Made in Japan L'estetica del fare - Milano
Invito inaugurazione del 2 marzo 2012 alle ore 19.00 presso la Triennale di Milano. L'inaugurazione è a ingresso libero.
Tasselli d’arte – Oltre il Cinema, la sezione espositiva della XIX edizione di Sguardi Altrove Film Festival con la collettiva Made in Japan - L'estetica del fare chiude idealmente la trilogia che ha avuto come obiettivo la riflessione artistico, sociale e politica sui paesi, oggi, al centro dell’attenzione internazionale.
La terza edizione di Tasselli d’Arte – Oltre il Cinema affronta le tendenze dell’arte e della cultura nipponica con uno sguardo su artisti di nuova generazione, ma anche con antesignani della tradizione, grazie ai quali le due anime dello zen e del manga si ibridano in una suggestiva rete di rimandi tra costumi, arte, cinema, video e fotografia.
La mostra si configura come una collettiva che interseca sguardi, linguaggi e punti di vista differenti relativamente al paese del Sol Levante. Nell’ambito di Made in Japan. L’estetica del fare il pubblico potrà fare delle donazioni libere finalizzate alla raccolta fondi per la ricostruzione del Giappone. Questi due momenti benefici sono connessi all’esposizione delle Charity Box, il progetto de L’Isola della Speranza Associazione No profit fondata dai giapponesi residenti a Milano a sostegno delle vittime del terremoto e dello tuznami a cui hanno partecipato oltre cinquanta designer di paesi differenti con opere firmate tra gli altri da Naoto Fukasawa, Kaori Shiina, Kazuyo Komoda. Le Box create per l’occasione diventano dei veri e propri salvadanai in cui i visitatori, se vogliono, possono inserire la loro donazione.
In mostra, in ricordo di Fukushima anche una selezione di video che documentano il disastro ambientale, opere fotografiche e videoistallazioni di artisti che amplieranno lo sguardo e porteranno la loro riflessione estetica sul tema dell’ambiente, in rapporto alla Natura Madre.
Tra i nomi degli artisti giapponesi selezionati quello di Yayoi Kusama, artista nota a livello internazionale di cui sarà presentata una installazione "Walking Piece" del 1966, inedita per Milano e delle foto del grande Nobuyoshi Araki, per gentile concessione della Galleria Guenzani di Milano e una inedita istallazione, ‘Asutomorrow’della designer nipponica Kaori Shiina, ‘Hyouriittai’, opera fotografica di Yoshie Nishikawa, fotografa di grande sensibilità e spessore artistico a cui si aggiungono gli oggetti di Naoto Fukasawa, firma riconosciuta nel panorama del design, a livello internazionale. A rappresentare i giovani artisti giapponesi invece, oltre ai designer inseriti nella collettiva Charity box, Takane Ezoe, anche protagonista della performance (nel ruolo della pittrice) della coreografia di Sisina Augusta, che inaugurerà la manifestazione, di cui sarà presentata ‘Kizuna’, una istallazione ispirata a Fukushima.
Tra gli italiani Eliana Lorena, già ospite nella precedente edizione Made in Africa, quest’anno con il progetto ‘My room’, inteso come un punto di arrivo dove depositare oggetti e pensieri creati , nel lungo attraversamento delle terre orientali; Sergio Calatroni, noto artista milanese da anni residente a Tokyo che propone ‘Impertubabile necessario’, una serie fotografica sulle suggestioni ispirategli dal paese del Sol Levante; le giovani artiste Sara Scaramuzza e Clara Rota con ‘Kimono quotidiano - il sapore della polvere nel buio’, un’opera che evoca più temi; dal ruolo della donna nella cultura estetizzante giapponese alla rimozione dell’esperienza di Hiroshima nella politica giapponese; e Clara Rota con ‘Epifaine’, istallazione sugli antichi teatrini giapponesi. Ad essi si aggiunge ‘Ferita’, installazione di Stefania Scattina in omaggio alla forza d’animo, alla resilienza e alla civiltà del popolo giapponese; e un’opera realizzata specificatamente in occasione della mostra da Ludmilla Radchenco.
La panoramica sulla cultura e sull’arte giapponese si completa con Itamy la performance coreografica dell'artista italiana Sisina Augusta, che aprirà e inaugurerà la mostra, che vedrà in scena Takane Ezoe e il ballerino Lorenzo Pagani. La performance è un connubio tra gesto, colore e musica ed è ispirata al tema del dolore; a essa si aggiungeranno l’esibizione di un’artista giapponese che proporrà La vestizione del kimono, a cura della maestra Tomoko Hoashi, con un commento di Rossella Marangoni; una lezione aperta di Calligrafia a cura dell’associazione Yuemo; e la ‘Cerimonia del Te’, proposta dall’artista giapponese Saito Watanabe nell’ambito del progetto di ‘umanizzazione’ Cha - No - Yu - L’acqua calda per il te, responsabile il dottor Sergio Marsicano e prodotto dell’associazione ‘Amo la vita Onlus‘.
