Una panoramica sulla storia del Sol Levante

Sabato 25 Maggio
h. 16.00-19.00

Dalla Dea del Sole e la nascita dell'Impero a Hiroshima e Nagasaki: una panoramica sulla storia del Sol Levante

Corso a cura di Maria Paola Culeddu
Quota di partecipazione: 35€

Obiettivo del corso è offrire una visione chiara e puntuale dei momenti fondamentali della storia del Giappone, dal VI al XX secolo.

Si parlerà della preistoria mitica del Paese, della nascita della civiltà nipponica e della creazione dell’Impero, delle epoche d’oro della Corte (epoche Nara ed Heian), del sanguinoso e “zen” Medioevo dei samurai (epoche Minamoto e Ashikaga) e del periodo Pre Moderno con l’ultimo “pacifico” governo guerriero (epoca Tokugawa) per arrivare infine alla restaurazione imperiale, alla creazione del maestoso impero asiatico e alla sua triste fine.

Doozo art book & sushi
Via Palermo 51-53, Roma
Tel. 06 481 56 55
Email. info@doozo.it

Per maggiori informazioni: http://www.doozo.it/corsi/106-corso-di-storia-del-giappone.html


Sorrisi giganteschi e occhi a palla: le origini del volto manga

Chiunque si sia mai trovato a sfogliare un manga avrà sicuramente notato l’incongruenza fra i tratti delicatamente orientali, caratteristici del popolo giapponese, e la loro trasposizione antirealistica ed esagerata sulle pagine dei numerosissimi fumetti made in Japan. Questo, a volte, provoca sconcerto in Occidente, dove il “buon gusto” trova grottesche le bocche che fendono la metà del viso con sorrisi giganteschi, le palle degli occhi che escono dalle orbite o le lacrime che sgorgano come fontanelle. Ciò nonostante, quella che potrebbe apparire come un’imitazione della fisionomia occidentale, ha invece basi ben radicate nel tessuto storico-artistico del Giappone.
Il manga è infatti in debito con la cultura urbana dell’epoca Edo (1603-1868). In questo periodo le classi sociali svilupparono una propria cultura, molto lontana da quella della casta guerriera. Questo fermento culturale diede vita al teatro kabuki, alle xilografie ukiyo-e e al libro illustrato edito in grandi tirature.
L’illustrazione stampata giapponese dell’epoca in questione consiste in un disegno che racchiude delle zone di colore con un tratto molto regolare, senza ombre né una vera e propria prospettiva.
L’anatomia dei personaggi è poco realistica, i volti sono molto spesso stereotipati e privi di caratterizzazione; il loro pallido ovale è come una pagina bianca sulla quale i sentimenti sono
espressi solo dagli occhi e dalla bocca. Questa tecnica si ritrova anche nel manga, in particolare nelle serie per adolescenti, dove i visi ritenuti dalle nostre parti “non giapponesi” non cessano di lasciare interdetti genitori ed educatori. Ma bisogna comunque sottolineare questa affiliazione diretta tra le stampe giapponesi e i manga contemporanei, tanto più che gli artisti di stampe facevano ugualmente uso della tecnica del “fondale soggettivo”, che costituisce una delle specificità del manga.
Inoltre, a consolidare la base per la nascita del manga contemporaneo, giocò un ruolo fondamentale la recitazione degli attori del teatro kabuki, non più realistica dei volti delle stampe.
Gli attori non riproducevano i sentimenti ma li suggerivano con l’esagerazione utilizzando dei
codici pesantemente esasperati: rotear d’occhi, smorfie e posture teatrali prolungate. Gli artisti di stampe usavano spesso e volentieri gli stessi espedienti, proprio come fanno oggi gli autori di manga.
Queste modalità estreme di indicare i sentimenti possono provocare, presso i lettori non abituati, un certo stupore, se non un vero e proprio disprezzo; tale disagio ha di certo contribuito al fallimento dei primi tentativi di tradurre in Occidente serie come “Gen di Hiroshima” (1973) del celebre mangaka Keiji Nakazawa, recentemente scomparso.

Claudio Testori
claudio.testori@alice.it


Milano Matsuri

MILANO MATSURI
Festival di Gastronomia e Cultura Giapponese

Per la prima volta a Milano la straordinaria esperienza del Matsuri: la festa tradizionale giapponese che celebra l’armonia tra l’uomo e la natura

Si svolgerà il prossimo 26 maggio la prima edizione di Milano Matsuri l’evento pensato e promosso dall'Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi (AIRG) con la collaborazione di Organization to Promote Japanese Restaurant Abroad (JRO) per favorire, attraverso la scoperta della cucina giapponese, un continuo scambio culturale tra Italia e Giappone.

Il Matsuri è la tradizionale festa popolare giapponese che celebra l’armonia tra uomo, ambiente e folclore attraverso il cibo, il divertimento e la contemplazione della natura.

