Thermae Romae - Far East Film Festival di Udine
Music for Japan - Siena
Paesaggi di cultura giapponese
MUSIC FOR JAPAN
Martedì 24 aprile approda a Siena il tour europeo di Chihiro Yamanaka Trio
Martedì 24 aprile alle ore 21.00 in Sala San Pio, Complesso Museale Santa Maria della Scala, si terrà il concerto del CHIHIRO YAMANAKA TRIO dal titolo Music for Japan, con Chihiro Yamanaka, Mauro Gargano, Mickey Salgarello, e la direzione artistica di Michela D'Alessandro.
La serata è inserita all'interno di Paesaggi di cultura Giapponese, l'evento è organizzato dal Comune di Siena e da Neverland l'isola che non c'è, in collaborazione con diverse realtà del territorio.
Un’ anteprima a Siena, in cui Chihiro Yamanaka presenta il suo ultimo lavoro REMINISCENCE. La serata fa parte di un tour europeo tra Italia, Francia, Austria e Germania, che rappresenta un omaggio al Giappone nel primo anniversario della catastrofe dello tsunami.
Una giostra infinita di soluzioni musicali mai scontate, il tutto condito da una tecnica pianistica invidiabile e da uno stile impeccabile, quello di Chihiro Yamanaka, pianista tra le più importanti della scena jazz contemporanea, o, come la definisce il New York Times: ‘Tra le pianiste più importanti e geniali del 21° secolo’.
Nata a Tokyo e residente a New York, negli ultimi anni ha presentato concerti in piano solo, in trio e con Orchestra in jazz festival e venue tra i più importanti al mondo. Swing, ritmo, fender rhodes sparsi tra le pieghe dei suoi brani e le influenze di sonorità tipiche della bossanova.
In questo lavoro è accompagnata al contrabbasso da Mauro Gargano e alla batteria Mikey Salgarello, tra i musicisti più innovativi del panorama jazz internazionale.
Ingresso a pagamento 10€ fino ad esaurimento posti
Informazioni e prenotazioni:
Complesso Mussale santa Maria della Scala
Piazza Duomo, 1 – 53100 Siena
La Fotografia del Giappone (1860-1910). I capolavori - Napoli
Villa Pignatelli - Casa della fotografia
Sede Riviera di Chiaia 200, Napoli 80121 - Mappa
Informazioni Tel +39 081 669675 | sspsae-na.pignatelli@beniculturali.it
Da sabato 21 aprile 2012 a domenica 03 giugno 2012
La Soprintendenza Speciale per il Patrimonio storico, artistico, etnoantropologico e per il Polo museale della città di Napoli e gli Incontri Internazionali d’Arte, nell’ambito del progetto Villa Pignatelli – Casa della fotografia, presentano una selezione di circa 150 stampe fotografiche originali realizzate tra il 1860 e i primissimi anni del Novecento dai grandi interpreti giapponesi ed europei di quest’arte.
Le immagini - profondamente caratterizzate dalla ricerca di un’armonia sottile fra le cose: paesaggi, edifici, architetture d’interni, scene di vita quotidiana, ritratti di uomini e donne - erano destinate prevalentemente ai viaggiatori stranieri e offrivano rappresentazioni del paesaggio e della cultura giapponese con la funzione di produrre souvenir di viaggio e della memoria esotica.
Sono esposte le opere di alcuni grandi fotografi delle origini, primo fra tutti Felice Beato (1833 - 1907) che, immediatamente seguito da artisti giapponesi, diede vita a uno stile, chiamato Scuola di Yokohama. Il percorso espositivo, organizzato per sezioni, indaga la rappresentazione del paesaggio e la natura “educata” dalla cultura, il gusto dell’esotismo e il profondo rapporto tra la fotografia e le stampe dell’ukiyo-e. L’immagine della donna è colta nei molteplici aspetti della bellezza e della vita quotidiana, in casa, al lavoro nelle botteghe e nei campi, nei quartieri a luci rosse chiamati “città senza notte”. O ancora, attenta e curata è la proposta degli stereotipi dell’immagine maschile, dai samurai ai bonzi, dai lottatori di sumo a tutti gli interpreti quotidiani di una realtà ideale che, talvolta, declina anche verso l'«anormalità» e il capriccio.
La relazione fra il sacro e il profano viene esaminata attraverso una serie di fotografie che ritraggono le attività lavorative e altre scene di vita comune, i templi, le cerimonie e le feste.
