2025: l’anno del Serpente
Secondo il calendario tradizionale cinese, il 2025 è l’anno del Serpente.
Alla suddivisione degli anni secondo i 12 segni zodiacali se ne sovrappone una seconda, detta dei “Tronchi celesti”, che vede ognuno dei cinque elementi cinesi (acqua, legno, fuoco, metallo e terra) manifestarsi in forma yin e in forma yang, creando quindi un totale di dieci Tronchi celesti. Questi, unendosi a gli animali dello zodiaco, creano un ciclo di sessant’anni. Ad esempio, il 2025 sarà non solo l’anno del Serpente, ma sarà più precisamente l’anno del Serpente di Legno yin, che si ripresenterà tra sessant’anni, nel 2085.
Nella nostra cultura, e generalmente anche oggi in quella giapponese, il serpente è un animale dalla forte simbologia negativa, ma non è sempre così. Dall’antichità, in Giappone è considerato un animale sacro e venerato come divinità dell’abbondanza e della ricchezza, oltre a essere considerato un simbolo di guarigione e rinascita, grazie alla sua grande forza vitale e alla sua capacità di curare le proprie ferite quando cambia la pelle. Inoltre, è considerato un animale porta fortuna: in particolare, fare un sogno immedesimandosi con questo animale è considerato un buon presagio.
Il Serpente è il sesto animale dello zodiaco e, secondo l’oroscopo tradizionale, le persone nate nell’anno del Serpente si contraddistinguono per la saggezza, il fascino e la predilezione per ciò che è raffinato. Più precisamente, le persone nate nell’anno del Serpente di Legno yin sono considerate determinate, perseveranti, a volte persino testarde, oltre a essere molto sagge e perspicaci. Inoltre, sono giudicate molto comunicative e amanti della conversazione, a patto che questa sia interessante e stimolante. Si dice anche che siano persone attente a mantenere un rapporto armonioso con ciò che le circonda, pur valorizzando le proprie opinioni personali. Un altro tratto caratterizzante è poi la franchezza, che però può essere un’arma a doppio taglio e portare a fraintendimenti. Nello specifico, si dice che gli uomini di questo segno siano premurosi, abbiano un buon senso estetico e siano razionali; e che le donne, invece, siano energiche, affascinanti e gentili.
Come sarà l’anno del Serpente di Legno yin? La natura beneaugurante del serpente si riflette anche nelle aspettative per l’anno, che si prospetta ricco di successo e di crescita. L’energia del Serpente sarà però mitigata dall’influenza del Legno yin, che porta naturalmente a non completare la realizzazione delle cose. Per raggiungere i nostri obiettivi sarà quindi importante perseverare nei nostri sforzi così da iniziare a raccoglierne i frutti.
Francesca Mora
I giapponesi e la luna
Il legame che unisce i giapponesi alla luna è molto antico e prende varie forme. Una di queste è sicuramente il Festival della luna e del raccolto (Tsukimi), che si tiene a metà settembre. È proprio la luna di questo il mese quella che si ritiene sia la più bella, grazie alla maggiore visibilità data dalla poca umidità presente nell’aria e dalla sua posizione nel cielo, non troppo in alto né troppo in basso rispetto all’orizzonte.
Nella letteratura giapponese la figura della luna è presente da secoli. Nel “Taketori monogatari” (“Storia di un tagliabambù”, X secolo), uno dei primi racconti di narrativa pervenutoci, è proprio la luna a essere la terra natia della protagonista, la principessa Kaguya. Questa terra lontana è descritta come pura, dove non c’è morte né vecchiaia. Nella poesia waka, genere fiorito nel periodo Heian (794 – 1185) prendendo generalmente la forma del tanka (poesia in 5 versi), la luna appare spesso in relazione al paesaggio naturale o in componimenti d’amore, per esempio quando una donna osserva il cielo notturno mentre aspetta l’arrivo del suo innamorato.
Si può trovare questa sua componente romantica anche in epoche più vicino a noi. Secondo un interessante aneddoto, sembra che Natsume Sōseki (1867 – 1916), considerato uno dei padri del romanzo giapponese moderno, abbia tradotto l’inglese “I love you” con l’espressione “Bella la luna, vero?”. Anche al giorno d’oggi quest’espressione, che apparentemente non si presenta come una dichiarazione d’amore, in giapponese può assumere anche questo significato e può indirettamente indicare un sentimento romantico.
