Il Cinema giapponese e la sua derivazione teatrale
Nella cinematografia nipponica sono frequenti le opere basate sulla commistione tra il linguaggio cinematografico e quello teatrale, forse proprio a causa del rapporto di filiazione che lega queste due arti, come si è visto. In occidente non mancano esempi di questo tipo,Dopo la prova (1984) di Bergman,L’ultimo metrò di Truffaut o Vanya sulla 42ª strada (1994) di Malle.
Sono però episodi più sporadici. Il teatro kabuki ha trovato molte espressioni al cinema. Una di queste è La ballata di Narayama (Narayama bushikô, 1958) di Kinoshita Keisuke, tratto dal romanzo di Fukazawa Shichirô, storia di un arcaico villaggio di montagna. Il film palesa la sua struttura teatrale già dalla scena iniziale, con un kurogo che batte un gong. E per le scenografie stilizzate, palesemente. Si può vedere solo in Cinemascope, il formato ideale perché ricalca la scena del kabuki. Dallo stesso romanzo è stata realizzata, nel 1983, una versione molto diversa, naturalistica ed estremamente cruda, a opera di Imamura Shohei. Nel mondo del kabuki è ambientato Storia dell’ultimo crisantemo (Zangiku monogatari, 1939) di Mizoguchi Kenji, incentrato sulla carriera di un onnagata, l’ interprete tradizionale di ruoli femminili. Nel film ci sono tre maestose scene teatrali, che si pongono in un rapporto dialettico con la vicenda narrata. Un simile approccio è anche quello di La vendetta di un attore (Yukinojo henge, 1963), remake di un film del 1935, realizzato da Ichikawa Kon, il regista famoso in occidente per L'arpa birmana. Anche qui è protagonista un onnagata, che vuole uccidere tre uomini per vendetta. Memorabile la prima scena teatrale iniziale, dove i fondali si confondono con paesaggi reali, e in cui vengono enunciati i protagonisti del film, che si trovano tra il pubblico.
Sul teatro bunraku è incentratoDoppio suicidio ad Amijima (Shinjô: Ten no Amijima, 1969) di Shinoda Masahiro, regista che aveva fatto studi universitari sul teatro tradizionale. Tratto dal grande drammaturgo Chikamatsu Monzaemon, il film vede la presenza scenica dei kurogu, che guidano le azioni dei personaggi. Indubbiamente la pellicola più estrema, tra quelle giocate tra teatro e cinema, come evidente dal prologo che vede dei burattinai intenti a realizzare i pupazzi di quelli che saranno i personaggi in carne e ossa. Idea questa ripresa nel bellissimo Dolls (2002) di Takeshi Kitano. Anche il teatro nô ha avuto strascichi al cinema come in un’altra opera di Mizoguchi, I racconti della luna pallida d’agosto (Ugetsu monogatari, 1953). E’ una storia con elementi fantastici che seguono i dettami del nô, quali la struttura tripartita negli elementi jô (inizio), ha (sezione media più complessa), kyû (veloce conclusione), e i ruoli tipici del waki, il viandante, e dello shite, il personaggio che si rivela un fantasma in cerca di vendetta. Quest’ultima figura è una donna, Wakasa, truccata come una maschera nô e vestita come un personaggio nô. Anche Kaidan (1965) di Kobayashi Masaki, racconta storie di spiriti, che si basano sugli stessi archetipi narrativi. Come La ballata di Narayama, anche questo film fa uso di fondali irreali che creano un’atmosfera artificiosa. Per realizzare la sua versione del Macbeth, Trono di sangue (Kumonosu jô, 1957), Akira Kurosawa si basa sulla tecnica del nô. E'evidente nella figura di Asaji, corrispettiva di Lady Macbeth, che è sempre immobile, ieratica, inespressiva proprio come nel nô, dove gli attori comprimono la loro energia, e sono in grado di produrre emozioni molto intense con gesti quasi impercettibili. Lo scrittore Mishima Yukio, che aveva scritto molto per il teatro nô, nel suo unico approccio al cinema da regista, Yûkoku (1966), utilizza lo spazio vuoto e astratto di una scenografia nô, per ambientare la sua storia di seppuku. Da citare infine la rappresentazione di nô all'aperto, nell'elegiaco L’uomo che dorme (Nemuru otoko, 1996) di Oguri Kôhei, che accompagna la dipartita di un personaggio. E’ un teatro che mescola realtà e visione, vita e morte.
