Che cos’è l’Ikebana ?
L’Ikebana è l’arte tradizionale giapponese di disporre i fiori, che risale all’antichità.
Vediamone brevemente la storia.
Nasce in Cina nel periodo della dinastia Tang che allora dominava tutto il mondo orientale; all’inizio del VI secolo gli ambasciatori giapponesi, affascinati da questa cultura, introdussero nel loro paese non solo il buddismo ma anche l’usanza di offrire fiori alle divinità.
In Giappone l’arte di disporre i fiori assunse presto i connotati di una vera disciplina.
Alla base di questa evoluzione vi è il profondo rapporto tra uomo e natura, un modo sempre nuovo e mutevole di interpretare i fiori e l’arte di comporli.
L’ikebana è l’osservazione continua della natura e del suo ritmo stagionale, da rispettare sempre nelle composizioni, che devono essere il risultato di un equilibrio di forme dove lo spazio vuoto diventa essenziale per definire lo spazio compositivo.
Grande influenza sull’ikebana ebbe anche l’introduzione in Giappone della pratica buddista della meditazione Zen. L’Ikebana divenne allora la massima espressione di questa disciplina tanto da essere ritenuta idonea a purificare la mente e fu adattata alle esigenze marziali dei Samurai.
Fondamentale per l’estetica giapponese è creare un senso di armonia tra il vaso, i materiali e la loro disposizione nel vaso stesso.
A partire dalla metà del XV secolo, con la creazione dei primi stili classici, infatti l’ikebana non ebbe più solo un significato religioso ma diventò un’arte indipendente sempre però strettamente legata a significati simbolici e filosofici.
I primi maestri furono monaci e membri della nobiltà; poi, con il trascorrere del tempo e precisamente nel XVII secolo, quest’arte floreale prese il nome ufficiale di Ikebana, nacquero le prime scuole, cambiarono gli stili e l’ikebana diventò un’arte che apparteneva a tutta la società giapponese.
Una composizione di ikebana può essere formata da un solo fiore o da diversi tipi di materiale. Elemento importante, comune a tutte le scuole di ikebana, è effettuare un’accurata ricerca nella scelta di ogni singolo ramo, foglia o fiore e far corrispondere la nostra ispirazione e visione interna con quello che vogliamo rappresentare.
Per essere in grado di realizzare una composizione di ikebana occorre apprendere in modo approfondito tecniche specifiche, indispensabili all’allievo perché l’ikebana è un’arte creativa dove la tecnica è messa al servizio della nostra fantasia e della nostra ispirazione. Per mettere in moto questo processo è inoltre necessario creare dentro di noi un momento di silenzio interiore e di serenità perché solo così si può dar vita a un rapporto individuale con ciascun elemento vegetale, conferendogli la giusta collocazione in un insieme armonioso.
Oggi l’Ikebana è un’espressione artistica, che ha saputo adeguarsi alle esigenze figurative del nostro tempo e alla richiesta di poter essere inserita nelle nostre case moderne, diventando parte integrante della vita di tutti i giorni.
Paola Piras
Study Group Venezia
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Edoardo Chiossone, il contributo di un italiano all'epoca Meiji
Non sono molti gli studi svolti su Edoardo Chiossone: il suo lavoro in Giappone era quasi sconosciuto quando era in vita e lo rimase anche dopo la sua morte.
Chiossone nacque ad Arenzano il 20 Gennaio 1833 in una famiglia di tipografi, studiò all’Accademia Linguistica di Belle Arti, dimostrando talento particolare e qualità spiccate in disegno e incisione. Il suo interesse cominciò a rivolgersi, intorno al 1862, verso la produzione di banconote e carte valori. Egli sosteneva la tesi che il nuovo stato italiano dovesse avere una sua officina carte valori, e produrre le proprie banconote autonomamente senza dover far ricorso a ditte straniere. Il rappresentante della Banca Nazionale del Regno, incaricò Chiossone di trovare tecnici e artisti disposti a recarsi a Francoforte presso la Dondorf & Naumann per un periodo di addestramento. Egli dimostrò, una grande sete di conoscenza prorogando la partenza fissata dopo un anno, tempo insufficiente, secondo il suo parere, ad imparare completamente le tecniche necessarie per l’intero processo di produzione della carta moneta. Nel 1871 la Banca gli concesse il permesso per lavorare alla fabbricazione di una banconota per il governo giapponese, ancora conosciuta come Geruman shihei, banconota tedesca. Questo fu il primo contatto che Chiossone ebbe con il Giappone.
