tempo, il mutamento è insito nella stessa realtà. È qualità della realtà il fatto di essere affetta dal tempo, il fatto di non permanere mai uguale a sé. Questo ricorda la dottrina buddhista dell’impermanenza di tutte le cose, periture ed effimere. Come si comporta l’arte di fronte a questo tipo di realtà? Accetta in modo positivo il cambiamento e lo rappresenta nelle sue proprie modalità. In un certo senso, dunque, l’arte diviene esperienza di conoscenza delle caratteristiche del reale.
“Connect with Everything” – la naturale relazione che corre tra le cose
Niente è indipendente, tutto interagisce. Le cose della realtà non godono di autonomia propria, ma trovano il loro senso solo nella naturale relazione che intercorre da sempre tra loro. Anche in questo caso, l’insegnamento buddhista riecheggia: non autosussistenza, interdipendenza tra tutte le cose, tra uomo e natura. L’arte come interpreta questo? Deve interagire con le cose, non isolarsi dal mondo, ma esserne parte. L’arte che non tocca la realtà è arte sterile.
“Continue Forever” – una linea senza fine
Il cambiamento continua all’infinito. Come una serie numerica che non tocca mai il punto zero, il tempo scorre senza un limite. L’arte rappresenta in un certo senso l’immortalità, ma l’immortalità del divenire. Ciò che non cambia mai è esattamente la presenza della realtà che diviene sempre.
Questi concetti sono fondamentali per comprendere l’opera Time Garden. Tutto il lavoro è stato pensato sulla base della fiaba giapponese Kaguyahime o Taketori monogatari, che spesso viene tradotto con “La storia della principessa splendente”. In quest’antico racconto, un anziano tagliatore di bambù trova una bambina dentro una canna splendente e decide di crescerla come sua. Le luci tra i bambù sono dunque rappresentazione di vita, vita che nasce e splende.
L’opera è un’installazione di 120 contatori LED color verde smeraldo, in un giardino nel sito dell’Izumi City Plaza. L’arte, dunque, interagisce con la realtà e con lo spazio in cui è inserita: i contatori segnano sequenze di numeri che vanno da 1 a 9, senza mai raggiungere il numero zero. Rappresentano una continuità, un tempo che scorre senza una fine. Il punto zero non è toccato, ma sostituito da una fase di buio: come a dire che la morte fa parte dello scorrere della vita. L’arte rappresenta la realtà, il divenire e il mutare delle cose, attraverso la sequenza di numeri che non si ferma mai.
Interessante è anche il fatto che quest’installazione fu completata attraverso partecipanti a workshops e sostenitori del progetto. Queste persone, la cui lista di nomi è disponibile sul sito ufficiale di Tatsuo Miyajima, sono stati decisori fondamentali per l’allestimento. Infatti, essi hanno deciso la velocità e impostato i timer dei LED, interagendo attivamente con l’opera. Questa, dunque, per differenti motivi, risulta strettamente legata alla realtà e vita quotidiana: si trova in uno spazio pubblico di aggregazione, in un giardino e quindi in armonia con la natura, allestita grazie all’opera di più di 120 persone che hanno collaborato. Questa collaborazione mette in evidenza un altro principio caro a Miyajima: il fatto che l’arte possa essere per tutti. Non solo, un’opera che si realizza in questo modo permette di comprendere la naturale relazione tra le cose e l’attinenza dell’arte alla vita.
Fonti e foto:
Susanna Legnani
Miki Midori l'artista giapponese del "Kawaii"
Miki Midori è una giovane artista giapponese che sviluppa la sua ricerca artistica all'interno della cultura “Kawaii”(可愛い o かわいい) . Quel mondo fatto di tutto ciò che può essere considerato grazioso, carino, adorabile, buffo e genuino. E' una parte significativa del mondo giapponese che spesso diventa un vero e proprio stile di vita.
In Giappone “Kawaii” è un termine che viene utilizzato come aggettivo. Nel corso dell'epoca moderna il suo significato ha creato una vera e propria subcultura, rafforzata anche dalle opere manga, anime e dai video game oltre che dagli oggetti loro collegati. Si sviluppa soprattutto nei contesti giovanili in cui diventa una forma di espressione fatta di modi di vestirsi, di adornarsi, di parlare, di scrivere, di comportarsi. Il “Kawaii” dunque diventa un modo di essere e di pensare, un gusto estetico della cultura pop contemporanea giapponese.
Si possono ritrovare molti artisti, nell'arte contemporanea giapponese, che hanno fatto del “Kawaii” la loro ricerca artistica. Si possono fare esempi come Takashi Murakami con i suoi iconici allegri fiorellini e i suoi irriverenti personaggi manga, oppure Yoshitomo Nara con i suoi carinissimi bimbi imbronciati. Miki Midori invece ci propone un delicato mondo femminile fatto di un gusto minimal ma estremamente “Kawaii”. Un mondo dove il cioccolato, i popcorn e il colore rosa sono protagonisti.
Con la sua sensibilità, l'artista giapponese Miki Midori vuole mettere in luce tanto una profonda dolcezza quanto la forza di una giovane donna che insegue i suoi sogni. Allo stesso modo incoraggia il pubblico a seguire il suo esempio, andandogli incontro e invitandolo a far parte della sua dimensione anche solo per un piccolo istante. Una dimensione che vuole riscaldare l'animo di chi ne viene accolto e che vuole regalare fiducia e speranza, senza però pretendere di nascondere la realtà, a volte anche amara, della vita.
GIFT-Ordinary Special things
La mostra “GIFT-Ordinary Special things”, tenuta nella prefettura di Tokushima presso il Clement Plaza Tokushima fino allo scorso febbraio 2021 è un percorso surreale disposto in vari ambienti del palazzo che accoglie lo spettatore trasportandolo in un gentile paese dei balocchi.
Attraverso l'ideale estetico del Kawaii, l'artista giapponese Miki Midori, concepisce le opere presenti come doni con lo scopo di rendere un po' più libero e leggero il cuore di ogni persona.
Nella sua mostra è dunque presente il desiderio di poter scacciare anche per poco il pensiero di un mondo profondamente scosso dalle difficoltà che spesso si trova ad affrontare, così come è accaduto negli ultimi tempi con la pandemia che ancora oggi ci rende difficile tornare alla normalità.
Nel pian terreno dell'edificio troviamo “Pink Chocolate GIFT” una grande installazione alta 2 metri composta da 1300 barrette di cioccolato rosa. Le barrette sono create con resine, alluminio e carta stampata con la classica grafica utilizzata per il famoso cioccolato giapponese Meiji. L'artista giapponese le posiziona per formare un grosso regalo avvolto da un luccicante nastro dorato.
