Università del Bonsai 2013
Il bonsai è un vero e proprio universo da scoprire. Conoscerne i segreti è un processo lungo, ma estremamente affascinante: un modo per avvicinarsi alla natura, alla filosofia, all’arte e anche al mondo orientale.
Partendo dal presupposto che non esistono due alberi uguali, addirittura piante appartenenti alla stessa famiglia possono presentare differenze radicali, l’Università del Bonsai ha messo a punto un programma didattico completo, capace
di soddisfare le esigenze di qualsiasi amatore e professionista. Nata dal desiderio di andare ben oltre il semplice nozionismo didattico, l’Università del Bonsai di Parabiago (Mi) rappresenta il massimo in materia di tecnica e bonsai.
L’accurata selezione del corpo docenti, la particolare impostazione didattica, l’ottimizzazione dei tempi di apprendimento affiancata dall’esperienza altamente professionale della Crespi Bonsai che si avvale della collaborazione di un grande maestro giapponese, Nobuyuki Kajiwara, fanno di questa scuola una realtà unica nel panorama didattico bonsaistico.
Il corso completo, che prevede una durata triennale, affronta tutte le tematiche, tecniche ed estetiche, che abbracciano l’arte bonsai, passando per la botanica e la fitopatologia.
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Il Maestro Shizuto Masunaga
Nasce nel Giugno del 1925 a Kurè.
Nel 1930 la famiglia Masunaga lascia la provincia di Hiroshima per trasferirsi a Tokyo.
Nella formazione di Masunaga legata allo shiatsu, hanno grande rilievo i genitori, che intrattenevano rapporti con i Maestri Shiatsu dell’epoca; in particolar modo la madre, shiatsuka, con la quale Masunaga acquisisce tecniche nei diversi corsi di shiatsu.
Si laurea nel 1949 in psicologia, presso la Facoltà di lettere di Tokyo. Segue il suo percorso professionale di shiatsu, proseguendo negli studi dei testi antichi.
Studia con il Maestro Namikoshi e nel 1959 entra come insegnante nella facoltà di Psicologia Clinica alla scuola Shiatsu di Namikoshi, ruolo che ricoprirà per una decina d’anni.
Continua la sua incessante ricerca, con un lavoro su testi ma fondamentalmente con un lavoro sulla percezione; la sua sensibilità non comune lo porterà a dare una direzione netta alla sua ricerca, portando un forte spirito di cambiamento a quello che era stato lo shiatsu sino a quel momento.
Nel 1960 fonda associazione Iokai.
Nel 1965 pubblica “Zen Shiatsu”, successivamente “Zen per immagini”.
Nel 1968 si stacca da Namikoshi e fonda l’istituto Iokai Shiatsu Kenkiusho, portando l’insegnamento non solo nella sua sede ma oltre i confini del Giappone: Europa, Stati Uniti, Canada, Corea, Hawai, Hong Kong.
Nel 1980 viene eletto Consigliere alla Società Giapponese di medicina Orientale.
Nel 1981 muore all’età di 57 anni.
Nel 2007 viene pubblicato, postumo “Manuale di Sesshin”.
In base alle caratteristiche fondamentali del lavoro di Masunaga, credo che si possa parlare dello suo shiatsu come “arricchimento” “evoluzione e “rivoluzione” .
- Masunaga diede allo shiatsu una connotazione fortemente legata alle tradizioni orientali, da un punto di vista culturale, filosofico, in particolar modo alla tradizione Zen. Contribuì, con elementi di psicologia moderna, a rendere il suo shiatsu, unico ed originale, trovando relazioni tra il sistema dei meridiani e gli aspetti mentali. Masunaga, proponeva, come nella tradizione del modello giapponese, la considerazione dell’individuo nella sua interezza, superando la visione dell’essere unicamente in relazione al suo disturbo o alla sua malattia ma in relazione alla sua totalità di struttura energetica, fisica, psichica, legata al movimento del ki.