IKEBANA Antica Arte Tradizionale Giapponese di Disporre i Fiori - Abbiategrasso
Abbiategrasso, 3/5 febbraio 2012 Giorni d'Asia: Giappone
Setsubun : profumo di primavera
L’ikebana nasce dall’osservazione umile e attenta della natura: guardare con amore i petali di un fiore, la venatura di una foglia, l’erba che si piega al passaggio del vento.
La bellezza dell’ikebana nasce dall’armonia di linee, colori e volumi che si sviluppano nello spazio compositivo, esaltando alcuni aspetti della cultura giapponese: il vuoto, che non è assenza ma punto di partenza per ogni cosa; l'asimmetria, che sottolinea l'aspetto spontaneo e vitale della natura; i cicli stagionali, che trasmettono il sentimento di precarietà, tutto cambia e si trasforma in un ciclo continuo. La collocazione ternaria di pochi, essenziali elementi è impostata su regole precise e proporzioni fisse tra vaso, rami e fiori. L’uso di fiori in differenti momenti di fioritura simboleggia il ciclo vitale, effimero e transitorio: il fiore sbocciato rappresenta il passato, il fiore semiaperto il presente, il bocciolo è simbolo del futuro.
L’offerta di fiori alle divinità ha origine in India e con il Buddhismo, attraverso Cina e Corea, raggiunge il Giappone nel VI secolo d.C. dove diventa disciplina. Iniziata come arte ieratica e cerimoniale, oggi rappresenta un’armoniosa fusione di estetismo e poesia, espressione artistica, frutto e riflesso della cultura giapponese.
Verso la fine del 1800, con l’apertura del Giappone al mondo occidentale, nasce l’ikebana moderno. Il maestro Unshin Ohara per valorizzare i nuovi fiori d’importazione occidentale, più grandi e colorati, pensò di disporli in particolari vasi bassi e poco profondi entro i quali le composizioni potevano espandersi in larghezza e introdusse l’uso di speciali supporti che permettevano una maggiore creatività pur nel rispetto delle antiche regole compositive. Nacque cosi lo stile ‘Moribana’ adottato, in seguito, anche dalle altre scuole di ikebana.
L’ikebana ha saputo adeguarsi alle tendenze figurative del nostro tempo: diventa una ricerca di grafismo, colori e volumi, facile da inserire nella nostra vita quotidiana.
In concomitanza con Giorni d'Asia : Giappone si celebra la festa del primo giorno di primavera secondo il calendario cinese, per i giapponesi SETSUBUN.
Il 3 febbraio si cacciano i demoni, ovvero le influenze negative dell'inverno spargendo fagioli di soia arrostiti al grido “Oni wa soto, fuku wa uchi!” (Fuori i demoni! Dentro la fortuna!). Questo lancio è detto mame maki. In segno benaugurale alcune persone, quando rientrano in casa dopo essere state al santuario shinto per il mame maki, mangiano tanti fagioli quanti gli anni che
compiono nell’arco dei successivi dodici mesi: un modo per attirare la fortuna.
Anna Massari Master
OHARA SCHOOL OF IKEBANA
CHAPTER IKEBANA OHARA MILANO
La cultura del cibo in Giappone
La cultura del cibo ha un’antichissima tradizione in Giappone, ed è legata in modo particolare alle stagioni e a una natura che rende questo Paese così affascinante, ma lo colpisce anche in modo incredibilmente devastante.
Il popolo del Sol Levante ha sin dall’antichità usufruito di tutti i beni che la natura offre: vegetali, pesci e altri animali. I precetti della religione buddhista hanno però nei secoli limitato il consumo di carne. L’uso quotidiano di vegetali d’ogni tipo, foglie, fiori, radice, erbe selvatiche, alghe e prodotti di origine non animale ha quindi permesso ai giapponesi di sviluppare una straordinaria varietà di piatti legati ai prodotti locali e al momento della vita della terra durante le tradizionali 24 stagioni (nijūshiki) di 15 giorni che dividevano l’antico anno agricolo secondo il calendario lunare. L’estetica della disposizione sul piatto è considerata fondamentale per l’apprezzamento dei cibi e, poiché la secolare tradizione di sobrietà fa utilizzare tutto ciò che è commestibile, persino l’alimento più povero viene trattato come prezioso e servito nel modo più elegante possibile.