Il progetto che ha portato l’arte giapponese nell’ospedale San Carlo è finalizzato a migliorare le condizioni di vita dei degenti e si prende cura delle esigenza psico socio antropologiche dei malati incurabili, dei loro familiari e del personale sanitario.
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WILL - Roma
WILL
one year ago,
one year after
mostra fotografica
Co-organizzazione: Ambasciata del Giappone in Italia
1 - 14 marzo
1/3/2011: sisma e tsunami di inusitata violenza si abbattono sulla regione del Tohoku in Giappone. La via della ricostruzione e' intrapresa da subito, per iniziativa locale e nazionale, e grazie all’intervento tempestivo della comunita' internazionale,cui il popolo giapponese tributa profonda riconoscenza.
A un anno di distanza, la mostra, aldila' di facili retoriche e strumentalizzazioni del dolore, propone immagini dell’ineluttabilita' dei fenomeni naturali, della reazione umana, e della sopravvivenza comunque e nonostante, grazie al dono prezioso dei legami, kizuna in giapponese, termine che oggi , nel Giappone della ricostruzione, si erge a simbolo della vicenda. Che si tratti di legami di sangue, di amicizia, di uomo e terra, interpersonali, o internazionali poco importa:
l’unione fa notoriamente la forza, in questi casi quella necessaria per risollevare il Tohoku dalla devastazione.
In mostra le immagini più eclatanti delle prime fasi, e quelle meno conosciute ma altrettanto, se non maggiormente, significative: la gente, il territorio, le attività di recupero, i volontari stranieri e il sostegno dei locali, e il contributo di tutti alla ricostruzione, insieme.
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Istituto Giapponese di Cultura in Roma Via Antonio Gramsci, 74 Tel. 06/3224794 info@jfroma.it
Haru no Kaze - Vicenza
Il Comune di Vicenza in Collaborazione con l’Associazione Gohan presenta “Haru no Kaze (Vento di Primavera) – Il Giappone a Vicenza”. Sarà un’occasione per conoscere, assaporare, vivere il Giappone, con la sua inestimabile Cultura e le sue Arti tradizionali e moderne, in cui traspare sensibilità, forza, eleganza e la ricchezza interiore di un grande Paese. Verranno dati giusto risalto e valore alle svariate forme espressive presenti in questa cultura e agli aspetti tradizionali - formativi che da secoli sono alla base di questo popolo. Uno scambio culturale che porterà ad un coinvolgimento umano oltre che estetico e rappresenterà un importante momento di apertura e unione tra i popoli. La manifestazione comprende: una parte espositiva, di cui una mostra dedicata ad oggetti di arti tradizionali e produzioni artistiche (kimono, Shodō, Origami, Ikebana, Chadō), ed un’esposizione di opere di artisti giapponesi contemporanei; conferenze; dimostrazioni e workshops (Ikebana, Origami, Chadō, Zazen, vestizione del kimono, cucina giapponese, gioco del Go, Lingua giapponese, Furoshiki); trattamenti di Shiatsu; concerto di Taiko (tamburi giapponesi) a grande rischiesta dopo lo straordinario successo nel 2011, nuovo spettacolo.
A Vicenza quindi una finestra sul Giappone per tutti coloro che amano questo Paese, per tutti coloro che vogliono conoscerlo, per chi vuole immergersi in una nuova cultura.
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Electronic Tea Ceremony - Roma
MACRO - Museo d’Arte Contemporanea Roma
Roma, via Nizza 138
Auditorium
INGRESSO LIBERO
Mercoledì 29 febbraio 2012 alle ore 16.44 (4:44 pm) al MACRO - Museo d’Arte Contemporanea Roma, l’artista giapponese Mai Ueda sarà la protagonista dell’anteprima delle attività diMACROeo(electronicOrphanage) con ElectronicTea Ceremony, una performance live sul tetto dell’Auditorium dal seducente connubio tra antico e moderno, teatralizzato dall’oscillare del corpo, all'insegna di nuove interpretazioni visionarie del tea-time. Inoltre, l’artista presenterà il suo nuovo libro Drawings From My Previous Life, una raccolta di ritratti ad acquerello di amici che Mai Ueda ha conosciuto nel corso dell'ultimo decennio, quando faceva parte del movimento artistico "Neen".
MACROeo(electronicOrphanage) è un progetto ideato dall’artista Miltos Manetas che si configura come una piattaforma di riflessione sulle nuove tecnologie e sulle prospettive aperte dainew media.