“Strawberry Popcorns Gift”, un'enorme busta regalo di plastica dorata e trasparente piena di popcorn rosa accuratamente fatti a mano dall'artista.
Infine “Chocolate sprinkles” una serie di dipinti a olio rappresentanti cioccolatini colorati mischiati a “oggettini carini”. Tra queste tele troviamo “Chocolate Sprinkles Gift - Pink Party” un dipinto a olio di 1m x 1m che posizionato orizzontalmente su un supporto quadrato e dorato trasmette allo spettatore la voglia di immergersi in una dimensione decisamente "Kawaii".
Il complesso di installazioni sono posizionate affinchè il visitatore possa avere anche una suggestiva visione dall'alto man mano che sale verso i piani superiori del palazzo, tramite l'utilizzo di scale mobili che si affacciano sul pian terreno.
Proseguendo al secondo piano ci si imbatte in un altro “Pink Chocolate GIFT” questa volta con il cioccolato rosa composto a formare una grossa barretta, sempre rilegata dal solito luccicante nastro d'oro.
Anche le entrate principali del Clement Plaza Tokushima vengono curate dal gusto e dal design della giovane artista, preparando così lo spettatore ad essere accolto dalla calda e dolce atmosfera del fantastico mondo “Kawaii” di Miki Midori.
Cristina Solano
Miki Midori sito web: http://www.mikimidori.com/
Miki Midori Instagram: https://www.instagram.com/miki_midori/?hl=it
Dall'Italia al Giappone: intervista all'artista Gianluca Malgeri
L’incontro tra Giappone in Italia e l’artista Gianluca Malgeri è avvenuto nel contesto di un recente progetto che ha coinvolto lo spazio espositivo di una delle vie più famose di Milano: Viavài, mostra di arte contemporanea nelle vetrine di Via della Spiga. Il progetto, ormai concluso, avveniva in piena emergenza covid19, con l’intento di utilizzare gli spazi dei negozi vuoti a causa della pandemia in prospettiva creativa. La mostra presentava opere di diversi artisti contemporanei, è stata presentata da VIA (Visiting Installation Art) e curata da Federica Sala, ospite insieme a Gianluca Malgeri in una delle dirette Instagram dell’Associazione.
Gianluca Malgeri, di origini calabresi, da anni lavora tra Firenze e Tokyo. Ha esposto le sue opere in Europa e Giappone. Attraverso Playground Project la sua produzione artistica si intreccia nel 2015 con quella di Arina Endo, artista giapponese e sua partner. Il punto di partenza della collaborazione artistica tra i due è la mostra tenuta a Venezia Edge of Chaos (2015), sebbene l’intuizione alla base di questa esposizione abbia radici più profonde. Prima in Danimarca e successivamente in un viaggio in India durato sei mesi, Gianluca e Arina incontrano per le prime volte quei luoghi che saranno di ispirazione per le loro successive opere: i playground. I playground sono parchi all’aperto per i bambini, aree progettate e dedicate al gioco.
Quella sui playground è una vera e propria ricerca, tra forme e percorsi quasi labirintici, che vengono divisi e assemblati da Gianluca nei propri collage. Proprio come un gioco, l’artista sperimenta, compone le parti delle strutture per ottenerne sempre di nuove e differenti. Le sculture in metallo sono la naturale continuazione di queste opere, come se la costruzione si protraesse fino al di fuori del collage e ne mantenesse le modalità di composizione.
Il progetto dei playground prosegue con la mostra a Roma nel 2015-2016, Homo ludens e negli ultimi anni, dal 2017 ad oggi, si concretizza nel lavoro di ricerca collocato proprio in Giappone, a Tokyo. Esemplificativa dell’evoluzione di questo progetto è la mostra Mery-Go-Round (Tokyo, 2019), in cui le sculture di Gianluca e Arina si fanno sempre più leggere, galleggiano sospese.
Di recente, nel 2020, Gianluca e Arina portano a termine anche un progetto per l’allestimento delle vetrine di Hermès in Giappone: Taking an Airing.
Proprio per la sua lunga esperienza in terra nipponica, Giappone in Italia invita Gianluca Malgeri al racconto della sua esperienza come artista in Giappone. Abbiamo incontrato Gianluca e gli abbiamo posto alcune domande.
Cosa ricordi maggiormente delle tue prime esperienze in Giappone?
Ci sono diverse cose che mi tornano alla mente se penso alle mie prime esperienze in Giappone. Una su tutte è il modo di comunicazione che sono stato quasi un po’ costretto ad adottare agli inizi, che mi ha fatto in un certo senso avvicinare alla cultura giapponese. Ho subito notato come il primo approccio alla comunicazione sia stato di tipo grafico: per me, che ancora non conoscevo nulla della lingua giapponese, l’unico modo per chiedere indicazioni o informazioni era quello di passare attraverso i disegni. I giapponesi credo siano abituati più di noi a questo tipo di mezzo comunicativo. Mi è capitato molto spesso che, di fronte alla realizzazione del fatto che io non potessi comprendere la loro lingua, pur di aiutarmi si siano messi a disegnare indicazioni stradali o informazioni di diverso genere. Questo mi ha fatto pensare all’approccio molto più diretto che questo popolo ha con il disegno: i kanji giapponesi sono vere e proprie miniature del mondo grafico, la scrittura è anche tecnica pittorica. Direzione, precisione, pressione maggiore o minore, velocità o lentezza del tratto, essenzialità della rappresentazione. A questo i giapponesi sono abituati sin da piccoli.
Questo tipo di comunicazione essenziale e orientativa mi ha fatto anche pensare alle descrizioni che Roland Barthes fa della lingua giapponese e delle città nel suo scritto “L’impero dei segni”. Lo scrittore fa subito notare come in Giappone i significati eccedano in un certo senso le parole. Come sia un’idea dell’Occidente il fatto che la comunicazione passi in prima istanza e in modo privilegiato dalla parola. In Giappone possiamo avere esperienza di come i significati comunicativi abbiano molte altre vie per essere espressi. Il disegno, ad esempio.
Riferimenti ambigui e per approssimazione, una definizione particolare dello spazio e un tipo di orientamento legato a punti di riferimento visivi: R. Barthes parla anche della difficoltà di orientamento nella città giapponese, senza indirizzi come li intendiamo noi, dove le vie non hanno un nome ma le città sono divise in quartieri, blocchi.
