Ennesime inesattezze della stampa sul Giappone
Sono ogni volta sorpresa (ma ormai dovrei essere preparata) e dispiaciuta per l’imprecisione e l’inesattezza di ciò che si scrive su un argomento che conosco bene: il Giappone. Se questa superficialità è alla base di tutto ciò che troviamo sui giornali, allora non c’è da credere a nulla di ciò che dicono e conviene smettere di leggerli e usare meglio il nostro tempo.
Mi chiedo anche se gli articoli dedicati sul fascicolo a India, Cina e così via contengano altrettanti errori.
Sarebbe bene che le persone incaricate di scrivere su argomenti a loro poco noti non si fidassero troppo di internet (che offre possibilità di conoscenza, ma anche bufale tremende) e cercassero di documentarsi, oltre che di far controllare a esperti della materia prima di mandare alle stampe. Il lettore in genere crede “come Vangelo” ciò che legge su giornali e riviste e quindi contribuisce al propagarsi di notizie errate.
Si dà il caso che io mi dedichi agli studi giapponesi dal 1966, abbia vissuto in Giappone quasi sei anni, sia laureata in lingua e letteratura giapponese e sia autrice di quattro libri sulla cucina di quel Paese (di cui uno sulla cucina vegetariana zen). Ogni volta che leggo notizie approssimative o inesatte vengo colta da scoramento perché questi scritti vanificano il lavoro di tutti noi amici e studiosi del Giappone, che ci dedichiamo da anni a sfatare leggende metropolitane, idee preconcette, frasi fatte e luoghi comuni sparsi a piene mani sulla carta stampata o in televisione (recentissima: Benedetta Parodi, “scrittrice di cucina” (!) che vende milioni di copie, ha presentato con grande enfasi in una sua trasmissione, un VERO cuoco giapponese, che si è poi rivelato essere un brasiliano di origine cinese!
Non ne possiamo più.Leggere di più
Il tè e il kimono
Dalla prima volta che ho visto una presentazione del Tè, sono stata sicura che il kimono ne facesse parte. Il bel tessuto, l’intricato obi e le maniche fluttuanti hanno contribuito alla mia prima esperienza del Tè. Quando ho iniziato a prendere lezioni di Tè, ho chiesto alla mia insegnante alla prima lezione quando avrei indossato il kimono. Lei mi ha inizialmente vestito con lo yukata e con un semplice obi. Poi mi ha vestito con un kimono più formale per il mio primo Hatsugama e mi sono sentita davvero bella ma avevo paura di muovermi o di respirare.
Un giorno mi disse che era arrivato il momento di vestirmi da sola. Appoggiò tutto sul letto nella camera in cui ci si cambiava. Lottai con esso. Anche appoggiare il rigido tabi ai miei piedi ci fece lottare e sudare. Non ricordavo cosa legare dove e c’erano più strati di biancheria intima, tutti avvolti e legati. Desiderai aver prestato maggiore attenzione quando la mia insegnante mi vestiva. Indossare l’obi fu così difficile. Mi sentivo un tacchino legato. Non potevo respirare perché avevo legato tutto troppo stretto e non riuscivo a vedere né a raggiungere con le mani per far fare all’obi quello che volevo. Mi ci vollero 3 ore e mezza ma alla fine camminai fuori dalla stanza e la mia insegnante non disse nulla. Mi disse soltanto che la lezione stava finendo e di togliermi di nuovo tutto.Leggere di più
Contemplare il vuoto: spunti di riflessione attorno al giardino zen (4)
IV
Nel giardino secco del Ryōanji (ma si potrebbero riscontrare anche negli altri giardini secchi templari), sono rintracciabili alcune caratteristiche che sfidano la nostra ansia di interpretazione. L’impossibilità di calpestare la superficie del giardino e la visione dall’esterno che ne deriva, la presenza di una molteplicità di piani prospettici e, al contempo, la prospettiva dinamica che ne scaturisce se l’osservatore si muove sulla veranda prospiciente il giardino e inquadrante lo stesso come una sorta di cornice, l’illusione di infinito data dalla distesa bianca e immobile della ghiaia ed infine l’incapacità di cogliere la totalità del giardino, un’impossibilità che allude evidentemente al concetto zen dell’incapacità di cogliere la totalità del reale. Tutti questi fattori rendono apparentemente complessa l’esperienza della visione. Se ad essi volessimo aggiungere l’insolita esperienza sensoriale cui siamo costretti poichè percorrendo a piedi nudi il pavimento in legno dell’engawa o addirittura sedendoci sui tatami interni del padiglione aggettante sul giardino noi facciamo esperienza di un piano morbido o addirittura soffice al tatto mentre, contemporaneamente, abbiamo la visione “ruvida” delle pietre e della ghiaia, con uno scarto sensoriale di notevole entità, ecco che la sfida dal piano intellettuale slitta a un piano fisico, sensoriale.