È poi curioso notare come, secondo la cultura greco-romana, la luna assuma un’identità femminile nelle dee Artemide e Diana, mentre secondo la mitologia giapponese la divinità della luna è un dio maschile. Del dio Tsukuyomi si parla infatti nel “Kojiki” (“Cronache di antichi eventi”, 712), dove viene narrata la creazione del mondo e la nascita dei tre fratelli: Amaterasu (dea del sole), Tsukuyomi e Susanō (dio della tempesta e del mare). Al giorno d’oggi esistono 85 santuari dedicati a Tsukuyomi, sparsi per tutto il Giappone.
Continuando a esaminare i capolavori della letteratura, si può poi trovare un passo nello “Tsurezuregusa” (“Ore d’ozio, 1330 – 1332) di Yoshida Kenkō dove l’autore, parlando della luna, riesce a condensare in poche parole un concetto fondamentale dell’estetica giapponese, secondo cui c’è bellezza anche e soprattutto fuori dalla “perfezione”. Nel capitolo 137 si legge infatti:
“I fiori di ciliegio son forse da ammirare soltanto nel massimo rigoglio e la luna nel suo pieno splendore? Vagheggiare la luna brumosa attraverso la pioggia o ignorare al chiuso di una buia stanza quanto avanzata sia la primavera: com’è più intenso allora l’incanto! Ancora, le punte dei rami dei ciliegi quando stanno per schiudersi i fiori, o un giardino tappezzato di petali caduti...: quante altre sono le scene mirabili!”. (1)
Troviamo poi l’astro notturno anche tra i classici moderni, per esempio in opere come il racconto “Sangetsuki” (“Cronaca della luna sul monte”, 1942) di Nakajima Atsushi. Nel passaggio che dà il titolo all’intero racconto, uno dei più toccanti, si legge:
E per un po’ di tempo, limpida e sonora, si udì la voce di Li Zheng, che dal boschetto recitava le sue poesie. […]
Cosa rimane della gloria passata?
tu vai in carri dorati
e io striscio per terra.
Questo dolore dicevo stanotte
ruggendo alla luna
che illumina il monte.
Già la luna impallidiva nella fredda luce del mattino, la rugiada cadeva più fitta e il vento gelido che attraversava gli alberi annunciava l’alba. (2)
La luna appare in molte forme nelle opere giapponesi, a testimonianza di quanto sia un riferimento familiare al loro pubblico che, nonostante il tempo e le modalità, continua ad ammirarla stagione dopo stagione.
(1) Traduzione a cura di Adriana Boscaro.
(2) Traduzione di Giorgio Amitrano.
Francesca Mora
Il koto, lo strumento nazionale giapponese
Il koto (箏) è uno strumento tradizionale a corde, costituito principalmente da una tavola in legno di paulonia, tredici corde e i ponticelli mobili che le sostengono. Non solo è uno strumento molto antico, ma è anche stato riconosciuto come strumento nazionale del Giappone.
L’antenato del koto, il guzheng, fece il suo ingresso in Giappone nella seconda metà del periodo Nara (710 - 794) grazie agli scambi diplomatici tra il Giappone e la Cina T’ang. Dopo la sua introduzione nel Paese, questo strumento si affermò a partire dal secolo successivo come uno degli strumenti caratteristici della musica di corte. La sua presenza nelle vite degli aristocratici dell’epoca è testimoniata da molte opere letterarie del periodo Heian (794 - 1185), come ad esempio il “Makura no sōshi” (Note del guanciale) di Sei Shōnagon, il “Genji monogatari” (La storia di Genji) di Murasaki Shikibu o lo “Heike monogatari” (Storia della famiglia Taira). In un celebre passo del “Genji monogatari”, il principe Genji si innamora di una fanciulla sconosciuta ascoltando il koto da lei suonato. È grazie a episodi come questo che dall’epoca classica in poi, la musica del koto è considerata dai giapponesi come elegante e romantica.
All’epoca dell’arrivo del guzheng in Giappone, la parola “koto” indicava in modo generico gli strumenti a corda; tuttavia, dopo l’evoluzione e differenziazione di diversi strumenti, andò a indicare specificatamente il “sō no koto” (箏のこと), utilizzato presso la corte, a differenza del “kin no koto” (琴のこと), strumento molto simile ma senza ponticelli mobili. Al giorno d’oggi nella lingua scritta i due caratteri utilizzati per designare questi strumenti sono pressoché intercambiabili per indicare il sō no koto. Il nome degli strumenti, invece, è rimasto ben distinto, permettendo la distinzione tra kin e koto.