Ciò mi ricorda, oltre a tutte le volte che ho chiesto indicazioni e mi è stato risposto con una mappa disegnata ed essenziale del luogo, il modo in cui abbiamo stampato le locandine della mostra di Mery-Go-Round. Dietro agli inviti avevamo inserito, oltre all’indirizzo, una mappa, la quale era decisamente orientativa: segnava riferimenti visivi importanti come stazioni della metro o convenience store, che tutti avrebbero potuto riconoscere.
Mi piacerebbe in futuro lavorare a un progetto in questo senso, attraverso tutti i disegni che mi sono rimasti dalle mie visite in Giappone, spererei solo di non perdere la freschezza e spontaneità che stava dietro a queste espressioni grafiche.
Quali altre esperienze hanno segnato i tuoi primi viaggi/permanenze in Giappone?
Le prime volte che viaggiai in Giappone fu a Kyoto. Decisi di trasferirmi a Tokyo con Arina solo successivamente.
Ricordo che in un Bed & Breakfast in cui sono stato feci esperienza di ciò che Giappone penso significhi ospitalità: alla fine del mio soggiorno il proprietario mi salutò con un regalo. Mi sono dispiaciuto a posteriori di non aver pensato a qualcosa da lasciare a questo signore anch’io. Mi resi conto come in Giappone vigesse un vero e proprio culto dell’ospitalità, un’attenzione particolare alla persona. Compresi che non si trattava solo di gentilezza, ma di un vero e proprio codice.
Questa sensazione di essere sempre i benvenuti si è spesso intrecciata e scontrata con un’altra sensazione, che credo non si sperimenti solo in Giappone ma un po’ ovunque all’estero: quella dello smarrimento e del sentirsi straniero. Forse, in alcune situazioni, in Giappone questa sensazione potrebbe essere più accentuata che in altri luoghi, per diverse ragioni. Lo straniero, però, ancora oggi fa sempre un po’ curiosità e allo stesso tempo paura. Tuttavia, anche a livello artistico questo mi ha spinto ancor di più a cercare di comprendere la diversità. È un momento in cui la sensibilità si amplifica, si comincia a comprendere meglio l’altro e anche maggiormente se stessi. Ammetto che, in quanto persona del sud trasferita al nord, ho avuto in me questa sensazione di diversità in diverse occasioni. Il Giappone mi ha aiutato a comprendere questo ancora più profondamente.
Un’altra esperienza molto importante per me è stato l’incontro con la famiglia della mia fidanzata. Sentivo sarebbe stato un grande passo, soprattutto in una famiglia giapponese legata alle tradizioni.
Mi è sembrato di avvicinarmi ancora di più alla cultura giapponese, poiché ho avuto diverse occasioni di comprendere come queste tradizioni si leghino alla contemporaneità.
Non conoscevo Kyoto, in quell’occasione uscendo di casa e passeggiando nei dintorni trovammo per caso un Cafè. Questo luogo avrà avuto più di cinquant’anni, a conduzione familiare. Mi sembrò che fossimo entrati in un’altra epoca. Percepivo come a Kyoto tradizione e modernità convivessero, e questo in un certo senso mi aveva ricordato l’Italia con tutta la sua storia. Spesso si cerca l’autenticità e invece si trova il souvenir, ma non era questo ciò che mi ritrovavo a sperimentare ogni giorno per le strade di Kyoto.
Parliamo adesso un po’ delle tue opere. Mi piacerebbe che mi parlassi dei playground, fonte di ispirazione per i tuoi progetti.
Il progetto dei playground nasce da un viaggio che feci in India con Arina. L’idea di playground parte da quella di parco, giardino pubblico. In India il viaggio fu faticoso, nelle grandi capitali caotiche come Nuova Delhi un buon posto per riposare era proprio quello dei parchi, oasi di tranquillità rispetto al resto, dove le regole urbane si sfaldavano.
Anche in Giappone ho fatto esperienze di questo genere, anche qui i parchi e i playground sono luoghi determinanti. Usando l’immaginazione, potremmo dire che quando la società adulta si chiude negli uffici, rimangono due mondi: quello dell’infanzia e quello delle persone anziane. Ciò che immagino sono città incantate prese di possesso dai bambini quando l’adulto è chiuso in ufficio durante le ore di lavoro. Da una parte vi è il dovere e il dover produrre, dall’altra l’idea di conoscere il mondo tramite il gioco. I playground sono il luogo in cui questo avviene.
In Giappone il mondo dell’infanzia è una realtà molto curata e delicata. Dico questo solo da persona che osserva, mi sembra che in Giappone esistano veri e propri luoghi – come questi playground – in cui l’infanzia si sviluppa e affinché il gioco aiuti a conoscere. I bambini vengono molto responsabilizzati, ma allo stesso tempo il loro mondo è rispettato.
Come ti sei trovato a Tokyo e come ti approcci all’arte contemporanea giapponese? Ho notato che nella tua produzione più recente (come, ad esempio, nella mostra Mery-Go-Round), le sculture si fanno sempre più leggere. Come si è svolto questo cambiamento nelle opere?
L’arte contemporanea, il design e l’architettura giapponese mi affascinano molto, ma devo dire che ancora ho difficoltà nel comprenderne alcune declinazioni poiché possiedo un background estetico completamente differente. Sto cercando di entrare in questo codice visivo, di comprendere quale sia stato il percorso che dalla tradizione porta all’arte di oggi.
Piano piano ha iniziato a farsi strada tra noi la percezione che le nostre sculture non dovessero per forza essere dense ma è cominciato un processo di semplificazione. Già dal 2015 iniziamo a pensare a questo, dove “semplificare” non significa rendere semplice, ma piuttosto fa riferimento a un processo di sintesi.
In Mery-Go-Round alcune sculture sembrano galleggiare, sono sospese. L’intuizione della sintesi si è unita qui al fatto che in una delle sale della galleria non fu percorribile la scelta di posare le sculture a terra: era uno spazio in cui una volta era presente una cisterna d’acqua ed erano rimasti i pilastri che la sostenevano. Lo spazio ci ha portato a pensare che sarebbe stato interessante utilizzare il soffitto. Anche l’uso dei colori nelle sculture è stato pensato in relazione al fatto che nella sala della galleria predominasse il colore grigio. Ci sembrò l’occasione giusta per sperimentare con i colori.
L’intuizione, comunque, parte dai collage. I collage sono l’estensione pittorica delle sculture, come le sculture sono continuazione naturale dei collage. La libertà con cui compongo i collage è la stessa che ci ha portato a pensare di collocare le sculture nell’aria, invece che sul pavimento.