Mai Ueda, artista “neenster”, nata a Osaka in Giappone nel 1978, vive e lavora a New York. È molto apprezzata a livello internazionale per il suo lavoro che da sempre si ispira al meta-mondo di internet, la cultura pop americana, la moda francese, lo sciamanismo del Sud America, lo yoga, il tantra tibetano e la meditazione. Dice l’artista: "Neen ha rappresentato per me un nuovo e diverso approccio al mondo dell'arte contemporanea. E' sorprendente vedere come è possibile produrre poesia e bellezza con l'uso della tecnologia e dei dispositivi Internet. Si tratta di considerare modi diversi di esprimere noi stessi, l'arte è lì per catturare gli elementi della nostra vita intima e della nostra personalità".
INFO PUBBLICO
MACRO
via Nizza 138, Roma
T. +39 06 67 10 70 400
www.macro.roma.museum
Ingresso libero
Join us on Facebook and Twitter: MACRO - Museo d’Arte Contemporanea Roma
INFO STAMPA
Ufficio Stampa MACRO
T. +39 06 67 10 70 443 / stampa.macro@comune.roma.it
Maria Bonmassar / M. +39 335 49 03 11 / maria.bonmassar@tiscali.it
Ludovica Solari / M. +39 335 577 17 37 / ludovicasolari@gmail.com
Asako Hishiki Intrecci d'acque - Reggio Emilia
Asako Hishiki
INTRECCI D’ACQUE
Lʼoriginale linguaggio di Asako Hishiki si presenta come un equilibrato punto di contatto fra molteplici stratificazioni culturali, che riescono a coagularsi attorno a lavori eleganti, calligrafici, costruiti con impaginazioni sempre perfette nelle quali lʼinsieme è reso con la medesima cura del più minimo particolare. Nulla viene lasciato al caso.
Asako, in questa serie di opere realizzate appositamente per questa esposizione, suggerisce impercettibili segni dʼacqua, memorie residuali di un lavoro che la natura, qui intesa nel suo senso più profondo, intimo e originario, traccia nel suo divenire e nel suo continuo trasformarsi. E altrettanto essenziale è il segno con cui Asako tratteggia questo intimo
sentimento, con la raffinatezza delle infinite variazioni del nero, del grigio e del bianco e lʼimpiego di tecniche minimali, matita, acquerello e xilografia.
vernice sabato 3 marzo, ore 18
Con il Patrocinio del Consolato Generale del Giappone a Milano
ASAKO HISHIKI
Nasce ad Hamamatsu (Giappone) nel 1980.
Si laurea nel 2004 nel corso di pittura presso lʼUniversità Joshibi di Arte e Design.
Successivamente diplomatasi presso lʼAccademia di Belle Arti di Bologna,
ottiene nel 2010 una borsa di studio in pittura del Governo italiano.
Vive e lavora a Bologna.
Principali mostre personali:
2009
- “Il Tempo Conservato”, Gallery Zaim, Yokohama (Giappone)
- “La Sospensione del Tempo”, Galleria Expo-Ex, Senigallia
2011
- “La Fermentazione dellʼAria”, Blu Gallery, Bologna
- “Gli Uccelli Migratori”, Il Posto, Bologna
Partecipazioni a mostre collettive:
2010
- Premio San Fedele “Il segreto del sguardo”, Milano
- Como Contemporary Cotest “Co.Co.Co.”, Spazio Natta, Como
2011
- Premio San Fedele “Dove sono? E quindi uscimmo a rivedere le stelle”, Milano
- “Notti dʼEstate”, Spazio Gerra Reggio Emilia
- Blu Gallery, Bologna
1.1_ZENONEcontemporanea
11, Via San Zenone
Reggio Emilia
Italia
www.zenonecontemporanea.it
TAIKO - Vicenza
Caratterizzato da una coreografia di grande potenza questo concerto dal ritmo incalzante è in grado di trasmettere forte energia per una rappresentazione di grande valenza estetica e alta sensualità.
Un Concerto di Taiko
una vera e propria Scarica di Adrenalina
ed Energia
VICENZA
Prenotazioni e Vendita:
- Online: entra qui
- Biglietteria Teatro Comunale Città di Vicenza:
Viale Mazzini, 39 (Vicenza) Tel.: 0444.324442; email: biglietteria(at)tcvi.it
- Presso gli sportelli della Banca Popolare di Vicenza
Storia del Taiko
La leggenda del tamburo giapponese va indietro nel tempo, quando la terra era governata dagli antichi dei.
Si racconta che un giorno la Dea del Sole si infuriò a causa delle violenze di suo fratello e si nascose in una grotta.
Così la terra fu avvolta dal buio totale.
La vita delle persone divenne più triste e volendo richiamare il Sole fuori dalla grotta, iniziarono a danzare, a fare musica, a pregare ed, alla fine, a suonare tamburi di fronte alla grotta.
La Dea del Sole, incuriosita da ciò che stava accadendo, guardò fuori. In quel momento le persone la presero e la tirarono fuori dalla grotta. Immediatamente tornò la luce e la terra si scaldò.
Da quella volta il Taiko è suonato in occasione di importanti eventi, celebrazioni dell’estate e feste popolari.
