Kawai Kenji, la ricerca di una nuova via musicale tra passato e futuro
Kawai Kenji rappresenta nella cultura giapponese ed in particolare nel mondo dell’animazione, un nome quasi leggendario per le numerose partiture prodotte in oltre venti anni di carriera ma soprattutto per i grandi titoli cinematografici che l’hanno visto coinvolto. Compositore la cui carriera compositiva sin dalle origini è sotto il segno della poliedricità e dell’insofferenza alle regole prestabilite, dopo solo alcuni mesi alla Shobi College of Music di Tokyo infatti decide di staccarsi dal mondo accademico ufficiale per intraprendere una carriera di chitarrista fondando una sua band ancora oggi attiva AGG. Il suo primo lavoro per l’animazione risale al 1986 in collaborazione con i registi Kazuo Yamazaki e Takashi Annō per la stesura della colonna sonora della nota serie in 96 episodi, Maison Ikkoku, diventata serie di culto in quasi tutto il mondo. Lo stile però non è ancora perfettamente definito e sarà soprattutto dall’incontro con il regista Mamoru Oshii per il film “Gli Occhiali Rossi” [Akai Megane], con cui stabilirà un sodalizio stretto, che gli permetterà di esprimersi al meglio dando inizio ad una ricerca che sempre maggiormente farà emergere uno stile riconoscibile ed autonomo. La collaborazione proseguirà anche con la serie Mobile Police Patlabor sempre diretta da Oshii. Gli anni ’80 lo vedono anche coinvolto in alcune serie di successo come Ranma ½ e gli OVA di Davilman, serie animata tratta dal manga di Go Nagai.
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Articolo, Intervista e Traduzione
Edmondo Filippini
Sabato prossimo, sempre a cura del Dott. Edmondo Filippini, pubblicheremo l'articolo: "Dal Manga all'Anime: trasformazione e movimento"
Lost in Translation
Pur avendo vissuto a Tōkyō solo per sei mesi, sono stati abbastanza per lasciarmi travolgere dal ritmo frenetico della città. Una città che è caotica, ma riesce ad esserlo in modo ordinato, una città dove basta svoltare l’angolo per ritrovarsi di fronte a un tempio scintoista dove l’unico suono che si percepisce è quello dei propri passi. Questo è lo scenario che si incontra a Shinjuku. Definirla semplicemente una zona è pressappoco riduttivo: è una vera e propria metropoli a se stante, a ovest sede degli uffici governativi, le cui vie sembrano a tratti ricordare una New York esente da passanti, a est, un tripudio di luci colorate, di negozi e di locali che farebbero provare un senso di straniamento a chiunque, come accade al protagonista del film di Sofia Coppola, Lost in Translation.
Nel momento in cui si arriva alla stazione di Shinjuku bisogna fare i conti con il fatto che, trovare la giusta uscita, può essere una questione di pochi minuti, se si è fortunati, o di ore (la seconda opzione è decisamente quella più probabile). Non c’è da meravigliarsi, in fondo ogni giorno ci passano più di 3 milioni di persone, più o meno l’equivalente della popolazione romana. Una volta usciti da questo enorme labirinto, con lo stupore ancora in faccia dopo aver visto una miriade di giapponesi che corrono da una parte all’altra o con un cellulare in mano o leggendo un libro senza sfiorarsi neanche una volta, ci si scontra con la realtà di Shinjuku.
Spaesamento e meraviglia sono solo due delle possibili reazioni che ogni turista prova e nel momento in cui si scorge, anche solo in lontananza, un altro gaijin occidentale, spunta sul viso un sorriso quasi spontaneo che infonde sicurezza. Mano a mano che ci si incammina lungo la Meiji-dōri ci si lascia però travolgere da quell’inusuale atmosfera che circonda Shinjuku e proseguendo lungo la Yasukuni- dōri si arriva fino al Kabuki- chō, il cosiddetto quartiere a luci rosse costeggiato dai ben più famosi pachinko. Mentre attraverso queste vie era sorprendete il livello di sicurezza con la quale mi aggiravo e avevo la consapevolezza che, pur essendo da sola e straniera in un paese che non conosco, non mi poteva accadere niente.
Bastano davvero poche ore per familiarizzare con questa parte di Tōkyō e già sulla via del ritorno non sorprende più vedere una lunga coda di giapponesi presso la gelateria Grom oppure vedere un sosia di Johnny Depp, travestito da Jack Sparrow, aggirarsi lungo la via principale; neanche le voci strillanti di camerieri e di commesse che incitano i passanti a fermarsi proprio in quel locale o in quel ristorante danno più fastidio e a ogni angolo si cerca disperatamente di incontrare una di quelle giovani che distribuiscono fazzoletti gratuitamente. Non ci si meraviglia neanche di come facciano quelle strade a essere così pulite, considerando che i cestini dell’immondizia sono praticamente assenti. Tutto questo può succedere solo a Tōkyō.
Giulia Bianco
Estetica e funzionalità nel periodo Edo
Visitando Takamatsu 高松
Quando si decide di visitare il Giappone, spesso e volentieri ci si concentra sulle classiche mete turistiche: Tōkyō, perché è la capitale, nonché paradiso tecnologico per molti occidentali, e Kyōto, perché rappresenta l’essenza culturale del paese, quella brezza orientale che piace così tanto agli stranieri. Qualcuno a volte allarga i propri orizzonti concedendosi un tour più completo lungo tutta l’isola Honshū, fermandosi a Kamakura, Ōsaka e Nara. Alcuni si spingono fino alla regione del Chūgoku per fare visita al parco della pace di Hiroshima o per ammirare uno dei più rinomati simboli del Giappone, i famosi torii galleggianti del santuario Itsukushima (purtroppo quando ci andai questa porta scintoista era ben lontana dall’essere immersa nell’acqua, complice una bassa, anzi bassissima marea).
