Il significato di Wabi

Wabi, insieme al termine yūgen (mistero e profondità), strettamente legato al teatro nō, e a sabi (bellezza solitaria), che trovò un suo pieno sviluppo nella poesia haiku, rappresenta uno dei principi estetici cardine della sensibilità giapponese. Wabi è il sostantivo del verbo wabiru e, originariamente, indica una condizione materiale di privazione, solitudine e frustrazione dei propri desideri. È sinonimo di una vita povera e miserabile, caratterizzata da delusioni e fallimenti. Il monaco Zen Jakuan Sōtaku, autore di un importante testo giapponese il Zencharoku (1828), scriveva: “Se consideri limitante trovarti in condizioni economiche precarie, se ti lamenti dell’insufficienza come se fosse una privazione, se ti rammarichi che le cose hanno avuto un decorso sbagliato, tutto ciò non è wabi. Allora sei un vero indigente.” Il valore di questo testo è l’approccio rivoluzionario verso la povertà, vista come veicolo per raggiungere una libertà spirituale non condizionata dalla bramosia per gli oggetti materiali.

Questa presa di coscienza, per essere autentica, deve essere vissuta con profondità d’animo e non come atteggiamento superficiale. D’altro canto la semplicità wabi, fatta di non pretenziosità e ruvidezza, non deve essere confusa con la povertà e la rozzezza. È importante, quindi, con la propria sensibilità, poter cogliere la grande nobiltà di spirito e la purezza interiore nascosta sotto un aspetto grezzo e modesto. Bisogna saper percepire la bellezza interiore delle persone, e non fermarsi all’esteriorità. Wabi non esibisce l’attenzione che è stata rivolta al più piccolo dettaglio delle cose, né al costo, né allo sfarzo che è stato profuso in ciò che si può vedere. È una bellezza di grande profondità che trova la sua espressione in termini semplici e non pretenziosi, la sua componente principale risiede nell’inespresso, l’elemento interno è superiore all’esterno. L’estetica wabi rifugge l’eccesso e l’arroganza in tutte le sue manifestazioni e ricerca l’umiltà e la reticenza.

Un altro aspetto importante della bellezza wabi è l’amore per l’irregolarità e l’imperfezione. Un grande maestro del tè Murata Shuko (1422-1503) sosteneva: “La luna non è piacevole se non parzialmente oscurata da una nuvola”. Per le persone è molto facile ammirare la luna piena, mentre riuscire ad apprezzare il fascino e il mistero che emana da una luna velata dalle nuvole è per pochi. In natura non esiste nulla di perfetto e il senso della bellezza in Giappone non ha un valore oggettivo ma, per realizzarsi, deve passare attraverso la sensibilità dello spettatore. La perfezione sta nel movimento (es. il passaggio delle nuvole) perché tutto è impermanente.

Il monaco Zen e professore di filosofia delle religioni presso l’Università di Kyoto Shin’ichi Hōseki Hisamatsu (1899-1980) sosteneva che le caratteristiche di wabi fossero le seguenti: l’irregolarità, la semplicità, l’austerità, la naturalezza, il mistero, l’immaterialità e la tranquillità. Il grande poeta di haiku Matsuo Bashō (1644-1694) sosteneva inoltre che: “apprezzare l’insufficiente (wabishiki) è il frutto di essere entrati nella Via”. Il periodo dell’anno che maggiormente si avvicina allo spirito wabi si colloca tra il tardo autunno e l’inizio dell’inverno, quando cadono le foglie e iniziano i primi fiocchi di neve. Questo scenario trasmette un profondo senso di transitorietà e solitudine ma allo stesso tempo stimola la contemplazione e la meditazione.

Il forte richiamo all’introspezione e all’accettazione dell’impermanente è sicuramente influenzato dalla sensibilità buddista. In questa condizione di spirito si cerca di liberarsi dalla schiavitù del desiderio e del possesso, così da riuscire ad apprezzare la semplicità in tutte le sue manifestazioni. Wabi non è quindi da intendere solamente come concetto estetico ma anche come atteggiamento etico e religioso verso la vita. Nel XV secolo, la sensibilità wabi trovò nella cerimonia del tè la sua piena realizzazione come arte pratica della vita quotidiana. Ogni gesto della cerimonia deve trasmettere un sentimento di bellezza wabi così da raggiungere attraverso la frugalità e la semplicità uno spirito di comunione e di profonda armonia tra chi offre una tazza di tè e chi la riceve.

Alberto Moro


La dicotomia tra dovere e sentimento nel teatro di periodo Edo: l’esempio del Chūshingura

L’etica confuciana, soprattutto nel suo sviluppo neoconfuciano, rivestì un ruolo importante nella formazione di un’ideologia di dominio per il bakufu Tokugawa (1603-1868), funzionale alla giustificazione prima e al mantenimento poi (soprattutto con il terzo shōgun, Iemitsu 1623-1651) della propria posizione di potere, ma accanto ad essa resistette una cultura popolare che già prima dell’avvento dei Tokugawa al potere si era vista interessata agli aspetti più vistosi di questo sistema di pensiero  e che venne poi solo superficialmente intaccata dal “discorso” del regime il quale, però, andò penetrando lentamente ma progressivamente, nella mentalità popolare per tutta la durata del periodo, andando a ingrossare quel panorama culturale la cui complessità, fatta di tradizioni e modi di pensiero radicati nello shintō, nei culti ancestrali e nel folclore, è di ardua definizione.