In quel periodo la missione diplomatica del Governo Meiji guidata da Iwakura Tomomi, viaggiava in Europa in cerca di idee, uomini e tecnologie che potessero validamente contribuire all’organizzazione del moderno Stato Giapponese, e visitò le industrie Dondorf a Francoforte, dove si trovava appunto Chiossone. Tramite il Ministro Plenipotenziario Giapponese pervenne all’italiano l’offerta di fondare e dirigere a Tōkyō l’Officina Carte Valori nel nuovo Istituto Poligrafico del Ministero delle Finanze. Chiossone aveva già quarantadue anni, questo viaggio gli si presentava come un’occasione di riscatto e come campo ideale per dimostrare tutta la sua abilità e volontà.
Arrivò a Yokohama il 12 gennaio 1875 e due giorni dopo risultò essere immediatamente al lavoro al Poligrafico, dimostrando sin da subito la sua serietà e laboriosità. Egli aveva concordato uno stipendio sontuoso (era il doppio di quello che avrebbe percepito Antonio Fontanesi un anno dopo) e ulteriori benefici quali la casa. L’incisore genovese abitava nelle vicinanze della Legazione Italiana e trasformò la sua dimora in una specie di museo di arte giapponese, frequentato sia da viaggiatori di passaggio che da stranieri e giapponesi residenti. La chiave per comprendere il trattamento privilegiato e il ruolo fondamentale che ebbe nella modernizzazione del Giappone, è da ricercare nel rapporto che ebbe con il direttore del Poligrafico Tokunō Ryōsuke; sin dal primo momento essi ebbero stima e simpatia reciproca.
Per Chiossone non si trattò unicamente di eseguire un compito, egli aveva finalmente la possibilità di realizzare quello che era stato il suo progetto sin da quando era partito da Francoforte: fondare e gestire un centro per la produzione di carte valori che non fosse unicamente indipendente da terzi, ma che costituisse un centro di sviluppo di tecniche di stampa e una guida per tutte le aziende private. Egli insegnava le tecniche di tutti i settori attinenti alla stampa, dalla fabbricazione della carta e dell’inchiostro, all’uso della filigrana, al disegno artistico e tecnico, alla costruzione delle macchine. I suoi insegnamenti sono tutt’oggi alla base del lavoro degli artisti e dei tecnici del Poligrafico giapponese.
Nel 1876 produsse i primi francobolli moderni della storia postale del Giappone, i koban kitte. Essi sono stati riprodotti per una serie commemorativa nel 1994, affiancati al volto di Chiossone; si tratta di un avvenimento che conferma ulteriormente il valore fondamentale che ebbe il genovese per la storia del Giappone moderno: egli è stato, infatti, l’unico straniero al quale sia stato dedicato un francobollo commemorativo in terra nipponica. La prima banconota nella quale Chiossone inserì il ritratto di un personaggio fu quella da uno yen emessa nel 1878. Egli scelse il volto della mitica imperatrice Jingū, la quale regnò nel III secolo. E’ curioso osservare come le sembianze di questa imperatrice si avvicinano a quelle di una bellezza rinascimentale italiana; in seguito Chiossone cercherà di riprodurre nelle sue figure dei lineamenti un po’ più giapponesi.
Chiossone potè osservare da vicino i cambiamenti che stavano avvenendo in Giappone: egli era parte, infatti, dell’establishment Meiji, profondamente integrato e funzionale al sistema. Egli lavorò in una condizione di autentica fedeltà alle necessità della storia e ai significati della politica e fu apprezzato non solo per la sua abilità professionale, ma anche per la sua straordinaria capacità di immedesimazione culturale con il paese ospite.