La tavola del koto viene solitamente poggiata a terra, è lunga circa due metri e larga tra i 24 ed i 25 cm, e, nonostante sia comunemente in legno di paulonia, la sua lavorazione può essere molto diversa, anche a seconda dell’artigiano che la crea. Si possono infatti trovare esemplari con bellissime decorazioni intarsiate in avorio, ebano, madreperla, guscio di tartaruga o figure metalliche, rendendo lo strumento un oggetto molto prezioso ed elegante. Originariamente, i ponticelli erano realizzati in avorio, che oggigiorno è sostituito dalla plastica o dal legno. Le corde, invece, possono essere ricavate da materiali diversi. Quelle tradizionali sono in seta gialla e, essendo più delicate, più costose e più deperibili rispetto alla loro controparte moderna, passano spesso in secondo piano. Ciononostante, a un orecchio esperto il suono prodotto risulta di qualità migliore, perciò alcuni musicisti ne fanno ancora uso.
Tra le varie parti che compongono il koto, i ponticelli giocano un ruolo fondamentale. Spostandoli o sostituendoli con altri di altezza diversa, infatti, cambia anche la nota prodotta. Oltre a ciò, i ponticelli richiedono particolare attenzione: dato che sono fragili si consumano facilmente e potrebbero rompersi. Suonare un koto antico, inoltre, può rivelarsi ulteriormente insidioso: la superfice su cui poggiano i ponticelli potrebbe risultare usurata, rischiando quindi di spostarli o persino farli cadere quando si tocca la corda.
Dietro al koto, il suonatore suona stando in ginocchio pizzicando le corde con tre plettri, indossati sui polpastrelli delle prime tre dita della mano destra. Questi possono essere squadrati o appuntiti e vengono scelti a seconda del tipo di musica che si intende suonare dato che la loro forma influenza il suono prodotto dalla corda. Come anticipato nelle prime righe dell’articolo, il koto ha solitamente tredici corde, ma ne esistono anche altri modelli dalle diverse funzioni. Ad esempio, quelli a diciassette corde producono note più profonde e nelle orchestre solitamente fungono da bassi.
Nel terzo millennio, il koto non è stato lasciato indietro, anzi, trova spazio anche nella musica contemporanea. Sono molti infatti i musicisti e cantanti giapponesi che lo includono nella propria musica contemporanea, spaziando dal jazz al pop e alla musica sperimentale. Andando indietro di qualche decennio e spostandoci nel panorama britannico, ritroviamo il koto persino in pezzi come “Moss Garden” (1977) di David Bowie, “Take It Or Leave It” (1966) dell’ex chitarrista dei The Rolling Stones Brian Jones, o ancora “The Red Flower of Tachai Blooms Everywhere” (1979) dell’ex chitarrista dei Genesis Steve Hackett. A questi esempi si aggiunge anche l’album “Silenziosa Luna” (2008), costituito da brani del compositore italiano Carlo Forlivesi. Questi brani sono interpretati da musicisti giapponesi di koto, biwa, un liuto a manico corto, chitarra e shakuhachi, un flauto in bambù.
Il koto è quindi uno strumento dalla lunga storia e tradizione, che ha l’adattabilità di fare ancora parte dello scenario musicale giapponese e non solo, grazie alle sue caratteristiche note che ancora fanno emozionare.
Francesca Mora
Gli yamabushi e il taki gyō
Nel vario panorama delle sette religiose più o meno riconosciute che operano in Giappone, una delle più iconiche e più antiche è quella degli yamabushi, monaci itineranti e asceti delle montagne.
Gli yamabushi sono praticanti dello Shugendō (修験道), religione che deriva dalla fusione di rituali, credenze e pratiche shintō e buddhiste. Si pensa che lo Shugendō affondi le sue radici nel periodo Nara (710 - 794), quando il Buddhismo, giunto in Giappone durante il secolo precedente, iniziò a mescolarsi con le religioni autoctone. Infatti, lo Shugendō si rifà al pantheon buddhista, riservando un posto d’onore per le figure di Fudō Myōō e del Buddha Dainichi, il Buddha cosmico. Oltre a questi elementi, si possono trovare anche culti tipici shintō come quelli della montagna e dei kami. Data questa sua caratteristica, lo Shugendō venne ufficialmente proibito nel 1872, durante gli anni di modernizzazione forzata del periodo Meiji (1868 - 1912), in quanto una delle politiche del governo dell’epoca era separare nettamente Buddhismo e Shintō, che fino ad allora avevano convissuto l’uno con l’altro nelle vite dei giapponesi, tanto che persino all’interno degli stessi templi e santuari non era raro trovare immagini o parti dello stesso complesso templare dedicati all’altra religione. Tuttavia, dopo la fine della Seconda guerra mondiale il movimento tornò a vivere grazie alla libertà religiosa concessa dalla nuova costituzione.
