Il “mito” di Kan Yasuda a Taormina

Nei luoghi simbolo della ”Perla” inedita mostra con i capolavori senza tempo del noto maestro giapponese


una scultura di Kan Yasuda al Teatro Antico

I capolavori del maestro Kan Yasuda protagonisti del Natale a Taormina, con “Il Mito Contemporaneo”, la Rassegna Internazionale di Scultura e Pittura, nell’ambito de “Il Circuito del Mito” promosso dall’Assessorato regionale al Turismo.

Il grande artista giapponese Yasuda, noto in tutto il mondo, sta esponendo nella Perla dello Jonio le sue opere che rappresentano un vero e proprio unicum, affascinanti e inimitabili per la capacità di fondere arte e spazio in una dimensione che sfugge al tempo.

Le sue imponenti ed armoniose sculture in bronzo e marmo, che si rifanno alla conoscenza Zen e all’origine della vita, si potranno ammirare sino al 28 febbraio nei luoghi simbolo di Taormina: lungo Corso Umberto, in piazza IX Aprile e nel meraviglioso Teatro Antico, dove si trovano le monumentali sculture in bronzo, ed anche nella ex Chiesa di San Francesco di Paola e all’Hotel Metropole, che ospitano le opere più piccole in marmo e bronzo.

Le sculture di Yasuda a Taormina sono un portale spirituale tra l’Antico ed il Contemporaneo. La presentazione della mostra di Yasuda è avvenuta nelle scorse ore a Taormina alla presenza dell’assessore regionale al Turismo Daniele Tranchida, l’on. Carmelo Briguglio e l’assessore comunale alla Cultura, Antonella Garipoli, Salvatore Presti (direttore artistico del Circuito del Mito) e Massimiliano Simoni (art director di “Mito Contemporaneo). Consensi e sguardi ammirati, per la materia eterea di Kan Yasuda, che media tra Cielo e Terra ed emana un senso di profonda serenità.

Il maestro Yasuda, celebrato ad ogni latitudine del globo, sta riportando un forte senso di internazionalità a Taormina e sono già numerosi i turisti e residenti che hanno espresso apprezzamento per le sue esposizioni, poste nei luoghi più celebrati dell’Antichità siciliana.

“Tra cielo e terra” il titolo e tema della mostra, con delle sculture che esaltano ancor più i luoghi della storia e conferiscono a ciascuno di essi un ulteriore tocco di armonica modernità, esaltando l’orizzonte dell’interscambio culturale ed a perfetto coronamento del percorso millenario dell’uomo tra materia, spiritualità e Mito.

La mostra di Yasuda è, dunque, la migliore declinazione possibile del mito stesso nell’arte contemporanea: è l’appuntamento da non perdere con un percorso artistico inedito e suggestivo, che collega tempi, culture e contaminazioni. Yasuda sta suscitando la curiosità e l’attenzione di molti osservatori, che non si limitano a guardare le opere, ma le toccano e si fermano ad ascoltarne i suoni prodotti.

Sarà possibile vivere sino al 28 febbraio un modo unico di fare arte, che coinvolge pienamente il visitatore e lascia negli occhi e nel cuore una traccia indelebile dello scultore.