Il risultato delle sue attività può essere raggruppato in tre filoni principali: i ritratti delle personalità contemporanee, le effigi storiche della cultura e della civiltà politica antica e moderna sulle carte valori, e, infine, la documentazione illustrata del patrimonio artistico del Giappone.
Il ruolo di ritrattista ufficiale
La fama di ritrattista di Chiossone si diffuse rapidamente nell’alta società giapponese, come dimostrano i numerosi ritratti eseguiti. Sfogliando un qualsiasi libro che tratti dell’epoca Meiji è inevitabile ritrovare i personaggi principali del periodo, ritratti con le somiglianze che gli aveva dato loro Chiossone. Nel 1872 si manifestò in Giappone
l’intenzione di mutare l’aspetto dell’Imperatore, infatti uno degli obiettivi della Restaurazione Meiji era renderlo visibile affinchè si affermasse il potere della nuova classe politica. Nell’Ottocento era consuetudine in Giappone per i capi di stato scambiarsi fotografie al pari dei biglietti da visita; l’assenza di immagini aggiornate dell’Imperatore era motivo di imbarazzo per i suoi funzionari di corte.
Il ritratto più famoso dell’Imperatore Meiji del 1888 chiamato Go-shin-ei (letteralmente “ritratto imperiale”), che la gente allora considerava una vera fotografia, in realtà era la copia fotografica di un disegno talmente realistico da essere scambiato per una fotografia. Fu Edoardo Chiossone a concepire, nel gennaio del 1888, quel ritratto, e fu Riyo Maruki, uno dei più noti fotografi del tempo a Tōkyō, a riprodurre l’opera di Chiossone sotto la sua stessa direzione. La realizzazione del Go-shin-ei richiese un lungo tempo di elaborazione a causa appunto della ritrosia dell’Imperatore nell’essere fotografato. L’imbarazzo causato dalla situazione spinse il capo del Consiglio a escogitare una strategia: l’unico modo per raggiungere il fine sarebbe stato di concepire un ritratto all’insaputa dell’Imperatore. Durante una visita imperiale Chiossone preparò alcuni schizzi durante l’ora del pasto, osservando di nascosto il volto, la postura e il modo di conversare, prendendo appunti sin nel minimo dettaglio. Tutti rimasero particolarmente colpiti dal lavoro di Chiossone e decisero di mostrarlo all’Imperatore, il quale diede il permesso a utilizzare la nuova “fotografia” nei rapporti diplomatici con i rappresentanti stranieri.
Il metodo che egli utilizzò nel disegnare il ritratto, fu quello di sintetizzare le innumerevoli espressioni fugaci e mutevoli di una persona, catturate dal vivo, nella costruzione di un’immagine simbolica della figura umana che andasse oltre le semplici espressioni. Chiossone infatti attinse a un repertorio tipologico peculiare della sua “europeità”, soprattutto nella scelta della sedia sulla quale fare sedere l’Imperatore e della posizione da fargli assumere. Quando egli, tuttavia, eseguì gli schizzi, riuscì solamente a ritrarre il volto e in minima parte il corpo del sovrano. Per questo motivo Chiossone stesso decise di farsi fotografare in divisa militare con le medaglie appuntate sul petto; in seguito, utilizzò questo scatto come modello per riprodurre il corpo dell’Imperatore, il quale risultò stranamente prestante per un giapponese dell’epoca.
Il contributo alla catalogazione delle opere giapponesi e le collezioni Chiossone
Nel 1879 il Poligrafico organizzò un viaggio di ispezione sui beni culturali giapponesi; infatti negli ambienti governativi era nata la preoccupazione che la mancata documentazione sul patrimonio culturale nipponico favorisse l’esportazione incontrollata di oggetti d’arte, soprattutto di quelli antichi. La squadra del Poligrafico, guidata da Tokuno e affiancato da Chiossone, era composta da undici tecnici e il percorso stabilito era lungo e difficoltoso. I risultati furono però positivi: essi riportarono ben 200 disegni e 510 fotografie che vennero raccolti in una serie di album e di litografie dal titolo Kokka Yoho (Fragranza della Nazione). Si tratta del primo grande repertorio illustrato del patrimonio culturale giapponese, nel quale Chiossone riversò un enorme impegno.