A volte credo che ci sia un fraintendimento del ruolo che hanno i collage nella nostra produzione. Il collage è un ritorno alla pittura e un’estensione pittorica (anche se li realizzo attraverso fotografie). La matrice dei miei progetti parte dai collage. Collage è ricerca di un’immagine che documenta, poi c’è la stampa, i ritagli, poi l’assemblaggio che avviene sempre in modo diverso. Collage è gioco intuitivo pittorico di forme e colori, è un infinito assemblabile. Un’infinita possibilità di forme e costruzioni, determinate dalla ricerca che faccio attraverso le fotografie, attraverso i luoghi di gioco.
Speriamo che presto si presenti l’occasione per realizzare sculture in scala reale per i parchi di qualche città.
Qual è l’approccio che avete tu e Arina nella produzione delle opere?
Il mio incontro con il Giappone avviene con Arina e nel modo che abbiamo di lavorare insieme.
Arina ha una predisposizione alla concentrazione. Ha un approccio di dialogo con il materiale, è molto precisa. Il mio approccio è, a volte, quasi un conflitto con la materia, ho l’arroganza di volerla dominare. Arina sembra avere un rapporto naturale con i materiali. La sua scultura è armoniosa, i migliori lavori vengono quando completo qualcosa che lei ha iniziato o viceversa.
L’interessante per noi è proprio trovare un nuovo linguaggio che comprenda i nostri due modi di operare.
intervista di Susanna Legnani
È morto Kentaro Miura, autore di Berserk
È solo di qualche giorno fa la notizia dell’improvvisa morte di Kentaro Miura, uno dei fumettisti giapponesi più influenti nel panorama internazionale e autore del famoso manga seinen ‘Berserk’.
A comunicarlo con profonda amarezza, è stato l’account twitter ufficiale della casa editrice nella giornata di giovedì 20 maggio:
“Kentaro Miura è deceduto il 6 maggio 2021 per dissezione aortica acuta. Aveva 54 anni. Miura-sensei era un maestro, artista e narratore e abbiamo avuto il grande privilegio di pubblicare molte delle sue opere più belle, incluso il suo capolavoro, Berserk. Ci mancherà molto. Le nostre condoglianze vanno alla sua famiglia e ai suoi cari.”
Una morte improvvisa, perciò, lo ha separato dalla sua più grande passione in vita, coltivata sin dall’infanzia, il disegno.
È noto a molti, infatti, che Miura realizzò il suo primo manga stampato all’età di soli dieci anni.
Ai tempi delle medie, pubblicò su una rivista Il suo primo dōjinshi (storie a fumetti) e dopo il liceo, fece domanda presso un collegio artistico, che venne subito accolta.
Il progetto che gli permise l’ammissione, gli fece anche guadagnare il premio di Miglior Nuovo Attore nella rivista Shounen Noa.
E in seguito ai primi successi, arrivarono anche le pubblicazioni ufficiali, tra cui troviamo Berserk - The Prototype, nel 1988: un manga di 48 pagine, che costruì le basi per il futuro successo planetario che diventerà Berserk.
Non unica opera dell’autore, ma da sempre considerata il suo capolavoro, Berserk è un manga horror fantasy ambientato in un universo di ispirazione medievale che segue le vicende di Gatsu, un guerriero maledetto costretto a vagare senza sosta per sopravvivere.
Nonostante la brutalità che lo caratterizza, Berserk riscontrò una notevole popolarità che portò alla produzione di un una serie anime nel 1997, due serie televisive nel 2012 e nel 2016 e numerosi videogiochi ad esso ispirati.
Inoltre, valse a Miura il premio culturale Osamu Tezuka nel 2002, un riconoscimento annuale conferito agli autori di manga più meritevoli.
È davvero un peccato, però, che purtroppo non ne conosceremo mai la conclusione.
Amanda De Luca
Lo sguardo catturato - il vetro di Ōki Izumi
Il vetro è un materiale strettamente legato al concetto di passaggio. Non ad un passaggio fisico, quanto ad un passaggio spirituale, nel quale il corpo immobile è spinto oltre dal solo sguardo.
Il vetro usato da Ōki Izumi blocca questo passaggio in un attimo temporale, lo arresta a metà del suo svilupparsi. Assume una forma, si muove e dialoga con lo spettatore, rivendica la sua esistenza come materia, fragile, pericolosa, sensuale, disegnandosi da sola con gli incastri delle listelle che compongono la sua forma, la sua architettura. Lo sguardo altro non può fare che fissarsi, impossibilitato a procedere oltre anche laddove il retro dell'opera sia visibile, come l'ipnotico incedere dell'acqua ci distrae dal fondale, con solo la luce a passarvi attraverso.
Le sculture di Ōki Izumi non rifuggono in alcun modo da questa analogia. La stratificazione delle listelle, il movimento incessante di saliscendi di angoli e tramezzi, fanno apparire la superficie dell'opera modellata dal vento, e ne cristallizzano la bellezza. Lo sguardo si dimentica così di andare oltre, e si perde prima ancora di concludere il passaggio in quel limbo che è il concetto stesso di andare attraverso. Avvicinandosi all'opera, lo spettatore cade inevitabilmente all'interno del labirinto di geometrie.
Guidato dall'evocazione di forme e architetture, senza un “altrove” in cui andare, lo spettatore è spinto alla meditazione, al ritrovare se stesso come meta. Ecco emergere l'altra qualità del vetro industriale, indiscusso protagonista dei lavori di Ōki Izumi, la riflessione. La stessa riflessione a cui conduceva l'azione teofanica delle grandi vetrate gotiche, in un epoca in cui la visione era percepita come un'esperienza tattile, in un reciproco toccarsi dell'occhio e dell'oggetto attraverso fantasmi e luce.
Il vetro come resa materica della trasparenza offre un'infinita ricchezza comunicativa, che nessun artista potrà mai gestire nella sua completezza. La consapevolezza di Ōki Izumi nel saper di poter svolgere solo il lavoro di “primo motore” verso la riflessione affidata al pubblico, è espressa nella semplicità e precisione formale delle sue sculture, in tensione verso una direzione evidente che le fa gradualmente svanire. A rimanere è il procedimento di creazione da parte dell'artista e da parte dell'immaginazione dello spettatore. A rimanere è il passaggio tra l'occhio e l'oggetto.