E lo Shikoku? Questa piccola isola, quarta a livello di grandezza, ha da subito catturato la mia attenzione nel momento in cui stavamo programmando il nostro tour nella parte meridionale del Giappone. Dovrà pur esserci qualcosa di interessante da vedere, visto che è una meta per milioni di pellegrini che ripercorrono i passi del giovane monaco Kukai (fondatore del buddhismo Shingon) facendo visita agli 88 templi dell’isola.
La nostra scelta cade su Takamatsu e su Naruto, entrambe sulla costa settentrionale dell’isola e ben collegate con lo Honshū. Qui è come se il tempo si fosse fermato, è come se tutto quel processo di occidentalizzazione/americanizzazione, così evidente nelle grandi metropoli, non sia mai arrivato. È un altro Giappone quello che si percepisce nello Shikoku (o forse è il vero Giappone?): Takamatsu è avvolta da una tranquilla quiete sin dalle prime luci del mattino. La stazione centrale è quasi deserta e di stranieri manco l’ombra. Gli unici “turisti” sono probabilmente altri giapponesi venuti dalla main island. Decidiamo di affidarci alla mia guida turistica che dedica alla città un quarto di pagina, un po’ poco, però è sempre meglio di niente.
Il castello di Takamatsu è immerso nel parco Tamamo, dove ogni sfumatura di verde appare in forte contrasto con lo splendore delle pietre, sistemate perfettamente in linea per tracciare i piccoli sentieri da intraprendere per raggiungere una delle sale da tè. Il castello sembra essere la versione in miniatura di quelli più famosi di Himeji e di Ōsaka, però si può percepire alla stessa maniera il potere esercitato dallo shōgun nel XVII secolo. Dal parco Tamamo decidiamo di dirigerci verso il rinomato museo delle cere - un Madame Tussaud’s giapponese che riprende minuziosamente i punti salienti dello Heike monogatari. È in questo momento che ci rendiamo conto non solo di essere le uniche turiste della città, ma di essere anche le poche persone che camminano per strada. Per fortuna lungo il nostro cammino ci sono dei konbini, dove poter chiedere informazioni, altrimenti sarebbe stato impossibile raggiungere il museo, che si trova in un posto praticamente abbandonato, ricordante più un parcheggio in periferia che una tipica meta turistica. La gentilezza dei giapponesi non smetterà mai di sorprendermi ed è uno dei tanti motivi per i quali adoro questo paese, in particolare in una città come Takamatsu, dove è ben evidente la “carenza” di turismo occidentale, gli abitanti cercano di fare del loro meglio per darci le giuste indicazioni e nel momento in cui esordiamo con la tipica frase Nihongo de daijōbu desu (“Va bene anche in giapponese”), vediamo come i loro volti e i loro occhi si riempiono di gioia e di stupore ed è in quel momento che la loro volontà di volerci aiutare diventa maggiore. Come ultima tappa decidiamo di andare al parco Ritsurin, un’immensa distesa verde dove la natura sembra aver trovato la sua tranquillità: ogni angolo del giardino è talmente perfetto, quasi da sembrare irreale. È come un’oasi pacifica, nonché un luogo ideale per lasciarsi abbandonare alla meditazione, almeno per due ore, il tempo necessario per visitare tutto il parco.
Giulia Bianco
Naruse Mikio
di Dario Tomasi
Naruse, Mikio
Regista cinematografico e sceneggiatore giapponese, nato a Tokyo il 20 agosto 1905 e morto ivi il 2 luglio 1969. Quasi coetaneo di Mizoguchi Kenji e Ozu Yasujirō, N. ha faticato più dei suoi colleghi ad affermarsi nel mondo del cinema giapponese prima e internazionale poi e solo con il tempo la sua opera ha conquistato l'attenzione che merita. N. realizzò soprattutto degli shomingeki ("drammi sulla gente comune"), concentrandosi in modo particolare sull'universo familiare, spesso colto nella sua essenza, di là dalle contingenze storiche e sociali. Il suo cinema è innanzi tutto una straordinaria galleria di ritratti femminili, di donne che rifiutano il ruolo di vittime e si battono con coraggio per realizzare le loro aspirazioni, anche quando sanno d'essere prive di vie d'uscita. È proprio l'ammirazione del regista per questa irrazionale ostinazione a dare al suo cinema un carattere decisamente particolare. Se negli anni Trenta N. ricorse a quello stile ornamentale tipico del cinema giapponese dell'epoca, con angolazioni insolite e frequenti movimenti di macchina, negli anni Cinquanta il suo linguaggio si prosciugò, si fece più lineare, per permettere allo spettatore di cogliere con l'attenzione dovuta i gesti dei personaggi, le sfumature degli sguardi, i mutamenti d'espressione, il lavoro degli attori.