Fra tutte le virtù confuciane, quella che più di ogni altra ha condizionato i rapporti fra gli uomini e ha inciso in profondità nel corso della storia giapponese è senza dubbio la lealtà (cin. zhong, giapp. chū).

Partendo da questo assunto, quello che mi interessa è analizzare come il concetto di lealtà (interpretabile sia come espressione del sistema etico utilizzato dal regime, sia come elemento originale del pensiero autoctono preesistente all’influenza cinese) sia esemplificato al meglio dall’episodio storico conosciuto come Akō gishi jiken   (il caso dei guerrieri giusti di Akō), episodio celeberrimo della storia giapponese conosciuto fuori dal Giappone come “la vendetta dei quarantasette rōnin” e, soprattutto, come questa esemplarità emerga dalla trasfigurazione poetica che ne è stata fatta nel più celebre dramma teatrale ispirato ad esso, il Kanadehon Chūshingura (1748), scritto originariamente per il ningyō jōruri, il teatro delle marionette, e poi riadattato per il kabuki, più funzionale sicuramente – nel gioco spettacolare degli attori e nella ricchezza delle variazioni di messinscena – ad incarnare un ideale (la lealtà) capace di legare profondamente gli uomini, al di là dei confini fra vita e morte.

Lo studioso del confucianesimo giapponese Peter Nosco ha osservato che non esiste miglior indizio circa la penetrazione del confucianesimo nella cultura di periodo Tokugawa che la sua presenza nella letteratura popolare dell’epoca, anche se ciò può apparire sorprendente a coloro che conoscono la sottigliezza del pensiero confuciano. Di questa popolarità non può esserci dubbio. [1]

Che il discorso confuciano fosse stato bene o male introiettato dalla popolazione del periodo Edo, è un dato inconfutabile che trova conferma nella massiccia presenza di elementi facilmente ascrivibili ad esso proprio nella letteratura coeva. Il rapporto (e spesso il conflitto) fra giri (ossia le obbligazioni sociali) e ninjō (ovvero l’insieme dei sentimenti umani, delle passioni, delle inclinazioni personali che animano l’individuo), è uno di questi elementi, e uno dei temi favoriti della letteratura e della drammaturgia dell’epoca.

Il caso del Kanadehon Chūshingura può essere considerato esemplare. Si tratta di un jidaimono, vale a dire di un dramma storico, nel quale la lunghezza e la complessità della sua trama hanno permesso di inserire atti che costituiscono veri e propri sewamono, ossia dei drammi di tipo domestico. Abbiamo quindi in questo testo la confluenza di due diverse concezioni di fare teatro, una legata strettamente alla tradizione del ningyō jōruri precedente alla comparsa di Chikamatsu Monzaemon,1653-1724 (ambientazione in un’epoca lontana, personaggi storici dal comportamento eroico), l’altra derivata dal nuovo corso imposto da Chikamatsu e dall’evoluzione nel gusto del pubblico (ambientazione nella contemporaneità con preoccupazioni di realismo, personaggi di bassa estrazione ma reali e plausibili).

Nel Kanadehon Chūshingura si ha dunque la possibilità di individuare la presenza di un complesso sistema di relazioni giri-ninjō.

Se si analizza infatti il dramma dal punto di vista della relazione giri-ninjō così come può essere isolata in un jidaimono, si ritrova una situazione di conflitto che definiremmo “classica”, legata alla lotta fra le richieste dello stato (o comunque di un’entità politica) e gli affetti familiari o i legami di lealtà nei confronti del proprio signore (come è appunto il caso del Chūshingura). Seguendo questo tipo di analisi, si potrà facilmente individuare nel Chūshingura, come ha fatto Adriana Boscaro, “un ninjō che si legittima in termini di giri, alla fin fine, sostanziato dalla forza di appartenenza al gruppo che i rōnin avevano dimostrato.”[2] Infatti, i vassalli di En’ya Hangan commettono un’azione che va contro le leggi del bakufu (il giri che costituisce l’obbligazione, le norme di comportamento imposte dalle autorità), ma lo fanno in forza del sentimento di lealtà che li lega alla memoria del loro signore (che in questo caso costituisce il ninjō), il sentimento profondo e interiore che sembra legittimare, agli occhi dell’opinione pubblica (vale a dire del pubblico che affollava i teatri per applaudire l’impresa di questi personaggi), il loro comportamento.

Questo per quanto riguarda il senso complessivo del dramma, costituito dall’ideazione della vendetta, dal sacrificio dei singoli personaggi in vista dello scopo da raggiungere e dalla realizzazione dell’impresa.

Se però si applica al dramma la nuova concezione del conflitto concepita da Chikamatsu e dai suoi epigoni, troveremo a confrontarsi l’individuo, con i suoi sentimenti e le sue passioni da un lato e la famiglia (in quanto “mondo” chiuso) e la società dall’altro, con le loro regole che tendono a schiacciare l’individuo e a caricarlo di tensioni. Andrew Gerstle ha analizzato la presenza di queste tensioni nelle tragedie sewamono di Chikamatsu, ma è possibile applicare queste osservazioni anche ad alcuni personaggi del Chūshingura: “Queste opere hanno al centro giovani uomini e donne guidati dalla loro passione che va contro le regole della società, e quasi tutti loro commettono un crimine di qualche genere, come il furto, la fuga, l’adulterio o l’omicidio. La maggior parte di questi personaggi incontra una tragica fine sia per propria mano o per mano della legge.”[3]

Gli uomini e le donne di cui parla Gerstle sono Tokubei e Oharu di Sonezaki shinjū (Doppio suicidio a Sonezaki, 1703) o anche Koharu e Jihei  di Shinjū ten no Amijima (Doppio suicidio celeste a Amijima, 1720), forse  i drammi più celebri di Chikamatsu.