- Non mancò di considerare anche l’elemento spirituale dell’operatore, la sua crescita e trasformazione; vivere lo zen shiatsu come percorso di una via, mettendo attenzione all’atteggiamento mentale, il modo di porsi, favorendo un processo di cambiamento interiore. Coltivare se stessi, mettersi nella disposizione del “vuoto” per entrare in contatto profondo con l’energia del ricevente. “Lo Zen si propone fondamentalmente il raggiungimento dell’illuminazione totale attraverso la scoperta del proprio Sé. … la comprensione può essere raggiunta attraverso la meditazione, però indipendentemente dal pensiero. La stessa cosa vale per lo shiatsu. Inizia con la pressione digitale, però è difficile spiegare perché la pressione del punto curi la malattia. Sia nello Zen che nello shiatsu abbiamo a che fare con fenomeni che non possono essere spiegati razionalmente, ma dei quali l’organismo vivo si rende conto in modo diretto”. “Lo shiatsu può rappresentare un mezzo per stabilire rapporti umani migliori, che sono essenziali per la buona salute”
- il “sistema dei meridiani” (ossia l’estensione dei canali energetici) segnalato nella sua mappa dei meridiani, pubblicata nel 1970, (con versione definitiva nel 1977) all’epoca suscitò non poche perplessità perché i meridiani di riferimento fin ad allora erano quelli degli agopuntori; Masunaga estende ogni percorso del singolo meridiano su tutto il corpo: “Ho riscontrato la presenza di 12 meridiani negli arti inferiori e altrettanti negli arti superiori. Il trattamento di questi meridiani ha fornito risultati migliori di quelli registrati in passato”
Joshin Galani
Dal Manga all'Anime trasformazione e movimento
Durarara!!
La maggior parte di coloro non abituati al mondo dell'animazione hanno solitamente in mente un punto di riferimento da cui partire nel momento in cui visionano un prodotto dell’animazione, il manga. Opinione diffusa è infatti che ad ogni anime corrisponde più o meno un manga, quindi una versione cartacea da cui partire da cui poi attraverso un processo produttivo legato alla logica del successo si arriva alla serie animata. In linea di massima la deduzione è corretta ma non tiene in debito conto le decine di varianti cui la produzione giapponese è legata e come ogni regola standard che si rispetti il numero di eccezioni sorpassa di gran lunga la sua applicazione, soprattutto nell'ultimo decennio che ha visto fiorire commercialmente nuovi media legati al mondo non solo del videogame, di cui saranno spiegate in seguito le diverse tipologie legate all'animazione, ma anche letteratura, Light Novel (che come vedremo di letteratura non si tratta), film, gadjet e molto altro ancora. Il tutto coinvolto in un processo di continua trasformazione di un'opera in un'altra e che in Giappone permette la fruizione di un singolo titolo nei più diversi media.
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Articolo di Edmondo Filippini
Kawai Kenji, la ricerca di una nuova via musicale tra passato e futuro
Kawai Kenji rappresenta nella cultura giapponese ed in particolare nel mondo dell’animazione, un nome quasi leggendario per le numerose partiture prodotte in oltre venti anni di carriera ma soprattutto per i grandi titoli cinematografici che l’hanno visto coinvolto. Compositore la cui carriera compositiva sin dalle origini è sotto il segno della poliedricità e dell’insofferenza alle regole prestabilite, dopo solo alcuni mesi alla Shobi College of Music di Tokyo infatti decide di staccarsi dal mondo accademico ufficiale per intraprendere una carriera di chitarrista fondando una sua band ancora oggi attiva AGG. Il suo primo lavoro per l’animazione risale al 1986 in collaborazione con i registi Kazuo Yamazaki e Takashi Annō per la stesura della colonna sonora della nota serie in 96 episodi, Maison Ikkoku, diventata serie di culto in quasi tutto il mondo. Lo stile però non è ancora perfettamente definito e sarà soprattutto dall’incontro con il regista Mamoru Oshii per il film “Gli Occhiali Rossi” [Akai Megane], con cui stabilirà un sodalizio stretto, che gli permetterà di esprimersi al meglio dando inizio ad una ricerca che sempre maggiormente farà emergere uno stile riconoscibile ed autonomo. La collaborazione proseguirà anche con la serie Mobile Police Patlabor sempre diretta da Oshii. Gli anni ’80 lo vedono anche coinvolto in alcune serie di successo come Ranma ½ e gli OVA di Davilman, serie animata tratta dal manga di Go Nagai.