Nato in una famiglia di umili condizioni, N., dopo aver frequentato una scuola tecnica, entrò, all'età di soli quindici anni, negli studi Kamata della Shōchiku, dove conobbe il regista Ikeda Yoshinobu che nel 1922 lo promosse suo assistente. N. rimase tale per sei anni, prima di passare nello staff di Gosho Heinosuke e, finalmente, debuttare come regista nel 1929 con Chanbara fūfu (I coniugi Chanbara). Il film, come i molti che seguirono negli anni immediatamente successivi, si basava sulla tipica formula della Shōchiku: un'insolita miscela di slapstick e melodramma, gag e lacrime. Ne è un esempio il primo film conservato del regista, Koshiben ganbare (1931, In bocca al lupo, piccolo salariato), in cui si narrano le vicissitudini di un agente assicurativo pronto a subire ogni umiliazione pur di vendere una polizza a una ricca signora. N. si specializzò così negli shomingeki, genere cui infuse la propria personale esperienza, la sua capacità di descrivere le atmosfere degli shitamachi (i quartieri popolari) e la variegata realtà dei suoi abitanti, come per es. accade in Kimi to wakarete (1933, Dopo la nostra separazione), storia di una geisha che si vede disprezzata dal figlio a causa del suo mestiere. Dopo aver lasciato la Shōchiku nel 1934 ed essere passato alla PCL (Photo Chemical Laboratory, poi Tōhō), N. diresse nel 1935 il suo primo film sonoro, Tsuma yo, bara no yōni (Moglie, sii come una rosa), con cui ritornò a quell'equilibrio di dramma e commedia che già aveva caratterizzato i suoi film d'esordio e riuscì a conquistare l'attenzione della critica e del pubblico. Al successo di questo film seguì, tuttavia, un lungo periodo di crisi, che attraversò gli anni della guerra e quelli dell'occupazione americana, in cui N. diresse pochi film senza incidere in quasi nessuno: fra le poche eccezioni si può citare Hataraku ikka (1939, Tutta la famiglia lavora), storia di una numerosa famiglia nella quale, per sopravvivere, tutti sono costretti a lavorare, compresi vecchi e bambini. Ma con gli anni Cinquanta le cose cambiarono di nuovo e N., ritrovata la propria vena creativa, realizzò i film più importanti della sua carriera. Del 1951 è Meshi (Il pasto), sottile analisi della crisi coniugale di una coppia, alla cui sceneggiatura collaborò anche il futuro premio Nobel Kawabata Yasunari. Il film è l'adattamento di un romanzo della scrittrice Hayashi Fumiko, dalla cui opera N. trasse altri cinque film: Inazuma (1952, Il lampo), storia del rapporto di una madre con i suoi quattro figli ‒ tre femmine e un maschio ‒ avuti ognuno da un uomo diverso; Tsuma (1953, Moglie), sul tentativo di una donna di salvare un matrimonio alla deriva; Bangiku (1954, Tardi crisantemi), che vede fra i suoi protagonisti una geisha in lotta contro l'ineluttabile trascorrere del tempo; Ukigumo (1955, Nubi fluttuanti), uno dei film più apprezzati del regista, storia dell'amore assoluto di una donna per un uomo debole ed egoista; Horoki (1962, Cronaca di una vita vagabonda), biografia per immagini della stessa Hayashi. In quegli anni N. lavorò soprattutto per la Tōhō e riuscì a dar vita a un gruppo di collaboratori ricorrenti che comprendeva gli sceneggiatori Tanaka Sumie e Mizuki Yōko, il musicista Saitō Ichirō, il direttore della fotografia Tamai Masao e gli attori Takamine Hideko e Uehara Ken. Nacquero così altri film di qualità come Okāsan (1953, Madre), Ani imōto (1953, Fratello e sorella) e Fūfu (1953, Marito e moglie), tutte scrupolose indagini di microcosmi familiari, come Yama no oto (1954, Il suono della montagna), dal celebre romanzo di Kawabata, mentre con Nagareru (1956, Fluttuare) il regista disegnò il declino della tradizionale figura delle geishe ormai divenute, nel dopoguerra, semplici prostitute. Negli anni Sessanta N. realizzò ancora un buon numero di film ma, come altri registi della sua generazione, fu coinvolto dalla crisi del mondo produttivo. Da ricordare in particolare Onna ga kaidan o agaru toki (1960, Quando una donna sale le scale) e Midaregumo (1967, Nubi sparpagliate), ancora due convincenti ritratti femminili: quello della proprietaria di un bar di Ginza, il primo; di una donna incinta il cui marito muore in un incidente stradale, il secondo, che fu anche il l'ultimo film del regista. bibliografia
J. Mellen, The waves at Genji's door: Japan through its cinema, New York 1976, pp. 270-89.
A. Bock, Japanese film directors, New York 1978, pp. 99-136.
A. Bock, Mikio Naruse: un maître du cinéma japonais, Locarno 1983.
L. Interim, Mikio Naruse. Le quatrième grand, in "Cahiers du cinéma", 1983, 344, pp. 6-11.
H. Niogret, Mikio Naruse. L'agencement des emotions, in "Positif", 1984, 275.
M. Tessier, Y. Mizuki, Mikio Naruse, in "La revue du cinéma", 1984, 391, pp. 61-70.
Mikio Naruse: un maestro del cinema giapponese, Catalogo della rassegna organizzata dall'Istituto di cultura giapponese, Roma 1984.
D. Tomasi, Meshi (Il pasto), in "Cineforum", 1991, 4, pp. 62-67.
J. Magny, A. Scala, L'éclair Naruse, in "Cahiers du cinéma", 1993, 466, pp. 47-53.
B. Eisenschitz, Au-delà d'un nuage, in "Cahiers du cinéma", 2001, 553, pp. 59-61.
M.R. Novielli, Storia del cinema giapponese, Venezia 2001, pp. 91-104, 179-81.