La frenetica Milano pare ospitare, tra città e provincia, almeno tremila cittadini provenienti dal Sol Levante, una piccola comunità poco visibile e molto discreta, che si concentra soprattutto nel quartiere intorno a piazza Bande Nere, zona sud ovest di Milano. Quella milanese, fra l’altro, è la più numerosa tra le comunità nipponiche in Italia, che contano in totale all’incirca ottomila persone.

La cucina tradizionale giapponese sarà la vera, grande protagonista di questa prima edizione milanese del Matsuri: non solo sushi (tanto di moda ora a Milano), ma tutti i gusti tipici dello street food giapponese cucinati dagli chef dei ristoranti Poporoya, Shiro, Osaka, Finger’s, Finger’s Garden, J’s Hiro, Higuma e Zero.

Dalle ore 12 alle ore 20 si potranno, quindi, assaporare ottime specialità salate e dolci come Takoyaki (polpettine di polpo e zenzero), Udon (la tipica zuppa di noodles), Karaage (il pollo marinato fritto), Yakitori (spiedini di pollo grigliati), Gyoza (i tradizionali ravioli di carne e verdure), Yakisoba (spaghetti giapponesi saltati con verdure), Onigiri (polpettine di riso e pesce), Wagashi (tipici dolcetti giapponesi che accompagnano la cerimonia del tè) e, naturalmente, non mancherà il Sushi.

Ma non finisce qui! Tra una degustazione e l’altra tante attività interattive per adulti e bambini porteranno a Milano la medesima atmosfera della festa popolare giapponese.
I più piccini potranno divertirsi con il kamishibai (il teatro delle immagini) o con lo yoyo tsuri (la pesca del palloncino) oppure partecipare a un minicorso di origami. Per i giovani sarà possibile incontrare la cultura giapponese assistendo a un concerto di taiko, il tipico tamburo, o a una dimostrazione di nihonga, disegno in stile giapponese.

Gli adulti, invece, potranno assistere o partecipare a cerimonie quali la vestizione del kimono, la preparazione del tè, la storia del sakè; oppure cimentarsi nella preparazione del mochi (il tradizionale dolce giapponese a base di riso) o del brodo dashi.

Completeranno il ricco programma di attività alcuni show cooking a cura degli chef dei ristoranti aderenti e dedicati al taglio di un tonno di grandi dimensioni, alla preparazione del bento (il tipico cestino per il pranzo) e alle differenze e legami fra la cucina giapponese e quella italiana, in collaborazione con lo chef Claudio Sadler.

Cos’è il Matsuri?

I Matsuri sono feste folcloristiche che durante l’anno attirano centinaia di persone nelle strade e nei parchi di tutto il Giappone per celebrare in riti collettivi il legame profondo dell’uomo con la natura, rapporto che ha radici nella religione shintoista e nel culto delle divinità kami, identificate con gli elementi naturali. Ogni festival ha un particolare significato, a volte legato al passaggio da una stagione all’altra, a volte dedicato alle celebrazioni per bambini e adulti.

Elemento tipico del Matsuri è la processione sacra che dal tempio percorre le strade in mezzo alla folla in festa con la sfilata di carri dedicati alla divinità del luogo tra danze, canti tipici e suonatori di taiko, i tipici tamburi giapponesi. Attorno alla processione, come nelle feste patronali italiane, si sviluppano varie forme di divertimento: giochi per bambini, spettacoli, dimostrazioni sportive e artistiche e bancarelle di cibo, AIRG e JRO ricreano l’atmosfera del Matsuri giapponese a Milano per offrire agli appassionati di cultura e gastronomia nipponica un’esperienza tipica. Si tratta di un evento sia per tutti, in special modo per chi ha voglia di conoscere in modo più approfondito la cultura giapponese gustando le specialità nipponiche degli voglia di conoscere in modo più approfondito la cultura giapponese gustando le specialità nipponiche degli chef presenti.

MILANO MATSURI
26 maggio 2013
Via Giovanni Keplero 2 - Milano
dalle ore 11.00 alle ore 20.00

Organizzato da

AIRG – Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi
In collaborazione con:
JRO – Organization to Promote Japanese Restaurant Abroad (www.jronet.org)
Con il patrocinio di:
Consolato Generale del Giappone

Ticket

Adulti: 10 euro
Bambini dai 6 ai 12 anni: 5 euro
Bambini fino ai 5 anni: gratis

Info e prevendita biglietti

www.milanomatsuri.eventbrite.it
www.facebook.com/ristoratorigiapponesi
www.ristoratorigiapponesi.it


Fiabe dal Giappone. C'era una volta... Momotaro

Fiabe dal Giappone. C'era una volta... Momotaro

In assoluto il personaggio popolare più famoso in Giappone, eroe per eccellenza, Momotaro è una figura nota ad ogni giapponese come per noi può esserlo quella di Cenerentola o Cappuccetto Rosso.

Nato magicamente da una pesca, sarà allevato amorevolmente da due anziani genitori e partirà per affrontare i terribili Oni, i demoni che terrorizzano con le loro incursioni gli abitanti del villaggio.