Una delle pratiche tipiche dello Shugendō è il taki gyō (滝行), termine che indica i rituali e le prove ascetiche svolti sotto una cascata. L’atto si basa sul timore reverenziale provato nei confronti degli spiriti e divinità che risiedono nella cascata e può avere diversi obiettivi, come ad esempio l’ottenimento dell’illuminazione, di un miracolo, di poteri ed energia spirituali oppure la purificazione, la liberazione dai mali o un esorcismo. Solitamente, si indossa il cosiddetto gyōi (行衣), un abito completamente bianco simile allo yukata. Dopo essere stati purificati con sale, sakè o conchiglie, si effettuano poi esercizi di riscaldamento. A questo punto ci si può dirigere in preghiera verso la cascata, intonando mantra, recitando sutra o preghiere a seconda della scuola o setta di appartenenza. Una volta posizionatisi direttamente sotto il corso d’acqua, si deve resistere alla bassa temperatura della cascata e al suo impatto contro il corpo, così facendo comincerà a rimanere soltanto la sensazione di essere colpiti dall’acqua senza sentire più freddo e fatica. Una volta usciti e asciugati, occorre poi riscaldarsi. In questo modo, la forza dell’acqua è in grado di eliminare tutte le distrazioni terrene di chi vi si sottopone, facilitando quindi la concentrazione. Inoltre, permette di affrontare la natura e diventare un tutt’uno con essa, riducendo anche lo stress.
Tuttavia, al giorno d’oggi, il taki gyō è una pratica diffusasi anche tra i laici, che la eseguono per diversi motivi non religiosi. Ad esempio, può essere un espediente per fuggire dal caldo estivo, un allenamento per migliorare nelle arti marziali o negli sport, un addestramento a cui vengono sottoposti i nuovi impiegati di aziende private o un’esperienza organizzata per i turisti stranieri in visita in Giappone. Non è raro nemmeno assistere a un taki gyō durante un programma televisivo: celebrità, youtuber e personalità dello spettacolo contribuiscono alla popolarizzazione di queste pratiche anche nel mondo contemporaneo, nonostante siano nate come tecniche segrete riservate agli yamabushi. A testimonianza di ciò, si possono trovare facilmente diversi siti internet che consigliano le località migliori per il taki gyō a seconda della regione, oltre a pubblicare liste di benefici che ne possono conseguire.
Il taki gyō è quindi una delle tante pratiche ascetiche a cui gli yamabushi si sottopongono per allenare il corpo e, soprattutto, la mente, per disfarsi delle preoccupazioni e tentazioni terrene, ma può anche essere un modo alternativo per apprezzare la natura e distrarsi dalla calura estiva.
Francesca Mora
Il kakigōri, la granita giapponese simbolo dell’estate
Chi usufruisce dei media giapponesi ha probabilmente già incontrato il kakigōri, uno dei dessert più riconoscibili, soprattutto in estate. Questo dolce viene preparato tritando finemente il ghiaccio temperato che poi viene servito con sciroppi e guarnizioni di diverso genere e gusto.
La parola “kakigōri” significa letteralmente “ghiaccio tritato” e deriva da “bukkakigōri” (“ghiaccio su cui viene versato lo sciroppo”), termine del dialetto di Tōkyō. Ciononostante, il dessert è conosciuto anche con altri nomi, come ad esempio “natsugōri” (“ghiaccio estivo”) o “kōrimizu” (“acqua ghiacciata”). La parola “natsugōri” si può anche scomporre in “na” (7), “tsu” (2) e “go” (5), motivo per cui il 25 luglio è chiamato Kakigōri no Hi, il giorno del kakigōri.
Altre varianti sono ad esempio “karigane”, utilizzata a Okinawa o “kachiwari”, tipica della regione del Kinki. In Hokkaidō spesso si usa anche la parola “shābetto”, derivata da “sorbet”.