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Articolo, Intervista e Traduzione
Edmondo Filippini
Sabato prossimo, sempre a cura del Dott. Edmondo Filippini, pubblicheremo l'articolo: "Dal Manga all'Anime: trasformazione e movimento"
Lost in Translation
Pur avendo vissuto a Tōkyō solo per sei mesi, sono stati abbastanza per lasciarmi travolgere dal ritmo frenetico della città. Una città che è caotica, ma riesce ad esserlo in modo ordinato, una città dove basta svoltare l’angolo per ritrovarsi di fronte a un tempio scintoista dove l’unico suono che si percepisce è quello dei propri passi. Questo è lo scenario che si incontra a Shinjuku. Definirla semplicemente una zona è pressappoco riduttivo: è una vera e propria metropoli a se stante, a ovest sede degli uffici governativi, le cui vie sembrano a tratti ricordare una New York esente da passanti, a est, un tripudio di luci colorate, di negozi e di locali che farebbero provare un senso di straniamento a chiunque, come accade al protagonista del film di Sofia Coppola, Lost in Translation.
Nel momento in cui si arriva alla stazione di Shinjuku bisogna fare i conti con il fatto che, trovare la giusta uscita, può essere una questione di pochi minuti, se si è fortunati, o di ore (la seconda opzione è decisamente quella più probabile). Non c’è da meravigliarsi, in fondo ogni giorno ci passano più di 3 milioni di persone, più o meno l’equivalente della popolazione romana. Una volta usciti da questo enorme labirinto, con lo stupore ancora in faccia dopo aver visto una miriade di giapponesi che corrono da una parte all’altra o con un cellulare in mano o leggendo un libro senza sfiorarsi neanche una volta, ci si scontra con la realtà di Shinjuku.
Spaesamento e meraviglia sono solo due delle possibili reazioni che ogni turista prova e nel momento in cui si scorge, anche solo in lontananza, un altro gaijin occidentale, spunta sul viso un sorriso quasi spontaneo che infonde sicurezza. Mano a mano che ci si incammina lungo la Meiji-dōri ci si lascia però travolgere da quell’inusuale atmosfera che circonda Shinjuku e proseguendo lungo la Yasukuni- dōri si arriva fino al Kabuki- chō, il cosiddetto quartiere a luci rosse costeggiato dai ben più famosi pachinko. Mentre attraverso queste vie era sorprendete il livello di sicurezza con la quale mi aggiravo e avevo la consapevolezza che, pur essendo da sola e straniera in un paese che non conosco, non mi poteva accadere niente.
Bastano davvero poche ore per familiarizzare con questa parte di Tōkyō e già sulla via del ritorno non sorprende più vedere una lunga coda di giapponesi presso la gelateria Grom oppure vedere un sosia di Johnny Depp, travestito da Jack Sparrow, aggirarsi lungo la via principale; neanche le voci strillanti di camerieri e di commesse che incitano i passanti a fermarsi proprio in quel locale o in quel ristorante danno più fastidio e a ogni angolo si cerca disperatamente di incontrare una di quelle giovani che distribuiscono fazzoletti gratuitamente. Non ci si meraviglia neanche di come facciano quelle strade a essere così pulite, considerando che i cestini dell’immondizia sono praticamente assenti. Tutto questo può succedere solo a Tōkyō.
Giulia Bianco
Estetica e funzionalità nel periodo Edo
Visitando Takamatsu 高松
Quando si decide di visitare il Giappone, spesso e volentieri ci si concentra sulle classiche mete turistiche: Tōkyō, perché è la capitale, nonché paradiso tecnologico per molti occidentali, e Kyōto, perché rappresenta l’essenza culturale del paese, quella brezza orientale che piace così tanto agli stranieri. Qualcuno a volte allarga i propri orizzonti concedendosi un tour più completo lungo tutta l’isola Honshū, fermandosi a Kamakura, Ōsaka e Nara. Alcuni si spingono fino alla regione del Chūgoku per fare visita al parco della pace di Hiroshima o per ammirare uno dei più rinomati simboli del Giappone, i famosi torii galleggianti del santuario Itsukushima (purtroppo quando ci andai questa porta scintoista era ben lontana dall’essere immersa nell’acqua, complice una bassa, anzi bassissima marea).