Porterà con sé i regali prepararti per l'occasione dai due vecchi: uno stendardo e dei kibidango, buonissimi gnocchetti dolci di miglio che dividerà con i compagni d'avventura che troverà sul cammino: un cane, una scimmia e un fagiano. Grazie al loro aiuto sconfiggerà i demoni impossessandosi dei loro tesori e tornerà vincitore al villaggio.

Un aspetto interessante della fiaba è che si conclude senza il classico “happy end” : Momotaro non sposa alcuna principessa con la quale vivere felici e contenti.

Il suo ritorno al villaggio “sembra quasi suggerire un ideale di banale normalità”, ma in realtà indica una precisa forma di pensiero del popolo giapponese che affonda le sue radici nel rapporto con la natura e nello shintoismo.

Come scrive magistralmente G. Pasqualotto: “...l'orizzonte di senso che fa da sfondo alla concezione del tempo propria delle grandi civiltà orientali è connotato da una forma circolare che garantisce stabilità pur permettendo innovazione […] il modello è dato dall'attività della natura che si esplica in particolari cicli di tempo che si succedono sempre secondo un ordine fisso, ma – aspetto assai importante – con modalità variabili e – cosa ancor più importante – in modi tali da permettere ai singoli eventi di essere diversi uno dall'altro.[...] Questo riferimento alla natura come modello dell'agire fu centrale […] nella civiltà giapponese, sia grazie all'influsso del Buddhismo mediato attraverso la cultura cinese, sia, soprattutto in base al condizionamento diretto dovuto alla religione autoctona shinto, che può essere considerata una vera e propria religione della natura”.

Nutrito dall'amore dei genitori, Momotaro ha nutrito a sua volta una parte di sé, ricavando la forza e le energie – simboleggiate dagli animali - per affrontare i demoni che albergano nel suo inconscio ed averne ragione. Risparmiandoli dopo averli sconfitti, suggerisce che si può convivere con la nostra parte d'ombra senza farle prendere il sopravvento, anzi sfruttandone positivamente l'energia per ricavare importanti “tesori”.

Nelle fiabe “la vittoria non è sugli altri ma soltanto su se stessi e sulla malvagità, soprattutto la propria, che è proiettata sotto forma dell'antagonista dell'eroe “.

Ovviamente la fiaba si presta a molteplici interpretazioni, e infatti ha stimolato una grande quantità di studi, con approcci diversi che di volta in volta hanno sottolineato aspetti diversi e molto interessanti, come il collegamento ad antichi riti di iniziazione. Anche le figure simboliche degli animali si prestano a più livelli di interpretazioni.

Non è superfluo ricordare che l'efficacia della fiaba, al di là delle infinite analisi a cui si presta, consiste nel rivolgersi adeguatamente al bambino, ovvero tenendo conto del suo livello di comprensione e di maturità psicologica, gettando dei semi che germoglieranno a tempo debito.

Una voce molto autorevole, Bruno Bettelheim, ha analizzato mirabilmente la figura di Momotaro nell'introduzione alla traduzione giapponese del suo famoso saggio “ Il mondo incantato”. Egli scrive: “Il significato racchiuso nella fiaba e che può essere trasmesso sia ai genitori sia ai figli ci dice in sostanza che un bambino realmente amato dai genitori, nel momento in cui affronta il mondo, può avere la fortuna di incontrare buoni amici, può essere in grado di vincere gli innumerevoli pericoli che nascono dall'interno e dall'esterno della sua coscienza e, alla fine, può condurre un'esistenza pienamente realizzata. Cosa simboleggiano dunque i tesori dei demoni ? Sono il simbolo degli infiniti tesori della vita e non devono essere letti solo in termini materiali ”.

E soprattutto ci ricorda che “ la fiaba non potrebbe esercitare il suo impatto psicologico sul bambino se non fosse in primo luogo e soprattutto un'opera d'arte”.

Pino Zema

www.kamishibai.mi.it


Anteprima "Nihontô– La spada giapponese tra genio e morte"

La Galleria Piva, che parteciperà agli eventi del & - Milano Asian Art con la mostra di spade giapponesi "Nihontô–Arte Pericolosa - La spada giapponese tra genio e morte", offre un'anteprima delle opere esposte. L'inaugurazione della mostra è prevista per martedì 14 maggio dalle ore 17.

Scuola Yoshioka Ichimonji
Katana

Fine periodo Kamakura
Mumei, circa 1320

NBTHK Juyo Token

Nagasa [lunghezza]: 66,8 cm
Sori: 1,6 cm, motohaba: 3,0 cm, sakihaba: 2,1 cm
Sugata [configurazione]: Shinogi-zukuri, iori-mune, curvatura tori-zori con chu-kissaki
Kitae [motivo della forgiatura]: Ko-itame misto a nagare hada
Hamon [linea di tempra]: Choji midare, talvolta saka-choji, misto a ko gunome, in nioi deki
Hataraki [attività]: Koashi, yô
Boshi [punta]: Notare komi con komaru.
Nakago [codolo] 18,5 cm (o-suriage, mumei, quattro mekugi-ana); kiri yasurime [limatura orizzontale]

Origami: La lama e’ accompagnata da un certificato della Societa’ per la Conservazione della Spada Artistica Giapponese (Nihon Bijutsu Token Hozon Kyokai) come “Spada importante” (25° Juyo Token), emesso il 1° novembre 1977 (Showa 52).