Consumare cibi freddi durante le calde estati giapponesi non è però un’esclusiva contemporanea: il kakigōri veniva mangiato ben prima che fossero inventati congelatori e frigoriferi. Si può infatti ritrovare un suo antenato persino nel periodo Heian (794 - 1185). La scrittrice e dama di corte Sei Shōnagon ne fa menzione nel capitolo (dan) 42 del Makura no sōshi (“Note del guanciale”, compilato intorno all’anno Mille), annoverando questo dolce tra le “cose eleganti”.
Il passo è il seguente:
“Cose eleganti. Una bambina che porta una veste bianca su una sottoveste rosa antico. Le uova di oca selvatica. Versare sciroppo di linfa d’edera su ghiaccio tritato e servirlo in una ciotola di metallo nuova. Un rosario buddhista con perle di cristallo. I fiori del glicine. La neve che cade sui fiori di pruno. Un bambino grazioso che mangia ad esempio le fragole.”
In un’epoca dove il solo modo per avere a disposizione il ghiaccio d’estate era quello di riuscire a conservare la neve e il ghiaccio raccolti in inverno, il kakigōri era una rara prelibatezza e poteva essere gustato solamente dagli aristocratici. Probabilmente per questo Sei Shōnagon lo considerava qualcosa di non comune e particolarmente raffinato.
Durante il periodo Edo (1603 - 1868), invece, divenne estremamente popolare. Nei kōriya (“negozi del ghiaccio”) si riusciva a produrre questa importante materia prima, rendendone quindi possibile un consumo su più larga scala. Dal periodo Meiji (1868 - 1912) le tecniche di creazione, conservazione e taglio del ghiaccio si evolvettero ulteriormente, avvicinando di molto il kakigōri dell’epoca al dessert che conosciamo oggi. Bisognerà però aspettare l’inizio del periodo Shōwa (1926 - 1989) affinché il kakigōri cominci a diventare un simbolo dei piaceri estivi delle persone comuni grazie a una diffusione ancora maggiore dei kōriya e a un’offerta di sciroppi più ampia.
Al giorno d’oggi gli sciroppi più comuni sono quelli derivati dalla frutta come quello alla fragola, all’arancia, al melone, ma sono anche diffusi sciroppi più particolari come quello alla cola, all’acqua zuccherata, al matcha, al caffè e persino all’umeshu, un liquore alle prugne. Le varie combinazioni sono comprensibilmente pressocché illimitate, ma vale la pena menzionare le versioni con l’aggiunta di frutta o gelato, con guarnizioni di noccioline, latte condensato o l’“uji-kintoki”, che unisce sciroppo al matcha e marmellata di fagioli rossi (chiamati anche “kintoki”, da qui il nome) come guarnizione finale. Molto popolare è anche la variante “shirokuma” (orso bianco/polare), tipica della prefettura di Kagoshima (l’omonima città che ne fa da “capoluogo” è gemellata con Napoli), nel Kyūshū, che prevede guarnizioni con piccoli mochi, frutta, pasta di fagioli rossi e latte condensato.
Il kakigōri è quindi un dessert dalle radici antiche e facilmente adattabile ai prodotti tipici e ai gusti di ognuno, grazie alle molteplici varianti e combinazioni. Non ci si stupisce che sia quindi riuscito a guadagnarsi un posto speciale tra i cibi preferiti per combattere le calde e umide estati giapponesi.
E voi, avete mai mangiato il kakigōri? Raccontateci la vostra esperienza!
Francesca Mora
LE FORME DELLA POETICA CLASSICA
La poesia tradizionale giapponese si è sviluppata in epoca classica, in forma scritta, orale e cantata, dapprima influenzata dalla poesia cinese ed in seguito esplorando forme inedite, come il Tanka e l’Haiku.
IL TANKA
Nel romito borgo di montagna
ove la candida neve
stende una spessa coltre –
pur in chi vi dimora
si dilegua, forse, il tepore dell’animo.
しらゆきの
ふりてつもれる
山ざとは
住む人さへや
思きゆらむ
Questo è un esempio di Tanka (短歌, letteralmente "poesia breve") ovvero un componimento in versi diffusosi all’incirca nel periodo Nara (710-784 d.C.) e precursore del più famoso Haiku. Si tratta di poesia caratterizzata da una struttura in 5 versi, di metrica 5+7+5+7+7, dove i numeri corrispondono alle sillabe di ogni rigo. I primi tre versi compongono la prima strofa, mentre la seconda contiene gli ultimi due settenari. Ovviamente nella traduzione italiana tale schema si perde, ma nella versione giapponese è possibile ritrovare la suddivisione corretta se si ha dimestichezza con la lettura degli ideogrammi, come nell’esempio di cui sopra.