La mostra si snoda con le opere dei grandi interpreti della fotografia giapponese, come Kusakabe Kimbei, considerato da molti il più eccellente interprete della Scuola di Yokohama.
L’esposizione è accompagnata da un catalogo a cura di Francesco Paolo Campione e Marco Fagioli
edito GAmm Giunti, che affronta con il contributo di diversi specialisti i differenti aspetti della
fotografia in Giappone.
In occasione della mostra l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale ha organizzato un ciclo di conferenze a cura del professor Giorgio Amitrano, che si terranno ogni sabato mattina nella sala delle conferenze del museo per tutta la durata dell’esposizione.
INAUGURAZIONE SABATO 21 APRILE, ORE 11
21 aprile - 3 giugno 2012
Orario: 8.30-14.00; chiuso martedì
Ingresso: € 2.00
Informazioni: Tel. 081 7612356 – Fax 081 669675 sspsae-na.pignatelli@beniculturali.it
www.polomusealenapoli.beniculturali.it; facebook.com/villapignatellicasadellafotografia
Ufficio Stampa
Soprintendenza - Simona Golia, tel. 081.2294478, sspsae-na.uffstampa@beniculturali.it
Incontri Internazionali d’Arte,tel. 06.68804009, fax. 06.68803993,incontriinternazionalidarte@gmail.com
CONFERENZE
Organizzate dall’Università degli Studi di Napoli L’Orientale,a cura del professor Giorgio Amitrano.
Sabato mattina nella sala delle conferenze del museo per tutta la durata dell’esposizione.
Sabato 28 aprile ore 11
Francesco Paolo Campione
(Direttore del Museo delle Culture di Lugano)
La scuola di Yokohama
Sabato 5 maggio ore 11
Lucia Caterina
(Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)
L’arte giapponese incontra l’Occidente
Sabato 12 maggio ore 11
Silvana de Maio
(Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)
La città giapponese dall’epoca Meiji ai nostri giorni, tra continuità e nuovi inizi.
Sabato 19 maggio ore 11
Giorgio Amitrano
(Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)
La malinconia e la bellezza. Riflessioni sul sentire giapponese.
Sabato 26 maggio ore 11
Franco Mazzei
(Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)
Il Giappone dalla tradizione al postmoderno.
Con il Patrocinio della Fondazione Italia Giappone (www.italiagiappone.it)
Cerimonia del tè all’orto botanico - Parma
via Farini 90, Parma
tenuta da Mayumi Mezaki Sensei
domenica 22 aprile 2012
ore 15.30
Organizzazione: “Aiki Juku Dojo” in collaborazione con “Amici dell’Orto Botanico di Parma” e Università degli studi di Parma
Per informazioni: info@aikijukuparma.com, www.aikijukuparma.com
In caso di maltempo la cerimonia si terrà presso la sede dell’associazione in b.go S. Giuseppe!26 a, Parma
I periodi Jōmon, Yayoi e gli albori della musica Giapponese
I primi periodi della storia musicale giapponese sono irti di problemi e controversie che a tutt'oggi sono ben lungi dall'essere risolti a causa della mancanza di fonti valide e dalla contaminazione col mito che gli stessi giapponesi, stanziatisi nello Yamato (le attuali prefetture di Osaka, Nara e Wakamiya) costruirono successivamente. A differenza di quanto accade in occidente, di cui ci rimangono una cinquantina di minuti del repertorio musicale greco (peraltro molto discutibili) dei periodi antichi le uniche testimonianze a cui possiamo affidarci in maniera incontrovertibile sono gli strumenti musicali sopravvissuti. Del periodo preistorico, che finisce nel300 A.C. ci sono rimasti solo alcuni fischietti di pietra forata, chiamati ishibue,in grado di emettere non più di quattro o cinque note, rintracciabili in fattura simile anche in altri scavi della vicina Corea, mentre altrettanto interessante è un altro strumento oggi conservato al Gakkigaku Shiryōkan del Kunitachi College of Music, una dorei (fig.1), campana, la cui datazione al Jōmon, nonostante le decorazioni tipiche, è profondamente messa in discussione; infatti nessun altro esemplare simile o assimilabile a questo tipo è stato sino ad ora rinvenuto, rendendo impossibile esprimersi in maniera certa.