I piatti, le ciotole e i contenitori del cibo vengono scelti con accurata attenzione perché si armonizzino con esso, ma creino nel contempo un piacevole contrasto di colore e di forma. Le regole estetiche sono tante, ma basterà assorbirne alcune per poter dare un tocco in più alla nostra cucina quotidiana.
Molti grandi scrittori, nipponici e stranieri, hanno descritto le sensazioni uniche provocate dall’arte gastronomica giapponese ai cinque sensi dell’essere umano: vista, tatto, gusto, odorato e perfino udito. Nella bibliografia che segue ho indicato alcuni libri in cui gli autori hanno, colpi di fulmine espresso la fascinazione subita all’incontro con la cultura del cibo in Giappone, a volte amori a prima vista, colpi di fulmine che si sono poi evoluti in amori di tutta una vita.
Graziana Canova Tura
Bibliografia:
Fondamentale per chi voglia conoscere il Giappone in tutti i suoi aspetti:
- MARAINI Fosco, Ore giapponesi, Milano, Corbaccio, 2000, pp. 524 (1° ed. 1956).
Poi
- BARTHES Roland, L’impero dei segni, Torino, Einaudi, 1984, pp. 135.
- CALZA Gian Carlo, Stile Giappone, Torino, Einaudi, 2002, pp. 213.
- MARCHESI Gualtiero e VERCELLONI Luca, La tavola imbandita. Storia estetica della cucina, Bari, Laterza, 2001, pp. 226.
- PARISE Goffredo, L’eleganza è frigida, Milano, Adelphi, 2008, pp. 169 (1° ed. 1982).
- PASQUALOTTO Giangiorgio, Yohaku, Padova, Esedra, 2001, pp. 157.
- RICHIE Donald, A Taste of Japan, Tokyo, Kodansha, 1985, pp. 112.
- TANIZAKI Jun’ichirō, Libro d’ombra, Milano, Bompiani, 1982, pp. IX-117.
- TSUCHIYA Yoshio, A Feast for the Eyes. The Japanese Art of Food Arrangement, Tōkyō, Kodansha, 1985, pp. 166.
- Cucina zen
- DŌGEN – Uchiyama Rōshi, Istruzioni a un cuoco zen, Roma, Ubaldini, 1986, pp. 133.
- EIHEI DŌGEN, La cucina scuola della Via, trad. e a cura di Jisō Forzani e p. Luciano Mazzocchi, Bologna, Ed. Devoniane, 1998, pp. 125.
- HOOVER Thomas, La cultura zen, Milano, Mondadori, 1981, pp. 252.
- TSUJI Kaichi, Zen Tastes in Japanese Cooking, Tōkyō, Kodansha, 1972, pp. 207.
* * *
CANOVA TURA Graziana
- Il Giappone in cucina, Nuova edizione riveduta e aggiornata, Milano, Ponte alle Grazie, 2006, pp. 397 (1° edizione, Mondadori, 1994, pp. 350 – esaurito)
- La cucina zen, Milano Xenia, 1998, pp. 183.
- Giappone (collana cucina etnica), Milano, Fabbri, 1999, pp. 120.
- Sushi, Milano, Fabbro, 2000, pp. 71.
Antiquariato giapponese
Kano Tomokazu
Scuola di Gifu, inizio del XIX secolo
Affascinante netsuke raffigurante una tigre intenta a leccarsi una zampa anteriore. Gli occhi sono in corno trasparente, con le pupille in corno scuro.
La musica del periodo Kofun e la preparazione per il nuovo stato giapponese
Successivo al periodo Yayoi si colloca il periodo Kofun che prende il nome dalle sepolture megalitiche tipiche dell'area soprattutto del Kansai (fig.1) ed è compreso tra gli anni 250 D.C. al 552 D.C., inizio del periodo Asuka.
Questa fu l'epoca in cui tutte le importanti innovazioni dei precedenti periodi, tra cui soprattutto quelle in ambito agricolo e militare, contribuirono a far nascere una nuova idea di unità nazionale dando il via a quell'unificazione, la prima della storia giapponese, che si sarebbe concentrata soprattutto attorno ad un piccolo gruppo di individui che si staccarono sempre più significativamente dalle popolazioni agricole, andando a fondare un nuovo stato che oggi generalmente identifichiamo con il termine Yamato, situato oggi nell'area del Kansai.