Ma non è l’unica eredità lasciataci da questo personaggio eclettico.
Nel testamento dell’11 gennaio 1898, redatto tre mesi prima della morte, Edoardo Chiossone stabilì che la sua intera collezione andasse all’Accademia Linguistica di Belle Arti di Genova, affinchè ne curasse la pubblica esposizione. Il 30 ottobre 1905 Vittorio Emanuele III Re d’Italia inaugurò il Museo d’Arte Giapponese “Edoardo Chiossone”, il quale rimase in quella sede fino al 1940. A causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale il patrimonio museale fu imballato e sfollato a spese e cura del Comune di Genova che, nel dopoguerra, ne divenne il proprietario. Nel 1948 esso deliberò la progettazione e la costruzione di un apposito edificio, da destinare a sede stabile del Museo. La collocazione del Museo all’interno del parco della Villetta Di Negro è ottimale: si trova proprio al centro di Genova mantenendo nel frattempo una posizione appartata e panoramica.
I manufatti comprendono dipinti, sculture buddiste, oggetti archeologici e in bronzo, monete, lacche, porcellane, maschere teatrali, armi e armature, strumenti musicali, abiti, e una delle maggiori collezioni di dipinti, stampe e libri illustrati ukiyo-e. Accanto all’ingresso è esposto il busto bronzeo che ritrae Edoardo Chiossone, copia dell’originale ancora oggi collocato nei giardini dell’Officina Carte e Valori di Tōkyō.
Federica Mafodda
Ennesime inesattezze della stampa sul Giappone
Sono ogni volta sorpresa (ma ormai dovrei essere preparata) e dispiaciuta per l’imprecisione e l’inesattezza di ciò che si scrive su un argomento che conosco bene: il Giappone. Se questa superficialità è alla base di tutto ciò che troviamo sui giornali, allora non c’è da credere a nulla di ciò che dicono e conviene smettere di leggerli e usare meglio il nostro tempo.
Mi chiedo anche se gli articoli dedicati sul fascicolo a India, Cina e così via contengano altrettanti errori.
Sarebbe bene che le persone incaricate di scrivere su argomenti a loro poco noti non si fidassero troppo di internet (che offre possibilità di conoscenza, ma anche bufale tremende) e cercassero di documentarsi, oltre che di far controllare a esperti della materia prima di mandare alle stampe. Il lettore in genere crede “come Vangelo” ciò che legge su giornali e riviste e quindi contribuisce al propagarsi di notizie errate.
Si dà il caso che io mi dedichi agli studi giapponesi dal 1966, abbia vissuto in Giappone quasi sei anni, sia laureata in lingua e letteratura giapponese e sia autrice di quattro libri sulla cucina di quel Paese (di cui uno sulla cucina vegetariana zen). Ogni volta che leggo notizie approssimative o inesatte vengo colta da scoramento perché questi scritti vanificano il lavoro di tutti noi amici e studiosi del Giappone, che ci dedichiamo da anni a sfatare leggende metropolitane, idee preconcette, frasi fatte e luoghi comuni sparsi a piene mani sulla carta stampata o in televisione (recentissima: Benedetta Parodi, “scrittrice di cucina” (!) che vende milioni di copie, ha presentato con grande enfasi in una sua trasmissione, un VERO cuoco giapponese, che si è poi rivelato essere un brasiliano di origine cinese!
Non ne possiamo più.Leggere di più
Il tè e il kimono
Dalla prima volta che ho visto una presentazione del Tè, sono stata sicura che il kimono ne facesse parte. Il bel tessuto, l’intricato obi e le maniche fluttuanti hanno contribuito alla mia prima esperienza del Tè. Quando ho iniziato a prendere lezioni di Tè, ho chiesto alla mia insegnante alla prima lezione quando avrei indossato il kimono. Lei mi ha inizialmente vestito con lo yukata e con un semplice obi. Poi mi ha vestito con un kimono più formale per il mio primo Hatsugama e mi sono sentita davvero bella ma avevo paura di muovermi o di respirare.