Tratto da Blogtaormina.it


Scatole in carta per gli Dei

L’origami, l’arte del piegare la carta in mille forme diverse, ha le sue radici nel Giappone antico, nei riti dello Shintoismo e nel nome dei suoi innumerevoli spiriti sacri: i Kami. Kami è anche il nome col quale i giapponesi chiamarono la carta, arrivata dalla Cina verso il 600 d.C insieme al Buddismo e alla scrittura ad ideogrammi, e a questo nome carico di significato si unirono gli usi più diversi, da quelli ludici a quelli pratici, da quelli artistici a quelli religiosi. Nelle cerimonie ai Kami (dei) era abitudine presentare nel tempio shintoista offerte in cibo quali sale, riso, frutta e altri semplici alimenti. La carta (kami), che già veniva usata in forma di striscioline ripiegate attaccate ad una corda per delimitare gli spazi sacri, costituiva il materiale ideale per contenere i doni degli dei. Racconta infatti una leggenda che fu la dea Kawakami a regalare agli uomini la tecnica del fare la carta con le piante, l’acqua, il sole e le loro mani. Il dono della carta rese più semplice comunicare attraverso i segni e gli ideogrammi ma anche attraverso la piegatura che trasformava un anonimo foglio di carta in una forma significante. Dalle mani di qualche origamista sconosciuto nacquero così figure di animali, insetti, pesci, fiori,stelle ma prima di tutto nacquero le carte per gli dei in forma di piccoli contenitori. Per mantenere puro e incontaminato il cibo ogni offerta veniva infatti riposta dentro un foglio di carta ripiegato nella forma più adatta ad avvolgerla e a proteggerla.Le piegature che sono arrivate fino a noi sono probabilmente le stesse di centinaia di anni fa quando ancora non esistevano libri di origami ma la tradizione si tramandava sull’esempio pratico e chi sapeva piegare insegnava a chi ancora non sapeva.
Modelli di scatole e contenitori semplici nella loro perfetta geometria e complessi nel loro reticolo di piegature tanto da far sorgere il dubbio che non solo la carta ma anche l’origami sia stato un dono degli dei.

Luisa Canovi, da Pagine Zen numero 29


Un ponte dal Giappone

Nonotante sia vissuto diversamente da come lo intendiamo noi, infatti qui è una festività per lo più alle coppie di innamorati, il Natale nella sua magia di luci e sensazioni si può avvertire anche qui. A Shinjuku, le terrazze vicino alla stazione sono adornate da moltissime luci dall'effetto suggestivo.

Foto e testo di Rachele Grassi


Un ponte dal Giappone

Per quanto da noi possa essere considerato sconveniente, in Giappone capita che all'interno di una chiesa cristiana, in occasione di una festa di Natale, ci sia il momento per dimostrazioni di arti marziali e di espressioni di altre culture.

Rachele Grassi


Jiro Dreams Of Sushi: arte e cucina si mescolano in un documentario

Jiro Ono, 85 anni, è considerato il più grande cuoco di sushi vivente, per alcuni addirittura un patrimonio nazionale giapponese. Questo anonimo vecchietto, tutti i giorni raggiunge in metro il suo ristorante, il Sukiyabashi Jiro a Tokyo, lodato anche dalla guida Michelin.

Convinto di non aver ancora raggiunto la perfezione - perché, ci dice, “nessuno sa cosa sia il top” - Jiro vive per il suo lavoro. Una vocazione, la sua: quella di essere un visionario del sushi. Ma in Jiro Dreams Of Sushi c’è di più. La trasmissione del mestiere è ancora attuale nella famiglia Ono, ecco perché il figlio di Jiro, Yoshikazu, deve fare di tutto per tenere viva la fiamma accesa dal padre, anche quando quest’ultimo non ci sarà più. Date uno sguardo al trailer del documentario di David Gelb che uscirà negli Stati Uniti nel marzo dell'anno prossimo. Speriamo di poterlo vedere presto anche da noi.

 

 


La cucina giapponese fra Arte e Religione

Arte e religione sono parte integrante della cucina giapponese sì che essa si trova a essere rappresentata negli antichi rotoli dipinti, nelle stampe, nelle opere a inchiostro degli antichi maestri Zen e nella letteratura.
Secondo i precetti buddisti non ci si può cibare di esseri viventi: da ciò la nascita, nei secoli passati, di una cucina vegetariana di tale alta classe da divenire ispiratrice di varianti, antiche e moderne, tra cui la macrobiotica e la nouvelle cuisine. Ma la religione originaria, lo Shintoismo, che cosa ci svela? Amaterasu, la dea del sole, coltivava riso e ancora oggi uno dei compiti cerimoniali dell’imperatore consiste nel trapianto rituale del primo riso dell’anno. Le offerte presentate ai templi shintoisti (dai più sacri, Ise e Izumo, a quelli minori) comprendono sin dai tempi antichi prodotti del mare come pesci, alghe, molluschi essiccati e alcuni fasci di riso del primo raccolto dell’anno.