C. Tesson, Naruse du style et des larmes, in "Cahiers du cinéma", 2001, 553, pp. 62-64.
Il canto dei carri: Saibara
Poche volte, anche in Giappone, si incontra il termine Saibara quando si guarda superficialmente alla storia della musica giapponese e spesso viene erroneamente confuso o associato ad altri repertori vocali afferenti il composito universo del Gagaku. Eppure tale tipologia di canti sono sicuramente tra i più rappresentativi e antichi della tradizione giapponese, risalenti ad origini, secondo l'ipotesi oggi più accreditata, popolari. Il termine, per quanto non con una traduzione univoca, fa riferimento infatti ai "conducenti di carri", funzionari che in epoca Heian erano principalmente addetti alla riscossione dei tributi nelle varie regioni del paese.
Portato al suo massimo splendore da Minamoto no Masanobu (920 - 993), si ritrovano echi di tale genere ancora nel Genji Monogatari, grazie ad una tradizione continuata a corte, che inserì il Saibara nel repertorio vocale del Gagaku garantendone anche la sopravvivenza. Dei cinquantacinque canti oggi superstiti però soltanto sei fanno ancora parte di tale repertorio di cui soltanto due eseguiti ancora in maniera quasi stabile. Proprio il fatto di appartenere oggi ad un repertorio di origine non autoctona rende però difficile la possibilità di ricostruire la loro forma popolare, poiché rimasti soggetti, loro come molte altre composizioni, ad una riscrittura che adattò la musica e i testi alla nuova funzione di corte. Le musica ed il canto, oggi ricostruibili solo attraverso due "intavolature" musicali, si caratterizza per un allungamento vocalico con l'aggiunta di formule decorative che danno varietà al canto mentre l'orchestra è costituita dall'ensemble classico normalmente utilizzato nel Gagaku con l'aggiunta di quello che in occidente potrebbe essere chiamato "maestro di coro", Kutou, che da il tempo con il battito degli Shakubyoshi.
Edmondo Filippini
Takarazuka - una compagnia di sole donne
Il Takarazuka 宝塚 rappresenta uno dei fenomeni più affascinanti quanto misteriosi del panorama teatrale giapponese, definito spesso come un luogo eccentrico, perverso e ben distante dal mondo reale. La compagnia, composta esclusivamente da ragazze, venne fondata nel 1913 da Kobayashi Ichizō 小林一三 e, in un primo momento, nacque come un’organizzazione amatoriale con lo scopo di intrattenere i turisti nell’omonima località termale Takarazuka, una piccola cittadina del Kansai. Con il passare degli anni la compagnia si espanse in modo notevole diventando per molte giovani un ottimo escamotage per sfuggire, almeno temporaneamente, alla rigida etichetta di ryōsai kenbo 良妻賢母 (“essere una buona moglie e una saggia madre”), promossa dal governo nei primi anni del XX secolo. In verità il Takarazuka si colloca in una via di mezzo tra due estremi: da una parte offriva la possibilità a molte ragazze di intraprendere una carriera a sé stante e di uscire così dalla semplice routine, dall’altra, però, incarnò il rigore e la ferrea disciplina imposta dalla società giapponese.
Le takarasienne (così vengono definite le “attrici” della compagnia) si specializzano in ruoli maschili (otokoyaku 男役) o in ruoli femminili (musumeyaku 娘役), la cui rappresentazione è volutamente lontana dal potersi definire reale. Il Takarazuka, del resto, si pone come obiettivo quello di “vendere dei sogni” e di far trasportare lo spettatore verso un mondo onirico, grazie anche a una scenografia particolarmente sfarzosa, a costumi molto elaborati e a un ingegnoso gioco di luci.
La compagnia è suddivisa al suo interno in cinque troupe:
* la hana gumi 花組 (troupe dei fiori);
* la tsuki gumi 月組 (troupe della luna);
* la yuki gumi 雪組 (troupe della neve);
* la hoshi gumi 星組(troupe delle stelle);
* la sora gumi 宙組 (troupe del cielo).
e ognuna di esse, oltre a essere rappresentata da una coppia di cosiddette Top Star, ovvero le due takarasienne più rinomate e talentuose del momento, è caratterizzata da un proprio stile interpretativo. La yuki gumi, ad esempio, è solita mettere in scena drammi appartenenti alla letteratura giapponese, al contrario della tsuki gumi, che si è specializzata nella rappresentazione di musical occidentali.
Il Takarazuka propone ogni anno un vasto assortimento di spettacoli, che spazia dai grandi melodrammi a rappresentazioni giapponesi reinventate in stile occidentale, dai musical della golden age broadwayana a quelli tratti dalla letteratura o basati su eventi storici, ognuno dei quali si conclude con un’imponente parata, durante la quale tutte le attrici si esibiscono per l’ultima volta indossando costumi molto appariscenti.
Nonostante la compagnia sia stata definita per molti versi “eccentrica” e piena di riferimenti riguardanti la presunta ambiguità sessuale delle ragazze, in particolare nei confronti di quelle che ricoprono ruoli maschili, l’intento del Takarazuka non è mai stato quello di scandalizzare o di promuovere un comportamento amorale; al contrario il messaggio che si cerca di tramandare è quello di un puro intrattenimento teatrale che fa da cardine ai tre principi promossi da Kobayashi:
kiyoku, tadashiku, utsukushiku 清く、正しく、美しく, ovvero “Sii pura, sii onesta, sii bella!”.