Si può allora a buon diritto concordare con Fujii quando afferma “ L’assenza di un centro trascendente o di una veduta che possa dare ordine allo spazio priva il giardino giapponese di prospettiva e lo trasforma in uno spazio non costruito.” Per Agostino De Rosa, tale affermazione di Fujii è da intendersi non come la denuncia di una assenza di progettualità, bensì come una totale assenza di volontà di assecondare la visione diretta, privilegiando piuttosto uno spazio e una rappresentazione dello stesso fondati sull’affastellamento di percezioni correlate, su continue trasformazioni della visione. Ogni idea di panorama o veduta viene cancellata per esaltare piuttosto “il ritmo fluttuante della visione”. Si tratta appunto, ci verrebbe da dire, della realizzazione del principio di mutamento e, al contempo, della realizzazione dell’impermanenza del mondo fenomenico (in giapponese, mujō), ovvero di quello che è uno degli insegnamenti centrali del Buddhismo. Si tratta del concetto del carattere fugace, transitorio di ogni essere senziente, di ogni azione, di ogni fenomeno, di ogni sentimento e di ogni sensazione. Questo concetto definisce un’assenza di continuità fra le azioni, una sorta di vacuità temporale che permette al singolo momento del presente di esistere ma, al contempo, a nessun attimo di esistere indipendentemente dal passato e dal futuro, cioè da quella rete di eventi che lo avvolge in una interdipendenza che solo con la liberazione dai pensieri illusori e la percezione della totalità nel Risveglio, o Illuminazione (in giapponese, satori) si può esperire, superando le forme di dualismo prodotte dalla mente per classificare in categorie razionali la realtà indifferenziata.Leggere di più
Antiquariato giapponese
Hon-kozane nimai-dō gusoku
Importante armatura da samurai
Myochin Muneakira
Kabuto bachi, XIV secolo - Armatura, inizio del XVIII secolo
Provenienza:
Kyoto, Kōzu FoundationMatsunosuke Onoe (1875 - 1926) .
Eccezionale armatura da samurai di tipo tachi-dō interamente realizzata in hon-kozane di ferro e pelle laccata in nero; interni in lacca d'oro. Legatura di tipo kebiki odoshi in seta verde chiaro.
L'armatura porta un kamon di tipo “mutsu karakan ni juni kiku”
Il kabuto incorpora un importante suji-bachi semisferico a 32 piastre. Le lussuose montature sono in rame dorato e shakudō. Come spesso accade per le armature di committenti importanti, è ipotizzabile che il proprietario di questa armatura abbia voluto utilizzare un elmo di tradizione famigliare. L'interno dello shikoro, curiosamente, è l'unica parte laccata in rosso anziché in oro.
Lo stile della decorazione di questo kabuto può essere confrontato con altri lavori di Myochin Munesuke e Muneakira attorno al 1720-30.
Adottato dal maestro Myūchin Munesuke, Muneakira è considerato il miglior armaiolo giapponese del XVIII secolo. Maestro ineguagliato nella tecnica dell'uchidashi (ferro a sbalzo), ha creato maschere, kote e corazze con decori in rilievo dai disegni molto complessi. La forma di questa maschera è un tipico esempio della qualità che riuscì a raggiungere, con tagli netti nelle rughe, il tipico naso rotondo e le orecchie morbide, che sono tratti caratteristici dell'artista.