Le teorie su come avvenne questa formazione, tralasciando il mito narrato negli annali giapponesi, sono molte e varie, quella che viene oggi comunemente accettata ci deriva dal testo cinese Wei-Chih che farebbe risalire ad una principessa-sacerdotessa di nome Himiko, o Pimiko, la creazione del primo grande clan che attraverso un sistema di alleanze riuscì a creare un primo stato di nome Yamatai, identificato, anche se con molte riserve, proprio con lo stato Yamato (alcuni storici, pur confermando la validità di tali eventi, contestano che Yamatai potrebbe essere un'antica regione situata nel Kyūshū).
Inoltre in ambito religioso apparirono per la prima volta gli uji gami, Dei degli uji, antichi guerrieri o personalità di rilievo che nel tempo, venerati di generazione in generazione, si trasformarono in divinità locali.
Se precedentemente si era ravvisato negli strumenti la maggiore fonte di conoscenza del mondo sonoro dell'antico Giappone, l'oggetto di maggiore interesse di questo periodo risiede in una serie non molto amplia di piccole statue chiamate haniwa, statue di terracotta facenti parte del corredo funerario degli imperatori e dei dignitari di corte, poste vicino ai Kofun, che solo nella fase di mezzo iniziarono a essere prodotte con fattezze umane (ancora molto rudimentali in verità) abbandonando l'abitudine iniziale di riprodurre templi e case, conservate oggi in vari musei del Giappone (Tōkyō e Kyōto National Museum, Fukushima ed Aikawa Museum Castello di Hikone,) ed esteri (Metropolitan Museum of Art di New York).
Nonostante la loro qualità storica sorpassi nettamente la qualità artistica, soprattutto se messa in raffronto alla coeva tecnica cinese di modellazione della terra cotta, di queste statue sono sopravvissute sino ai giorni nostri un centinaio di guerrieri, che rappresentano sicuramente la categoria più cospicua ed un numero esiguo di suonatori e danzatori.
Tra queste statue rappresentanti figure di sacerdotesse vi sono anche alcuni esempi di rappresentazioni di strumenti musicali quali un danzatore seduto nell'atto di suonare un wagon (rinvenuto a Mōka-shi, prefettura di Tochigi) (Fig.3), tra le prime testimonianze visive pervenuteci di questo strumento ed un'altra sacerdotessa che regge un frammento di strumento a percussione, waritake, costituito da due aste di bambù percosse l'una sull'altra diffuso ancora oggi in alcune zone di campagna dell'arcipelago giapponese.
Gli Haniwa descritti sopra offrono non solo una panoramica di un mondo perduto ma permettono alcune ulteriori riflessioni sul ruolo della musica all'interno del rito religioso qual'era la sepoltura, dove la mondanità, rappresentata dagli strumenti a fiato, di gran lunga più diffusi in questo periodo, era completamente bandita, infatti, in nessun caso è stata rinvenuta una statua raffigurante un suonatore di un qualsivoglia tipo di flauto, tranne in un caso particolare di dubbia identificazione.
Successivamente al contato con il continente asiatico e soprattutto con lo stato cinese, tutto in Giappone subirà una modifica radicale che ne muterà per sempre le sorti sia politiche che musicali.
Edmondo Filippini da Pagine Zen N. 78
Tako - Gli Aquiloni
In tutti i paesi del mondo gli uomini hanno sempre cercato modi e mezzi per comunicare con i loro dei e in Oriente furono gli aquiloni a rappresentare il contatto fra la terra e il cielo.
L'uomo comunica il suo pensiero a una forma costruita in seta e bambù che, sospinta dal vento, vola in alto verso il destinatario del messaggio. Il filo teso permette alla mano di guidare l'aquilone nel cielo e di richiamarlo poi a terra quando, per imperscrutabili ragioni, si sente che la comunicazione è avvenuta.