All'interno della mostra Tra l'acqua e il cielo, le sculture di Ōki Izumi dialogano con gli scatti di Gianni Pezzani, e con essi suggeriscono allo spettatore nuove straordinarie mete estetiche. La mostra sarà visitabile fino a fine maggio alla galleria Kanalidarte, in via Alberto Mario 38 a Brescia.
Le foto presenti nell'articolo provengono dal sito della galleria, nella pagina dedicata visitabile a questo indirizzo link.
Beatrice Varriale
Il giardino del Ryōan-ji, forma e assenza di forma
Il giardino del tempio Ryōan-ji è sicuramente uno dei più famosi giardini zen. Variamente interpretato e studiato in diverse circostanze, cattura l’attenzione anche di artisti moderni e contemporanei. Il musicista John Cage gli dedica un pezzo silenzioso intervallato da suoni isolati, W. Gropius – scrivendo a Le Corbusier – vi individua gli stessi principi di semplicità ed essenzialità che animavano la sua produzione. L’origine di questo giardino è antica e si colloca nel periodo Muromachi; probabilmente in passato non aveva la forma che è possibile vedere oggi: diversi scritti testimoniano come esso avesse avuto l’aspetto di un paesaggio in prestito, uno shakkei. Oggi il giardino secco del Ryōan-ji è formato da una superficie rettangolare non attraversabile, composto da sabbia bianca e quindici pietre sistemate in diversi gruppi. Il muro e gli alberi alti all’esterno hanno oscurato quello che in tempi antichi fu un paesaggio catturato e incorporato nell’architettura, in continuità tra interni ed esterni, una moltiplicazione dello spazio.
Il giardino secco viene chiamato in giapponese karesansui 枯山水. È interessante soffermarsi sul significato di questa parola: se si considerano i kanji utilizzati, si può vedere che kare 枯significa “povero, secco”, mentre sansui 山水 è un accostamento dei kanji di “montagna” e “acqua”. Questa analisi della parola già dice molto sulle caratteristiche di questo tipo di giardino.
La natura in questo contesto è povera e secca, inorganica, non rappresenta la vita nel momento in cui è pulsante e rigogliosa. A prima vista, dunque, questo tipo di giardino è molto differente da quelli considerati finora in questa serie. Nello shakkei e nello tsubo-niwa la natura è viva, le cose qui sono lasciate al loro divenire, in un inevitabile scorrere del tempo; nel giardino secco invece sembra quasi che questo tempo si sia fermato.
Oltre a ciò, le parole “montagna-acqua” rappresentano un ideale paesaggio. Questa denominazione del paesaggio è utilizzata anche nella pittura cinese, a dimostrazione di come l’arte dei giardini sia molto vicina all’arte pittorica. Senza soffermarsi troppo su quest’ultima, è bene tenere presente come la pittura cinese tradizionale si fondi su equilibri particolari: gli spazi vuoti del foglio si alternano alle pennellate scure, creando una dinamica e armonia specifica. Montagne e acque sono due poli del dipinto, rappresentanti diversi tipi di paesaggi, vengono armonizzati attraverso gli spazi vuoti.
L’esempio del Ryōan-ji testimonia come il giardino sia uno spazio da contemplare, un’opera che può essere osservata come un dipinto, sebbene allo stesso tempo non ricopra solo una funzione decorativa rispetto all’edificio: non è percorribile, ma è solamente osservabile dalla veranda del tempio che è presente su uno solo dei lati del giardino. Da questa veranda è possibile osservare l’esterno, sedersi e meditare.
E, a proposito di meditazione, in questo contesto emerge come sia difficile parlare di giardino secco senza prendere in considerazione le dottrine zen più nello specifico. Sebbene l’arte giapponese antica non sia solo un’arte zen, nel caso di questi giardini è impossibile parlare di una cosa senza soffermarsi anche sull’altra. Cercando di evitare la semplificazione eccessiva, ma senza soffermarsi troppo su queste dottrine (cosa che richiederebbe una riflessione molto più ampia), è bene mettere in evidenza alcuni punti fermi dello zen. Il buddhismo zen è un insieme di dottrine che traggono le loro origini da culti importati dalla Cina (buddhismo chan), dove il buddhismo Mahāyāna subisce influenze dalle dottrine del taoismo. “Zen” significa “meditazione”, esperienza atta alla comprensione della realtà, da un punto di vista non prettamente speculativo. La dinamica e fondo della realtà è vuota, ed è comune ad ogni cosa, uomo e natura: attraverso diverse esperienze, dunque, l’individuo dovrà comprendersi come parte di una realtà più ampia e capire di non essere indipendente da ciò che lo circonda, ma di essere invece in relazione al resto. Oltre a ciò, è la qualità di questa realtà comune alle cose a interessare: vuota, in divenire, ciò che rende le cose non permanenti, effimere. Il giardino, dunque, può essere – più che attraversato – contemplato, e in questa contemplazione è possibile fare esperienza di quel vuoto di cui parlano le dottrine zen. È anche nell’esperienza artistica che si compie dunque la meditazione e si comprende qualità delle cose.
Si passi ora a una descrizione concreta: il giardino è di forma rettangolare, composto da sabbia, alcune rocce e muschio. Al di là del basso muro, che percorre due lati del giardino, si può scorgere invece una natura viva, differente da quella secca del karesansui, che probabilmente in passato – come si è detto – lasciava intravedere un paesaggio di sfondo, che veniva preso in prestito e inserito nel contesto. Gli elementi semplici che costituiscono il giardino richiamano subito alla vista l’esperienza del vuoto: la sabbia bianca e le rocce sono due poli del reale, pieno e vuoto. Questi due poli sono sempre in relazione e alla base di tutte le cose. Come in un dipinto, le rocce sono i tratti d’inchiostro nero, e la sabbia è il foglio bianco, attraverso il vuoto essi si armonizzano e ne emerge il legame. L’essenziale in questa composizione, come è stato messo in evidenza da molti studiosi di giardini e di zen, è proprio il legame che intercorre tra gli elementi e non le istanze singole. Si dice che l’architetto del giardino del Ryōan-ji abbia pensato alla struttura in modo che nessuna delle pietre presenti avrebbe potuto essere osservata singolarmente, ma anzi sempre in gruppo. Questo restituisce visivamente quella parte della dottrina zen che prende in considerazione il rapporto tra le cose, l’interdipendenza e non autosussistenza dei singoli.