E lo Shikoku? Questa piccola isola, quarta a livello di grandezza, ha da subito catturato la mia attenzione nel momento in cui stavamo programmando il nostro tour nella parte meridionale del Giappone. Dovrà pur esserci qualcosa di interessante da vedere, visto che è una meta per milioni di pellegrini che ripercorrono i passi del giovane monaco Kukai (fondatore del buddhismo Shingon) facendo visita agli 88 templi dell’isola.
La nostra scelta cade su Takamatsu e su Naruto, entrambe sulla costa settentrionale dell’isola e ben collegate con lo Honshū. Qui è come se il tempo si fosse fermato, è come se tutto quel processo di occidentalizzazione/americanizzazione, così evidente nelle grandi metropoli, non sia mai arrivato. È un altro Giappone quello che si percepisce nello Shikoku (o forse è il vero Giappone?): Takamatsu è avvolta da una tranquilla quiete sin dalle prime luci del mattino. La stazione centrale è quasi deserta e di stranieri manco l’ombra. Gli unici “turisti” sono probabilmente altri giapponesi venuti dalla main island. Decidiamo di affidarci alla mia guida turistica che dedica alla città un quarto di pagina, un po’ poco, però è sempre meglio di niente.
Il castello di Takamatsu è immerso nel parco Tamamo, dove ogni sfumatura di verde appare in forte contrasto con lo splendore delle pietre, sistemate perfettamente in linea per tracciare i piccoli sentieri da intraprendere per raggiungere una delle sale da tè. Il castello sembra essere la versione in miniatura di quelli più famosi di Himeji e di Ōsaka, però si può percepire alla stessa maniera il potere esercitato dallo shōgun nel XVII secolo. Dal parco Tamamo decidiamo di dirigerci verso il rinomato museo delle cere - un Madame Tussaud’s giapponese che riprende minuziosamente i punti salienti dello Heike monogatari. È in questo momento che ci rendiamo conto non solo di essere le uniche turiste della città, ma di essere anche le poche persone che camminano per strada. Per fortuna lungo il nostro cammino ci sono dei konbini, dove poter chiedere informazioni, altrimenti sarebbe stato impossibile raggiungere il museo, che si trova in un posto praticamente abbandonato, ricordante più un parcheggio in periferia che una tipica meta turistica. La gentilezza dei giapponesi non smetterà mai di sorprendermi ed è uno dei tanti motivi per i quali adoro questo paese, in particolare in una città come Takamatsu, dove è ben evidente la “carenza” di turismo occidentale, gli abitanti cercano di fare del loro meglio per darci le giuste indicazioni e nel momento in cui esordiamo con la tipica frase Nihongo de daijōbu desu (“Va bene anche in giapponese”), vediamo come i loro volti e i loro occhi si riempiono di gioia e di stupore ed è in quel momento che la loro volontà di volerci aiutare diventa maggiore. Come ultima tappa decidiamo di andare al parco Ritsurin, un’immensa distesa verde dove la natura sembra aver trovato la sua tranquillità: ogni angolo del giardino è talmente perfetto, quasi da sembrare irreale. È come un’oasi pacifica, nonché un luogo ideale per lasciarsi abbandonare alla meditazione, almeno per due ore, il tempo necessario per visitare tutto il parco.