Con la successiva civiltà che prenderà il nome di Yayoi (il suo nome deriva dalla zona di Tōkyō, Yayoi-chō, in cui per la prima volta vennero rinvenuti i primi manufatti di questo periodo) che si concluderà nel 250 D.C., grazie soprattutto alle migrazioni delle popolazioni del continente sull'arcipelago giapponese, si iniziarono ad impiegare attrezzi di metallo e di bronzo, nonché a fare dell'agricoltura uno dei punti di forza dell'economia interna, avviando un processo che porterà il Giappone sulla via di una stratificazione gerarchica che da lì a qualche secolo avrebbe visto nascere in Yamato la prima dinastia regnante. Anche gli annali cinesi, in particolare il Wei Chih del 297 e lo Hou Han Shu del 445, restituiscono oltre all'immagine in una terra solcata da divisioni sociali anche quella di una popolazione dedita soprattutto Associazione Culturale Italo Giapponese Fujiall'agricoltura ed amante delle pantomime, dei canti e delle danze. E proprio a questo periodo risale una controversia musicale che dura ancora oggi: nel1943, aToro, vicino alla città di Shizuoka, venne rinvenuto un wagon, cetra giapponese, databile intorno al 250 D.C.,che farebbe di questo strumento, anticamente ritenuto di origine continentale, un prodotto genuino delle popolazioni giapponesi antiche. Ma questa non è l'unica testimonianza della vita musicale nello Yayoi, proprio grazie alla migrazione delle popolazioni straniere si rese possibile la forgiatura delle dōtaku (fig. 2) o nuride, particolari tipi di campane, costruite in bronzo, spesso usate senza batacchi e, forse, utilizzate anche come simbolo d’autorità.
Il luogo di ritrovamento nelle zone del Kantō, nel Kansai (zona di ōsaka), nello Shikoku ed in misura minore nella regione di Chōgoku, ha fatto ipotizzare ad alcuni studiosi, tra cui Harich-Schneider, di una possibile immigrazione che entrasse dal nord del Giappone e proseguisse verso sud, senza arrivare alle isole Kyōshō, andando in controtendenza all'idea di una possibile popolazione dell'arcipelago proveniente da sud, che comunque non spiega la completa assenza di manufatti di questo periodo nelle isole sopra citate e nel sud dello Shikoku. Anche uno degli antichi annali giapponesi, lo Shoku Nihongi, riporta come nel sesto anno dell'epoca Wadō, il 713 D.C.,un uomo del villaggio di Namusaka, di nome Udagōri, ritrovò una dōtaku nella terra di Nagaokanu, alta tre shaku (90 cm) e di uno shaku di diametro (30 cm) con una forma non ordinaria (per lo standard del periodo in cui viveva l'uomo) ed un suono in accordo con la scala musicale a quel tempo vigente, il che apre ulteriormente la possibilità a nuove ipotesi, essendo le scale musicali tutte di importazione cinese non prima del VI-VII secolo. Per decreto imperiale venne ordinata la sua preservazione negli anni ma non è oggi identificabile, ammesso l'episodio come veritiero, con quelle in nostro possesso e purtroppo nulla rimane su come queste avessero parte nella reale pratica musicale dōtaku.
Al di là dell'aneddoto, il fatto riportato rimane comunque curioso, soprattutto perché è facile chiedersi come mai queste campane venivano trovate in luoghi isolati, lontane dai centri abitati e vicino ai pendii delle montagne invece che preservate in templi o altre istituzioni dell'epoca. Molto probabilmente queste erano utilizzate nei templi solo durante le festività e per il resto dell'anno dovevano rimanere nascoste come oggetti segreti, sino a quando tale pratica non venne completamente abbandonata, decretando contemporaneamente anche lo smarrimento ed il non recupero delle campane ancora sepolte. Le forme di queste campane sono riassumibili in due tipologie, entrambe con decorazioni inerenti la natura. La prima, che è anche la più antica e di dimensioni ridotte, è stata rinvenuta anche in alcuni luoghi della Corea mentre la seconda, più diffusa ed a volte di dimensioni maggiori, è stata fino ad ora rinvenuta solo su territorio giapponese.