Un romanzo corale: Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka
Non hanno mai un nome, i personaggi di Julie Otsuka. Nel suo primo, celebre romanzo (ancora inedito in Italia), When the Emperor was Divine (Quando l’Imperatore era un dio, 2002), sono una “madre”, una “figlia”, un “padre”, senza nome e senza volto perché potrebbero essere tutti i nomi e tutti i volti dei giapponesi rinchiusi nei campi di concentramento sperduti nei deserti più aridi e polverosi degli Stati Uniti. Sono, loro, i “nemici in casa”, e proprio per questo allontanati dalle città, dalle loro case, spossessati della loro vita, in nome di una paura tanto cieca quanto insensata.
È lo scavo nella memoria di una comunità, la lucida testimonianza di una discendente, ciò che sta alla base della scrittura di Julie Otsuka, nata nel 1962 negli Stati Uniti da genitori giapponesi, pittrice prima e poi, sotto l’urgenza della memoria, nel bisogno del ricordo, scrittrice.
Nessun nome neppure nel secondo romanzo, The Buddha in the Attic (2011) ora pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri con l’evocatore titolo Venivamo tutte per mare. L’opera è infatti corale, corale il racconto di un’illusione, quella di una vita migliore in un nuovo, accogliente Paese. La speranza delle cosiddette “spose in fotografia”, donne giapponesi sposate per procura a uomini giapponesi emigrati anni prima, mariti sconosciuti in terra sconosciuta che queste donne andavano a raggiungere.
Siamo all’epoca della prima ondata emigratoria di giapponesi nell’America del Nord, all’inizio del XX secolo. Gli uomini giapponesi emigrati verso gli Stati Uniti in cerca di lavoro, fuggiti da campagne battute dalle carestie, ancora immerse in una spaventosa miseria, cercano spose nella madrepatria e inviano fotografie chiedendo alle proprie famiglie di provvedere. E le spose accorrono, nella speranza di una vita migliore, verso quel marito di cui conoscono, o credono di conoscere, almeno il volto. Sulla nave, negli spazi angusti della terza classe, le donne si raccontano le loro paure, le loro speranze, i dubbi, le incertezze, la nostalgia di casa. Si consolano fra di loro, a volte si innamorano di un marinaio o di un passeggero gentile, si pentono della decisione di partire o cercano di convincersi della fortuna di una nuova vita. Soprattutto si raccontano.
Dalla traversata dell’oceano, all’incontro con i mariti, dall’impatto con una realtà sorprendentemente dura alla disillusione, la testimonianza di queste donne è data come da una voce, unica e molteplice al tempo stesso: la voce di un “noi” declinato all’infinito sulle esperienze e le reazioni più diverse.
“Alcune di noi sulla nave venivano da Kyoto, avevano la pelle chiara e delicata, ed erano sempre vissute nella penombra delle stanze sul retro. Alcune venivano da Nara, e pregavano gli antenati tre volte al giorno, e giuravano di sentir ancora suonare le campane del tempio. Alcune erano figlie di contadini della prefettura di Yamaguchi, ragazze con i polsi grossi e le spalle larghe che non erano mai andate a letto dopo le nove. Alcune venivano da un piccolo villaggio nella prefettura di Yamanashi e avevano da poco visto un treno per la prima volta. Alcune venivano da Tokyo e avevano visto tutto […]”
La scrittura asciutta, priva di qualsiasi compiacimento, della Otsuka accompagna questa folta schiera di donne nella loro nuova vita e lo fa per mezzo di una prosa che, pur scarna, riesce ad essere lirica, a rendere vivide le immagini della vergogna, della speranza, dell’odio, della passione, della tenerezza che queste donne vissero e provarono, nel proprio corpo, sulla propria pelle. L’incontro con gli uomini e le donne americani, con i proprietari terrieri e con i bottegai, con le signore della middle class e le vicine delle baracche fra i campi è l’incontro con una realtà sconosciuta e spaventosa, è la consapevolezza della diversità, l’impatto con il razzismo. A questa quotidianità estranea e crudele non c’è modo di sottrarsi. L’ancora di salvezza, allora, l’unico legame con la propria identità è quel marito sconosciuto di cui magari non si è riuscite a riconoscere il volto al molo, tanto era vecchia la fotografia che aveva inviato in Giappone e che lo ritraeva più giovane e meno stanco, meno provato. Quel marito che da subito si era detestato, che si era rivelato violento, o freddo, o indifferente, o gentile, o premuroso. Comunque è quest’uomo a volte odiato, a volte sopportato, raramente amato, a rappresentare il tenue legame con il Giappone lontano, con il proprio mondo lasciato con dolore. L’unico individuo che, attraverso la sua esperienza, può aiutare a spiegare un sistema di vita così diverso da quello in cui si era cresciute.