Sayagaki: La lama è conservata in shirasaya. Il fodero porta una iscrizione del M° Sato Kanzan “Bizen no kuni Yoshioka Ichimonji” datata “autunno 1976” (Showa 51).

La spada si presenta imponente ed elegante, con una forma aggraziata e un funbari [assottigliamento della larghezza] che ne alleggerisce la linea. Il jigane è un ko-itame misto a nagare e mostra un fortissimo choji utsuri. Lo hamon è in nioi deki, con un esuberante choji midare che talvolta piega in saka-choji e talvolta si placa per diventare un ko-gunome.

La Scuola Ichimonji di Bizen fu fondata all'inizio del periodo Kamakura per poi proseguire fino al Nambokucho ed è considerata una delle scuole più importanti della spada giapponese. Alle opere che vanno dal primo al medio periodo Kamakura ci si riferisce comunemente con il nome di Ko-Ichimonji, quando il centro della produzione di questa scuola è ubicato nell'area di Fukuoka, mentre dalla fine del periodo Kamakura all'inizio del Nambokucho la produzione si sposta a Yoshioka.

Il fondatore della scuola Yoshioka Ichiomonji fu Sukeyoshi, forse nipote di Sukemune della scuola di Fukuoka. Molti degli spadai della scuola firmarono le proprie opere con il carattere "Ichi", seguito dal proprio nome. Fra i più rappresentativi troviamo Sukemitsu, Sukeshige e Sukeyoshi.

Le lame della scuola Yoshioka Ichimonji mostrano una maestria sontuosa e sgargiante, con un sugata imponente ma non eccessivo e una curvatura leggera ed elegante. Nello hamon, la linea di nioi è più stretta rispetto a quella realizzata dai predecessori di Fukuoka e i motivi sono sempre molto appariscenti e ricchi di attività, modificandosi a mano a mano che si scorre l’occhio lungo la lama.

Giuseppe Piva Arte Giapponese

via San Damiano, 2
20122 Milano
tel +39 02 3656 4455
info@giuseppepiva.com
www.giuseppepiva.com


Intervista: "Udaka Sensei"

Fabio Massimo Fioravanti

intervista di Manuela De Leonardis

Udaka Sensei è la storia dell’incontro tra il maestro giapponese Udaka Michishige (Kyoto 1947), uno dei più grandi attori viventi del teatro Nō e il fotografo italiano Fabio Massimo Fioravanti.
Un racconto inedito che si svolge attraverso una selezione di trentasei scatti a colori realizzati nel 2012, nel passaggio tra due stagioni: primavera/estate e autunno/inverno.
La narrazione procede per piani paralleli. In primo piano sono inquadrate quindici maschere nelle categorie di: dei, guerrieri, donne, uomini, fantasmi e demoni, che con ventagli e costumi sono tra gli elementi visivi basilari del Nō, teatro antichissimo e raffinatissimo.
Queste maschere appartengono alla collezione di Udaka Michishige che, oltre a essere attore di talento riconosciuto nel suo paese come “Bene Culturale Nazionale Immateriale” (National Intangible Cultural Asset), è anche il creatore delle maschere che indossa e che insegna a realizzare seguendo le regole della tradizione (nel 2010 è uscito il suo libro The Secrets of Noh Masks, edizione Kodansha).
Fabio Massimo Fioravanti scopre il teatro Nō già in quel suo primo viaggio in Giappone - nel 1989 - quando grazie all’amico Junkyu Mutō, noto scultore giapponese residente in Italia da oltre trent’anni, e a sua moglie Miyako Tanaami che in giovane età era stata allieva della Scuola Kongo, partecipa al progetto Antichi Costumi del Teatro Nō. La collezione della famiglia Kongo. Della Scuola Kongō, che con Kanze, Hosho, Komparu e Kita è una delle cinque scuole di attori protagonisti del teatro Nō, fa parte anche Udaka Michishige che pur non essendo membro della famiglia ha appreso quest’arte fin da bambino, grazie all’insegnamento del maestro Iwao II Kongō. L’incontro con Udaka Sensei (letteralmente il maestro Udaka) avviene, tuttavia, solo nell’aprile 2012.
La riservatezza e il rispetto che trapelano dalle immagini del fotografo italiano non sfuggono al maestro che le apprezza quanto le qualità tecniche, tanto da coinvolgerlo nella realizzazione del suo prossimo libro sulle maschere. L’attore lascia entrare il fotografo nel suo studio di Kyoto per osservare i movimenti durante le prove, i cambi di costume, la ritualità con cui prende la maschera, la indossa e poi la ripone nella sua custodia. Movimenti che si ripetono anche sul palcoscenico del National Nō Theatre di Tokyo e al Nō Theatre di Matsuyama.
Ma il momento culminante, investito di una sorta di sacralità, è quello in cui sono ammessi solo gli addetti ai lavori, nella cosiddetta “stanza dello specchio”, anticamera del palcoscenico. Questo momento è documentato dal fotografo nello scatto in cui Udaka Sensei è riflesso nello specchio al centro della gestualità delle mani degli assistenti che lo circondano e accudiscono.
Essere ammesso in questo luogo, nella fase immediatamente precedente all’entrata in scena dell’attore è un dono prezioso che il maestro gli fa. Fioravanti ne è consapevole e il suo sguardo, anche in questo contesto, non tradisce la reciproca stima. Non si avvicina troppo al soggetto, non forza i tempi. Fotografare per lui è anche uno scambio a livello umano e questo respiro permea tutte le sue fotografie.