Ma è possibile riferire le stesse osservazioni alla tragica storia d’amore di Kanpei e Okaru nel Chūshingura. L’episodio che li riguarda Anche i due personaggi del Chūshingura sono presi dalla passione che li distrae dai propri doveri: dov’è Kanpei quando il suo signore ha più bisogno di lui? Accanto a Okaru, ad amoreggiare lontano, al di fuori della residenza degli Ashikaga, dove gli eventi stanno precipitando. Anche Kanpei e Okaru sono costretti a fuggire con disonore, e sulla scena la loro fuga è rappresentata proprio attraverso il procedimento classico del michiyuki, come avviene per i personaggi di Chikamatsu. Questa loro fuga non è meno drammatica: alla fine del viaggio per Okaru ci sarà la vendita ad un bordello, per Kanpei ci sarà la morte. Ma sono le motivazioni di fondo ad essere diverse. Se per le coppie sfortunate di Chikamatsu la morte reca con sé la promessa dell’eternità del loro amore nell’altra vita, i due personaggi del Chūshingura sono prima di tutto, è vero, un uomo e una donna innamorati che si trovano schiacciati da un meccanismo più grande di loro, ma sono animati da un ideale altrettanto grande, la lealtà al loro signore, che manifestano ognuno secondo il proprio ruolo e le proprie possibilità. Okaru si sottomette alla decisione dei genitori di venderla (ecco la pietà filiale, virtù confuciana), perché sa che il suo sacrificio aiuterà la causa della vendetta e il riscatto del marito. Kanpei consuma il suo inutile seppuku per riaffermare la propria sincerità, la propria buona fede nel drammatico episodio della morte del suocero di cui è accusato, in un estremo tentativo di recuperare il proprio onore di bushi. Il suo desiderio di partecipare alla vendetta non potrà realizzarsi a causa dell’errore commesso e Kanpei, conoscendo il suo destino, realizza che solo con la morte potrà rimediare all’errore e ritrovare il proprio onore, riacquistando il diritto di essere annoverato nel consesso dei guerrieri leali, nella lista, cioè, dei congiurati.

Altri personaggi del dramma, protagonisti o figure minori, si trovano a dovere affrontare in varia misura il conflitto giri e ninjō. Ognuno testimonia la sua adesione all’ideale supremo di lealtà dalla propria posizione, guerriero, contadino o mercante che sia. Ho analizzato altrove il comportamento di ciascuno.[4] Ma, a mio avviso, vi è una battuta pronunciata da Yuranosuke verso la fine del VII atto del Chūshingura, che ben riassume la dolorosa scelta collettiva compiuta dall’intero gruppo dei vassalli fra il ninjō costituito dagli affetti familiari e il giri, il dovere sentito da tutti come ineluttabile, di vendicare il proprio signore. Le parole del capovassallo sintetizzano come meglio non si potrebbe tutto il coacervo di sentimenti, di passioni, di rabbia trattenuta e di senso del dovere e della dignità personale che anima il gruppo come un sol uomo e, insieme, esprime i sentimenti più intimi dello stesso Yuranosuke:

 

Ecco! Più di quaranta uomini che siamo - abbiamo abbandonato genitori e figli, abbiamo lasciato che le mogli, compagne della nostra vita, lavorassero come prostitute - e tutto questo per vendicare il nostro signore. Dal risveglio e per tutto il giorno, al ricordo del seppuku del nostro signore piangiamo lacrime di dispetto, ci si torcono le cinque viscere e le sei budella![5]  

 

Se questa battuta di Yuranosuke è rivelatrice della determinazione sua e dei suoi uomini a portare avanti la loro scelta di vendetta fino alla fine, non viene trascurata però la serie di sacrifici che questa decisione comporta. Ci trova perciò d’accordo la constatazione di Donald Shively che nessuna opera teatrale illustra meglio del Chūshingura, la capacità di sacrificio e il dramma del conflitto giri-ninjō. Shively afferma che il pubblico dell’epoca simpatizzava per gli eroi e le eroine che soffrivano per le richieste di una disciplina assoluta che inevitabilmente conduceva ad un estremo sacrificio: “Il codice etico era essenziale all’autore di teatro, perché i drammi derivavano la loro qualità drammatica dai conflitti originati dalla determinazione dei personaggi a seguire il codice. La crisi, nel dramma, coinvolgeva i conflitti fra dovere e aspirazioni personali, o fra lealtà e responsabilità filiali. Sacrificare la propria vita era bello perché dimostrava purezza di motivazioni. Nessun dramma illustra questo meglio del Chūshingura in cui quarantasette eroi, nella loro determinata dedizione alla lealtà, compiono innumerevoli sacrifici fino a che, alla fine, senza il minimo rimpianto, danno la loro vita per mantenere questo principio.”[6]

 

Su questo tema vi sarà una conferenza nell’ambito del ciclo Filosofia sui Navigli presso il Ristorante ‘Officina 12’ , Alzaia Naviglio Grande, 12 – Milano

25 marzo, dalle 10.15 alle 12.15

“Il Neoconfucianesimo in Giappone: la dicotomia tra dovere e sentimento nel Teatro del periodo Edo (1603-1868)”

Per informazioni: http//filosofiasuinavigli.wordpress.com

 

Rossella Marangoni

 


[1] P. NOSCO, “Introduction: Neo-Confucianism and Tokugawa Culture” in NOSCO, Peter  (ed.), Confucianism and Tokugawa Culture, Honolulu, Hawai’i University Press, 1997, p. 11.