Otsuka, a poco a poco, per brevi paragrafi scarni e incisivi che tanto ricordano un genere letterario classico della letteratura giapponese, lo zuihitsu[i] ci introduce nella quotidianità di queste donne, sino ad una svolta fatale: la deportazione delle comunità giapponesi in isolati campi di concentramento nel deserto, durante la seconda guerra mondiale. Così il filo del racconto si riannoda all’opera precedente della scrittrice, costituendone un’ ideale anticipazione.
Abbandoniamo così le città, i quartieri, le case, seguendo le donne, gli uomini, i bambini giapponesi, in un nuovo calvario di privazione e dolore. Ognuno dice l’addio a suo modo, lasciandosi dietro qualcosa di sé, ad esempio quel qualcosa che dà il titolo originale al romanzo, The Buddha in the Attic, Il Buddha nella soffitta. Ognuna, in quest’ora fatale ritrova il nome che l’autrice le restituisce come a volerne restituire la dignità. Così Shizue, Haruko, Chiye, Kimiko, Kiyono, Naruko e tutte le loro compagne ritrovano l’umanità nell’attimo in cui viene loro negata; “Alcuni di noi partirono piangendo. E alcuni di noi partirono cantando. Una di noi partì coprendosi la bocca con la mano e ridendo istericamente. […] Kiyono partì dalla fattoria in White Road convinta di venire punita per qualche peccato commesso in una vita precedente. Devo aver calpestato un ragno. […] Chiye partì da Glendale ancora in lutto per la figlia maggiore, Misuzu, che si era buttata sotto un tram cinque anni prima. Penso a lei ogni minuto della giornata. Suteko, che non aveva figli, partì sentendosi delusa dalla vita. […] Fumiko partì da una pensione di Courtland scusandosi per qualunque problema potesse aver creato. Suo marito partì dicendole di allungare il passo e tenere la bocca chiusa, per favore. […] Kimiko lasciò la borsetta sul tavolo della cucina, ma se ne ricordò troppo tardi. Haruko lasciò un piccolo Budda ridente di ottone in un angolo della soffitta, e ancora oggi il Budda ride.”
Rossella Marangoni
[i] Lo zuihitsu (lett. “lasciar scorrere il pennello”) è un genere letterario peculiare alla letteratura giapponese e comprende saggi diversi, pensieri o annotazioni, accumulati senza un ordine apparente o semplicemente per associazione di idee. Secondo il significato letterale, il termine permette di visualizzare una mano che traccia i caratteri col pennello seguendo liberamente i propri pensieri, quindi può essere ben tradotto con aforismi, miscellanea, pensieri sparsi, appunti, note, considerazioni, il tutto apparentemente annotato a caso.
Il cinema giapponese tra tradizione e modernità
Kenji Mizoguchi - Genroku Chûshingura (1941)
Per un osservatore distante
Stanno conversando dei fiori
Eppure a dispetto delle apparenze
Sono immersi in pensieri molto differenti
Ki No Tsurayuki
Con questa poesia, del poeta, di epoca Heian, Ki No Tsurayuki, inizia un saggio fondamentale sul cinema giapponese, Pour un observateur lointain di Noël Burch. L’autore dimostra i caratteri di unicità ed originalità di questa importante cinematografia, l’unica, almeno fino al 1945, non derivante dalla cultura occidentale. Solo i registi nipponici hanno saputo elaborare codici di rappresentazione filmica esclusivamente propri e profondamente divergenti dagli standard hollywoodiani che venivano adottati anche in Europa e in tutte le nazioni in qualche modo colonizzate.
Un semplice sguardo alla storia di questo paese può fornire una spiegazione. Non è mai stato invaso in duemila anni di storia, fino alla sconfitta della Seconda Guerra Mondiale, e non è mai stato soggetto ad uno status coloniale. Pur essendosi aperto all’occidente, nell’era Meiji, ha saputo usare le conoscenze tecnologiche acquisite per costruire un bastione contro l’egemonia americana. Questo è alla base dell’originalità del suo cinema e ha reso possibile l’autonomia tecnica ed economica della sua industria. Esiste del resto uno stereotipo che dice che i giapponesi non copiano, bensì adattano.
Esclusivamente nipponica è stata l’introduzione, nell’epoca del muto, della figura dei benshi. Si trattava di narratori che, posizionati ad un lato dello schermo e, avvalendosi di un’orchestra, prestavano la voce ai personaggi del film e ne commentavano la storia. Le origini sono riconducibili, nel periodo Edo, agli etoki, sorta di cantastorie che facevano uso di dipinti e strumenti musicali, e all’interno di una forma di rappresentazione, simile al vaudeville, detta yose.