Un lavoro ancora più ricco è visibile sui kote (protezioni per le braccia) di questa armatura. L'avambraccio, in stile sanbon-tsutsu, è difatti lavorato con peonie a sbalzo sulle tre piastre e l'abilità di Muneakira produce un disegno tridimensionale più che un semplice bassorilievo. Lo stesso si può dire della parte superiore, dove è realizzata una stupenda testa di shikami. Un simile shikami è sbalzato su un kote della Mene Collection a Parigi.
I suneate (schinieri) sono tipici e si ritrovano identici e firmati in un'altra armatura della Fondazione Kozu (cfr R. Burawoy, Armures du Japon, Fundation Kozu, pagg. 40-41).
La corazza è realizzata in due parti con un hon-kozane regolare addobbato con kanamono dorati di elevato livello. Nel nodowa invece troviamo un hon-kozane irregolare che indica un'origine probabilmente più antica databile al periodo Muromachi (1336-1573) rilaccato e riallacciato per questa armatura.
Lo haidate è inusuale ed è realizzato come una hakama, a gonna-pantalone. Per questo motivo non è stata utilizzata una seta da fodera ma un materiale con una diversa decorazione. Rimangono invece identici i bordi e le sofisticate decorazioni.
La fondazione Kozu (Kozu Kobunka Kaikan) è stato il più importante museo privato di armature giapponesi. La collezione includeva cinque opere Jōyō bunkazai (Propretà culturali importanti). Il fondatore, Takatsu Yoshiie (1902 - 2000), iniziò come antiquario nel 1920 comperando i tesori dalle ricche famigli che subirono la crisi economica degli anni '20.. Lavorò poi col grande regista Shōzō Makino (1878 - 1929) al quale procurava le opere da utilizzare in scena. Shōzō Makino fu lo scopritore di Matsunosuke Onoe (1875 - 1926), la prima star del cinema giapponese, dalla cui collezioni proviene questa armatura.
Giuseppe Piva
www.giuseppepiva.com
Lettera aperta di Graziana Canova Tura
per vostra notizia, ho mandato al Corriere questo commento su un pezzo sull'alga KONBU:
Ne posseggo una notevole quantità perché la uso d’abitudine nelle mie ricette come d’altronde fanno quotidianamente milioni di giapponesi. Dovrò inoltre ringraziare gli amici e i negozianti che mi forniscono la preziosa alga konbu permettendomi di usufruirne a prezzi veramente popolari. Chissà se lo farebbero ancora se, sempre grazie a voi, venissero a conoscenza del suo reale valore. Non parliamo poi dei pescatori che da secoli la raccolgono e la fanno essiccare all’aperto sulle rive dell’oceano.
Anche per quanto riguarda il raffinato brodino del superstellato chef Troisgros vi assicuro si tratti di una specialità usata ogni giorno nelle comuni cucine giapponesi, così come nella mia.
Ma ora basta ironia, solo un consiglio: se volete scrivere su argomenti esotici e pertanto da voi poco conosciuti cercate prima di informarvi (o controllare le notizie che vi vengono propinate) presso degli esperti evitando così articoli che avranno sicuramente fatto ridere chi conosce in modo approfondito la cucina giapponese.
Così pure siamo rimasti sbalorditi quando, di recente, in una rubrica gastronomica televisiva (Benedetta Parodi, 19.10.2011) è stato presentato come autentico cuoco giapponese uno chef brasiliano di origine cinese!
Sarebbe un sogno se i giornalisti, della carta stampata o della televisione, cercassero di fornire informazioni meno imprecise e più corrispondenti alla realtà, evitando di cadere in quella “sciatteria” italiana così ben definita da Beppe Severgnini.
Cordiali saluti.
Graziana Canova Tura
Autrice de:
Il Giappone in cucina, 1a edizione, Mondadori, 1994, pp. 350 - ESAURITO
Il Giappone in cucina, Nuova edizione riveduta e aggiornata, Ponte alle Grazie, 2006, pp. 397
La cucina zen, Xenia, 1998, pp. 183
Co-autore HIRAZAWA Minoru, Giappone (collana cucina etnica), Fabbri, 1999, pp. 120
Co-autore HIRAZAWA Minoru, Sushi, Fabbri, 2000, pp. 71
Saluti affettuosi
Graziana
1Q84, il ritorno di Murakami
Creare un clima d’attesa: è questo l’effetto di una strategia comunicativa adottata più o meno consciamente, nel 2009, per lanciare in Giappone, prima che ovunque, l’ultimo romanzo di Murakami Haruki, 1Q84.