[2]  BOSCARO, Adriana (a cura di), Letteratura giapponese. I. Dalle origini alle soglie dell’età modena, Torino, Einaudi, 2005, p. 147.

[3]  GERSTLE Andrew C., The Tragic Hero in Japanese Traditional Popular Drama, Venezia, Università Ca’ Foscari, 1998, p. 318.

[4] Un’analisi completa del dramma, anche sotto questo aspetto, l’ho compiuta in Specchio di Edo. Il Kanadehon Chūshingura tra ideologia di potere e cultura popolare, non ancora pubblicato.

[5] Kanadehon Chūshingura 仮名手本忠臣蔵, edizione critica a cura di Hattori Yukio,服部幸雄, Tōkyō, Hakusuisha 白水社, “Kabuki on-stage collection”, 1994 p. 219.

[6] D. SHIVELY, “Tokugawa Plays on Forbidden Topics”, in J. BRANDON (a cura di), Chūshingura: Studies in Kabuki and Puppet Theater, University of Hawaii Press, 1982, pp. 53 e 54.


Il tè

Il tè era usato anticamente come medicinale. Grazie al suo potere stimolante, veniva consumato dai monaci per mantenere viva l’attenzione durante lo studio e la meditazione. La consuetudine di bere l’infuso fu importata dalla Cina e col tempo agli scopi medicinali si aggiunsero quelli rituali.
Il tè, cha, anche ocha (lat. Camellia sinensis) contiene teina (del tutto simile alla caffeina), tannino, vitamina C, aminoacidi. Aiuta la concentrazione, libera la mente, stimola la circolazione, riesce a eliminare le tossine dell’alcol, è dissetante, diuretico e astringente (ad esempio per le gastroenteriti). Il delicato sapore leggermente amaro del tè verde giapponese e di alcuni tè cinesi è dovuto alle catechine, sostanze che vengono considerate importanti anche da un punto di vista medico per le proprietà antiossidanti, oltre che antibatteriche (e anticarie!), per la capacità di abbassare la pressione sanguigna e il livello di colesterolo nel sangue. Pare addirittura che, molto concentrato e applicato in loco, il tè fosse usato nella cura del Fuoco di Sant’Antonio (Herpes zoster).
Il tè verde usato in Giappone e in molti Paesi dell’Asia orientale, si ottiene con un procedimento diverso da quello usato per il tè che si beve in Occidente. Le foglioline di quest’ultimo (scuro) vengono lasciate fermentare e poi essiccate, mentre per quello verde i teneri germogli sono messi a seccare dopo una leggera cottura a vapore. Ciò fa sì che le sostanze in esso contenute rimangano inalterate.
In genere tutti i tè consumati in Cina e Giappone non ammettono aggiunte di latte, limone e dolcificanti: vanno bevuti al naturale. In altri Paesi invece si possono mescolare con spezie, burro e molti altri ingredienti.
I diversi tipi di tè giapponese che possiamo trovare in Italia sono, grosso modo, i seguenti:

  • gyokuro, molto delicato, è considerato di altissima qualità e ha un aroma fragrante, leggero, che giustifica il suo nome: “rugiada di gemme”;
  • sencha, di buona qualità, è quello che in famiglia si offre più comunemente a un ospite;
  • hôjicha, di colore marrone ha un sapore di affumicato dovuto alla tostatura;
  • genmaicha, di tipo comune, mescolato con riso tostato;
  • bancha, è il meno costoso, a foglie grosse, di un color marrone chiaro.

Il konbucha (o kobucha) è una bevanda istantanea di alga konbu polverizzata. Ha un sapore di mare e si può usare nelle minestre trasparenti, come brodo per il tôfu o in qualsiasi ricetta che richieda un “profumo di mare”. La preparazione è molto semplice: un cucchiaino di konbucha e una tazza di acqua bollente, si mescola con i bastoncini di legno ed è pronto.

Il matcha è il tè in polvere usato nella cerimonia del tè. Piuttosto costoso, si vende in piccole scatolette metalliche e viene preparato con le più tenere e fresche foglioline, rigorosamente scelte e raccolte a mano. Esse vengono poi fatte asciugare e ridotte in polvere finissima, quasi simile a cipria, pestandole in un mortaio.
Per la preparazione del tè giapponese, che va servito nelle ciotole o tazze cilindriche senza manico, si deve mettere nella teiera un cucchiaino di foglie per persona (meno per il sencha), e poi versarvi l’acqua calda, che è stata tolta dal fuoco poco prima del bollore.
In genere la temperatura dell’acqua dev’essere attorno agli 80° (o poco meno per il gyokuro) 50-60°; si lascia in infusione per un minuto o due e non appena il tè ha raggiunto il colore previsto, lo si versa nelle tazze attraverso un colino di bambù. Si può anche farne a meno in quanto le foglie aumentano di volume e non passano dai forellini della teiera.

Graziana Canova Tura

Tratto da Pagine Zen numero 17


Furisode, grazia e giovinezza


 

Fra i vari tipi di kimono di cui è ricca la tradizione giapponese, il più suggestivo è senza alcun dubbio il furisode振袖, evocatore com’è di grazia e giovinezza.