Giulia Bianco
Estetica giapponese
Foto di Alberto Moro
Lo studio moderno di un’estetica giapponese nel senso occidentale è iniziata soltanto poco più di due secoli fa. Ma, con il termine estetica giapponese, tendiamo a significare non i presente studio moderno ma una serie di ideali antichi che includono il wabi (la bellezza passeggera e rigida), sabi (la bellezza della patina naturale e dell’invecchiamento), e yūgen (profonda grazia e sottigliezza).1) Questi ideali, e altri, sottendono molte delle norme culturali ed estetiche giapponesi su ciò che è considerato di gusto o bello. Così, mentre è vista come una filosofia nelle società occidentali, il concetto di estetica in Giappone è vista come parte integrante della vita quotidiana.2) L’estetica giapponese abbraccia ora una varietà di ideali, alcuni dei quali sono tradizionali mentre altri sono moderni e talvolta influenzati da altre culture.3)
Shinto-Buddismo
Lo shintoismo è considerato essere la sorgente della cultura giapponese.4) Con la sua enfasi sull’interessa della natura e il carattere dell’etica, e la sua celebrazione del paesaggio, stabilisce il tono dell’estetica giapponese. Ciononostante, gli ideali estetici giapponesi sono prevalentemente influenzati dal Buddismo giapponese.5) Nella tradizione buddista, tutte le cose sono considerate sia evolvere che dissolvere nel nulla. Questo “nulla” non è uno spazio vuoto. È, piuttosto, uno spazio di potenzialità.6) Se prendiamo i mari come rappresentanti del potenziale allora ogni cosa è come un’onda che deriva da esso e ritorna ad esso. Non esistono onde permanenti. Non esistono onde perfette. In nessun punto, un’onda è completa, anche al suo apice. La natura è vista come un interoo dinamico che deve essere ammirato e apprezzato. Questo apprezzamento della natura è stato fondamentale per molti ideali estetici giapponesi, “arti” e altri elementi culturali. A tale riguardo, la nazione di “arte” (o il suo equivalente concettuale) è anche abbastanza differente dalle tradizioni occidentali (vedi arte giapponese).
Wabi-sabi
Articolo principale: Wabi-sabi
Wabi e sabi si riferiscono a un attento approccio alla vita quotidiana. Nel corso del tempo i loro significati si sono sovrapposti e sono convertiti fino a unificarsi in Wabi-sabi, l’estetica definitiva la bellezza delle cose “imperfette, impermalenti e incomplete”.6) Le cose in bocciolo o le cose in decadenza sono più evocative del wabi-sabi delle cose in piena fioritura perché suggeriscono la transienza delle cose. Mentre le cose vengono e vanno, presentano segni del loro andare e venire e questi segni sono considerati belli. In questo, la bellezza è uno stato alterato della consapevolezza e può essere vista nel mondano e nel semplice. Le firme della natura possono essere così sottili che solo una mente tranquilla e un occhio coltivato le possono discernere.7) Nella filosofia Zen esistono sette principi estetici per raggiungere il Wabi-Sabi.8
Fukinsei: asimmetria, irregolarità; Kanso: semplicità; Koko: fondamentale, patinato; Shizen: senza pretese, naturale; Yugen: grazia sottilmente profonda, non ovvia; Datsuzoku: slegato dalle convenzioni, libero; Seijaku: tranquillità.
Ciascuna di queste cose si trovano in natura ma possono suggerire virtù del carattere umano e appropriatezza del comportamento. Ciò, a sua volta suggerisce che la virtù e la civiltà possono essere instillate attraverso l’apprezzamento e la pratica delle arti. Quindi, gli ideali estetici hanno una connotazione etica e pervadono molta della cultura giapponese.9)
Miyabi
Articolo principale: Miyabi
Miyabi è uno degli ideali estetici giapponesi tradizionali più antichi, anch se non prevalente come l’iki e il wabi-sabi. Nel giapponese moderno, la parola è tradizionalmente tradotta con “eleganza”, “raffinatezza” o “cortesia” e talvolta si riferisce a un “rubacuori”.
L’ideale aristocratico di Miyabi richiedeva l’eliminazione di tutto quello che era assurdo o volgare e la “limatura delle maniere, della dizione e dei sentimenti per eliminare tutta la rozzezza e crudezza così da raggiungere la massima grazia”. Esprimeva quella sensibilità alla bellezza che è la pietra miliare dell’epoca Heian. Miyabi è spesso strettamente connesso alla nozione di Mono no aware, una consapevolezza agrodolce della transienza delle cose e così si pensava che le cose in declino presentassero un gran senso di miyabi.
Shibui
Articolo principale: Shibui
Shibui (aggettivo), shibumi (nome) o shibusa (nome) sono parole giapponesi che si riferiscono a una particolare estetica o bellezza della bellezza semplice, sottile e non vistosa. Originatosi nel periodo Muromachi (1336-1392) come shibushi, il termine si riferiva in origine a un gusto amaro o astringente, come quello di un kaki non maturo. Shibui mantiene ancora questo significato letterale e rimane l’antonimo di amai, che significa “dolce”. Come altri termini estetici giapponesi, quali iki e wabi-sabi, shibui si può applicare a un’ampia varietà di soggetti, non solo all’arte o alla moda. Shibusa include le seguenti qualità essenziali: 1) gli oggetti shibui appaiono un insieme semplice ma includono sottili dettagli, quali la trama, che bilanciano la semplicità con la complessità. 2) Questo equilibrio di semplicità e complessità garantisce il fatto di non stancarsi di un oggetto shibui ma di trovare costantemente nuovi significati e una bellezza arricchita che provoca la crescita del suo valore estetico nel corso degli anni. 3) Shibusa non deve essere confuso con wabi o sabi. Benché molti oggetti wabi o sabi siano shibui, non tutti gli oggetti shibui sono wabi sabi. Gli oggetti wabi o sabi possono essere più severi e talvolta esagerare le imperfezioni intenzionali in una tale misura che possono apparire artificiali. Gli oggetti shibui non sono necessariamente imperfetti o asimmetrici, benché possano includere queste qualità. 4) Shibusa cammina su un filo teso fra concetti estetici contrastanti quali elegante e rozzo o spontaneo e controllato.