Per il progetto del Teatro Nō sei andato più volte in Giappone…

Fino ad oggi sono stato in Giappone sette volte. Nel corso del 2012 ci sono tornato due volte. La prima volta per tre mesi, dalla fine di marzo alla fine di giugno, e poi in autunno, quando finalmente il maestro Udaka Michishige mi ha dato i permessi per fotografare il backstage al National Nō Theatre di Tokyo e a Matsuyama, da metà ottobre a metà dicembre.

Ti eri già interessato al Teatro Nō nei tuoi precedenti viaggi nel Sol Levante?

Il primo contatto con questa disciplina artistica risale al 1989, quando realizzai il catalogo per la mostra Antichi Costumi del Teatro Nō. La collezione della famiglia Kongō. Fotografai Iwao II, il caposcuola della famiglia Kongō, deceduto nel 1996. Fu una seduta di una ventina di minuti al massimo nel vecchio teatro Kongō, prima che venisse spostato nell'attuale sede. Fotografai il maestro una seconda volta a Milano, qualche mese dopo - a dicembre - in occasione dell’apertura della mostra al Castello Sforzesco. Questo è stato il punto di partenza di una fascinazione che è proseguita nel tempo anche con il progetto Zuiganji. La vita dei monaci Zen che ho realizzato nel 1997.
Questa mostra è stata ospitata nel 2010 al Museo Nazionale d’Arte Orientale “Giuseppe Tucci” di Roma e al Museo d’Arte Orientale “Edoardo Chiossone” di Genova, dove è rimasta per quasi tre anni. Ho pensato di riprendere in mano questo progetto considerando che anche il teatro Nō è legato al buddismo e allo zen, per cui rientra nello stesso tipo di ricerca.

Che tipo di esperienza è stata quella con i monaci zen nel ‘97?

Ho vissuto per un mese con i monaci di Zuiganji a Matsushima. Anche in questo caso il mio contatto è stato Junkyu Mutō, un artista giapponese che vive in Italia da molti anni, di cui sono amico oltre che il suo fotografo ufficiale dal 1985. Con Junkyu ho collaborato alla mostra sui costumi del teatro Nō e a Da Sendai a Roma: un’Ambasceria Giapponese a Paolo V al Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo (1990/1991). La casualità ha voluto che la prima ambasceria giapponese partì proprio da Sendai, luogo natio del mio amico, e dopo un giro lunghissimo arrivò a Roma nel 1615. Il progetto dei monaci zen, in particolare, è nato da una frase del poeta errante Matsuo Basho che aveva scritto di non essere mai stato tanto felice come a Matsushima. Anche Marguerite Yourcenar, che è una delle mie passioni, ha scritto un saggio bellissimo pubblicato in Il giro della prigione, in cui sulle orme di Basho arriva a Matsushima. Matsushima è la baia che è di fronte alla città di Sendai, vuol dire “isola dei pini”. Nella baia ci sono circa duecentottanta isolotti su cui crescono i pini. Un giorno, mentre ero nello studio di Junkyu e fotografavo le sue opere, gli dissi che avevo letto quel saggio e mi sarebbe piaciuto andare a vedere il tempio di Zuiganji che si trova a Matsushima. Lui rispose subito che se volevo andare non ci sarebbero stati problemi, perché il monaco priore - Hirano Sojō - era un suo caro amico. Junkyu discende dalla famiglia di samurai Mutō legata ai Date, che erano i principi di quella zona e il tempio Zuiganji è legato alla famiglia Date. Attraverso Junkyu si sono aperte molte porte, perché questo tempio - differentemente da altri dove è possibile soggiornare e dormire - non è aperto né ai visitatori né ai pellegrini.

Facendo un passo indietro alla prima volta che sei andato in Giappone, nel 1989, cosa ti ha colpito di questo paese?