L’etimologia del nome furisode, letteralmente maniche (sode) fluttuanti (furi dal verbo furu), deriva dal movimento aggraziato che compiono le lunghe maniche che lo caratterizzano, la cui misura può variare dai 75 ai 125 centimentri.

Anticamente si credeva che il movimento di far svolazzare le maniche servisse a esorcizzare il male e a purificarsi per attirare la buona sorte. Inoltre le fanciulle credevano di poter richiamare l’interesse dell’uomo di cui erano innamorate e compiere la magia di attirarne il sentimento.

Il furisode è il kimono più formale per le giovani donne nubili. È indossato in occasioni speciali, durante le cerimonie del té (chanoyu), durante le feste di conferimento dei diplomi scolastici, durante le feste annuali del calendario giapponese (nenjūgyōji) e in occasione di cerimonie pubbliche e private, come i matrimoni (durante i quali è indossato dalle giovani invitate parenti degli sposi) e è di prammatica per la cerimonia dello seijin shiki, la festa durante la quale si celebra comunitariamente il passaggio alla maggiore età dei vent’anni e che ha luogo ogni anno il secondo lunedì di gennaio.

I motivi decorativi ne ornano gran parte della superficie, dall’alto al basso e possono essere anche molto vistosi o dai colori vivaci, proprio perchè legati alla giovinezza di chi lo indossa. Nei motivi decorativi sono prevalenti i richiami stagionali e alla buona fortuna.

La ricchezza della decorazione e la preziosità delle sete fa sì che il furisode sia uno dei kimono più costosi.

Tradizionalmente si possono distinguere tre tipi di furisode :

 

- ōfurisode (大振袖 "grande furisode") è il più lungo. Le sue maniche possono raggiungere i 125 cm di lunghezza. Viene confezionato con tipo di seta damascata molto preziosa (il rinzu), mentre lo obi che lo accompagna spesso è intessuto di fili d’oro o d’argento.

Prima della Seconda Guerra Mondiale veniva utilizzato anche come abito da sposa e, in quell’occasione, doveva essere nero (kurofurisode). Ora solo le damigelle d’onore lo indossano ed è, in generale, molto colorato (irofurisode).

- chūfurisode (中振袖 "furisode medio") è un furisode con maniche di misura media, lunghe dai 91 ai 106 cm. Si tratta del tipo di furisode più diffuso perchè le sue dimensioni permettono grande libertà di movimento pur mantenendo una certa bellezza e conferendo grazia ai movimenti.

- kofurisode (小振袖 "piccolo furisode") è il tipo con le maniche più corte (dai 75 agli 87 cm). È indossato solo in rare occasioni ed è spesso portato con lo hakama.

 

Rossella Marangoni

www.rossellamarangoni.com

www.asiateatro.it

 

In occasione della manifestazione Made in Japan. L’estetica del fare, la vestizione del kimono (tipo furisode) verrà presentata dalla maestra Tomoko Hoashi con la modella Erica Bertamini e il commento di Rossella Marangoni.

L’appuntamento è alla Triennale di Milano, venerdì 23 marzo, ore 18.00.


Wabi nella poesia di Fujiwara Ietaka

Foto di Antonello Anappo

 

A coloro che aspettano

solo le fioriture dei ciliegi

vorrei mostrare l’erba di primavera

che spunta attraverso la neve

in un villaggio montano.

Il maestro del tè Sen Rikyû (1522-1591), riteneva che questa poesia di Fujiwara Ietaka (1158-1237) riuscisse a esprimere molto bene lo spirito wabi. Rikyû, attraverso la citazione di questa poesia, voleva invitare coloro che desiderano con grande intensità ammirare le fioriture dei ciliegi a rivolgere lo sguardo dentro se stessi, così da realizzare che l’essenza autentica della bellezza dei fiori è già presente nei nostri cuori.

Il villaggio montano ricoperto dalla neve per lui simboleggiava il luogo ideale dove il nostro spirito poteva essere in grado di raggiungere una condizione di libertà dalle passioni.

Rikyû riconosceva l’esistenza di numerose persone che ricercano solo la contemplazione estetica di bellezze appariscenti: le fioriture, i colori delle foglie autunnali, la luna piena; ma nello stesso tempo attraverso la poesia di Ietaka desiderava presentare una sensibilità estetica molto più profonda. Anche nella stanza del tè ci sono persone che sono in grado di apprezzare solo gli oggetti preziosi e rinomati e non riescono ad andare oltre a un’impersonale adesione a canoni estetici largamente condivisi.

Per Rikyû l’erba di primavera che spunta attraverso la neve rappresenta un’immagine ideale di bellezza modesta e non appariscente che si manifesta in un paesaggio naturale apparentemente immoto. Per il maestro del tè inoltre il senso più profondo della bellezza si trova nel ciclo della natura che, attraverso lo spuntare dei fili d’erba, testimonia la transizione dalla stagione invernale, rappresentata dalla neve, alla rinascita della natura che anticipa la primavera. L’immagine del ciuffo d’erba come simbolo del ciclo naturale ha una valenza estetica profondamente minimalista e suggestiva nella sua modestia, rispetto all’eccessiva eccitazione dei nostri sensi prodotta dalle fioriture dei ciliegi e dal rosso cremisi delle foglie d’acero.