Iki
Articolo principale, Iki (ideale estetico)
Iki è un ideale estetico tradizionale in Giappone. La base dell’iki si pensa si sia formato fra la classe mercantile urbana (Chōnin) a Edo nel periodo Tokugawa. Iki è un’espressione della semplicità, sofisticatezza, spontaneità e originalità. È effimero, diretto, misurato e inconsapevole. L’iki non è esageratamente raffinato, pretenzioso, complicato. L’iki può significare un tratto personale o un fenomeno artificiale che presenta la volontà o la consapevolezza umana. L’Iki non è utilizzato per descrivere fenomeni naturali ma può essere espresso nell’apprezzamento umano della bellezza naturale o nella natura degli essei umani. L’espressione iki è utilizzata generalmente nella cultura giapponese per descrivere qualità che sono esteticamente attraenti e quando è applicata a una persona, a quello che fa o ha, costituisce un grosso complimento. L’iki non si trova in natura. Mentre analogamente a wabi-sabi in quanto disdegna la perfezione, l’iki è un termine ampio che abbraccia varie caratteristiche relative alla raffinatezza con gusto. Le manifestazioni di gusto della sensualità possono essere iki. Etimologicamente, l’iki ha una radice che significa puro e non edulcorato. Comunque, comunica anche una connotazione di un appetito nei confronti della vita.10)
Jo-ha-kyū
Jo-ha-kyū è un concetto di modulazione e movimento applicato a un’ampia varietà di arti tradizionali giapponesi. Approssimativamente tradotto con “inizio, interruzione, rapido”, inferisce un ritmo che parte lentamente, accelera e quindi finisce velocemente. Questo concetto si applica agli elementi della cerimonia del tè giapponese, al kendō, al teatro tradizionale, al Gagaku e alle forme di verso collegato collaborative tradizionali renga e renku (haikai no renga):11)
Yūgen
Lo yūgen è un importante concetto nell’estetica tradizionale giapponese. La traduzione esatta della parola dipende dal contesto. Nei testi filosofici cinesi, da cui è stato tratto il termine, lo yūgen significa “tetro”, “profondo” o “misterioso”. Nella critica della poesia waka giapponese, è stato utilizzato per descrivere la sottile profondità delle cose che sono solo vagamente suggerite dalle poesie ed è anche stato il nome di uno stile poetico (uno dei dieci stili ortodossi delineati da Fujiwara no Teika nei suoi trattati).
Lo yūgen suggerisce che al di là di quello che possa dirsi non è un’allusione a un altro mondo.12) Riguarda questo mondo, questa esperienza. Tutti questi sono portali per lo yūgen:
“Guardare il sole immergersi dietro alla collina rivestita di fiori. Camminare in un’immensa foresta senza pensiero di ritorno. Stare in piedi sulla spiaggia e osservare una barca che scompare dietro alle isole in lontananza. Contemplare il volo delle anatre selvatiche viste e perse fra le nuvole. E le sottili ombre del bambù sul bambù.” Zeami Motokiyo
Zeami è stato il creatore della forma d’arte drammatica del teatro Noh e ha scritto il libro classico sulla teoria drammatica (Kadensho). Utilizza immagini della natura come metafora costante. Ad esempio, “la neve in una coppa d’argento” rappresenta il Fiore della Tranquilllità”. Lo yūgen si dice significhi “un senso profondo e misterioso della bellezza dell’universo… e la triste bellezza dell’umana sofferenza”.13) È utilizzato per riferirsi all’interpretazione di Zeami della “raffinata eleganza” nella performance del Noh.14)
Geidō
Il geidō si riferisce alla modalità delle arti giapponesi tradizionali: il Noh (teatro), il kadō (disposizione giapponese dei fiori), lo shodō (calligrafia giapponese), il Sadō (cerimonia del tè giapponese) e lo yakimono (ceramica giapponese). Tutte queste modalità presentano una connotazione etica ed estetica e apprezzano il processo della creazione.9) Per introdurre la disciplina nel training, i guerrieri giapponesi seguivano l’esempio delle arti che sistematizzavano la pratica attraverso forme prescritte chiamate kata – pensate alla cerimonia del tè. L’allenamento nelle tecniche di combattimento incorporava le modalità delle arti (Geidō), la pratica nelle stesse arti e l’instillare i concetti estetici (ad esempio, lo yūgen) e la filosofia delle arti (geido ron). Ciò portò a tecniche di combattimento diventate conosciute come arti marziali (anche oggi, David Lowry dimostra in “La spada e il pennello: lo spirito delle arti marziali”, l’affinità delle arti marziali con le altre arti). Tutte queste arti sono una forma di tacita comunicazione e possiamo rispondere ad esse apprezzando questa tacita dimensione.