Nei 7 anni trascorsi dalla pubblicazione dall’ultimo romanzo lungo (Umibe no Kafuka, Kafka sulla spiaggia, 2002), tutto ciò su cui ha potuto contare il pubblico dei lettori è stata l’anticipazione del titolo, un intrigante ma misterioso omaggio al capolavoro di Orwell, Nineteen eighty-four, 1Q84, da leggersi ichi-kyū-hachi-yon (Q pronunciato all’inglese “kyu” è omofono in giapponese di 9).
E dopo l’attesa, il caso. Perché, infatti, come osserva la studiosa Ozaki Mariko: “In un Paese conosciuto per consumare milioni di copie dell’ultimo videogame o romanzo per cellulare e passare velocemente al prossimo, chi avrebbe potuto mai immaginare che nell’anno 2009 un romanzo avrebbe venduto più di 2 milioni di copie (di entrambi i volumi) meno di due settimane dopo aver raggiunto gli scaffali delle librerie? In questo mercato frammentato, dove le preferenze dei giovani e del pubblico di mezza età, delle masse e dei critici paludati, raramente si intersecano, chi avrebbe previsto la nascita di un lavoro letterario su cui converge l’interesse di tutti?”[1]
Chi, se non Murakami Haruki, l’autore al centro di un altro caso, vent’anni prima.
Dopo l’exploit di Noruwei no mori (Norvegian wood, tradotto in italiano da Feltrinelli con l’incongruo titolo Tokyo Blues), romanzo che ha venduto in Giappone in un solo anno, il 1987, ben 3 milioni di esemplari, una cifra elevatissima anche per un popolo di accaniti lettori come quello nipponico, 1Q84 rappresenta infatti un nuovo record. Nelle cifre, certo, ma anche nel tipo di accoglienza, e nel passaggio veloce dalle recensioni delle riviste letterarie agli articoli sui settimanali popolari o persino sui tabloid, agli spazi nei talk-shaw della tv generalista. 1Q84 ha suscitato in Giappone, prima che altrove, un interesse trasversale, generalizzato, che testimonia di quanto sia cambiato il mondo letterario nipponico negli ultimi vent’anni, mentre la fama di Murakami andava aumentando così come andavano moltiplicandosi le voci che lo scrittore potesse venire insignito del premio Nobel.Leggere di più
Contemplare il vuoto: spunti di riflessione attorno al giardino zen (3)
III
Se la vista di un giardino zen suscita nell’osservatore una ridda di ipotesi circa il significato da attribuire alla distesa di sabbia rastrellata piuttosto che alla scelta e alla collocazione delle pietre, possiamo a buon diritto affermare che pone a colui che lo ammira gli stessi quesiti su cui dibattono da secoli gli studiosi. Quale è il significato delle pietre e perché i gruppi sono collocati in quel particolare modo? Che significato si nasconde dietro alla distesa di ghiaia e ai disegni che i monaci vi tracciano con il loro rastrello? Per secoli gli studiosi hanno formulato tesi interpretative, più o meno plausibili, molte delle quali sono presentate nel saggio di Harold Stewart, By the Old Walls of Kyoto e, in italiano, nell’illuminante San Sen Sou Moku di Sachimine Masui e Beatrice Testini. Nelle pietre e nelle onde tracciate nella ghiaia dai rastrelli dei monaci si sono lette metafore, si è creduto di vedere montagne emergere da un mare di nubi, cuccioli di tigre affrontare i marosi, fiumi scaturire e tuffarsi in un calmo oceano, li si è interpretati come la massima realizzazione dell’esperienza del vuoto, vi si sono individuati giochi di frattali. Eppure la natura imperturbabile di questi giardini pone l’osservatore di fronte al dubbio circa il significato cui pensavano i loro creatori. E se non vi fosse alcuna spiegazione precostituita? Del resto è quello che sostiene anche un noto studioso, Itō Teiji:
“Guardando un karesansui, è quasi impossibile per noi comprendere la vera intenzione dei vecchi monaci zen. Nonostante ciò, questo giardino ha la forza di toccare il cuore dell’osservatore di oggi. Sappiamo bene che i karesansui, con la sua serenità, ci offre l’opportunità di riflettere su noi stessi. Non è facile comprendere il segreto grazie al quale i karesansui ci pone in un tale stato psicologico. Anzi, si può dire che qualunque spiegazione vada bene.”Leggere di più
Antonio Fontanesi, pittore e maestro dall'animo giapponese
Il Kobū bijutsu gakkō
Nel 1876 il governo fondò il Kobū bijutsu gakkō (Scuola tecnica d’Arte) poiché aveva la necessità di istituire un’accademia nella quale si insegnasse la pittura per puri scopi pratici. Essa fu inserita nelle competenze del Kōbushō (Ministero della Tecnica) dal momento che l’arte veniva considerata una tecnica al servizio della scienza.