L'ultimo strumento certamente risalente a questo periodo è lo tsuchibue, di forma ovale con un numero di fori variabile da quattro a sei, simile Feimoall'ocarina e derivante quasi certamente dal flauto cinese xun. A conferma di questa parentela vi è un ritrovamento del 1966 di uno strumento in tutto uguale a quello cinese ad Ayaragi no Godaichi nella prefettura di Yamaguchi. Chiamato in tempi più recenti ken o kon, ma con uguale scrittura, la sua origine in Cina è ben più antica della sua prima comparsa e si attesterebbe tra il 6000 ed il5000 A.C. circa.
Edmondo Filippini
Il cinema di Oguri Kohei
Cineasta dal rigore estremo, Oguri Kohei rappresenta un caso singolare nel panorama cinematografico giapponese e non solo. Autore di soli cinque film in trent’anni di carriera, questo autore ha raccontato il Giappone del dopoguerra, non lesinando di toccare aspetti anche molto scomodi, approdando poi a un cinema sospeso tra l’allegorico e l’elegiaco. Le sue opere, in particolare le ultime due, portano agli estremi quella tendenza, propria del cinema giapponese classico, del dare grande importanza alla rappresentazione dei paesaggi, alla relazione tra i personaggi e l’ambiente circostante. E’ una concezione non antropocentrica, coerente con lo shintoismo, con quel fondamento animista e non monoteista, della cultura nipponica che vede il mondo della natura come un’estensione armonica dell’uomo. Se normalmente nel cinema, occidentale e non, la cosa più importante, nella costruzione delle scene, sono i dialoghi e la sceneggiatura, per Oguri queste rivestono un ruolo secondario cui anteporre i luoghi in cui si svolge la scena, che assurgono il ruolo di protagonisti. La casa tradizionale giapponese non è costruita di materiale pesante, in modo da costituire una rigorosa barriera tra interno ed esterno. E’ fatta di elementi scorrevoli e removibili, che non costituiscono un confine netto tra il dentro e il fuori e questo, secondo il regista, è un esempio del modo peculiare nipponico di concepire la natura.
Molto frequenti, nel suo cinema, sono gli elementi della tradizione secolare della cultura giapponese, quali cerimonie, riti e processioni. Ne è un esempio la lunga sequenza di teatro nō che, in L’uomo che dorme, scandisce il passaggio tra la vita e la morte. Oguri preferisce, in tal proposito, non parlare di “tradizioni giapponesi”, ma semplicemente di “tradizioni”, togliendo l’etichetta “giapponese” che, a suo dire, costituisce una limitazione. La tradizione infatti è un concetto universale, e ancestrale, che lega l’uomo alla campagna circostante. L’autore riconosce comunque una maggiore connotazione spirituale dei riti e le celebrazioni propri della cultura nipponica, a differenza di quelli delle civiltà monoteiste.
Importante è anche la lettura che Oguri fa della storia recente del Giappone. Si tratta del primo paese asiatico ad aver avviato, nell’era Meiji, un forte processo di modernizzazione, che equivaleva a una occidentalizzazione o europeizzazione. Questo grande sforzo sarebbe stato possibile solo per il fatto di essere una potenza coloniale e imperialista, che poteva così disporre di una gran quantità di mano d’opera proveniente dalle colonie. La sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale è stato lo scotto sovrumano che il paese ha dovuto pagare per questa politica espansionista, e ha costituito una crisi, una ferita non rimarginabile anche con il successivo sviluppo economico.
Le opere di Oguri, nella loro successione cronologica, rappresentano l’avvicendarsi delle stagioni della vita. Il primo film, Doro no kawa (Fiume di fango, 1981), è dedicato all’infanzia. Ambientato a Osaka negli anni ’50, è la storia di due bambini, uno dei quali vive su una chiatta, ormeggiata sul fiume Aji, dove la madre esercita l’attività di prostituta. Uno sguardo neorealista impietoso, al pari dell’Oshima di Il cimitero del sole (1960), sulla miseria del Giappone postbellico, girato in bianco e nero con lo stile del cinema giapponese classico, tanto da non sembrare per nulla un film degli anni ‘80. In particolare, Oguri mostra una grande sensibilità nei confronti del mondo infantile, avvicinandosi al genere classico shoshimin kazoku eiga ("film sui bambini e sulle loro famiglie"), che ha visto protagonisti grandi maestri quali Shimizu Hiroshi e Shindo Kaneto. Il fiume, immagine ricorrente nel cinema di Oguri, che dalla purezza della sorgente fino allo sfociare nel mare, diventa via via più fangoso, rappresenta il corso della vita, il suo “sporcarsi” man mano che si lascia l’innocenza dell’infanzia.