In quel primo viaggio in cui sono rimasto per un mese, dato che ero lì con Junkyu Mutō e altri collaboratori per l’organizzazione della mostra Antichi Costumi del Teatro Nō. La collezione della famiglia Kongō i primi quindici giorni trascorsero ai ritmi frenetici e organizzatissimi dei giapponesi, tra incontri, presentazioni e cene ufficiali. Non ho problemi a riconoscere che volevo scappare via di corsa. Poi, invece, ho capito che dovevo iniziare a girare per conto mio, come faccio di solito quando viaggio. A quel punto non sarei più voluto tornare in Italia. Ricordo ancora che, appena arrivati dall’aeroporto a casa di Junkyu la nonna ultranovantenne - una nobildonna nella sua casa tradizionale - si gettò a terra, prostrandosi, per darci il benvenuto. Rimasi letteralmente scioccato! Dopo tanti viaggi sono sempre più convinto che i giapponesi siano solo apparentemente occidentalizzati: per certi aspetti il Giappone è il futuro dell’occidente, ma nel profondo la tradizione è ancora fortissima in tutti gli aspetti.

Torniamo al Teatro Nō e ad uno dei suoi massimi protagonisti contemporanei: Udaka Michishige. Quando hai conosciuto il maestro?

Nell’agosto 2011 ho iniziato a pensare al progetto sul Teatro Nō, che al momento è un work in progress perché tornerò in Giappone anche quest’anno. La principale difficoltà è stata quella di trovare i contatti che mi permettessero di essere introdotto. Uno dei contatti, qui in Italia, era Matteo Casari che insegna al DAMS di Bologna, l’altro è Monique Arnaud, che oltre essere docente di regia teatrale all'Università IUAV di Venezia è anche uno shite (attore protagonista) di Nō, ed è l'unica shihan (istruttore autorizzato) ad insegnare stabilmente il Nō in Europa. Monique mi ha fatto il nome dell’INI – International Noh Institute, di cui è direttrice della sede europea - quella principale è a Kyoto - e mi ha parlato di Rebecca Teele Ogamo, il primo straniero ad essere ammesso nell’associazione di attori Nō professionisti. Lei è americana ma vive in Giappone da oltre quarant’anni. Dopo uno scambio intenso di mail, Rebecca è riuscita a fissarmi l’appuntamento nello studio di Udaka Michishige a Kyoto, nella zona nord della città. La prima volta ci siamo incontrati il 5 aprile 2012.

In quel primo incontro, però, non hai scattato neanche una fotografia!

No, perché non mi sembrava neanche educato. Prima era necessaria una conoscenza reciproca. Udaka Michishige ha almeno tre studi, a Tokyo e a Matsuyama, oltre che quello di Kyoto e ruota tra queste città dove recita e segue i suoi allievi, ma vivendo a Kyoto vi trascorre anche più tempo che nelle altre città. Dato che anche io abitavo a Kyoto, in una piccola casa che avevo affittato, lo vedevo ogni settimana. In questo suo studio fa anche lezione di danza e di realizzazione delle maschere. Comunque, per tornare alla domanda, ho iniziato a fotografarlo solo dopo una settimana, durante le prove dello spettacolo Tomonaga.

Fin dal primo approccio hai riscontrato l’apertura del maestro nei tuoi confronti.
Non solo ti ha permesso di fotografarlo, ma ne è nata anche una collaborazione.

Sicuramente il fatto che sia uno dei pochi maestri che parla l’inglese ha reso più facile il nostro incontro. Inoltre Udaka Michishige fa anche tournée all’estero (ha fatto una splendida tournée a Parigi, Dresda e Berlino nel 2007 e in Canada lo scorso anno), e non solo accetta allievi stranieri, ma si è dimostrato in grado di crescere tra loro figure di grande professionalità. Anche in questo c’è una maggiore apertura rispetto agli altri maestri che, benché siano grandissimi, hanno comunque una visione più ristretta. Non solo lui mi ha permesso di fotografarlo ma, in maniera diretta o indiretta, quasi tutti i permessi per fotografare, anche a Miwa, Nara o in altri luoghi, li ho avuti attraverso di lui e la sua collaboratrice Rebecca Teele Ogamo. In particolare ci tenevo a fotografare i backstage, perché mi ero reso conto che gli spettacoli a teatro rischiavano di essere fotograficamente tutti uguali perché anche avendo i permessi nei teatri di Nō obbligano i fotografi a stare in una unica postazione fissa in fondo al teatro. Ma per questo non mi ha permesso subito di scattare foto. Penso che volesse vedere quanto ci tenevo. Il permesso è arrivato a luglio, mentre ero già tornato in Italia. Così quando sono tornato in Giappone, a metà ottobre, ho finalmente potuto fotografare i backstage di due suoi spettacoli. Toru al National Noh Theatre di Tokyo e Sesshoseki al Nō Theatre di Matsuyama. Solo dopo aver visto una certa passione da parte mia e la costanza con cui continuavo ad andare agli spettacoli e a fotografare, mi ha chiesto se gli fotografavo le maschere per il suo nuovo libro.