Un giorno mi disse che era arrivato il momento di vestirmi da sola. Appoggiò tutto sul letto nella camera in cui ci si cambiava. Lottai con esso. Anche appoggiare il rigido tabi ai miei piedi ci fece lottare e sudare. Non ricordavo cosa legare dove e c’erano più strati di biancheria intima, tutti avvolti e legati. Desiderai aver prestato maggiore attenzione quando la mia insegnante mi vestiva. Indossare l’obi fu così difficile. Mi sentivo un tacchino legato. Non potevo respirare perché avevo legato tutto troppo stretto e non riuscivo a vedere né a raggiungere con le mani per far fare all’obi quello che volevo. Mi ci vollero 3 ore e mezza ma alla fine camminai fuori dalla stanza e la mia insegnante non disse nulla. Mi disse soltanto che la lezione stava finendo e di togliermi di nuovo tutto.Leggere di più
Contemplare il vuoto: spunti di riflessione attorno al giardino zen (4)
IV
Nel giardino secco del Ryōanji (ma si potrebbero riscontrare anche negli altri giardini secchi templari), sono rintracciabili alcune caratteristiche che sfidano la nostra ansia di interpretazione. L’impossibilità di calpestare la superficie del giardino e la visione dall’esterno che ne deriva, la presenza di una molteplicità di piani prospettici e, al contempo, la prospettiva dinamica che ne scaturisce se l’osservatore si muove sulla veranda prospiciente il giardino e inquadrante lo stesso come una sorta di cornice, l’illusione di infinito data dalla distesa bianca e immobile della ghiaia ed infine l’incapacità di cogliere la totalità del giardino, un’impossibilità che allude evidentemente al concetto zen dell’incapacità di cogliere la totalità del reale. Tutti questi fattori rendono apparentemente complessa l’esperienza della visione. Se ad essi volessimo aggiungere l’insolita esperienza sensoriale cui siamo costretti poichè percorrendo a piedi nudi il pavimento in legno dell’engawa o addirittura sedendoci sui tatami interni del padiglione aggettante sul giardino noi facciamo esperienza di un piano morbido o addirittura soffice al tatto mentre, contemporaneamente, abbiamo la visione “ruvida” delle pietre e della ghiaia, con uno scarto sensoriale di notevole entità, ecco che la sfida dal piano intellettuale slitta a un piano fisico, sensoriale.
Si può allora a buon diritto concordare con Fujii quando afferma “ L’assenza di un centro trascendente o di una veduta che possa dare ordine allo spazio priva il giardino giapponese di prospettiva e lo trasforma in uno spazio non costruito.” Per Agostino De Rosa, tale affermazione di Fujii è da intendersi non come la denuncia di una assenza di progettualità, bensì come una totale assenza di volontà di assecondare la visione diretta, privilegiando piuttosto uno spazio e una rappresentazione dello stesso fondati sull’affastellamento di percezioni correlate, su continue trasformazioni della visione. Ogni idea di panorama o veduta viene cancellata per esaltare piuttosto “il ritmo fluttuante della visione”. Si tratta appunto, ci verrebbe da dire, della realizzazione del principio di mutamento e, al contempo, della realizzazione dell’impermanenza del mondo fenomenico (in giapponese, mujō), ovvero di quello che è uno degli insegnamenti centrali del Buddhismo. Si tratta del concetto del carattere fugace, transitorio di ogni essere senziente, di ogni azione, di ogni fenomeno, di ogni sentimento e di ogni sensazione. Questo concetto definisce un’assenza di continuità fra le azioni, una sorta di vacuità temporale che permette al singolo momento del presente di esistere ma, al contempo, a nessun attimo di esistere indipendentemente dal passato e dal futuro, cioè da quella rete di eventi che lo avvolge in una interdipendenza che solo con la liberazione dai pensieri illusori e la percezione della totalità nel Risveglio, o Illuminazione (in giapponese, satori) si può esperire, superando le forme di dualismo prodotte dalla mente per classificare in categorie razionali la realtà indifferenziata.Leggere di più
Antiquariato giapponese
Hon-kozane nimai-dō gusoku
Importante armatura da samurai
Myochin Muneakira
Kabuto bachi, XIV secolo - Armatura, inizio del XVIII secolo
Provenienza:
Kyoto, Kōzu FoundationMatsunosuke Onoe (1875 - 1926) .