Nel campo dell’arte si ha soltanto la difficoltà della scelta tra le innumerevoli rappresentazioni dei cibi, della cucina e dell’alimentazione, nei rotoli dipinti (emakimono), nelle pitture zen e nelle silografie. Ad esempio nel tredicesimo rotolo del Kasuga gongen genki e (del 1309) possiamo ammirare l’interno di una cucina dove cuochi e servi preparano un pasto: vi è chi taglia verdure (radice di loto), chi rimesta il cibo in una pentola, chi attizza il fuoco, chi trasporta una capace pignatta chiusa con un coperchio di legno identico a quelli ancor oggi usati, chi pulisce un tavolino laccato e chi infine dispone gli alimenti in piccole ciotole, poste su un altro tavolino fornito di un alto piedestallo centrale. Invece le zenga (pitture zen, di solito monocrome) rappresentano a volte soltanto semplici vegetali oppure, in genere, santi monaci, asceti o personaggi leggendari come Bodhidharma e alcune giungono a dipingere i suddetti venerabili resi un po’ “allegri” dal sake… .
Rape, peperoncini, melanzane e germogli di bambù così come vongole, granchi e gamberi sono addirittura rappresentati nei mon, gli stemmi circolari delle famiglie (nobili o appartenenti all’aristocrazia guerriera) che vengono anche ai nostri giorni apposti sui kimono da cerimonia.

Graziana Canova Tura, da Pagine Zen numero 18


I samurai al cinema

“Il futuro appartiene a noi”, con queste parole pronunciate dal giovane guerriero Taira no Kiyomori, interpretato dal popolare attore Ichikawa Raizo, si conclude la penultima opera del grande regista Mizoguchi Kenji, Nuova storia del clan Taira - Shin heike monogatari (1955). Si tratta di uno sfarzoso kolossal in stile hollywoodiano, che racconta un evento cruciale della storia del Giappone, la fine dell’epoca Heian, nel tardo XII secolo, e l’avvento al potere dello shōgun e della classe dei samurai, fino ad allora relegati al ruolo di semplici cani da guardia. Le parole di Kiyomori erano profetiche perché questo assetto del Giappone durò fino alla Restaurazione Meiji, iniziata nel 1868. Anche nel cinema i samurai hanno spadroneggiato a lungo e lo stesso attore Ichikawa Raizo avrebbe poi interpretato una miriadedi ruoli di samurai, nei film diretti dal regista di genere Misumi Kenji.

Fin dai suoi albori, il cinema giapponese aveva puntato sul jidaigeki, genere storico di derivazione teatrale, e in particolare sui chambara, i film d’azione con spadaccini, termine onomatopeico che indica il clangore dei duelli con la spada. Il più antico lungometraggio giapponese conservato fino ai nostri giorni, è Iquarantasette rōnin di Matsunosuke - Matsunosuke no Chūshingura (1911), il primo degli innumerevoli adattamenti del celebre dramma, che racconta della vendetta di quarantasette samurai contro il responsabile della morte del loro padrone. La più importante di queste versioni cinematografiche è quella di Mizoguchi, Storia dei fedeli seguaci dell’epoca Genroku / La vendetta dei quarantasette rōnin - Genroku Chūshingura (1941-42).Questa opera è quella che meglio rappresenta i principi del bushidō, la via del samurai, dignità, compostezza, fermezza anche nelle avverse fortune.Oltre alla serena accettazione del seppuku, il suicidio rituale, fondamentale in quest’ottica è il conflitto, tipico della drammaturgia giapponese, che si crea tra i principi di giri (dovere) e ninjō (sentimento). I rōnin sono combattuti tra il giri verso le leggi e l’Imperatore e la lealtà verso il proprio padrone defunto, che rappresenta il ninjō. La decisione cadrà inevitabilmente sul secondo. Tutto ciò senza mostrare scene di combattimento, una scelta molto diversa da quella del celeberrimo I sette samurai - Shichinin no samurai (1954), che non lesina in scene spettacolari, ma per Kurosawa è più importante la sua concezione umanista che si palesa nel finale, quando il capo dei samurai riconosce che i veri vincitori sono i contadini. Una visione invece antieroica, e picaresca, della figura del samurai, è data dal maestro Kurosawa nel dittico costituito dai chambara La sfida del samurai - Yojimbo (1961) e Tsubaki Sanjuro - Sanjuro (1962), dove protagonisti sono rōnin mercenari, non a caso ambientati nel tardo periodo Edo, epoca di pace e di declino della classe samuraica. I guerrieri diventavano burocrati dello shōgun, quando andava bene, ma molti di questi rimanevano senza impiego, come raccontato nel bellissimo Sentimenti umani e palloncini di carta – Ninjō kamifusen (1937).In questo film si narra di un rōnin, alla disperata ricerca di lavoro, dopo il suicidio del padre, commesso mediante impiccagione, grave disonore per un samurai, avendo dovuto vendere le sue spade per necessità.