Fin dagli albori, il cinema nipponico si è concentrato su due filoni principali, il jidaigeki e il gendaigeki. Il primo, una sorta di dramma in costume derivato direttamente dal teatro kabuki, si basa su di una tradizione di codici feudali risalente al periodo Tokugawa. Molte opere come il celebre Chushingura (I quarantasette ronin), o la biografia del samurai Myamoto Musashi, possono vantare numerosi adattamenti, anche ad opera di registi molto importanti come Mizoguchi Kenji e Inagaki Hiroshi. Il gendaigeki è invece un genere di ambientazione contemporanea incentrato su su storie di gente comune, sulla vita come è realmente. In questo campo alcuni registi hanno saputo esprimere un cinema intimista e poetico, basato sulla serenità insita nella semplicità. I grandi maestri sono stati Ozu Yasujiro, Naruse Mikio, grande autore di ritratti femminili, e Shimizu Hiroshi, da ricordare per la sua particolare sensibilità verso il mondo dell’infanzia.
Una peculiarità dei film giapponesi è quella di dare molta importanza alle atmosfere, alla relazione tra i personaggi e l’ambiente che li circonda. Questo riflette quel sentimento, assolutamente nipponico, che vede il mondo della natura come un’estensione dell’uomo stesso. E’ evidente nell’utilizzo degli elementi che viene fatto in molti film. Basta pensare alla scena della battaglia sotto la pioggia in I sette samurai (Shichinin no samurai, 1954), o il sole pressoché palpabile in film come Ventiquattro occhi (Nijushi no gitomi, 1954) o L’isola nuda (Hadaka no shima, 1960). Molto importante è anche il modo di trattare le stagioni. Molti titoli di film di Ozu ne costituiscono un campionario e sono un parallelo con le vicende narrate. Anche il già citato L’isola nuda si fonda sul passare delle stagioni e sui relativi cambiamenti naturali della piccola isola in cui è ambientato. Il regista Naruse Mikio ha, similmente ad Ozu, un catalogo di titoli, nella propria filmografia, che si fondano sulle nuvole: Nubi fluttuanti, Nubi d’estate, Nubi disperse.
Questa sensibilità sembra essere ancora viva nel cinema di oggi. Ne è un esempio, il film (Tokyo marigold Tôkyô Marîgôrudo, 2001), di Ichikawa Jun, in cui un fiore annuale simboleggia la caducità di una storia d’amore che dura una sola stagione.
Giampiero Raganelli
Tratto dal n. 67 di Pagine Zen
La cerimonia del tè, come esperienza sensoriale
La cerimonia del tè giapponese si svolge fondamentalmente in silenzio. Gli unici scambi di parole che avvengono tra il padrone di casa e l'ospite sono strettamente legati alle varie fasi della cerimonia e non dovrebbero turbare in qualunque modo lo stato d'animo delle persone presenti. I momenti di silenzio, oltre a favorire la concentrazione dei partecipanti, riescono ad amplificare, in particolar modo quando si pratica in mezzo alla natura, i suoni esterni ma anche gli interni come il bollire dell'acqua alla giusta temperatura che per i giapponesi ha un suono profondamente evocativo molto simile al vento tra i pini, matsukaze. Si puo inoltre notare che i suoni dell'acqua versata nella tazza da un mestolo chiamato hishaku cambiano in base alla temperatura dell'acqua.
Tutte queste piccole esperienze sensoriali non sarebbero possibili se non ci fosse la concentrazione favorita dal silenzio. Il silenzio come vuoto che riempie lo spazio di suoni che, diversamente, risulterebbero impercettibili dove regnasse il pieno, inteso come insieme di rumori. Oppure si puo affermare che alla riduzione al minimo delle sollecitazioni sensoriali corrisponda un affinamento dell'attività della coscienza. Il minimalismo sensoriale amplifica la percezione della nostra coscienza riguardo a ciò che accade e gli dà profondita di significato.
Nello svuotamento della mente è piu semplice raggiungere quella condizione di unitarietà tra corpo e spirito. In uno stato in cui la parola è ridotta al minimo, la forma di comunicazione principale è affidata al corpo che, attraverso una corretta respirazione e l'assenza di tensione, trasmette quella serenità cosi importante nell'offrire una tazza di tè.
Questo costante affinamento del nostro spirito praticato in un ambiente propizio ha senso se viene poi condiviso con il nostro prossimo, nella vita di tutti i giorni, dove le costanti sollecitazioni rischiano di sopraffarci. Lo spirito che anima lo studio della cerimonia del tè corrisponde esattamente a quello di chi pratica lo Zen.
I movimenti della cerimonia del tè, codificati in base a un senso e a un'utilità, non risultano mai gratuiti e soprattutto non ricercano mai la bellezza fine a se stessa. Tutti i movimenti del corpo sono definiti in Giappone kata, che significa forme. Quando, dopo una costante ripetizione di queste forme, esse diventano parte di noi e quindi non le sentiamo più estranee, sono definite katachi. In Giappone l'aver acquisito questa condizione, significa aver raggiunto la massima naturalezza. Non sono quindi più io che cerco di regolare i miei movimenti secondo un certo modello in quanto quel modello è diventato parte di me.