Eccezionale armatura da samurai di tipo tachi-dō interamente realizzata in hon-kozane di ferro e pelle laccata in nero; interni in lacca d'oro. Legatura di tipo kebiki odoshi in seta verde chiaro.
L'armatura porta un kamon di tipo “mutsu karakan ni juni kiku”
Il kabuto incorpora un importante suji-bachi semisferico a 32 piastre. Le lussuose montature sono in rame dorato e shakudō. Come spesso accade per le armature di committenti importanti, è ipotizzabile che il proprietario di questa armatura abbia voluto utilizzare un elmo di tradizione famigliare. L'interno dello shikoro, curiosamente, è l'unica parte laccata in rosso anziché in oro.
Lo stile della decorazione di questo kabuto può essere confrontato con altri lavori di Myochin Munesuke e Muneakira attorno al 1720-30.
Adottato dal maestro Myūchin Munesuke, Muneakira è considerato il miglior armaiolo giapponese del XVIII secolo. Maestro ineguagliato nella tecnica dell'uchidashi (ferro a sbalzo), ha creato maschere, kote e corazze con decori in rilievo dai disegni molto complessi. La forma di questa maschera è un tipico esempio della qualità che riuscì a raggiungere, con tagli netti nelle rughe, il tipico naso rotondo e le orecchie morbide, che sono tratti caratteristici dell'artista.
Un lavoro ancora più ricco è visibile sui kote (protezioni per le braccia) di questa armatura. L'avambraccio, in stile sanbon-tsutsu, è difatti lavorato con peonie a sbalzo sulle tre piastre e l'abilità di Muneakira produce un disegno tridimensionale più che un semplice bassorilievo. Lo stesso si può dire della parte superiore, dove è realizzata una stupenda testa di shikami. Un simile shikami è sbalzato su un kote della Mene Collection a Parigi.
I suneate (schinieri) sono tipici e si ritrovano identici e firmati in un'altra armatura della Fondazione Kozu (cfr R. Burawoy, Armures du Japon, Fundation Kozu, pagg. 40-41).
La corazza è realizzata in due parti con un hon-kozane regolare addobbato con kanamono dorati di elevato livello. Nel nodowa invece troviamo un hon-kozane irregolare che indica un'origine probabilmente più antica databile al periodo Muromachi (1336-1573) rilaccato e riallacciato per questa armatura.
Lo haidate è inusuale ed è realizzato come una hakama, a gonna-pantalone. Per questo motivo non è stata utilizzata una seta da fodera ma un materiale con una diversa decorazione. Rimangono invece identici i bordi e le sofisticate decorazioni.
La fondazione Kozu (Kozu Kobunka Kaikan) è stato il più importante museo privato di armature giapponesi. La collezione includeva cinque opere Jōyō bunkazai (Propretà culturali importanti). Il fondatore, Takatsu Yoshiie (1902 - 2000), iniziò come antiquario nel 1920 comperando i tesori dalle ricche famigli che subirono la crisi economica degli anni '20.. Lavorò poi col grande regista Shōzō Makino (1878 - 1929) al quale procurava le opere da utilizzare in scena. Shōzō Makino fu lo scopritore di Matsunosuke Onoe (1875 - 1926), la prima star del cinema giapponese, dalla cui collezioni proviene questa armatura.
Giuseppe Piva
www.giuseppepiva.com
Lettera aperta di Graziana Canova Tura
per vostra notizia, ho mandato al Corriere questo commento su un pezzo sull'alga KONBU:
Ne posseggo una notevole quantità perché la uso d’abitudine nelle mie ricette come d’altronde fanno quotidianamente milioni di giapponesi. Dovrò inoltre ringraziare gli amici e i negozianti che mi forniscono la preziosa alga konbu permettendomi di usufruirne a prezzi veramente popolari. Chissà se lo farebbero ancora se, sempre grazie a voi, venissero a conoscenza del suo reale valore. Non parliamo poi dei pescatori che da secoli la raccolgono e la fanno essiccare all’aperto sulle rive dell’oceano.