Il genere jidaigeki tramontò verso la fine degli anni ’60, venendo ripreso solo di recente.Gli ultimi film di samurai prodotti sono accomunati dal fatto di raccontare la fase precedente la fine dell’epopea dei guerrieri, avvenuta dopo il periodo Edo, quando con la Restaurazione Meiji, la classe dei samurai fu sciolta. A dare inizio a questo recente filone del jidaigeki crepuscolare, è stato un grande autore come Ōshima Nagisa con il film TabùGohatto (1999). Dissacrante, come tutta la sua cinematografia, Ōshima si focalizza su elementi scomodi, qualil’omosessualità, e chiude il film con il personaggio interpretato da Kitano Takeshi, che recide un albero di ciliegio in fiore, il principale simbolo del Giappone. Un altro grande vecchio del cinema nipponico, Yamada Yōji, realizza la trilogia del samurai del tramonto, composta da Il samurai del tramonto - Tasogare seibi (2002), La spada nascosta - Kakushi ken oni no tsume (2004) e Amore e onore - Bushi no ichibun (2006). I protagonisti di questi film, anch’essi ambientati alla fine dell’era Edo, sono samurai nei quali è del tutto assente il senso di giri verso il proprio padrone, possono, anche qui, vendere la propria spada e usarne una di bambù, o essere intenti ad imparare il funzionamento dei cannoni che segnano un nuovo modo di fare la guerra. L’epopea è ormai giunta al suo termine.

Giampiero Raganelli

Tratto dal N. 81 di Pagine Zen


Che cos’è l’Ikebana ?

L’Ikebana è l’arte tradizionale giapponese di disporre i fiori, che risale all’antichità.

Vediamone brevemente la storia.

Nasce in Cina nel periodo della dinastia Tang che allora dominava tutto il mondo orientale; all’inizio del VI secolo gli ambasciatori giapponesi, affascinati da questa cultura, introdussero nel loro paese non solo il buddismo ma anche l’usanza di offrire fiori alle divinità.

In Giappone l’arte di disporre i fiori assunse presto i connotati di una vera disciplina.

Alla base di questa evoluzione vi è il profondo rapporto tra uomo  e natura, un modo sempre nuovo e mutevole di interpretare i fiori e l’arte di comporli.

L’ikebana è l’osservazione continua della natura e  del suo ritmo stagionale, da rispettare sempre nelle composizioni, che devono essere il risultato di un equilibrio di forme dove lo spazio vuoto diventa essenziale per definire lo spazio compositivo.

Grande influenza sull’ikebana ebbe anche l’introduzione in Giappone della pratica buddista della meditazione Zen. L’Ikebana divenne allora la massima espressione di questa disciplina tanto da essere ritenuta idonea a purificare la mente e fu adattata alle esigenze marziali dei Samurai.

Fondamentale per l’estetica giapponese è creare un senso di armonia tra il vaso, i materiali e la loro disposizione nel vaso stesso.

A partire dalla metà del XV secolo, con la creazione dei primi stili classici, infatti l’ikebana non ebbe più solo un significato religioso ma diventò un’arte indipendente sempre però strettamente legata a significati simbolici e filosofici.