Il giardino del Ryōan-ji è un paesaggio che in un certo senso rappresenta tutti i paesaggi: ne mostra la parte essenziale, semplice, povera. Attraverso questa forma artistica si può comprendere quale sia la visione della realtà per le dottrine zen: dunque una struttura specifica, un giardino particolare, che allo stesso tempo però nasconde e mostra ciò che anche tutti gli altri giardini sono, emerge quell’esperienza del vuoto che sta al fondo delle cose. Per comprendere questo è molto utile fare riferimento a ciò che il filosofo Ryōsuke Ōhashi mette in evidenza nel suo scritto Kire: il bello in Giappone. Egli parla dell’espressione «formazione dell’assenza di forma». Cosa si vuole intendere con questa frase complessa? Nel suo essere povero, secco, nella sua semplicità ed essenzialità, questo giardino è come se contenesse in sé tutti i giardini, come se desse una certa rappresentazione della realtà. E in questa rappresentazione «lì, dove montagne e acque “seccano”, vale a dire scompaiono, vengono messe in forma; lì dove la forma viene annullata, essa viene abbozzata»: è proprio nella semplicità, dove la vita viene meno, dove le cose vengono rappresentate nella loro essenzialità che si comprendono le qualità della realtà. Queste qualità emergono proprio nel momento in cui viene meno la forma, la costruzione si fa semplice e povera: la forma viene abbozzata proprio quando diviene assente, poiché è il vuoto ad essere la forma delle cose. Questo vuoto che è tutte le cose attraverso il giardino ci restituisce una realtà provvisoria, effimera, impermanente e interconnessa, dove ogni elemento è interdipendente da altri. Il giardino del Ryōan-ji attraverso la sua composizione fa emergere le qualità delle cose nel senso che esso, mettendo degli elementi in forma, disponendoli in modo da farne emergere caratteristiche particolari, attraverso l’arte permette di intravedere che le cose sono al loro fondo vuote, interconnesse, provvisorie: le pietre sono collocate in gruppi e non possono essere percepite come singoli, lo spazio bianco della sabbia è come vuoto e si relaziona a questi elementi, i quali rappresentano la vita nella sua forma di provvisorietà, povertà, semplicità.
Ōhashi conclude: «attraverso il processo di essiccazione viene alla luce l’autentico modo d’essere del fiore. Fiorire rappresenta un accrescimento della vita. In questa somma attività si manifesta la forza vitale, e tuttavia al contempo la vita cela così uno dei suoi tratti essenziali: la mortalità».
Susanna Legnani
ANTI-OGGETTO: Kengo Kuma e il Teatro Nō nella foresta
Il terzo articolo della serie “La percezione dello spazio nella visione degli artisti giapponesi contemporanei” prende in considerazione il teatro Nō nella foresta dell’architetto Kengo Kuma.
Questo teatro è collocato nella città di Toyoma, nella prefettura di Miyagi. Non si trova all’interno di un edificio, ma è stato pensato sin dall’inizio per essere una struttura aperta, collocata nella foresta. Toyoma è una piccola città dalle diverse tradizioni, tra cui quella di avere uno stile particolare di esecuzione del Nō. Nonostante ciò, la città non ebbe un teatro adibito a questo tipo di spettacoli fino a che Kengo Kuma non decise di intraprendere il progetto nel 1996.
Per parlare di questa architettura è bene affidarsi a uno dei saggi di Kengo Kuma in merito alla sua poetica costruttiva: Anti-object, ovvero “anti-oggetto”. Cosa significano queste parole apparentemente complesse? Anti-oggetto come architettura che non si pone estranea rispetto a quello che la circonda. In ciò viene evitata sia l’opposizione tra osservatore e oggetto osservato, sia quella di oggetto tra oggetti. Nella contemporaneità ci si occupa spesso di erigere edifici considerandoli esattamente come oggetti, entità chiuse, separate da tutto il resto. È a volte assente un progetto che possa tenere conto delle caratteristiche dello spazio in cui la costruzione sorgerà. Questa dovrebbe mantenere un legame con i luoghi aperti: non va più trascurato il design di questi ultimi. Si vedrà nei paragrafi successivi un ulteriore significato che Kengo Kuma associa ad “anti-oggetto”: ciò che egli chiama “minimisation” (che spiega non essere minimalismo), un venir meno della materia.
Kengo Kuma scrive come in questo progetto «our goal was neither an object nor a building, but rather a garden in which three floor surfaces are carefully placed in a natural environment» (il nostro obiettivo non era né un oggetto né un edificio, ma piuttosto un giardino in cui tre superfici pavimentali sono accuratamente collocate in un ambiente naturale).
Il Nō è una forma teatrale sorta all’incirca nel XIV sec. in Giappone. È una disciplina artistica che è legata alla religione shintoista e implicitamente restituisce dei significati estetici che sono stati codificati nella modernità. “Yūgen” è un’esperienza estetica di difficile traduzione concettuale, che viene associata alle performance di Nō: questo termine viene spesso tradotto con “misteriosa profondità”. Questo sentire estetico porta a comprendere ancor meglio la scelta che è stata fatta a proposito del luogo in cui collocare il teatro di Kengo Kuma: la foresta. In ambito shintoista il luogo naturale incontaminato, non raggiunto dall’uomo, è spazio in cui la divinità si manifesta. In tal senso è bene menzionare il significato di oku, il quale fa a sua volta riferimento ad altri termini che rappresentano opposizioni. Nigi e ara rappresentano ciò che è toccato dall’uomo, costruito, rispetto al selvatico, mentre omote e ura hanno significati rispettivamente di superficie, esterno e interno. Oku, infine, fa riferimento a una profondità, spazio nascosto, intimo. Questo però non deve confondere: se pensando ad una abitazione oku può essere considerato lo spazio più interno e celato, nel caso del luogo di manifestazione del kami esso coincide sia con uno spazio nascosto sia con uno spazio inaccessibile: la natura dunque, in questo caso la foresta.
Il palco del teatro Nō è una finestra sul regno degli spiriti. L’equilibrio che si stabilisce è questo: il palco principale, chiamato butai, è cornice del mondo della morte, dello spirituale; il pavimento chiamato kenjo è il mondo dei vivi, dove siedono gli spettatori; di mezzo un passaggio, un tratto tra le due parti chiamato shirasu. Le strutture sono ben orientate verso la terra e non hanno alcuna propensione alla verticalità, sono completamente aperte alla foresta, non vi è alcun edificio a separarle da quest’ultima, dunque le persone possono accedervi in ogni momento, proprio come in un santuario shintoista. Le superfici sono in legno, esattamente come gli alberi intorno. Così Kengo Kuma si concentra su un design dello spazio aperto invece che sull’edificio come oggetto, e infatti scrive: «By opening up the space to the natural environment, I was able to dissolve the rigid framework of architecture» (attraverso l'apertura dello spazio all'ambiente naturale, sono stato in grado di dissolvere la rigida struttura dell'architettura).