Ensō
Articolo principale: Ensō
Ensō è una parola giapponese che significa “cerchio”. Simbolizza l’Assoluto, l’illuminazione, la forza, l’eleganza, l’Universo e il vuoto; può essere preso anche a simbolo l’estetica stessa giapponese. I calligrafi buddisti Zen possono “credere che il carattere dell’artista sia pienamente esposto nel modo in cui disegna un ensō. Alcuni artisti praticheranno il disegno di un ensō quotidianamente, come una sorta di esercizio spirituale.”15)
L’estetica e le identità culturali giapponesi
A causa della sua natura, l’estetica giapponese ha una rilevanza più ampia di quella solitamente accordata all’estetica in Occidente. Nel suo illuminante libro, 16) Eiko Ikegami rivela una storia complessa di via sociale in cui gli ideali estetici diventano centrali per le identità culturali giapponesi. Lei dimostra come le reti nelle arti performanti, la cerimonia del tè e la poesia abbiano forgiato tacite pratiche culturali e come la gentilezza e la politica siano inseparabili. Sostiene che ciò che in Occidente è normalmente disperso, come l’arte e la politica, sono stati e sono nettamente integrate in Giappone..
Dopo l’introduzione delle nozioni occidentali in Giappone, gli ideali dell’estetica wabi sabi sono stati riesaminati con i valori occidentali, sia dai giapponesi che dai non giapponesi. Pertanto, le recenti interpretazioni degli ideali estetici inevitabilmente riflettono le prospettive giudeo-cristiane e la filosofia occidentale.17)
Gastronomia
Molti criteri estetici giapponesi tradizionali si manifestano, e sono discussi come parti, dei diversi elementi della cucina giapponese.18)
Kawaii
Articolo principale: Kawaii
Fenomeno moderno, dagli anni Settanta la graziosità o kawaii, (letteralmente amabile, grazioso o adorabile) è diventato un importante criterio estetico della cultura popolare giapponese, dell’intrattenimento, della moda, del cibo, dei giocattoli, dell’aspetto personale, del comportamento e del manierismo.19)
Come fenomeno culturale, la graziosità è sempre più accettata in Giappone come parte della cultura giapponese e dell’identità nazionale. Tomoyuki Sugiyama, autore di “Cool Japan” ritiene che la “graziosità” sia radicata nella cultura giapponese che ama l’armonia e Nobuyoshi Kurita, professore di sociologia alla Musashi University a Tokyo, ha dichiarato che “carino” è un “termine magico” che abbraccia tutto ciò quello che è accettabile e desiderabile in Giappone.20)
Traduzione di Mariella Minna
Iki (ideale estetico)
Iki, è un ideale estetico tradizionale in Giappone. La base dell’iki si pensa si sia formata fra i cittadini comuni (Chōnin) a Edo nel periodo Tokugawa. Iki è talvolta compreso male come se indicasse semplicemente “qualsiasi cosa di giapponese” ma è in realtà un ideale estetico specifico, distinto dalle nozioni più eteriche di trascendenza o povertà. In quanto tale, i samurai, ad esempio in quanto classe, essere tipicamente considerati privi di iki (vedi yabo). Allo stesso tempo, i singoli guerrieri sono rappresentati spesso nell’immaginazione popolare contemporanea come incarnanti gli ideali dell’iki come maniera semplice ed elegante e con una sincerità schietta e incrollabile. Il termine si diffuse nei moderni circoli intellettuali attraverso il libro La struttura dell’”iki” (1920) di Kuki Shūzō.
Interpretazione
Iki, essendo emerso dalla mondana classe dei mercanti giapponesi, può apparire in qualche modo un’espressione più contemporanea dell’estetica giapponese dei concetti quali wabi-sabi. Il termine è utilizzato comunemente nelle conversazioni e per iscritto ma non esclude necessariamente altre categorie di bellezza.
Iki è un’espressione di semplicità, sofisticatezza, spontaneità e originalità. È effimero, romantico, diretto, misurato, audace, brillante e inconsapevole.
Iki non è esageratamente raffinato, pretenzioso, complicato, vistoso, abile, civettuolo o generalmente carino. Allo stesso tempo, l’iki può esibire qualsiasi di questi tratti in maniera brillante, diretta e impassibile.
Iki può significare un tratto personale, o un fenomeno artificiale che mostra la volontà o la consapevolezza umana. L’Iki non è utilizzato per descrivere i fenomeni naturali ma può essere espresso nell’apprezzamento umano della bellezza della natura o nella natura degli esseri umani. Murakami Haruki (nato nel 1949), che scrive in uno stile chiaro e senza fronzoli – a volte sentimentale, fantastico e surreale – è descritto come un’incarnazione dell’iki. In contrasto, Kawabata Yasunari (1899-1972) scrive in una vena più poetica, con un’attenzione più vicina al “complesso” interiore dei suoi protagonisti, mentre le situazioni e le ambientazioni presentano una sorta di wabi-sabi. Ciò detto, le differenze stilistiche possono tendere a distrarci da una soggettività emotiva similare. In realtà, l’iki è fortemente legato alle tendenze stilistiche.
Iki e tsū
L’ideale indefinito del tsū si può dire riferisca a una sensibilità altamente coltivata ma non necessariamente solenne. La sensibilità Iki/tsu resiste essendo stata costruita all’interno del contesto di regole ultra specifiche sul che cosa potrebbe essere considerato volgare o gretto.