I primi maestri furono monaci e membri della nobiltà; poi, con il trascorrere del tempo e precisamente nel XVII secolo,  quest’arte floreale prese il nome ufficiale di Ikebana, nacquero le prime scuole, cambiarono gli stili e l’ikebana diventò un’arte  che apparteneva a tutta la società giapponese.

Una composizione di ikebana può essere formata da un solo  fiore o da diversi tipi di materiale. Elemento importante, comune a tutte le scuole di ikebana, è effettuare un’accurata ricerca nella scelta di ogni singolo ramo, foglia o fiore e far corrispondere la nostra ispirazione e visione interna con quello che vogliamo rappresentare.

Per essere in grado di realizzare una composizione di ikebana occorre apprendere in modo approfondito tecniche specifiche, indispensabili all’allievo perché l’ikebana è un’arte creativa dove la tecnica è messa al servizio della nostra fantasia e della nostra ispirazione. Per mettere in moto questo processo è inoltre necessario creare dentro di noi un momento di silenzio interiore e di serenità perché solo così si può dar vita a un rapporto individuale con ciascun elemento vegetale, conferendogli la giusta collocazione in un insieme armonioso.

Oggi l’Ikebana è un’espressione artistica, che ha saputo adeguarsi alle esigenze figurative del nostro tempo e alla richiesta di poter essere inserita nelle nostre case moderne, diventando parte integrante della vita di tutti i giorni.

Paola Piras

Study Group Venezia

www.ikebanavenezia.it

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Edoardo Chiossone, il contributo di un italiano all'epoca Meiji

Non sono molti gli studi svolti su Edoardo Chiossone: il suo lavoro in Giappone era quasi sconosciuto quando era in vita e lo rimase anche dopo la sua morte.

Chiossone nacque ad Arenzano il 20 Gennaio 1833 in una famiglia di tipografi, studiò all’Accademia Linguistica di Belle Arti, dimostrando talento particolare e qualità spiccate in disegno e incisione. Il suo interesse cominciò a rivolgersi, intorno al 1862, verso la produzione di banconote e carte valori. Egli sosteneva la tesi che il nuovo stato italiano dovesse avere una sua officina carte valori, e produrre le proprie banconote autonomamente senza dover far ricorso a ditte straniere. Il rappresentante della Banca Nazionale del Regno, incaricò Chiossone di trovare tecnici e artisti disposti a recarsi a Francoforte presso la Dondorf & Naumann per un periodo di addestramento. Egli dimostrò, una grande sete di conoscenza prorogando la partenza fissata dopo un anno, tempo insufficiente, secondo il suo parere, ad imparare completamente le tecniche necessarie per l’intero processo di produzione della carta moneta. Nel 1871 la Banca gli concesse il permesso per lavorare alla fabbricazione di una banconota per il governo giapponese, ancora conosciuta come Geruman shihei, banconota tedesca. Questo fu il primo contatto che Chiossone ebbe con il Giappone.

In quel periodo la missione diplomatica del Governo Meiji guidata da Iwakura Tomomi, viaggiava in Europa in cerca di idee, uomini e tecnologie che potessero validamente contribuire all’organizzazione del moderno Stato Giapponese,  e visitò le industrie Dondorf a Francoforte, dove si trovava appunto Chiossone. Tramite il Ministro Plenipotenziario Giapponese pervenne all’italiano l’offerta di fondare e dirigere a Tōkyō l’Officina Carte Valori nel nuovo Istituto Poligrafico del Ministero delle Finanze. Chiossone aveva già quarantadue anni, questo viaggio gli si presentava come un’occasione di riscatto e come campo ideale per dimostrare tutta la sua abilità e volontà.

Arrivò a Yokohama il 12 gennaio 1875 e due giorni dopo risultò essere immediatamente al lavoro al Poligrafico, dimostrando sin da subito la sua serietà e laboriosità. Egli aveva concordato uno stipendio sontuoso (era il doppio di quello che avrebbe percepito Antonio Fontanesi un anno dopo) e ulteriori benefici quali la casa. L’incisore genovese abitava nelle vicinanze della Legazione Italiana e trasformò la sua dimora in una specie di museo di arte giapponese, frequentato sia da viaggiatori di passaggio che da stranieri e giapponesi residenti. La chiave per comprendere il trattamento privilegiato e il ruolo fondamentale che ebbe nella modernizzazione del Giappone, è da ricercare nel rapporto che ebbe con il direttore del Poligrafico Tokunō Ryōsuke; sin dal primo momento essi ebbero stima e simpatia reciproca.