Giulia Bianco
Naruse Mikio
di Dario Tomasi
Naruse, Mikio
Regista cinematografico e sceneggiatore giapponese, nato a Tokyo il 20 agosto 1905 e morto ivi il 2 luglio 1969. Quasi coetaneo di Mizoguchi Kenji e Ozu Yasujirō, N. ha faticato più dei suoi colleghi ad affermarsi nel mondo del cinema giapponese prima e internazionale poi e solo con il tempo la sua opera ha conquistato l'attenzione che merita. N. realizzò soprattutto degli shomingeki ("drammi sulla gente comune"), concentrandosi in modo particolare sull'universo familiare, spesso colto nella sua essenza, di là dalle contingenze storiche e sociali. Il suo cinema è innanzi tutto una straordinaria galleria di ritratti femminili, di donne che rifiutano il ruolo di vittime e si battono con coraggio per realizzare le loro aspirazioni, anche quando sanno d'essere prive di vie d'uscita. È proprio l'ammirazione del regista per questa irrazionale ostinazione a dare al suo cinema un carattere decisamente particolare. Se negli anni Trenta N. ricorse a quello stile ornamentale tipico del cinema giapponese dell'epoca, con angolazioni insolite e frequenti movimenti di macchina, negli anni Cinquanta il suo linguaggio si prosciugò, si fece più lineare, per permettere allo spettatore di cogliere con l'attenzione dovuta i gesti dei personaggi, le sfumature degli sguardi, i mutamenti d'espressione, il lavoro degli attori.
Nato in una famiglia di umili condizioni, N., dopo aver frequentato una scuola tecnica, entrò, all'età di soli quindici anni, negli studi Kamata della Shōchiku, dove conobbe il regista Ikeda Yoshinobu che nel 1922 lo promosse suo assistente. N. rimase tale per sei anni, prima di passare nello staff di Gosho Heinosuke e, finalmente, debuttare come regista nel 1929 con Chanbara fūfu (I coniugi Chanbara). Il film, come i molti che seguirono negli anni immediatamente successivi, si basava sulla tipica formula della Shōchiku: un'insolita miscela di slapstick e melodramma, gag e lacrime. Ne è un esempio il primo film conservato del regista, Koshiben ganbare (1931, In bocca al lupo, piccolo salariato), in cui si narrano le vicissitudini di un agente assicurativo pronto a subire ogni umiliazione pur di vendere una polizza a una ricca signora. N. si specializzò così negli shomingeki, genere cui infuse la propria personale esperienza, la sua capacità di descrivere le atmosfere degli shitamachi (i quartieri popolari) e la variegata realtà dei suoi abitanti, come per es. accade in Kimi to wakarete (1933, Dopo la nostra separazione), storia di una geisha che si vede disprezzata dal figlio a causa del suo mestiere. Dopo aver lasciato la Shōchiku nel 1934 ed essere passato alla PCL (Photo Chemical Laboratory, poi Tōhō), N. diresse nel 1935 il suo primo film sonoro, Tsuma yo, bara no yōni (Moglie, sii come una rosa), con cui ritornò a quell'equilibrio di dramma e commedia che già aveva caratterizzato i suoi film d'esordio e riuscì a conquistare l'attenzione della critica e del pubblico. Al successo di questo film seguì, tuttavia, un lungo periodo di crisi, che attraversò gli anni della guerra e quelli dell'occupazione americana, in cui N. diresse pochi film senza incidere in quasi nessuno: fra le poche eccezioni si può citare Hataraku ikka (1939, Tutta la famiglia lavora), storia di una numerosa famiglia nella quale, per sopravvivere, tutti sono costretti a lavorare, compresi vecchi e bambini. Ma con gli anni Cinquanta le cose cambiarono di nuovo e N., ritrovata la propria vena creativa, realizzò i film più importanti della sua carriera. Del 1951 è Meshi (Il pasto), sottile analisi della crisi coniugale di una coppia, alla cui sceneggiatura collaborò anche il futuro