Questa percezione estetica veniva sviluppata da Rikyû anche nella stanza del tè, dove alle preziose e antiche porcellane cinesi dalla bellezza appariscente preferiva oggetti nativi dai colori meno brillanti e dalla forma grezza e irregolare, come le tazze nere in stile Raku. L’ideale estetico del maestro Takeno Jô-ô (1502-1555) trovava compimento nella semi-oscurità della stanza del tè, attraverso l’utilizzo combinato di oggetti cinesi antichi e preziosi con oggetti nativi grezzi e irregolari. Rikyû invece attraverso la poesia di Ietaka ci descrive un diverso ideale estetico che si manifesta attraverso la luce, l’energia, la vitalità e la continuità del ciclo della natura e che trova una perfetta rappresentazione nel fascino non appariscente dei ciuffi d’erba tra la neve.

La sensibilità wabi di Rikyû risulta quindi più viva ed estroversa rispetto a quella di Jô-ô e anche la dimensione di tranquillità creata nella stanza del tè è molto più ascetica e modesta. Nell’architettura della stanza del tè il senso estetico wabi di Jô-ô si realizzava nel costruire un ambiente poco illuminato (solitamente esposto a nord) dove l’ombra smorzasse il fulgore estetico degli oggetti preziosi cinesi, i quali non dovevano in alcun modo risaltare rispetto ai ben più sobri oggetti giapponesi.

La stanza del tè di Rikyû, pur non essendo molto più luminosa rispetto a quella di Jô-ô (era solitamente esposta a sud) riusciva comunque a trasmettere un piacere estetico molto più semplice, tranquillo e non artificiale. Rikyû in alcuni casi decise inoltre di ridurre la dimensione classica della stanza del tè costituita da 4 tatami e mezzo portandola a una dimensione più intima di 1 tatami e mezzo, così da renderla sempre più simile a un piccolissimo rifugio montano.

Il grande maestro Sen Genshitsu, XV erede della scuola Urasenke di cerimonia del tè, in un suo scritto relativo alla Via del tè ha raccontato il seguente aneddoto per evidenziare la concezione estetica wabi sabi che Sen Rikyû riscontrava nella poesia di Ietaka: “Una volta, quando chiesi al mio vecchio maestro Gôto Zuigan il significato di sabi, disse: ‘Guarda lo stagno laggiù’. Pur avendo contemplato a lungo lo stagno – situato al Daijuin, non riuscivo comunque a comprendere il significato di sabi. Dissi al maestro che avevo osservato lo stagno e lui mi chiese  se adesso avessi capito. Quando risposi di no, mi diede istruzioni di continuare a osservare. Tornai sulla riva dello stagno e mi sedetti nella posizione zazen sopra una roccia. Era metà inverno e c’erano i fiori di loto avvizziti sulla superficie dell’acqua. Improvvisamente compresi che i fiori non erano semplicemente avvizziti e che la loro bellezza risiedeva nella capacità rigenerativa della natura. Solo allora realizzai che questo era lo spirito sabi. E capii che la forza che si avverte sul punto di emergere nella poesia di Ietaka era sicuramente una manifestazione dell’estetica sabi.

Alberto Moro


Hina Matsuri, la festa delle bambole e delle bambine

Hina Matsuri, la “festa delle bambole”, è una festa di carattere familiare che si svolge in tutto il Giappone il 3 marzo. Anticamente veniva celebrata il 3° giorno del 3° mese secondo il calendario lunare. Si tratta di un’importante ricorrenza stagionale nella quale si prega per la salute e la buona fortuna dando il benvenuto alla primavera. L’altro nome con cui è conosciuta, momo no sekku (festa del pesco), indica del resto un chiaro riferimento alla stagione che inizia.

Le bambine espongono speciali bambole artistiche, chiamate hina ningyō, che raffigurano l’Imperatore, l’Imperatrice, principi e principesse, ministri e dignitari di corte, per un totale di 15 personaggi abbigliati nei raffinati, antichi costumi del periodo Heian (794-1185) e disposti su una sorta di scala a gradini rivestiti di panno rosso detta hinadan.

Le hina sono in genere molto care e preziose e di solito i genitori ne comperano una ogni anno alle loro figlie, quando non ve ne sono di antiche tramandate di generazione in generazione delle donne della famiglia. Le hina non sono mai utilizzate come giocattoli. Vengono generalmente custodite in scatole di legno ed esposte all’ammirazione delle proprietarie e delle loro amiche in visita in questa unica occasione, nella stanza più bella della casa.

La serie comprende, oltre alle bambole, oggetti e accessori in miniatura, come paraventi e lampade, che spesso costituiscono delle vere e proprie opere d’arte.

Le bambole più preziose sono le “Odairisama”, che rappresentano la coppia imperiale e sono collocate sul ripiano superiore, con l’Imperatore a sinistra di chi guarda. Dietro la coppia augusta trovano posto dei piccoli paraventi davanti ai quali sono collocati candelieri in miniatura e vasi con fiori di pesco. Sui ripiani inferiori dello hinadan vengono posti i ministri, gli alti dignitari di corte e poi le dame e i musicisti. Ai piedi dell’esposizione sono collocati vassoi con dolci tipici dell’occasione, losanghe rosa e verdi chiamate hishimochi che vengono ritualmente offerti alle bambole.

In questa occasione, tutte le bambine indossano i kimono tradizionali dalle lunghe maniche (furisode) e ricevono regali dai loro genitori e parenti. Inoltre si recano a pregare al tempio più vicino a casa, accompagnate dai genitori.