Malgrado non abbia voluto che lo fotografassi troppo da vicino, Udaka Sensei ti ha
permesso di scattare delle fotografie molto private, come quelle nello studio in cui si
vedono i suoi appunti di entrata in scena, le maschere o quando è nella “stanza dello
specchio” prima dell’inizio dello spettacolo…

Sostanzialmente il Nō ha degli aspetti rituali, per cui non è possibile entrare in certi luoghi perché si verrebbe a rompere quella ritualità. I giapponesi sono molto conservativi delle tradizioni: credo che solo una persona come lui, così di ampie vedute e all’apice della carriera, si sia potuta permettere questa “trasgressione”. Quando eravamo a Tokyo, poi, anche se gli spazi erano grandi c’erano sempre molti assistenti - chi cura le maschere, chi i vestiti, il coro e i musicisti - insomma non volendo creare problemi ho fatto chiedere da Monique Arnaud al maestro dove voleva che mi mettessi e cosa avrei potuto fotografare. Lui disse che ero libero di fotografare quello volevo. Devo dire che questa sua affermazione mi ha fato particolarmente piacere. La “stanza dello specchio”, in particolare, è già sul palco. Il pubblico non vede nulla, ma solo la tenda con i cinque colori simbolici separa il palco da quell’ambiente. Era lì, in questo luogo “proibito”, che volevo fotografare. Ma sono stato attento a non disturbare troppo, per cui ho evitato di fare troppi cambi d’obiettivo, preferendo un’ottica fissa e avvicinandomi all’attore con discrezione. Percepivo quel fortissimo rituale e sentivo che bisognava avere rispetto per il momento.

Quando hai fotografato il maestro nel suo studio rimanevi ore ed ore, fino a tarda
sera, quando magari avevi finito di fotografare, chiudendo la giornata con una tazza
di tè insieme a lui…

Sì, penso che sia importante non solo rispettare i reciproci tempi, per me fotografare è anche uno scambio a livello umano.
Maschere, ventagli e vestiti sono tra gli elementi più importanti del Teatro Nō… Diciamo che sono gli elementi più importanti tra quelli che si possono fotografare, perché poi ci sono la musica e il canto, ma questi è impossibile fotografarli! Udaka Michishige è forse l’unico attore che, in questo momento, realizza anche maschere. L’ho fotografato anche mentre insegna questa tecnica. L’espressione è fondamentale nella maschera. La maschera viene realizzata in modo tale che è apparentemente neutra, ma con l’incidenza della luce muta espressività e per l’attore è determinante il controllo dell’incidenza della luce sulla maschera.

Alla fine delle prove o dello spettacolo le maschere vengono conservate nel rispettivo
involucro di tessuto: nei tuoi scatti l’attore è più volte ripreso nell’atto di prendere
la maschera, riporla, metterle i lacci. Sembra di assistere ad un dialogo privato…

Quegli involucri di tessuti preziosi vengono a loro volta conservati nelle valigette. Ne ho fotografate una trentina di quelle tradizionali costruite da lui. Udaka Michishige è anche autore di testi teatrali di Nō moderno, ad esempio ne ha scritto uno sul dramma di Hiroshima e per l’occasione ha prodotto delle maschere apposite. Quanto alla tua considerazione, ho colto un aspetto rituale anche nel rispettoso saluto che l’attore fa alla maschera, avvicinandola al suo volto, ogni volta che la toglie dalla custodia di tessuto e quando ve la ripone.

Non hai mai pensato di fare un’intervista al maestro?

Malgrado abbia parlato molte volte con lui, non ho mai pensato di sistematizzare questi nostri colloqui. Una volta gli dissi che volevo fotografare un certo spettacolo, ma lui commentò che non ne valeva la pena, perché l’attore che recitava non era all’altezza.
Allora gli chiesi quando, secondo lui, un attore si può considerare bravo. Lui mi rispose con una citazione di Zeami che parla del fiore. “L’attore è grande quando raggiunge il fiore”, disse.

Visto che è stato citato il nome di Zeami Motokiyo, definito “lo Shakespeare giapponese”, quale è, secondo te, la sua grandezza?

Zeami è colui che ha sistematizzato il Teatro Nō che è una forma di spettacolo frutto di una lunga e complessa evoluzione, che ha tra i suoi precursori il bugaku (danza), il gagaku (musica di accompagnamento), i kagura (danze religiose), il dengaku (danze agresti), i sangaku (una specie di spettacoli di acrobati e giocolieri). Alla fine del 1300 (1374) lo shogun Yoshimitsu assiste ad uno spettacolo di sarugaku (primo nome del No) a Imagumano. In quell'occasione la danza rituale Okina fu eseguita da Kanaami, il padre di Zeami Motokiyo. Il giovane principe fu entusiasta della recitazione dell'attore e lo fece subito chiamare alla sua Corte insieme con il talentuoso figlio. E' così un teatro quasi di strada, fatto di canti, danze e musica, che spesso veniva messo in scena nelle fiere di paese e lungo i fiumi, è diventato il teatro ufficiale della corte shogunale e delle classi nobili, ed ecco che sono comparsi i vestiti sontuosi e le maschere. E' stato quindi proprio Zeami Motokiyo, detto lo Shakespeare giapponese, a dare al Nō la sua forma attuale scrivendo anche un centinaio di opere.