Anche per quanto riguarda il raffinato brodino del superstellato chef Troisgros vi assicuro si tratti di una specialità usata ogni giorno nelle comuni cucine giapponesi, così come nella mia.
Ma ora basta ironia, solo un consiglio: se volete scrivere su argomenti esotici e pertanto da voi poco conosciuti cercate prima di informarvi (o controllare le notizie che vi vengono propinate) presso degli esperti evitando così articoli che avranno sicuramente fatto ridere chi conosce in modo approfondito la cucina giapponese.
Così pure siamo rimasti sbalorditi quando, di recente, in una rubrica gastronomica televisiva (Benedetta Parodi, 19.10.2011) è stato presentato come autentico cuoco giapponese uno chef brasiliano di origine cinese!
Sarebbe un sogno se i giornalisti, della carta stampata o della televisione, cercassero di fornire informazioni meno imprecise e più corrispondenti alla realtà, evitando di cadere in quella “sciatteria” italiana così ben definita da Beppe Severgnini.
Cordiali saluti.
Graziana Canova Tura
Autrice de:
Il Giappone in cucina, 1a edizione, Mondadori, 1994, pp. 350 - ESAURITO
Il Giappone in cucina, Nuova edizione riveduta e aggiornata, Ponte alle Grazie, 2006, pp. 397
La cucina zen, Xenia, 1998, pp. 183
Co-autore HIRAZAWA Minoru, Giappone (collana cucina etnica), Fabbri, 1999, pp. 120
Co-autore HIRAZAWA Minoru, Sushi, Fabbri, 2000, pp. 71
Saluti affettuosi
Graziana
1Q84, il ritorno di Murakami
Creare un clima d’attesa: è questo l’effetto di una strategia comunicativa adottata più o meno consciamente, nel 2009, per lanciare in Giappone, prima che ovunque, l’ultimo romanzo di Murakami Haruki, 1Q84.
Nei 7 anni trascorsi dalla pubblicazione dall’ultimo romanzo lungo (Umibe no Kafuka, Kafka sulla spiaggia, 2002), tutto ciò su cui ha potuto contare il pubblico dei lettori è stata l’anticipazione del titolo, un intrigante ma misterioso omaggio al capolavoro di Orwell, Nineteen eighty-four, 1Q84, da leggersi ichi-kyū-hachi-yon (Q pronunciato all’inglese “kyu” è omofono in giapponese di 9).
E dopo l’attesa, il caso. Perché, infatti, come osserva la studiosa Ozaki Mariko: “In un Paese conosciuto per consumare milioni di copie dell’ultimo videogame o romanzo per cellulare e passare velocemente al prossimo, chi avrebbe potuto mai immaginare che nell’anno 2009 un romanzo avrebbe venduto più di 2 milioni di copie (di entrambi i volumi) meno di due settimane dopo aver raggiunto gli scaffali delle librerie? In questo mercato frammentato, dove le preferenze dei giovani e del pubblico di mezza età, delle masse e dei critici paludati, raramente si intersecano, chi avrebbe previsto la nascita di un lavoro letterario su cui converge l’interesse di tutti?”[1]
Chi, se non Murakami Haruki, l’autore al centro di un altro caso, vent’anni prima.
Dopo l’exploit di Noruwei no mori (Norvegian wood, tradotto in italiano da Feltrinelli con l’incongruo titolo Tokyo Blues), romanzo che ha venduto in Giappone in un solo anno, il 1987, ben 3 milioni di esemplari, una cifra elevatissima anche per un popolo di accaniti lettori come quello nipponico, 1Q84 rappresenta infatti un nuovo record. Nelle cifre, certo, ma anche nel tipo di accoglienza, e nel passaggio veloce dalle recensioni delle riviste letterarie agli articoli sui settimanali popolari o persino sui tabloid, agli spazi nei talk-shaw della tv generalista. 1Q84 ha suscitato in Giappone, prima che altrove, un interesse trasversale, generalizzato, che testimonia di quanto sia cambiato il mondo letterario nipponico negli ultimi vent’anni, mentre la fama di Murakami andava aumentando così come andavano moltiplicandosi le voci che lo scrittore potesse venire insignito del premio Nobel.Leggere di più