premio Nobel Kawabata Yasunari. Il film è l'adattamento di un romanzo della scrittrice Hayashi Fumiko, dalla cui opera N. trasse altri cinque film: Inazuma (1952, Il lampo), storia del rapporto di una madre con i suoi quattro figli ‒ tre femmine e un maschio ‒ avuti ognuno da un uomo diverso; Tsuma (1953, Moglie), sul tentativo di una donna di salvare un matrimonio alla deriva; Bangiku (1954, Tardi crisantemi), che vede fra i suoi protagonisti una geisha in lotta contro l'ineluttabile trascorrere del tempo; Ukigumo (1955, Nubi fluttuanti), uno dei film più apprezzati del regista, storia dell'amore assoluto di una donna per un uomo debole ed egoista; Horoki (1962, Cronaca di una vita vagabonda), biografia per immagini della stessa Hayashi. In quegli anni N. lavorò soprattutto per la Tōhō e riuscì a dar vita a un gruppo di collaboratori ricorrenti che comprendeva gli sceneggiatori Tanaka Sumie e Mizuki Yōko, il musicista Saitō Ichirō, il direttore della fotografia Tamai Masao e gli attori Takamine Hideko e Uehara Ken. Nacquero così altri film di qualità come Okāsan (1953, Madre), Ani imōto (1953, Fratello e sorella) e Fūfu (1953, Marito e moglie), tutte scrupolose indagini di microcosmi familiari, come Yama no oto (1954, Il suono della montagna), dal celebre romanzo di Kawabata, mentre con Nagareru (1956, Fluttuare) il regista disegnò il declino della tradizionale figura delle geishe ormai divenute, nel dopoguerra, semplici prostitute. Negli anni Sessanta N. realizzò ancora un buon numero di film ma, come altri registi della sua generazione, fu coinvolto dalla crisi del mondo produttivo. Da ricordare in particolare Onna ga kaidan o agaru toki (1960, Quando una donna sale le scale) e Midaregumo (1967, Nubi sparpagliate), ancora due convincenti ritratti femminili: quello della proprietaria di un bar di Ginza, il primo; di una donna incinta il cui marito muore in un incidente stradale, il secondo, che fu anche il l'ultimo film del regista. bibliografia
J. Mellen, The waves at Genji's door: Japan through its cinema, New York 1976, pp. 270-89.
A. Bock, Japanese film directors, New York 1978, pp. 99-136.
A. Bock, Mikio Naruse: un maître du cinéma japonais, Locarno 1983.
L. Interim, Mikio Naruse. Le quatrième grand, in "Cahiers du cinéma", 1983, 344, pp. 6-11.
H. Niogret, Mikio Naruse. L'agencement des emotions, in "Positif", 1984, 275.
M. Tessier, Y. Mizuki, Mikio Naruse, in "La revue du cinéma", 1984, 391, pp. 61-70.
Mikio Naruse: un maestro del cinema giapponese, Catalogo della rassegna organizzata dall'Istituto di cultura giapponese, Roma 1984.
D. Tomasi, Meshi (Il pasto), in "Cineforum", 1991, 4, pp. 62-67.
J. Magny, A. Scala, L'éclair Naruse, in "Cahiers du cinéma", 1993, 466, pp. 47-53.
B. Eisenschitz, Au-delà d'un nuage, in "Cahiers du cinéma", 2001, 553, pp. 59-61.
M.R. Novielli, Storia del cinema giapponese, Venezia 2001, pp. 91-104, 179-81.
C. Tesson, Naruse du style et des larmes, in "Cahiers du cinéma", 2001, 553, pp. 62-64.
Il canto dei carri: Saibara
Poche volte, anche in Giappone, si incontra il termine Saibara quando si guarda superficialmente alla storia della musica giapponese e spesso viene erroneamente confuso o associato ad altri repertori vocali afferenti il composito universo del Gagaku. Eppure tale tipologia di canti sono sicuramente tra i più rappresentativi e antichi della tradizione giapponese, risalenti ad origini, secondo l'ipotesi oggi più accreditata, popolari. Il termine, per quanto non con una traduzione univoca, fa riferimento infatti ai "conducenti di carri", funzionari che in epoca Heian erano principalmente addetti alla riscossione dei tributi nelle varie regioni del paese.