Durante tutte le fasi della cerimonia, il ritmo dei movimenti deve armonizzarsi con la respirazione. Bisogna imparare a muoversi con velocità ma senza affanno, ciò è molto difficile. La mia maestra di cerimonia del tè, Michiko Nojiri, mi dice sempre che, quando offro una tazza di tè, se non sono in grado di mantenere una respirazione lenta e profonda nel muovermi velocemente, è meglio che rallenti il ritmo dei miei movimenti.
Tra le varie tazze utilizzate nella cerimonia del tè, la tazza raku è sicuramente una di quelle che maggiormente incarnano i principi estetici della via del tè. Queste tazze hanno la particolarita di essere estratte dal forno quando sono incandescenti. Il vuoto, nelle tazze, corrisponde a quelle irregolarita nella forma, quelle piccole rientranze che rendono ogni tazza unica e irripetibile. A ogni tazza viene inoltre attribuita una faccia o fronte, su cui solitamente si trova un'irregolarità nella forma o una sbavatura di colore. Quello, che agli occhi degli occidentali potrebbe sembrare un difetto, diventa invece motivo di interesse. Le irregolarità dovrebbero comunque essere provocate da eventi esterni e non essere deliberatamente ricercate dal proprio creatore. In ciò risiede il fascino dell'imprevisto. Se diversamente questi effetti fossero ricercati dal ceramista, risulterebbero solamente prodotti da un manierismo autoreferenziale. Anche nelle fasi di produzione della tazza, il vuoto è importante. Infatti quando la tazza viene presa dal forno, le viene tolta una certa quantita di ossigeno, inserendola in un contenitore ricolmo di foglie e segatura. Questo vuoto d'ossigeno ha un effetto molto evidente sullo smalto della tazza.
Nel 1999 andai in Giappone con la mia maestra e un gruppo di praticanti provenienti da tutta Europa. Un giorno avemmo la fortuna di essere invitati dall'attuale erede della dinastia Raku nella sua stanza del tè, adiacente al museo omonimo di Kyoto. Come segno d'amicizia verso la mia maestra, volle personalmente offrire a tutti noi una tazza di tè utilizzando sia oggetti creati da lui che altri piu antichi realizzati dai suoi avi. La stanza del tè, come tradizione vuole, non era particolarmente illuminata e quindi potei in quel frangente imparare che le tazze non si apprezzano unicamente attraverso la vista ma anche attraverso il tatto. La condizione di semioscurità mi diede quindi la possibilità di sperimentare attraverso le mie mani un'altra forma di percezione, molto piu profonda del solito. Tenere quella tazza nelle mie mani mi ha trasmesso un senso di maggiore vicinanza e intimità con essa come se si fosse trattato di qualcosa di vivente. Questa esperienza mi ha arricchito interiormente ed è rimasta viva fino a oggi nella mia coscienza.
Alberto Moro
Sukiya, Dimora del Vuoto
Tai-an (待庵) Tempio di Miyokyan
Il grande maestro del tè Sen Rikyu (1522-1591), vissuto in Giappone nel XVI secolo, diceva che la stanza del tè doveva essere simile a una capanna di paglia, rappresentare semplicemente un riparo dagli eventi naturali e, nello stesso tempo, conferire un senso di vicinanza alla natura. La stanza del tè doveva essere progettata con il preciso scopo di favorire l’elevazione spirituale di chi la frequentava.
Il termine sukiya era soprattutto usato all’epoca del maestro Rikyu, quindi durante il periodo Momoyama (1573-1603).
Oggi quando si parla di una stanza per la cerimonia del tè, si utilizza la parola chashitsu, termine che iniziò ad essere adottato a partire dal 1600. Il tipo di stanza amata da Sen Rikyu era in stile soan. Questa tipologia si ispirava alle case rustiche in cui gli aristocratici organizzavano incontri di poesia, lontani dalle turbolenze cittadine. Il modello estetico di riferimento era quello dei rifugi montani. La stanza del tè era tradizionalmente in legno e in particolare veniva apprezzato l’utilizzo del cipresso (sugi), del pino giapponese (matsu) e dell’abete giapponese (tsuga).
Per accedere alla stanza del tè bisogna camminare per un sentiero chiamato roji, come fosse un percorso di purificazione. Tutte le pietre sulle quali si cammina sono di forme diverse e distanziate in modo differente e obbligano ad osservare attentamente la direzione dei propri passi. Al termine del breve tragitto, gli ospiti sostano sotto un porticato fino a quando il padrone di casa non li invita ad entrare nella stanza del tè. Prima di entrare nella stanza del tè, tutti gli ospiti devono purificare se stessi con dell’acqua versata da un mestolo. Prima si sciacquano le mani e poi si purificano la bocca.