Per Chiossone non si trattò unicamente di eseguire un compito, egli aveva finalmente la possibilità di realizzare quello che era stato il suo progetto sin da quando era partito da Francoforte: fondare e gestire un centro per la produzione di carte valori che non fosse unicamente indipendente da terzi, ma che costituisse un centro di sviluppo di tecniche di stampa e una guida per tutte le aziende private. Egli insegnava le tecniche di tutti i settori attinenti alla stampa, dalla fabbricazione della carta e dell’inchiostro, all’uso della filigrana, al disegno artistico e tecnico, alla costruzione delle macchine. I suoi insegnamenti sono tutt’oggi alla base del lavoro degli artisti e dei tecnici del Poligrafico giapponese.

Nel 1876 produsse i primi francobolli moderni della storia postale del Giappone, i koban kitte. Essi sono stati riprodotti per una serie commemorativa nel 1994, affiancati al volto di Chiossone; si tratta di un avvenimento che conferma ulteriormente il valore fondamentale che ebbe il genovese per la storia del Giappone moderno: egli è stato, infatti, l’unico straniero al quale sia stato dedicato un francobollo commemorativo in terra nipponica. La prima banconota nella quale Chiossone inserì il ritratto di un personaggio fu quella da uno yen emessa nel 1878. Egli scelse il volto della mitica imperatrice Jingū, la quale regnò nel III secolo. E’ curioso osservare come le sembianze di questa imperatrice si avvicinano a quelle di una bellezza rinascimentale italiana; in seguito Chiossone cercherà di riprodurre nelle sue figure dei lineamenti un po’ più giapponesi.

Chiossone potè osservare da vicino i cambiamenti che stavano avvenendo in Giappone: egli era parte, infatti, dell’establishment Meiji, profondamente integrato e funzionale al sistema. Egli lavorò in una condizione di autentica fedeltà alle necessità della storia e ai significati della politica e fu apprezzato non solo per la sua abilità professionale, ma anche per la sua straordinaria capacità di immedesimazione culturale con il paese ospite.

Il risultato delle sue attività può essere raggruppato in tre filoni principali: i ritratti delle personalità contemporanee, le effigi storiche della cultura e della civiltà politica antica e moderna sulle carte valori, e, infine, la documentazione illustrata del patrimonio artistico del Giappone.

 

 

Il ruolo di ritrattista ufficiale

La fama di ritrattista di Chiossone si diffuse rapidamente nell’alta società giapponese, come dimostrano i numerosi ritratti eseguiti. Sfogliando un qualsiasi libro che tratti dell’epoca Meiji è inevitabile ritrovare i personaggi principali del periodo, ritratti con le somiglianze che gli aveva dato loro Chiossone. Nel 1872 si manifestò in Giappone
l’intenzione di mutare l’aspetto dell’Imperatore, infatti uno degli obiettivi della Restaurazione Meiji era renderlo visibile affinchè si affermasse il potere della nuova classe politica. Nell’Ottocento era consuetudine in Giappone per i capi di stato scambiarsi fotografie al pari dei biglietti da visita; l’assenza di immagini aggiornate dell’Imperatore era motivo di imbarazzo per i suoi funzionari di corte.