Le tematiche predilette dai compositori di Tanka sono legate soprattutto allo scorrere del tempo, alla natura e alla caduca bellezza delle cose (il concetto filosofico di Mono no Aware): si insiste sui numerosi parallelismi tra le condizioni stagionali della natura e i mutamenti dell’animo umano, come si può leggere nel componimento riportato ad inizio articolo, dove la spessa coltre di neve invernale raffredda anche i sentimenti degli uomini.
Photo credits: bottegadinazareth.com
L’HAIKU
古池や
蛙飛びこむ
水の音
Vecchio stagno
Una rana si tuffa
Rumore d’acqua
Sicuramente più conosciuto, l’Haiku, abbreviazione dell’espressione haikai no ku (俳諧の句, letteralmente "verso di un poema a carattere scherzoso") è una forma di poesia tradizionale giapponese che ha acquistato l’importanza ancora oggi riconosciutale grazie alla figura di Matsuo Bashō (1644-1694 d.C.), pseudonimo di un illustre poeta e monaco vissuto nel periodo Edo (1603-1868) che fece dell’haiku il suo cavallo di battaglia. Infatti è suo l’haiku preso ad esempio sopra: componimento brevissimo, consta soltanto di 3 versi rispettivamente di 5-7-5 sillabe, per cui risulta criptico ed evocativo. Anche l’Haiku, similmente al Tanka, riprende le sensazioni di cui il poeta fa esperienza nel suo esercizio di contemplazione della natura, proponendo una visione del mondo in cui uomo e natura sono in continuo e simbiotico divenire.
Photo credits: www.laquartacorda.it
Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
GOLDEN WEEK: QUANDO I GIAPPONESI RIPOSANO
Golden Week (ゴールデンウィーク, gōruden wīku, lett. “Settimana d’Oro”) è il nome dato in Giappone al periodo dell’anno che va dal 29 aprile al 5 maggio, ed è senza dubbio la settimana di ferie per eccellenza dei giapponesi, quella in cui la maggior parte delle scuole e delle aziende chiudono i battenti per concedere agli studenti ed ai dipendenti un po’ di tempo da dedicare al relax, ai viaggi ed al divertimento. È proprio in questi giorni infatti che si riscontra un aumento dell’affluenza negli hotel e nei luoghi d’interesse del Paese, che approfittano dell’occasione per fare incetta di vendite.
Ma come mai proprio dal 29 aprile al 5 maggio?
Semplice: 4 festività nazionali raggruppate in una sola settimana permettono di godere di un ponte lungo 7 giorni.
Tra il compleanno dell’imperatore, la Costituzione, la natura ed i bambini… Sono tantissime le ricorrenze da festeggiare! Ma andiamo con ordine e capiamo di che festività si tratta, una per una.
IL GIORNO SHŌWA (昭和の日, Shōwa no hi)
Photo credits: www.nihonjapangiappone.com
Inizialmente, il 29 aprile si celebrava il compleanno dell’imperatore Hirohito, che regnò sul Giappone dal 1926 al 1989, fino alla sua morte. A quel punto si pensò di sostituire la ricorrenza con un’altra festa: il “Giorno del Verde”, in onore della sua passione per la natura.
Nel 2005 la festività esistente venne nuovamente spostata per introdurre una giornata di riflessione sulla guerra e sui suoi aspetti distruttivi; ecco che nacque il Giorno Shōwa (lett. “pace illuminata”), in onore dell’era Shōwa, ovvero il lungo periodo di pace in cui governò l’imperatore Hirohito.
FESTA DELLA COSTITUZIONE (憲法記念日, Kenpo kinenbi)
Photo credits: www.matteoingiappone.it
Si tratta di una ricorrenza indetta per festeggiare l’anniversario di promulgazione dell’attuale Costituzione Giapponese, nata nel 1947, che dipinge l’imperatore come simbolo di pace ed unione della nazione. In questo giorno, che cade ogni anno il 3 maggio, il Giappone pullula di eventi riguardanti il concetto di democrazia e l’importanza della Costituzione vigente.