All’epoca il governo impiegava diversi stranieri, i quali avevano il compito di contribuire alla formazione della futura potenza giapponese: l’Italia fu scelta come maggiore rappresentante della “grande” arte. Il conte Alessandro Fè, allora ambasciatore italiano in Giappone, inviò un bando che, attraverso il Ministero della Pubblica Istruzione, pervenne all’Accademia Albertina di Torino nella quale insegnava paesaggio da sei anni Antonio Fontanesi. Il bando giunse anche all’Accademia di Brera dove furono scelti Vincenzo Ragusa per rappresentare la scultura e Giovanni Vincenzo Cappelletti per l’architettura.Leggere di più
Il senso della bellezza giapponese e l'architettura sukiya (5)
Numeri dispari e Sukiya
Come dichiarato in precedenza, i giapponesi hanno dimostrato un’affinità per i numeri dispari sin dai tempi antichi. Collegando le riserve di potere implicite nelle rimanenze dei numeri dispari alla religione, arrivano a connettersi con il potere supernaturale dell’assistenza divina. Questo concetto di potere è stato ulteriormente collegato all’estetica giapponese, dando origine all’affinità emotiva per la bellezza della rimanenza espressa nello spazio vuoto e nella risonanza.
Potrebbe essere che, grazie al pensiero ironico degli entusiasti del chanoyu e dei sensualisti di oggi, questo significato dei numeri dispari abbia cambiato significato, risultando in un’architettura chiamata sukiya. Invertendo i kanji della parola kisu, che significa “numeri dispari”, si producono i kanji di suki (lo “ya” in sukiya significa “casa”), implicando un’origine che deriva dai numeri dispari. La parola “suki” è stata scritta originariamente utilizzando il kanji altrimenti pronunciato ko, che indica il voler bene o l’attaccamento. In seguito, quando l’abitudine del tè importata dalla Cina dai monaci Zen raggiunse una popolarità tale durante il periodo Muromachi (1336-1573) che bisognava avere padronanza nel chanoyu per essere considerati “qualcuno”, “suki” incominciò a riferirsi all’avere una profonda affinità per il sentiero verso la raffinatezza, la “sensualità” e il chanoyu. Questo utilizzo della parola incominciò a diventare scritto usando i caratteri inversi per “numero dispari”. Lo Yamanoue Sōji Ki {Scritti di Yamanoue Sōji (1544-90)] elenca tre proprietà richieste a una “persona suki”; un portamento dignitoso anche in assenza di importanti utensili del tè (ciò in un’epoca in cui la regola era possedere gli utensili cinesi più raffinati), l’originalità e una resa decente del servizio. Suki significa così indifferenza nei confronti degli standard della maggioranza della società, fede nel valore degli oggetti come è dettato dalla propria sensibilità e la creazione di nuove forme di bellezza. Non è un mondo oggettivo di bellezza ma, piuttosto, è una questione di sensibilità soggettiva della persona che apprezza la bellezza nei propri termini.Leggere di più