Il bosco fa da sfondo al teatro, costruzione svuotata, con strutture semplici, cornice rispetto al paesaggio e a un mondo altro. Si vuole incorniciare con le strutture costruite sia il mondo spirituale che viene a presenza durante la celebrazione, sia il paesaggio oscuro circostante, che è sempre luogo in cui lo spirituale si cela. La foresta si perde nell’ombra, l'architetto spiega come essa suggerisca una «distanza eterna» che nessun oggetto può catturare. Kengo Kuma esplicita come il suo intento fosse quello di «Reduce the materiality of the stage until it approached the condition of an immaterial frame – ideally, a single thin floor floating over the shirasu» (ridurre la materialità del palco fino ad avvicinarlo alla condizione di una cornice immateriale - idealmente, un unico pavimento sottile che galleggia sopra lo shirasu).
Il materiale prevalente nella costruzione è il legno, utilizzato sia per il butai che per il kenjo. Per quanto riguarda il tratto mediano, ovvero lo shirasu, Kengo Kuma utilizza un materiale particolare. Egli nel suo saggio spiega come solitamente in questi tipi di teatro questa parte sia formata da ciottoli bianchi: ciò anche a indicare l’elemento dell’acqua, come segno di purificazione nel passaggio da un mondo a un altro. Tuttavia, l’architetto decide di utilizzare della pietra nera del luogo, affinché si armonizzi con l’oscurità che prevale nell’intreccio di rami e foglie della foresta. Lo shirasu va allora ad assomigliare ancora all’acqua, ma nella sua profondità. Ancora il focus si pone sul nascondimento, sull’impossibilità di identificazione e resa a oggetto. Il teatro Nō è un microcosmo in continuità con la stessa foresta e realtà quotidiana.
Kengo Kuma fa, in conclusione, un paragone molto interessante: anche nella stessa performance di Nō la materia viene ridotta fino quasi ad essere eliminata, poiché viene reso possibile l’andare e venire tra il mondo della quotidianità e quello degli spiriti. Allo stesso modo, le strutture dell’architettura sono semplici, sottili, dello stesso materiale che il paesaggio circostante offre, caratteristica che li porta ancor di più a farsi trasparenti: mentre le travi di legno richiamano i tronchi degli alberi, il materiale di cui è composto lo shirasu ricorda l’oscurità della foresta, il suo segreto.
Una materia, dunque, che non scompare ma diviene quasi fluida, si mescola a ciò che la circonda, rifugge la denominazione di oggetto, si disperde nel tempo.
Conclude il saggio con questa frase: «The result will be the emergence of something that is not so much architecture as landscape» (il risultato sarà l'emergere di qualcosa che non è tanto architettura quanto paesaggio).
Susanna Legnani
Il giardino Zen e i ciliegi di Milano Piazza Piola
Domenica 18 aprile è stato inaugurato a Milano un giardino Zen in ricordo di Teresa Pomodoro, attrice, regista e drammaturga scomparsa nel 2008. La realizzazione del complesso è stata completata in cinquanta giorni e finanziata direttamente dal Teatro No’hma, fondato dall’artista nel 1994. Il Teatro concede la possibilità di sostenere la manutenzione del progetto attraverso donazioni online: uno spazio che, dunque, sarà in ogni senso di tutti i cittadini.
Il progetto del giardino è in prima istanza di riqualificazione: la volontà è stata quella di conferire un nuovo volto alla zona verde di Piazza Piola, inserendo uno spazio di pace e meditazione che si relazioni e inserisca nella frenesia della città di Milano. Soprattutto nell’ultimo periodo, sono molte gli interventi e progetti che coinvolgono la città al fine di renderla sempre più verde e sostenibile. Si pensi anche solo al fatto che il comune di Milano abbia piantato quasi 30.000 nuovi alberi da novembre 2020 a marzo 2021.
In concomitanza al tempo delle fioriture primaverili dei ciliegi in Giappone, il giardino Zen di Piazza Piola ricrea un’atmosfera simile a quella che potremmo vivere festeggiando hanami. I sakura sono testimonianza di quella bellezza segnata dal tempo, dall’istante, effimera e impermanente. Insita nella stessa natura, che viene percepita in questo modo così com’è, senza abbellimenti o decorazioni. Ed è proprio nello Zen che l’esperienza estetica della naturalezza trova la sua linfa. Dunque, un giardino che si ispira all'estetica giapponese tradizionale e tuttavia si inserisce nella modernità degli scorci milanesi.
“Vorremmo fare con te quello che la primavera fa con i Ciliegi”: questa la frase che accompagna l’iniziativa e che introduce il progetto sul sito di No’hma. L'immagine è quella della vita che sboccia e fiorisce, anche se destinata col tempo a perire. Lo scopo e l’invito sono quelli di scoprire qui un luogo di meditazione e serenità. Oasi di pace, ma anche spazio commemorativo e installazione artistica. Proprio Livia Pomodoro ricorda nel discorso inaugurale come sia determinante nella costruzione delle nostre città quel legame tra natura e cultura, a cui non si dovrebbe mai essere indifferenti: il giardino è occasione per soffermarsi su questo rapporto, essenziale per la progettazione di città sempre più sostenibili e a misura d’uomo.
Il giardino è al momento composto da ventuno ciliegi, con un percorso pedonale a forma di goccia. Il richiamo ricorrente all’elemento dell’acqua ha un doppio riferimento: da un lato ricorda le origini del Teatro fondato da Teresa Pomodoro, collocato in una palazzina che ospitava una stazione in disuso dell’erogazione di acqua potabile per la città; dall’altro lato rappresenta l'elemento vitale, tipico nelle costruzioni giapponesi tradizionali in quanto segno del divenire e dello scorrere della vita naturale.