I primi aquiloni nascono in Cina già intorno all'anno 1000 a.C e, grazie ai viaggi di monaci, navigatori, esploratori e commercianti, si diffondono ben presto in tutti i paesi orientali, assorbendo gli usi e costumi delle tradizioni locali. Quando arriva in Giappone l'aquilone prende il nome di “tako” e il suo ideogramma assomiglia a quello di “kaze” , il vento, che per ogni aquilone rappresenta l'elemento vivificante. L'aquilone infatti, essendo più pesante dell'aria, ha bisogno di una forza che gli permetta di volare. Grazie al vento che lo rende vivo e alla mano dell'uomo che gli trasmette un significato l'aquilone diventa, di volta in volta, un gioco, un simbolo, un oggetto utile, uno strumento di lavoro, un'arma di combattimento e tante altre cose ancora. Gli aquiloni costruiti in forma di animali, pesci, uccelli, insetti solitamente rappresentano i protagonisti delle fiabe e delle leggende popolari e il loro volo racconta l'una o l'altra storia. Per esempio un aquilone in forma di carpa veniva fatto volare per favorire la forza nei bambini maschi, così come diventano forti le carpe che risalgono i fiumi controcorrente.
Aquiloni dalle forme più geometriche e funzionali erano usate per i riti della semina o per la pesca d'altura. Sotto un aquilone si mettevano alcuni semi che, strattonando il filo di traino, cadevano “dal cielo” fecondando il campo e favorendo così un buon raccolto. Su altri aquiloni i pescatori aggiungevano un filo libero con un'esca attaccata in fondo. Lasciando volare gli aquiloni sull'acqua bastava aspettare che il pesce abboccasse. Legato alle tradizioni animiste l'uso degli aquiloni per purificarsi dalle cattive azioni e dalle disgrazie dell'anno: durante una festa gli abitanti del villaggio facevano volare più in alto possibile i loro aquiloni, a cui avevano raccontato le proprie storie e al tramonto tagliavano i fili, lasciando così andare via, insieme agli aquiloni, tutte le negatività. Il giorno dopo, chi trovava gli aquiloni caduti li bruciava completando così la purificazione. Usi meno poetici ma altrettanto pacifici per sistemare questioni litigiose: due gruppi avversari costruivano due grandi aquiloni, di solito rettangolari, e vi dipingevano sopra figure di draghi e di mostri terrificanti della mitologia giapponese. Il giorno convenuto i due gruppi, costituiti a volte da centinaia di persone, innalzavano gli aquiloni e col filo dell'uno si cercava di agganciare a far cadere a terra l'altro, che così perdeva la gara e nel villaggio si ristabiliva la pace. Nei periodi di guerra l'aquilone veniva usato per spaventare il nemico e convincerlo a ritirarsi: si attaccavano a grandi aquiloni corde vibranti che, nottetempo, sibilavano sugli accampamenti nemici per intimorirli, come fossero spiriti inviati dagli dei.
Un ponte dal Giappone
La rush hour non può essere descritta fino a che non la si è vissuta. Ogni spazio fino a circa un metro e sessanta centrimetri da terra è inesorabilmente occupato, con non poche difficoltà per le persone con statura più bassa.
Testo e foto di Rachele Grassi
Capodanno Giapponese
L’inverno è il tempo della grande festa di Capodanno: importante come il Natale per gli occidentali, vede le famiglie giapponesi riunirsi, molti tornare al paese natio a godere gli antichi sapori della cucina della mamma (ofukuro no aji). In splendide scatole di legno laccato, quadrate e a più strati, verrà servito osechi, il cibo di Capodanno: sardine, frittate, fagioli neri cotti a lungo in un sugo dolce, nodi di alga, piccole orate, pezzetti di pollo, radici di loto all’aceto, uova di pesce e altre delicatezze. Le verdure di stagione sono gli spinaci e altre foglie verdi. Nelle case si predispongono le classiche decorazioni di Capodanno che comprendono: kaki essiccati (significano salute e successo nella vita), alga konbu (il suo nome ricorda il verbo yorokobu, rallegrarsi, gioire), mochi (anche omochi) è un cibo tipico dell’inverno e tradizionale del periodo di Capodanno. Si prepara con riso glutinoso (mochigome) cotto a vapore, pestato a lungo in un grosso mortaio di legno, finché diviene una pasta molle ma compatta, che va poi modellata in piccole focacce. Il vocabolo mochi, se scritto con un altro ideogramma, può significare “avere, possedere”: equivale quindi a un augurio di ricchezza. La ricetta principale di Capodanno contenente il mochi è la minestra chiamata ozooni, ma il modo più semplice e appetitoso per gustarlo è quello di abbrustolire il boccone di mochi, intingerlo in salsa di soia e avvolgerlo in un pezzetto di alga nori. Due mochi di misura diversa fanno parte obbligatoria delle decorazioni di Capodanno e vengono posti il piccolo sopra al più grande (kagami-mochi), insieme con arance amare e altri elementi, come offerta sull’altare shintoista presente nella casa, oppure in un luogo importante della dimora, o all’ingresso, dove di solito si pongono le decorazioni per il Capodanno. L’aragosta bollita è anch’essa indispensabile (appesa sulle porte o esposta nelle abitazioni). Il vocabolo generico ebi, che indica tutti i tipi di crostacei, dai gamberi all’aragosta, viene scritto con due ideogrammi che significano mare-vecchio, perché l’aragosta ha il corpo piegato come una persona anziana. Tutto ciò è di buon augurio per una lunga vita e anche in considerazione del fatto che in Giappone la vecchiaia è considerata dote apprezzabile, perché porta con sé saggezza ed esperienza.