Il secondo film, Kayako no tameni (Per Kayako, 1984), incentrato sulla giovinezza, racconta la storia d’amore di due immigrati coreani di seconda generazione. Uno dei tabù più intoccabili del Giappone, quello del razzismo nei confronti dei coreani, viene affrontato e denunciato con una lucidità che ha pari, ancora una volta, solo nell’opera di Oshima con film come Il ritorno degli ubriaconi (1968).
L’approdo alla vita adulta è oggetto del terzo film, Shi no toge (L’aculeo della morte, 1990), che, avendo per oggetto un tradimento coniugale, tocca il tema della condizione della donna in Giappone. E’ tratto da un romanzo che appartiene al genere letterario detto shishosetsu o watakushishosetsu, la cui caratteristica è il racconto in prima persona delle esperienze vissute dall’autore. Oguri si confronta con un concetto a lui totalmente estraneo, la fede cristiana dello scrittore. Il titolo riprende infatti un brano della Lettera ai Corinzi che recita: “il pungiglione della morte è il peccato”. A partire da quest’opera, lo stile narrativo di Oguri si fa meno lineare, diviene ellittico e astratto, fino ad arrivare ai successivi due film, in cui predomina l’aspetto simbolico.
Il passaggio tra la vita e la morte, che avviene come un soffio di vento, è il tema di Nemuru otoko (L’uomo che dorme, 1996), un’elegia sul ciclo della vita e della natura. Racconta di un piccolo villaggio rurale, Hitosuji, dove abita un uomo in coma che attende la fine della sua esistenza. Si tratta di un’opera decisamente criptica, coerente con il rifiuto netto, da parte del l’autore, di ogni tipo di didascalismo e con la sua volontà di instaurare dubbi, più che certezze, nello spettatore.
Enigmatico anche il successivo, Umoregi (La foresta pietrificata, 2005), lirico e sempre più tendente all’astratto e all’onirico. Ambientato in un villaggio di montagna dove la vita dei ragazzi, intenti a inventare una storia, e degli adulti, legati ai rimi della natura e alle tradizioni, viene sconvolta dalla scoperta di una foresta fossilizzata. Le età dell’uomo, oggetto delle precedenti opere, alla fine si incontrano e coesistono in un racconto fiabesco, in quello che è ad oggi l’ultimo film di Oguri Kohei.
Giampiero Raganelli
Antiquariato giapponese
Prima metà del periodo Edo (1615-1867), XVII-XVIII secolo
Il periodo Asuka Il Gigaku
Introdotto durante l’era dell’Imperatore Kinmei (539 - 571), così secondo il Nihonshoki, il Gigaku non è esattamente una forma musicale in senso stretto, bensì una forma teatrale elaborata il cui nome significa, se tradotto letteralmente, musica dell'atto. Chiamato con molti nomi, tra cui kuregaku e kure no utamai dal nome della terra da cui derivava oggi non ancora identificata in maniera univoca, fu introdotto inizialmente da un monaco di nome Chisō, proveniente dalla regione cinese di Wu, che portò in Giappone in quegli anni l’intero organico strumentale per l’esecuzione di questo repertorio.
Solo durante l'era dell'Imperatrice Suiko, nell’anno 612, vi fu la definitiva introduzione di tutto l'apparato sia musicale che scenico grazie soprattutto all'incessante lavoro di promozione delle arti e della religione del continente operata dal Principe Shōtoku Taishi che allo scopo fece trasferire una persona naturalizzatasi giapponese di nome Mimashi proveniente dal regno di Paekje. Questi era, secondo quanto riportano gli annali, uno “studioso di gigaku nella terra di Kure, insegnante poi ai giovani di Sakurai, nella terra di Yamato”, di questi giovani noi oggi conosciamo solo il nome di Mano no Obitoteishi e Imaki no Aya no Saimon.
Andato via via scomparendo già dall'epoca Heian, riuscì a sopravvivere come repertorio autonomo sino agli inizi del periodo Edo all'interno dei templi buddisti per poi scomparire completamente.
Studiosi come Tanabe Hisao sono però convinti che alcuni brani di Gigaku siano arrivati sino ad oggi grazie al repertorio che di fatto inglobò questo ed altri stili quali ilGagaku, più precisamente egli rintraccia nei brani Shinshōtoku, Daishōtoku, Nasori eChikyū del lato destro probabili discendenti di quelle antiche danze e musiche.