L’origine di questa festa è da far risalire all’abitudine che avevano i cortigiani, all’inizio del 3° mese, di offrire alla famiglia imperiale (e in particolare alle principesse) delle bambole che dovevano servir loro da “sostituto magico” al fine di preservarle dalle malattie e dalla cattiva sorte. Come capri espiatori, le bambole venivano poi eliminate, gettandole in corsi d’acqua (elemento di purificazione), affinché fossero portate via dalla corrente. Ancora oggi, nella prefettura di Tottori, nella parte occidentale dell’isola di Honshū, le bambine abbandonano alla corrente dei fiumi delle piccole barche di paglia contenenti bambole di carte, frittelle dolci di riso e boccioli di pesco, il tutto asperso di sake. Le bambole, accompagnate dai battiti di mani e dalle ferventi preghiere delle bimbe che le hanno costruite, se ne andranno verso il mondo degli spiriti e, da laggiù, manderanno indietro la protezione del cielo.

Rossella Marangoni

www.rossellamarangoni.it


Tzukiji Wholesale Market - Milano

Inaugurazione lunedì 12 marzo dalle 18:30 alle 21:30

Da martedì 13 marzo 2012, fino al 28 aprile,  Kitchen, in via De Amicis 45 Milano, ospita una nuova e interessante mostra del giovane fotografo
 Alberto Favara che con le sue immagini ci fa entrare nella pancia della balena: nel mercato del pesce Tzukiji Wholesale di Tokyo.
Un traffico giornaliero di 2888 tonnellate di pesce e quasi 3 miliardi di yen, più di 450 specie ittiche trattate, circa 65.000 persone coinvolte. 
Numeri che portano indiscutibilmente lo Tzukiji Wholesale Market di Tokyo ad essere il più grande mercato ittico del pianeta.

Varcarne la soglia significa entrare in un organismo vivente mastodontico, un metabolismo futurista. 

Impossibile non esserne impressionati, non esserne affascinati e non volerne sapere di più.A condizionare l'intero lavoro vi è il casuale primo incontro del fotografo con un mercato completamente vuoto, come un enorme guscio di tartaruga vuoto e perfetto, dove traspirano tracce di attività che lasciano solchi nelle cose, in contrasto con una staticità e un’atmosfera atemporale, un caos ordinato.

Le fotografie, a parte alcuni scatti necessari per contestualizzare per lo meno geograficamente il lavoro, si propongono di ritrovare questo contrasto anche in un mercato più vivo che mai, dove nonostante il turbinio di energie, movimento e frastuono, vengono spontaneamente generati angoli di bellezza senza ne’ tempo ne’ contesto; nei colori, nei corpi senza vita dei pesci, nel sangue e persino negli scarti della lavorazione. Anche la gestualità degli uomini viene a perdere il suo significato concreto poiché compiuta con l’eleganza e la precisione tutta giapponese, che per natura mira alla perfezione funzionale ed estetica, in ogni attività.

Scatti che vogliono dipingere un sistema di baricentri casuali, attorno al quale, senza toccarli, si muove vorticosamente un mondo.

La mostra è gratuita, aperta al pubblico in orario di negozio:

lunedì 15,30-19,30
martedì-sabato 10,00-19,30.

kitchen
via de amicis 45
20123 milano
02 58102849

www.kitchenweb.it

 

kitchen è il concept store dedicato a chi in cucina vive, si diverte, s’appassiona.

Nei 170 metri quadri di Via De Amicis 45, a Milano,  si possono trovare oltre 2500 articoli in acciaio e una selezione di utensili in rame, circa 1500 volumi per chi vuole approfondire le tecniche e le curiosità culinarie, prodotti gastronomici sia tradizionali che di nicchia. E per gli appassionati c’è sempre un assortito calendario di seminari, corsi di cucina e mostre. Catalogo on line su www.kitchenweb.it

 

Alberto Favara fotografo

web: www.albertofavara.com

e-mail: alfavara@fastwebnet.it

mobile: +39 3497827024

Studio: via Foscolo 24 B, 20063,

Cernusco sul Naviglio (MI)

tel: +39 0292111112


Nobuyoshi Araki Photos and Polas - Milano


NOBUYOSHI ARAKI
Photos and Polas

15 marzo – 21 aprile 2012
Inaugurazione: giovedì 15 marzo 2012 dalle ore 19.00
Durata: 15 marzo – 21 aprile 2012
Orari: 10.30 – 13.00 / 15.30 – 19.30 da lunedì a sabato
Organizzazione: Elena Zonca e Tiziana Castelluzzo

La galleria Zonca e Zonca è lieta di annunciare la nuova mostra personale di Nobuyoshi Araki.

Artista tra i più controversi e rappresentativi della contemporaneità, Araki usa la fotografia come mezzo per testimoniare il tempo e per ritrarre, senza filtro, il mondo che lo circonda con tutte le sue contraddizioni. L’atto del fotografare è uno strumento per mostrare tutto, per estrarre l'essenza delle cose e, nel caso delle donne, ciò che esse sono, il loro vivere quotidiano o la loro sensualità. l suoi scatti sono una sorta di diario esistenziale, dove il
fluire della vita è segnato dalle immagini.
Guidato da una grande passione per la vita, Araki crea sempre una tensione emotiva tra due opposti: bene e male, ironia e mistero, desiderio erotico ed espressione ludica. L’eros, le donne e tutto ciò che si trasforma nel tempo, come i suoi fiori, sensuali e potenti, o i cieli dove spazio e tempo svaniscono nel nulla sono i protagonisti delle sue opere.
Ritratte nude, in atteggiamenti provocanti e sensuali, lascivamente abbandonate a terra, sedute o coricate su letti disfatti, le sue donne appaiono complici e consapevoli del gioco di seduzione ma allo stesso tempo esibiscono ed offrono la loro bellezza e sensualità con una naturalezza disarmante e con un abbandono assoluto.
L’esposizione si compone di fotografie di grande e medio formato e di polaroid.