GIORNO DEL VERDE (みどりの日, Midori no hi)
Photo credits: tech.everyeye.it
Se fino al 2005 si festeggiava il 29 aprile, da quell’anno in poi venne spostato al 4 maggio. Il Giorno del Verde vuole celebrare la natura in tutte le sue forme, entità imprescindibile nella vita e nella filosofia giapponesi. Difatti il 4 maggio si cerca di avvicinare grandi e piccini al mondo naturale attraverso attività all’aperto, per esempio pulizia dei parchi pubblici, semina di piante ed eventi immersi nel verde. Così si intende sensibilizzare sul tema dell’ecologia e dell’importanza delle piante per la vita umana.
FESTA DEI BAMBINI (子供の日, Kodomo no hi)
Photo credits: www.bambinopoli.it
Il Giorno dei Bambini cade il 5 maggio, per augurare vigorosità nella crescita, virtù, buona salute e felicità a tutti i bambini. Prende il nome che conosciamo oggi nel 1948, e diviene subito pregna di tradizioni curiose da rispettare: sui balconi compaiono le carpe koi di carta, simbolo di coraggio e spirito di volontà perché notoriamente sfidano le correnti dei fiumi viaggiando controcorrente; inoltre è usanza esporre in casa elmi o addirittura armature di samurai, o ancora bambole di Kintaro, un bambino dalla forza sovraumana protagoniste di molte leggende del folklore giapponese.
Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
OSOUJI: LA PULIZIA DELL’AMBIENTE E DELL’ANIMO
La lingua giapponese è ricca di termini con significati alternativi nascosti: basti pensare a Bimyou 微妙, letteralmente “delicato, lieve”, che nella pratica esprime il senso di incertezza che proviamo quando qualcosa non ci convince tanto. Così come tutte quelle singole parole intraducibili in italiano se non attraverso un’espressione articolata, ne cito alcune: e come sappiamo ce ne sarebbero tanti altri. Il termine Osouji 大掃除 si posiziona proprio all’interno di questi gruppi di parole che non sono traducibili fedelmente dalla lingua di partenza in quanto posseggono un significato ignoto al mondo esterno; è come se il contenuto semantico di una parola fosse latente, una descrizione superficiale generale sotto la quale si cela un significato intimo. Osouji 大掃除 significa letteralmente “pulizia”/”pulizia della casa”. Nella cultura giapponese, “osouji” è una tradizione associata al periodo tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, durante la quale le persone puliscono le loro case per il nuovo anno. Naturalmente si tratta di una pulizia profonda tendente alla perfezione, non parliamo di un momento ordinario. Quest’usanza porta con sé un chiaro significato intrinseco: pulire per dare spazio ad un nuovo inizio, purificare e preparare simbolicamente l’ambiente circostante (e perché no, anche sé stessi), attraverso un momento di dedizione personale per accogliere tutte le energie positive che il nuovo anno prospetta. Photo credits: https://www.borderlink.co.jp/magazine/2356/ Questa tradizione antichissima, che risale al periodo Heian (794-1185), è rimasta invariata fino ai nostri giorni grazie al suo insegnamento sempre attuale: lasciare il passato alle spalle per aprirsi a nuove opportunità. È una pratica che spinge lateralmente a riflettere sugli errori passati per imparare da essi e ricominciare con forza, lasciando andare ciò che non serve più nella vita e diffondendo una sensazione di purificazione non solo dell’ambiente ma soprattutto nel corpo e nella mente. Testo di Giulia Rizzetto, giulia.rizzetto@gmail.com
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– wabisabi わびさび: filosofia di vita per cui ci si concentra nel trovare la bellezza nelle imperfezioni della vita e nell’accettare l’ordine naturale di crescita e declino, l’accettazione della caducità e dell’imperfezione
– mono no aware 物のあわれ: vivere un momento di gioia e spensieratezza con la consapevolezza che questo momento sia destinato a finire
– natsukashi 懐かしい: nostalgia “positiva”, rievocare i ricordi con gioia
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– noroke のろけ: il modo in cui una persona parla costantemente e con affetto della persona che amaSegui Giappone in Italia
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IL SUMO: LO SPORT NAZIONALE DEL SOL LEVANTE