di Graziana Canova Tura, da Pagine Zen numero 27
Ten Guardiano celeste
Scultura in legno scolpito e laccato in policromia
Giappone Underground. Il cinema sperimentale degli anni ’60 e ‘70
Pag. 140 – € 12,00
Recensione su Pointblack: http://www.pointblank.it/?p=
Sebbene in Giappone la nascita del cinema sperimentale sia alquanto remota, solamente con i primi anni sessanta si svolgono gli esordi di una tendenza all’underground in qualche modo essenziale (quantomeno in ragione del suo più intimo travaglio teorico) e soprattutto consapevole del senso dei propri mezzi formali e del significato delle sue ipotesi ideologiche. Accanto agli autori legati alle grandi case di produzione come la Shochiku (Oshima, Yoshida, Shinoda) e la Nikkatsu (Imamura, Suzuki), ancora accanto agli indipendenti come Hani o Teshigahara che operano al di fuori del sistema degli studi, alcuni altri autori seguono la via solitaria della sperimentazione e della ricerca formale antinarrativa riflettendo così il tentativo di una radicale riorganizzazione delle funzioni del mezzo cinematografico per ambire ad una formalizzazione dell’espressione e alla risoluzione dell’orizzonte soggettivo pure se all’interno del conflitto irredimibile fra creazione ed atto. I cineasti dell’avanguardia oltrepassano la logica diegetica per giungere ad una concezione dell’opera come struttura e sistema di relazione tra dispositivi complessi e sostanzialmente oppositivi. Il loro cinema è un raffinato esperimento di astrazione dei materiali in favore della rarefazione della forma (sublimata, certamente, e compiuta nelle sue espressioni di valore pure nella sorte di conchiudersi al decadentismo dell’autoespressione e al compiacimento narcisistico di un soggettivismo estremo) e di un’articolazione strutturale concepite come condizioni di estremo rigore per la depurazione stilistica e la ieraticità espressiva, ancora assumendo l’alea introtelica della monumentalizzazione formalistica e in termini di contenuto sociale negato e in termini di disposizione puramente iconica del materiale espressivo. Dai primi maestri come Takahiko Iimura e Nobuhiko Obayashi si giunge ai sodali di Koji Wakamatsu, primo fra tutti Masao Adachi, passando per l’esperienza isolata dello scrittore Yukio Mishima, fino ai nomi di riferimento di Toshio Matsumoto e Shūji Terayama.
Beniamino Biondi è nato nel 1977 ad Agrigento. Ha compiuto studi classici e giuridici. Poeta e saggista, si occupa di teatro e cinema. Collabora con riviste di letteratura e critica cinematografica, cura rassegne di cinema d’autore e svolge attività di drammaturgo e regista teatrale. Come relatore partecipa a numerosi convegni e giornate di studio. Ha curato l’edizione delle poesie complete del filosofo Aldo Braibanti ed ha pubblicato numerosi volumi di scrittura creativa e critica. Svolge opera di consulenza per Enti, Associazioni e Facoltà Universitarie. Collabora per il Cinema e il Teatro Sperimentale con il Teatro della Posta Vecchia di Agrigento. Di prossima uscita un volume sul cinema greco degli anni ’60 e un testo drammatico per il teatro.
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