Portato al suo massimo splendore da Minamoto no Masanobu (920 - 993), si ritrovano echi di tale genere ancora nel Genji Monogatari, grazie ad una tradizione continuata a corte, che inserì il Saibara nel repertorio vocale del Gagaku garantendone anche la sopravvivenza. Dei cinquantacinque canti oggi superstiti però soltanto sei fanno ancora parte di tale repertorio di cui soltanto due eseguiti ancora in maniera quasi stabile. Proprio il fatto di appartenere oggi ad un repertorio di origine non autoctona rende però difficile la possibilità di ricostruire la loro forma popolare, poiché rimasti soggetti, loro come molte altre composizioni, ad una riscrittura che adattò la musica e i testi alla nuova funzione di corte. Le musica ed il canto, oggi ricostruibili solo attraverso due "intavolature" musicali, si caratterizza per un allungamento vocalico con l'aggiunta di formule decorative che danno varietà al canto mentre l'orchestra è costituita dall'ensemble classico normalmente utilizzato nel Gagaku con l'aggiunta di quello che in occidente potrebbe essere chiamato "maestro di coro", Kutou, che da il tempo con il battito degli Shakubyoshi.
Edmondo Filippini
Takarazuka - una compagnia di sole donne
Il Takarazuka 宝塚 rappresenta uno dei fenomeni più affascinanti quanto misteriosi del panorama teatrale giapponese, definito spesso come un luogo eccentrico, perverso e ben distante dal mondo reale. La compagnia, composta esclusivamente da ragazze, venne fondata nel 1913 da Kobayashi Ichizō 小林一三 e, in un primo momento, nacque come un’organizzazione amatoriale con lo scopo di intrattenere i turisti nell’omonima località termale Takarazuka, una piccola cittadina del Kansai. Con il passare degli anni la compagnia si espanse in modo notevole diventando per molte giovani un ottimo escamotage per sfuggire, almeno temporaneamente, alla rigida etichetta di ryōsai kenbo 良妻賢母 (“essere una buona moglie e una saggia madre”), promossa dal governo nei primi anni del XX secolo. In verità il Takarazuka si colloca in una via di mezzo tra due estremi: da una parte offriva la possibilità a molte ragazze di intraprendere una carriera a sé stante e di uscire così dalla semplice routine, dall’altra, però, incarnò il rigore e la ferrea disciplina imposta dalla società giapponese.
Le takarasienne (così vengono definite le “attrici” della compagnia) si specializzano in ruoli maschili (otokoyaku 男役) o in ruoli femminili (musumeyaku 娘役), la cui rappresentazione è volutamente lontana dal potersi definire reale. Il Takarazuka, del resto, si pone come obiettivo quello di “vendere dei sogni” e di far trasportare lo spettatore verso un mondo onirico, grazie anche a una scenografia particolarmente sfarzosa, a costumi molto elaborati e a un ingegnoso gioco di luci.
La compagnia è suddivisa al suo interno in cinque troupe:
* la hana gumi 花組 (troupe dei fiori);
* la tsuki gumi 月組 (troupe della luna);
* la yuki gumi 雪組 (troupe della neve);
* la hoshi gumi 星組(troupe delle stelle);
* la sora gumi 宙組 (troupe del cielo).
e ognuna di esse, oltre a essere rappresentata da una coppia di cosiddette Top Star, ovvero le due takarasienne più rinomate e talentuose del momento, è caratterizzata da un proprio stile interpretativo. La yuki gumi, ad esempio, è solita mettere in scena drammi appartenenti alla letteratura giapponese, al contrario della tsuki gumi, che si è specializzata nella rappresentazione di musical occidentali.
Il Takarazuka propone ogni anno un vasto assortimento di spettacoli, che spazia dai grandi melodrammi a rappresentazioni giapponesi reinventate in stile occidentale, dai musical della golden age broadwayana a quelli tratti dalla letteratura o basati su eventi storici, ognuno dei quali si conclude con un’imponente parata, durante la quale tutte le attrici si esibiscono per l’ultima volta indossando costumi molto appariscenti.
Nonostante la compagnia sia stata definita per molti versi “eccentrica” e piena di riferimenti riguardanti la presunta ambiguità sessuale delle ragazze, in particolare nei confronti di quelle che ricoprono ruoli maschili, l’intento del Takarazuka non è mai stato quello di scandalizzare o di promuovere un comportamento amorale; al contrario il messaggio che si cerca di tramandare è quello di un puro intrattenimento teatrale che fa da cardine ai tre principi promossi da Kobayashi:
kiyoku, tadashiku, utsukushiku 清く、正しく、美しく, ovvero “Sii pura, sii onesta, sii bella!”.
Giulia Bianco