Se da un punto di vista uditivo le informazioni sono scarse, diverse sono invece le fonti iconografiche: tra queste, il Dankyu (fig.1), un arco conservato anch'esso allo Shosoin di Nara, rappresenta sicuramente la fonte più importante. In esso vi sono infatti riportate varie figure di danzatori vestite con foggia non Giapponese impegnate proprio nel repertorio Gigaku e da questo è possibile ricavare alcune informazioni anche sugli strumenti impiegati tra cui spiccano gli Dōbyōshi, castagnette, il Sasara, specie di frusta fatta con asticelle di legno ancora oggi in uso nelle campagne, il Narabishō, simile alla syrinx greca più altri strumenti a percussione quali il Gigakutsuzumi e loYoko.
Sono inoltre sopravvissute varie maschere di grande formato sia in legno che in tela (Fig.2) che confermano come questo repertorio fosse principalmente usato nell'accompagnamento di processioni e pantomime e celebrato principalmente all'aperto.
Si è quasi certi che tale rappresentazione si aprisse con una danza di leone, Shishimai, prima rappresentazione di quest'animale sentito come creatura mitica poiché non presente sul territorio e proseguiva poi con una danza che questa aveva personaggio principale il Dio Susanō chiamata Oroshi taiji di cui si è persa completamente traccia.
Nell'attuale ricostruzione del repertorio, condotto anche grazie alle descrizioni contenute nel Kyōkunshō, uno spettacolo completo di gigakucomprende al massimo ventitre attori, e viene diviso in due parti, una processione e la rappresentazione vera e propria messa in scena nel seguente modo:
Durante la processione appare è il Chidō la cui funzione è quella di purificare la strada che conduce al tempio e di controllare il luogo della rappresentazione a tempo di musica a cui segue la già citata Shishimai.
Si susseguono quindi una serie abbastanza lunga di danze che oscillano tra il serio ed il parodico, come la danza che racconta la storia dell'uccello Karura, in indiano Garuda, una delle otto divinità protettrici del buddismo ed altre due immediatamente successive a questa che raccontano di un barbaro ed una fanciulla importunata dal primo in maniera oscena e salvata dall'intervento di due guardiani del tempio e di un Brahmino messo completamente in ridicolo.
Dopodiché si ritorna al serio grazie all'introduzione del personaggio di nome Taikofu, grande padre degli orfani, che effettua varie benedizioni e preghiere rivolgendosi infine anche ai defunti.
La rappresentazione si chiude nel grottesco con la danza Suikoō o Suikojū, nient'altro che una satira nei confronti dei regni stranieri.
Questa è purtroppo solo una ricostruzione sulle fonti che ci sono pervenute comunque scarse, però è chiaro come un repertorio che conteneva una tale commistione di generi fosse destinato via via a scomparire con l'avanzare di forme ben più raffinate quali ilGagaku prima ed il Nō ed il Kabuki poi che avrebbero portato la cultura teatrale e musicale Imperiale e Shogunale giapponese ad un livello di raffinatezza ed astrazione filosofica cui il Gigaku non avrebbe mai potuto sperare.
Edmondo Filippini
Il Tofu
La comune definizione “formaggio di soia” usata in Occidente può essere fuorviante perché il to¯fu, al contrario del vero e proprio formaggio, ha origine esclusivamente vegetale. Si produce con il latte ricavato dai fagioli di soia che, con l’aiuto di un coagulante (cloruro di magnesio o solfato di calcio) viene fatto rapprendere versandolo in forme rettangolari, indi tagliato in panetti di circa300 grammiche saranno poi venduti in vaschette contenenti acqua fredda. Di colore bianco e quasi insapore, ha la consistenza di un compatto formaggio magro oppure di un solido budino.
Tra le qualità del tofu, oltre al fatto che per millenni ha costituito la maggior fonte proteica per le popolazioni estremo-orientali, è necessario mettere in evidenza che:
- ha un basso valore calorico (meno di 100 calorie per100 grammi) e un alto valore proteico
- del tutto privo di colesterolo, contiene potassio, 80% di grassi insaturi (come l’acido linoleico) e un minimo di grassi saturi
- non contiene tossine chimiche
- è molto digeribile, quindi adatto a bambini e anziani.