Il ritratto più famoso dell’Imperatore Meiji del 1888 chiamato Go-shin-ei (letteralmente “ritratto imperiale”), che la gente allora considerava una vera fotografia, in realtà era la copia fotografica di un disegno talmente realistico da essere scambiato per una fotografia. Fu Edoardo Chiossone a concepire, nel gennaio del 1888, quel ritratto, e fu Riyo Maruki, uno dei più noti fotografi del tempo a Tōkyō, a riprodurre l’opera di Chiossone sotto la sua stessa direzione. La realizzazione del Go-shin-ei richiese un lungo tempo di elaborazione a causa appunto della ritrosia dell’Imperatore nell’essere fotografato. L’imbarazzo causato dalla situazione spinse il capo del Consiglio a escogitare una strategia: l’unico modo per raggiungere il fine sarebbe stato di concepire un ritratto all’insaputa dell’Imperatore. Durante una visita imperiale Chiossone preparò alcuni schizzi durante l’ora del pasto, osservando di nascosto il volto, la postura e il modo di conversare, prendendo appunti sin nel minimo dettaglio. Tutti rimasero particolarmente colpiti dal lavoro di Chiossone e decisero di mostrarlo all’Imperatore, il quale diede il permesso a utilizzare la nuova “fotografia” nei rapporti diplomatici con i rappresentanti stranieri.

Il metodo che egli utilizzò nel disegnare il ritratto, fu quello di sintetizzare le innumerevoli espressioni fugaci e mutevoli di una persona, catturate dal vivo, nella costruzione di un’immagine simbolica della figura umana che andasse oltre le semplici espressioni. Chiossone infatti attinse a un repertorio tipologico peculiare della sua “europeità”, soprattutto nella scelta della sedia sulla quale fare sedere l’Imperatore e della posizione da fargli assumere. Quando egli, tuttavia, eseguì gli schizzi, riuscì solamente a ritrarre il volto e in minima parte il corpo del sovrano. Per questo motivo Chiossone stesso decise di farsi fotografare in divisa militare con le medaglie appuntate sul petto; in seguito, utilizzò questo scatto come modello per riprodurre il corpo dell’Imperatore, il quale risultò stranamente prestante per un giapponese dell’epoca.

Il contributo alla catalogazione delle opere giapponesi e le collezioni Chiossone

Nel 1879 il Poligrafico organizzò un viaggio di ispezione sui beni culturali giapponesi; infatti negli ambienti governativi era nata la preoccupazione che la mancata documentazione sul patrimonio culturale nipponico favorisse l’esportazione incontrollata di oggetti d’arte, soprattutto di quelli antichi. La squadra del Poligrafico, guidata da Tokuno e affiancato da Chiossone, era composta da undici tecnici e il percorso stabilito era lungo e difficoltoso. I risultati furono però positivi: essi riportarono ben 200 disegni e 510 fotografie che vennero raccolti in una serie di album e di litografie dal titolo Kokka Yoho (Fragranza della Nazione). Si tratta del primo grande repertorio illustrato del patrimonio culturale giapponese, nel quale Chiossone riversò un enorme impegno.

Ma non è l’unica eredità lasciataci da questo personaggio eclettico.

Nel testamento dell’11 gennaio 1898, redatto tre mesi prima della morte, Edoardo Chiossone stabilì che la sua intera collezione andasse all’Accademia Linguistica di Belle Arti di Genova, affinchè ne curasse la pubblica esposizione. Il 30 ottobre 1905 Vittorio Emanuele III Re d’Italia inaugurò il Museo d’Arte Giapponese “Edoardo Chiossone”, il quale rimase in quella sede fino al 1940. A causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale il patrimonio museale fu imballato e sfollato a spese e cura del Comune di Genova che, nel dopoguerra, ne divenne il proprietario. Nel 1948 esso deliberò la progettazione e la costruzione di un apposito edificio, da destinare a sede stabile del Museo. La collocazione del Museo all’interno del parco della Villetta Di Negro è ottimale: si trova proprio al centro di Genova mantenendo nel frattempo una posizione appartata e panoramica.

I manufatti comprendono dipinti, sculture buddiste, oggetti archeologici e in bronzo, monete, lacche, porcellane, maschere teatrali, armi e armature, strumenti musicali, abiti, e una delle maggiori collezioni di dipinti, stampe e libri illustrati ukiyo-e.  Accanto all’ingresso è esposto il busto bronzeo che ritrae Edoardo Chiossone, copia dell’originale ancora oggi collocato nei giardini dell’Officina Carte e Valori di Tōkyō.

Federica Mafodda