Dopodiché gli ospiti entrano nella stanza attraverso una porta di legno molto stretta, che misura tradizionalmente 78,8 cm di altezza e 71,5 cm di larghezza chiamata nijiriguchi. L’utilizzo di questo tipo di entrata venne introdotto dal maestro Sen Rikyu che si ispirò alla porta di una casa galleggiante di un pescatore. Per entrare nella stanza bisogna inginocchiarsi e abbassare la propria testa e il proprio corpo. Questo movimento dovrebbe predisporre l’animo dell’ospite a un approccio umile nei confronti di questa esperienza oltre a influenzare la percezione dello spazio interno della stanza, così da farlo sembrare più ampio. I samurai che desideravano entrare nella stanza del tè dovevano abbandonare le lunghe spade all’esterno, in quanto l’ingresso era così angusto da non permettere loro di portarle con sé.
Una volta entrato nella stanza, l’ospite trova davanti a sé un ambiente spoglio. L’unico elemento architettonico è il tokonoma, una sorta di nicchia, vicino alla quale si siede il primo ospite e al cui interno è appesa un’opera d’arte in forma di rotolo verticale detta kakemono. Questo oggetto può essere una calligrafia realizzata ad inchiostro da un maestro Zen o da un praticante del tè oppure un dipinto, accuratamente scelti dal padrone di casa per esprimere lo spirito che lui desidera infondere all’incontro. La calligrafia deve essere fatta da un maestro Zen o da un praticante del tè in quanto la forza e l’autenticità dell’opera stessa sta nella perfetta coerenza tra forma e contenuto. Il kakemono è senza dubbio l’oggetto più importante presente nella stanza. In passato si costruivano le stanze per adattarle a un’importante calligrafia che si possedeva e non viceversa. Nel tokonoma, si trova inoltre una composizione floreale che, secondo l’estetica della Via del Tè, deve esprimere la semplicità dei fiori di campo. Fiori che solitamente le persone non si soffermano a osservare ma che nel vuoto della stanza del tè possono ritrovare la loro profonda bellezza e dignità.
Il pavimento della stanza è ricoperto da stuoie di paglia di riso, solitamente bordate di tessuto, meglio conosciute con il nome di tatami (il modulo più comune è quello di Kyoto di 1,91 x 95,5). La misura classica della stanza del tè è i 4 tatami e mezzo. Il termine che definisce questo tipo di stanza in Giappone è yojohan. La scelta di queste dimensioni è fatta risalire a Vimalakirti, un buddista laico indiano che viveva in una stanza di circa 9 mq e si dice tradizionalmente che anche in questo piccolo spazio riuscì ad ospitare il santo Manju insieme a 84.000 discepoli del Buddha, segno che per una persona illuminata non esistono limiti dimensionali.
Le pareti sono spoglie. Solitamente i muri sono realizzati con fango misto a fili di paglia come leganti di circa 15-20 cm che non venivano ricoperti così che potessero risplendere nell’oscurità della stanza. Questa tecnica di trattare le pareti si chiama arakabe e conferisce all’ambiente un aspetto rustico.
Colui che organizza una cerimonia del tè dovrebbe ricercare con molta attenzione di mantenere, per tutti i vari momenti che la caratterizzano, dal percorso degli ospiti attraverso il giardino che porta alla stanza, alla loro permanenza fino alla partenza dopo la conclusione dell’incontro, una condizione di quiete in cui lo spirito dei partecipanti non sia turbato da inutili stimolazioni sensoriali, ma sia facilitato nel mantenere una giusta attenzione verso ciò che li circonda. Anche la gradazione luminosa nella stanza, fortemente smorzata, dovrebbe contribuire a favorire uno stato d’animo meditativo.
Takeno Joo (1502-1555), un grande maestro del tè che precedette Sen Rikyu, rivolse il chashitsu, che aveva le pareti ricoperte da una carta bianca spessa e levigata (torinoko) verso nord, in modo che non risultasse troppo luminoso e che riuscisse a evidenziare la bellezza rustica degli oggetti utilizzati durante la cerimonia. Il maestro Rikyu invece era solito posizionare il chashitsu verso sud o est, in quanto ciò gli permetteva di giocare artisticamente con la mutevolezza della luce.
Rikyu riteneva inoltre che le finestre dovessero essere funzionali al dosaggio della luce e non dovessero essere concepite per veicolare lo sguardo verso l’esterno. Non utilizzò quindi nelle sue stanze una sorta di lucernario (tsukiage), amato da altri maestri, che dava la possibilità stando seduti sul tatami di ammirare la luna. Bisognava infatti per Rikyu evitare di eccitare i sensi, così da favorire una condizione meditativa come quella dello zazen, dove si raccomanda ai praticanti di tenere sempre gli occhi semiaperti, così da non focalizzare lo sguardo su alcunché. Le finestre possono essere a listelli di bambù (renjimado) e/o fatte con una sorta di reticolato (shitajimado) e la luce viene filtrata attraverso un’intelaiatura di bambù ricoperta da carta di riso non trasparente. Sia le imposte sulle finestre che gli shoji, pannelli scorrevoli interni alla stanza, potevano scorrere o essere rimossi completamente. Le imposte erano comunque utilizzate come protezione dagli eventi atmosferici.
Alberto Moro