In Giappone il tofu viene venduto fresco di giornata, in Italia lo si trova in piccoli contenitori di cartone (brik) simili a quelli del latte ed è pronto da consumare, oppure lo si può acquistare fresco in qualche ristorante take-away; esiste anche quello istantaneo da preparare utilizzando la polvere contenuta in scatolette di cartone.
Il tofu fresco si conserva in frigorifero, in un recipiente pieno d’acqua fredda cambiata quotidianamente, per alcuni giorni. Può essere cucinato in moltissimi modi perché assorbe il sapore dei condimenti o degli ingredienti con cui viene cotto. Eccone ad esempio alcuni:
- agedashido¯fu: tagliato a dadini, passati nella fecola e fritti, serviti in una leggera salsa preparata con brodo dashi, salsa di soia, zucchero, sake e insaporita con daikon grattugiato e peperoncino;
- ganmodoki: sbriciolato, mescolato con carote, alghe kijiki, funghi e altro, ridotto a polpette che vengono poi fritte;
- hiyayakko: al naturale, freddo, condito con salsa di soia e zenzero o rafano o limone o altro;
- niyakko: al naturale, in un brodo caldo con zenzero, sake e salsa di soia;
- yudofu: cotto in brodo di alga konbu, in una casseruola di terracotta, e poi condito con salsa di soia, zenzero grattugiato e/o daikon grattugiato con peperoncino.
Graziana Canova Tura, tratto da Pagine Zen numero 16
L'arte della Cucina Giapponese
"Mangiare e bere sono il nutrimento della vita. Mangia cibo semplice. La carne dovrebbe essere consumata in piccole quantità. Scegli alimenti che nutrano il corpo.
Smetti di mangiare prima che il tuo appetito sia del tutto soddisfatto.
Cinque cose da tenere a mente quando ci si nutre:
- 1. pensa a chi ti dà il cibo
- 2. pensa alle fatiche di chi l’ha prodotto
- 3. ricorda che sei fortunato a godere di un buon pasto senza avere fatto nulla per meritarlo
- 4. ricorda che ci sono tanti esseri umani ben più poveri di te
- 5. pensa ai tempi antichi in cui gli uomini mangiavano frutta, radici e semi senza conoscere la cottura.
Astieniti dal mangiare troppo. Sii moderato nel cibo e nelle bevande.
Così prescriveva nel 1713 lo Yojokun, un trattato in cui venivano formulate regole di vita per una buona salute fisica e spirituale.
L’arte della cucina è da secoli tenuta in grande considerazione in Giappone e ha collegamenti anche inattesi con molti aspetti della vita dei suoi abitanti.
Chiunque sia stato in Giappone avrà apprezzato l’estrema eleganza e la squisita delicatezza dei piatti anche più semplici. La cucina giapponese è la più “spirituale” del mondo: regola vuole che gli ingredienti mantengano la propria natura, il colore, la consistenza, che i colori del vasellame armonizzino con il cibo e con la stagione del momento, che i sapori siano leggeri ma non insipidi, che non vi sia ostentazione ma che ogni cosa sia perfetta nella sua austera, raffinata semplicità.
L’estetica dell’ospitalità giapponese è essenzialmente rappresentata dalla cucina kaiseki, che di solito viene servita prima della cerimonia del tè e nella quale si raggiungono vette di delicata, “povera” eleganza. Essa ha origine dall’elaborato pasto formale delle classi dominanti e dal cibo vegetariano dei monasteri Zen. Takeno Joo, un grande maestro del tè, nel 1500 raccomandava che durante il kaiseki non si servisse più di una zuppa e tre piatti (ichiju sansai) e questa regola fondamentale ha improntato l’arte della cucina fino ai nostri giorni. L’abbondanza è bandita: lo scopo del pranzo non è quello di riempirsi, ma di godere insieme agli ospiti del piacere della reciproca compagnia, in armoniosa pace e tranquillità.
L’influenza dello Zen è impalpabile ma forte: aeree composizioni vegetali ornano rustici piatti di ceramica e leggere ciotole di legno laccato, poste su bassi tavolini, creano sottili contrasti di rosso e di nero; i freschi colori dei vegetali armonizzano con il contenitore in cui sono deposti, il tavolino-vassoio si presenta come un quadro.
Graziana Canova Tura, tratto da Pagine Zen numero 10