Al centro, gradoni di granito rosa ospitano le sculture dell’artista giapponese naturalizzato italiano Kengiro Azuma, vecchio amico di Teresa Pomodoro, venuto a mancare nel 2016. Allievo di Marino Marini all’Accademia di Brera, nelle sue opere questa tradizione si mescola a quella dello zen giapponese. Queste sculture, collocate al di sopra dei gradoni, sono intitolate “Colloquio” e “MU -765”. “Colloquio” è una composizione scultorea composta da due rane dalle linee semplici e geometriche, rivolte l’una verso l’altra come se stessero conversando, nel ricordo dell’amicizia e dialogo tra i due artisti. Azuma ad un certo punto della sua carriera cominciò a intitolare le sue opere “MU” caratterizzandole con un numero. “Mu” è l’esperienza giapponese del vuoto e del nulla, riconducibile alle dottrine zen. Le arti tradizionali giapponesi traggono la loro linfa vitale da questo concetto di vuoto, che nello zen si caratterizza come natura dinamica e comune a tutte le cose. Tutto è vuoto, soggetto al tempo, interconnesso. “MU – 765” è una scultura a forma di goccia, a richiamare nuovamente l’elemento dell’acqua e tutte le sue implicazioni.
La cerimonia, che è cominciata con il risuonare di un gong alle 17, si è tenuta con pubblico e su invito ed è stata trasmessa in diritta streaming sul sito del Teatro. Dopo il discorso di apertura di Livia Pomodoro, si è protratta per il resto del pomeriggio attraverso balli e rappresentazioni, con altri riferimenti alla cultura giapponese. Tra gli artisti Marek Jason Isleib con una performance di Butoh (danza contemporanea giapponese), accompagnato da Roberto Papini Tivitavi con gong e didgeridoo, Beatrice Carbone e Mick Zeni ballerini danzatori e Alex Van Hool alla console.
Fonti e link utili:
Articolo di Susanna Legnani
Foto di Alberto Moro
Il nostro Shounen Jump si chiama Manga Vibe
È partito il 23 febbraio il nuovo progetto editoriale della Shockdom, che sarà presente in edicola e nelle fumetterie a cadenza bimestrale: il suo nome è Manga Vibe, una rivista dedicata al manga made in Italy.
Essa contiene, infatti, solo storie di autori italiani, alcuni già conosciuti al pubblico, altri esordienti.
L’idea è arrivata all’interno della casa editrice, ispirata dalla già esistente rivista giapponese Shounen Jump, che ogni settimana pubblica un capitolo dei titoli più conosciuti nel panorama nipponico contemporaneo e di fama internazionale, tra cui, ad esempio, One Piece – storico pilastro fin dagli anni 90’ – My hero Academia e Black Clover.
Lo Shounen Jump fu lanciato nel 1968 dalla casa editrice Shūeisha, ed è una delle più longeve testate settimanali di manga pubblicate in Giappone, con una tiratura di oltre tre milioni di copie, oltre che un appuntamento fisso per gli amanti del genere, giapponesi e non.
Competere con un tale colosso sarebbe difficile, tuttavia, nel panorama italiano, Manga Vibe rappresenta un’importante scommessa, come testimonia Lucio Staiano, fondatore della casa editrice: “Da sempre a Shockdom piacciono le sfide. Forse è arrivato il momento giusto per il nostro paese di avere una rivista antologica tutta dedicata al manga italiano. Abbiamo una generazione di autori incredibili che lavorano con l’estero, che vincono premi in Giappone, e lo stile nipponico ormai fa parte della nostra cultura. Dopo tutto, sono passati più di quarant’anni dall’arrivo dei primi anime in Italia e trenta dai primi manga.”
Di certo si presenta come un’occasione d’oro per tutti gli autori che di manga vogliono viverci, non dovendo necessariamente trasferirsi in un altro paese.
Invece noi, in qualità di consumatori, non possiamo far altro che supportare tale progetto e aiutarlo a crescere.
Amanda De Luca
Yukigassen – challenge editoriale
Articolo selezionato per la challenge editoriale “Il Giappone e lo sport” – autore Matteo Zanderighi.
In molti saranno stupiti di sapere che “Palle di neve”, nonostante si ritenga un gioco per bambini, in realtà è un vero e proprio sport riconosciuto in diverse nazioni, evolutosi a tutti gli effetti in una disciplina agonistica con sempre maggiori giocatori al suo seguito. In Giappone viene chiamato Yukigassen (letteralmente “battaglia di neve”) praticato in particolare in Hokkaido dove ogni anno, sul monte Showa-Shinzan a Subetsu, si tiene il campionato del mondo. Ha infatti trovato diffusione anche in altri paesi, come Russia, Finlandia , Alaska e, oltre che appunto in nazioni con un clima più invernale, pure in Australia, dove si tenne il primo evento ufficiale al di fuori del Sol Levante nel 1992!
Lo Yukigassen nasce in Giappone nel 1987 (ufficialmente diventerà sport l'anno successivo) per rivitalizzare il turismo di una zona che si animava principalmente in estate, ma ben presto l'interesse nei confronti di questo “giovane sport” ( ma vecchio di secoli sotto di gioco, come dimostra un affresco quattrocentesco a Torre d'Aquila a Trento) è tale che nel febbraio 2013 viene istituita la “International Alliance of sports Yukigassen (IAY / Yukigassen International)” , che permette di fissare le regole di gioco e di avere, per tutti gli appassionati, un punto di riferimento in questa disciplina. Nel loro sito è possibile scaricare il manuale con le regole per la preparazione di campo e le modalità di svolgimento della partita, il link in fondo all'articolo.
La preparazione di una gara di palle di neve, infatti, richiede molto impegno e un comportamento di gioco ben preciso (ad esempio, non si possono fare finte lanciando in aria la palla, o lanciare una palla non perfettamente integra...)
Innanzitutto, bisogna predisporre il campo di battaglia: zone di trincee vengono collocate come posti di riparo per affrontare l'avversario. In secondo luogo, è necessario preparare una buona scorta di palle di neve: se ne preparano fino a 90 con un'apposita macchina per garantire di averne sempre a disposizione prima di attaccare. Infine, è necessario indossare speciali elmetti che riparano testa e faccia, predisposti di visiera trasparente per un’ottima visuale. Infine, non resta che armarsi di coraggio e mettersi a giocare.
Come già detto in precedenza, i giocatori devono cercare di colpirsi con le palle di neve. Scendono in campo solitamente 7 partecipanti e quando si viene colpiti, è necessario abbandonarlo, poiché si viene eliminati.
Il match dura tre minuti, a vincere è la squadra che conta il minor numero di giocatori eliminati o che è riuscita a conquistare la bandiera avversaria.
Dopo un'abbondante nevicata, è possibile praticarlo a livello amatoriale in qualche bella località sciistica italiana… il divertimento è assicurato! Ora l'invito a giocare a battaglia a palle di neve sarà certamente preso con uno spirito diverso...
SITO UFFICIALE DELLA INTERNATIONAL ALLIANCE OF SPORTS YUKIGASSEN