Via Ciovasso 4 – 20121 Milano
info@zoncaezonca.com | www.zoncaezonca.com
T +39 0272003377 | F +39 0272003369


L’immaginario femminile si tramanda: dalla tradizione dell’ukiyoe all’avvento del nuovo medium fotografico in Giappone - Venezia

GIOVEDI’ 8 MARZO 2012 – FESTA DELLA DONNA

AL MUSEO D’ARTE ORIENTALE DI VENEZIA

Il Museo d’Arte Orientale di Venezia, in occasione della festa della Donna, il giorno 8 marzo 2012 alle ore 15:30 propone la conferenza

L’immaginario femminile si tramanda: dalla tradizione dell’ukiyoe all’avvento del nuovo medium fotografico in Giappone

a cura di Rossella Menegazzo

docente di Storia dell’arte giapponese e specializzata in Storia della fotografia giapponese.

Un incontro dedicato alla bellezza e alla seduzione femminile quale soggetto tra i più apprezzati e popolari nella pittura del Mondo Fluttuante come nella fotografia giapponese dell’Ottocento.

Dalle silografie di Utamaro, Hokusai, Toyokuni alle foto di Beato, Farsari, Kinbei un percorso attraverso gli scatti colorati a mano dei primi fotografi giapponesi e occidentali in Giappone, per scoprire come questi seppero accogliere e rinnovare il soggetto classico della beltà proposto dai maestri dell’ukiyoe attraverso il moderno mezzo fotografico.

Una sintesi di eleganza orientale e tecnica occidentale ineguagliata.

A seguire, visita guidata del museo con particolare attenzione agli oggetti della vita quotidiana rappresentati nelle fotografie proposte durante la conferenza a cura della Direttrice Dott.ssa Fiorella Spadavecchia.

L’ingresso al Museo è gratuito per tutte le donne.

L’appuntamento proseguirà venerdì 23 marzo alle ore 15 presso Villa Contarini (Piazzola sul Brenta, PD) con una visita guidata gratuita a cura della Prof.ssa Rossella Menegazzo alla mostra

EAST ZONE. ANTONIO BEATO, FELICE BEATO E ADOLFO FARSARI. Fotografi veneti attraverso l’Oriente dell’Ottocento.

a cui si potrà partecipare prenotando allo 041 5241173 o scrivendo

a sspsae-ve.orientale@beniculturali.it

 

 

 


Petali d'Oriente - Gallarate

Nell’ambito di Filosofarti 2012, il cui tema sarà “Il corpo, i sensi”, il Sestante propone la mostra Petali d’Oriente. La mostra presenta 21 nudi femminili scattati da Yoshie Nishikawa, una fotografa che si muove tra le origini giapponesi e l’adozione italiana.Nelle sue immagini, dove ritroviamo tutto il sapore del sistema simbolico giapponese, le forme femminili appaiono come un ritorno all’ordine esteticoscavalcato da autori come Nobuyoshi Araki o troppo interiorizzato da un’autrice come Daido Moriyama. Non vuole mostrare i lati più oscuri della vita urbana e le parti meno visto delle città o l’industria del sesso giapponese: quella di Yoshie Nishikawa è una fabbricazione estetica dove il b/n è talmente regolato e modulato da apparire di una qualità pura che ci riporta alla trasformazione delle cortigiane in sovrane della bellezza tipiche del lontano ukiyoe.

Yoshie Nishigawa nasce a Sapporo, in Giappone. Dopo la laurea presso l’università d’arte Ootani di Sapporo, nel 1982, si trasferisce a San Francisco dove si specializza in “the fine art of Photography” presso la San Francisco Academy of Art College. Nel 1983 comincia la sua carriera fotografica come free–lance, lavorando tra Tokio, New York, Londra e Milano. Nel 1996 decide di trasferirsi a Milano, continuando la sua collaborazione professionale con alcune case editrici, aziende e agenzie fotografiche di Tokio. Ha pubblicato servizi fotografici su varie riviste di importanti case editrici come Conde Nast, Rizzoli, Mondadori, Hachette, Kodan–sha, Shuei–sha, Shogakkan. Nel 2009 ha vinto il primo premio assoluto e il primo premio in ambito Moda al Premio della qualità creativa in fotografia professionale, organizzato dall’ Associazione Nazionale Fotografi Professionisti TAU Visual. Nel 2010, sempre per il Premio della qualità in fotografia professionale, ha vinto il primo premio nella categoria “Glamour”. Yoshie ha sempre alternato alla sua attività professionale una ricerca e uno studio personali. Le sue opere sono state esposte in numerose gallerie d’arte in Giappone e Italia; attualmente svolge la sua attività professionale ed artistica tra Milano, Londra, Parigi e Tokio.

A causa della ben nota inagibilità della sede del Fotoclub, la mostra sarà ambientata nella suggestiva cornice del Museo degli Studi Patri in Via Borgo Antico, 4  a Gallarate.

Domenica 4 marzo 2012 alle ore 17.30 si terrà l’inaugurazione della mostra, alla presenza dell’autore.

Venerdì 9 marzo 2012, alle ore 21.15 si terrà l’incontro con l’autore.

Il programma completo di Filosofarti è disponibile al link www.fotoclubilsestante/pdf/FILOSOFARTI2012.pdf