L’iki e lo tsu sono considerati sinonimi in determinate situazioni ma lo tsu si riferisce esclusivamente alle persone, mentre l’iki può riferirsi anche alle situazioni/oggetti. In entrambi gli ideali, la proprietà di raffinatezza non è accademica per natura. Lo tsu coinvolge talvolta un’eccessiva ossessione e la pedanteria culturale (ma non accademica) e in questo caso, differisce dall’iki che non sarà ossessivo. Lo tsu è utilizzato, ad esempio, per sapere come apprezzare adeguatamente (mangiare) le cucine giapponesi (sushi, tempura, soba ecc.). Lo tsu (e qualche stile iki) può essere trasferito da persona a persona sotto forma di “consigli”. Mentre lo tsu è più focalizzato sulla conoscenza, potrebbe essere considerato superficiale dal punto di vista dell’iki, dal momento che l’iki non può essere raggiunto facilmente con l’apprendimento.
Iki e Yabo
Termine principale: Yabo
Yabi è l’antonimo di iki. Busui, letteralmente “non-iki”, è sinonimo di yabo.
Iki e Sui
Nell’area del Kansai, l’ideale del sui è prevalente. Sui è rappresentato anche dall’ideogramma “..”. Il senso di sui è simile all’iki ma non identico e riflette varie differenze regionali. Anche i contesti del loro utilizzo sono diversi.
Note
1. Gallaher, John. Geisha. A unique World of Tradition. Elegance and Art. p. 8
Traduzione di Mariella Minna
Mai mai scorderai, l'attimo, la terra che tremò
Con queste parole, sulle note di una indimenticabile sigla, arriva nel 1986 in Italia una delle serie che più ha lasciato il segno nell'immaginario collettivo e nel panorama dell'animazione degli ultimi trent'anni: Ken il Guerriero, in lingua originale Hokuto no Ken, letteralmente il pugno di Hokuto.
Già in quel periodo la TV italiana aveva trasmesso serie caratterizzate da personaggi cupi e violenti, come Devilman, l'Uomo Tigre e Bem. I ragazzi italiani quindi non erano del tutto a digiuno di scene di sangue o di violenza. Ken il Guerriero però era diverso.
E colpì tutti al cuore.
In un mondo futuristico post-atomico, Kenshiro, l'uomo dalle sette stelle, l'erede della divina scuola di Hokuto, inizia il suo cammino in un mondo in preda al caos. Alla ricerca della sua amata Julia, andrà in aiuto dei più deboli per difenderli dai soprusi dei più forti, per ridare al mondo la pace e agli uomini la speranza.
La storia di Ken infatti narra in maniera estremamente delicata e profonda l'eterna lotta tra il bene e il male. Racconta di un Buono che non è solo buono ma è umano, ama e uccide, soffre e lotta perché nessuno soffra più. Un personaggio all'apparenza molto freddo e schivo che non esita a schiacciare il nemico se merita di morire, ma è pronto a sacrificare la propria vita per l'amore stesso.
I temi dell'amore, della giustizia, della pace e dell'onore, raccontati attraverso una violenza continua, il sangue e la sofferenza (altri temi molto cari ai manga giapponesi), hanno portato la serie di Ken ad acquisire la fama che ancora oggi lo accompagna. Tutte le storie dei personaggi principali della serie gravitano attorno all'amore che muove ogni cosa, l'amore che unisce un uomo e una donna, che lega due amici, o una madre al figlio. Anche i più crudeli avversari di Ken in punto di morte si pentono ed esprimono il rimpianto e la disperazione per non essere stati amati, e per avere rinunciato nella loro vita ad ogni forma d'amore.
Il messaggio di Kenshiro è un messaggio di pace, dell'importanza di amare il prossimo e, pur di proteggerlo, di non arrendersi di fronte a nulla – ad ogni costo. Il fatto che la violenza e la morte siano all'ordine del giorno nello scenario in cui si muove l'eroe è funzionale al suo percorso. Più le prove sono ardue, più il delitto è efferato, maggiormente il sacrificio di Ken assume contorni epici e quasi messianici: non a caso viene spesso chiamato il Salvatore.
Verso la metà degli anni '90, in un panorama televisivo che non era ampio come l'attuale e con la diffusione capillare di Internet ancora da venire, le forti immagini e situazioni proposte dalla serie – unite a episodi di cronaca nera in cui venne tirata in ballo la cattiva influenza di Ken sulle giovani menti – hanno spaventato reti televisive e genitori preoccupati, che reputarono la serie diseducativa e fonte di comportamenti antisociali. Sull'onda emozionale, le continue repliche sulle piccole emittenti locali venne interrotta più o meno bruscamente. Qualche anno dopo venne riproposta sulla neonata La7 ma pesantemente censurata e rimaneggiata nelle scene più cruente. Inutile dire che il successo non fu lo stesso; le nuove generazioni avevano già trovato altri eroi.
Sia quel che sia il personaggio di Ken divenne in poco tempo un'icona tra i più giovani e la sua storia, negli anni, è stata seguita e amata da più di tre generazioni. Il mondo del manga e dell'animazione deve un tributo a Buronson e Hara per aver creato un mito, non tanto per le soluzioni grafiche (comunque di rilievo) o per i dialoghi brillanti e profondi, quanto per aver creato un personaggio e una storia che parlano in maniera unica di valori universali e immortali. Un'opera che nel suo complesso rimarrà a lungo una pietra di paragone per chi ama, fa e legge fumetti.
Alessandro Castrati
Hokuto no Ken
1° edizione Manga: 1° trasmissione Anime (prima e seconda serie):
Autori: Buronson - Tetsuo Hara Studio: Toei Animation -Fuji Tv (1984 -1988)
Ed. Shueisha (1983 -1988)
Ricordiamo con l'occasione che domani, domenica 13 maggio, continua l'evento Japan Sundays organizzato presso WOW Spazio Fumetto di Milano. Rimandiamo al nostro sito per ulteriori informazioni.