Il sumō (相撲, sumō, lett. “strattonarsi”) è la disciplina sportiva nazionale del Giappone, trattata come un vero e proprio rituale e come tale impregnata di spiritualità shintoista. Si tratta di un combattimento corpo a corpo tra due lottatori, detti in lingua giapponese rikishi, che si sfidano all’interno di un ring, il dohyō, con l’obiettivo di spingere l’avversario fuori dall’area designata o costringerlo a toccare il terreno con una qualsiasi parte del corpo che non sia la pianta del piede. Photo credits: http://www.giapponepertutti.it La particolarità del sumō è la stazza dei rikishi, che si sottopongono ad un rigido stile di vita per mantenere la corporatura richiesta, e lottano sul dohyō coperti solo dal mawashi, un vistoso perizoma che indica il rango di chi lo indossa in base al colore e al materiale di fattura. Sono riconoscibili anche per la loro particolare pettinatura a chignon. Photo credits: http://www.mondojapan.net Il dohyō invece si compone di una parte a terra ed una aerea. La zona a terra, che ospita il match, è costituita d’argilla e delimitata da balle di paglia; prima di ogni incontro, il terreno d’argilla viene cosparso di sale, elemento purificatore nella visione shintoista. La zona aerea sovrasta il ring e ricrea nelle sembianze un tempio shintoista con pendagli e struttura a baldacchino. Photo credits: http://it.wikipedia.org LA DURA VITA DI UN LOTTATORE Photo credits: http://: www.zojirushi.com Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com
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I rikishi professionisti vivono in ritiro presso le palestre dove si sottopongono ogni giorno a faticose sessioni di allenamento e dove vengono seguiti sul piano alimentare in modo che assumano più di 20.000 kcal giornaliere, riuscendo così a mantenere l’adipe in eccesso che li contraddistingue. La pietanza preferita di un lottatore di sumō è il Chankonabe (ちゃんこ鍋) parola composta da “chan” (ちゃん), termine che indica la dieta dei rekishi, e dall’abbreviazione di “nabemono” (鍋物), ovvero un piatto della cucina giapponese composto da una grossa pentola di brodo dashi posta al centro del tavolo in cui i commensali possono immergere gli ingredienti che preferiscono, come carne, verdure ecc. In pratica, uno stufato ipercalorico e nutriente che viene servito con riso e birra.
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KOMOREBI: luce che filtra tra gli alberi
Prova, caro lettore, a immaginare un luogo dove ogni angolo è avvolto dalla pace e dall’armonia in una fresca mattina d’inizio autunno. Un luogo dove gli unici suoni percepibili sono il mormorio dell’acqua che scorre, il fruscio delle foglie mosse dal vento e i propri passi sulla pietra. Un luogo dove si possa alzare lo sguardo e vedere il komorebi, la luce che passa attraverso le chiome degli alberi appena tinte di kojo, una parola che indica il rosso tipico delle foglie degli aceri d’autunno.
Questi sono alcuni dei detagli che ricordo del Tenjuan garden, un giardino a Kyoto. Fu costruito nel 1337 su richiesta del quindicesimo capo sacerdote del tempio buddhista, ma fu distrutto durante il periodo di conflitti interni chiamato Sengoku (quindicesimo – sedicesimo secolo). La costruzione attuale risale al 1602. Non è possibile vistare il tempio ma solo il giardino, che rimane comunque una piccola gemma tra le varie attrazioni della città, spesso non citata nelle guide. È diviso in due lati, est e ovest. Il percorso costeggia l’edificio, passa sotto un torii e attraverso un bosco, finendo con un laghetto con ninfee. Nella prima parte a est si calpestano muschio e ghiaia e si arriva al lato sud percorrendo un piccolo ponte, mentre a sinistra si possono osservare le canne di bambù che coronano uno stagno. Più avanti il vialetto, fatto di piccoli massi posati nell’acqua, vi porta a un laghetto più grande. Sul lato ovest l’acqua è coperta da decine di ninfee e, lungo un argine, le carpe nuotano pacifiche. Alle spalle del lago c’è l’ala principale del tempio, coperta in parte dagli aceri.
Per la prima volta mi è sembrato che tutte le preoccupazioni che affollano la mia mente nell’inconscio, come in una piazza del mercato il sabato mattina, fossero molto lontane, piccole, non meritevoli della pena e dell’attenzione che gli davo. La città era lontana e avrei potuto passare ben più dell’ora trascorsa ad ascoltare i rumori dell’acqua e del vento, rapita e assorta. Quando posso ritorno con la mente a quel momento e sto meglio subito, ricordandomi che non posso esercitare il controllo su tutto e che sono in grado di trovare una soluzione a molti dei miei crucci. Non mi sono serviti oggetti o soldi per sentirmi in pace. Mi è bastato un giardino, l’acqua e il vero silenzio. Testo e foto di Valentina Zucchelli
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