La scenografia è sempre molto essenziale nel Teatro Nō. A dare colore sono proprio
gli abiti e gli accessori…

In realtà la scenografia non c’è affatto. Ogni teatro ha l'hashigakari, una specie di ponte o passerella, da cui entrano l’attore protagonista, lo shite, e l'attore co-protagonista, il waki: lungo questa passerella ci sono sempre tre pini che spesso sono veri, piantati in giarre, che simboleggiano il pino sacro. L’unico elemento scenografico vero e proprio, sul fondo del palco, è un pino dipinto, anche questo a simboleggiare il pino sacro di Kasuga-Taisha, il santuario scintoista di Nara che è tra i più importanti del Giappone.

In altri progetti fotografici hai usato il bianco e nero, perché per raccontare Udaka
Sensei e il Teatro Nō hai scelto il colore?

Perché quello che colpisce molto di questo teatro è proprio l’aspetto cromatico.
Istintivamente penso che questo lavoro funzioni solo a colori, perché il colore è determinante nel descrivere i dettagli degli abiti che diventano espressivi. L’attore protagonista, lo shite, a parte la bravura attoriale che deve avere nei movimenti, nella danza e nel canto, nonché nei kata, ovvero nel mettere insieme i vari movimenti e nel coordinarli, in realtà esprime la sua arte anche nella scelta delle maschere, dei vestiti, dei sottabiti, delle cinte, dei ventagli… e tutto questo lo fa abbinando i colori.

Roma, 22 aprile 2013


Toilet cleaning management di Hidesaburō Kagiyama

TOILET CLEANING MANAGEMENT
Una dirompente strategia manageriale
di Hidesaburō Kagiyama
Guerini e Associati

In libreria dal 2 maggio

Titolo originale: Ichinichi Ichiwa Ningen no migakikata – Sōji no tetsugaku – Jinsei no kokoroe
一日一話 人間の磨き方・掃除の哲学・人生の心得

Da umile venditore ambulante a presidente di un’azienda di successo.
È la storia di Hidesaburō Kagiyama.

Dopo un’infanzia dura e in assoluta povertà Hidesaburō Kagiyama lascia la famiglia e si trasferisce a Tokyo. Nel 1963 inizia la sua faticosa e solitaria avventura come venditore ambulante. Da allora sono trascorsi 50 anni, più e più volte si è trovato sull’orlo del fallimento e non si possono contare le volte in cui è stato deriso, ignorato, preso in giro e si è sentito un miserabile.
Nonostante ciò, Kagiyama non ha mai perso la speranza nella vita. A chi volesse avere la ricetta del successo, risponde con semplicità: “Penso che lo debba al fatto che ho continuato, con perseveranza e coerenza, la pulizia dei bagni.”.

Kagiyama, classe 1933, oggi presidente della Yellow Hat, una multinazionale di successo, è un uomo schivo e modesto. Nella prefazione al “Toilet cleaning management”, edito per la prima volta in Italia da Guerini e Associati, afferma con estremo candore “Personalmente non ho alcuna competenza superiore a quelle degli altri. Non ho neanche un’abilità speciale negli affari, né una particolare scaltrezza. A essere franco, anche nelle relazioni, mi trovo a disagio e non ritengo di avere alcuna forma di leadership. Non trovo nessun’altra ragione, perché una persona mediocre come me sia riuscita a continuare le attività di business fino ad oggi, al di fuori del fatto che attraverso la pulizia dei bagni ho perseverato, in un modo quasi impossibile a tutti, nel compiere ciò che chiunque può fare”.

Il management by cleaning, nella sua disarmante schiettezza, in Giappone, è ormai assunto come teoria manageriale, ma prima di ogni cosa è un’autentica filosofia di vita: non trascurare mai “ciò che è facile” o “ciò che è semplice”, nello sforzo continuo di recuperare e raccogliere le cose che gli altri gettano via, non è nient’altro che un modo di guardare alla vita e di scoprirne il valore.
Fin dagli albori la sua azienda è stata gestita mediante un management di tipo partecipativo basato sulla pulizia. Il suo movimento della pulizia, negli ultimi anni, si è esteso ad altre imprese, rivelandosi efficace soprattutto nei momenti di crisi. Ma non solo. Kagiyama è altresì l’ispiratore e il sensei della «Associazione per rendere bello il Giappone» che opera per creare un contesto sociale più piacevole e coeso.

“Toilet cleaning management”, nelle forme caratteristiche della letteratura e della cultura giapponese, giorno per giorno, mese per mese, per un intero anno, presenta una riflessione, concisa ed efficace, capace di riassumere un concetto fondativo, spesso ignorato, che potrebbe costituire la chiave di volta per sconfiggere la crisi: “gli occhi possono lasciarsi prendere dal panico ma nelle mani c’è coraggio”.

L’editore è lieto di comunicare che l’autore di Toilet cleaning management sarà presto in Italia.
Il 21 maggio alle ore 18.00, Hidesaburō Kagiyama presenterà il libro presso la Solving Efeso, in via Vincenzo Monti 47, a Milano. Interverranno Rosario Manisera, curatore e traduttore del volume, e Yoshihito Tanaka, presidente Tokai Shinei Electronics. Introdurrà Virginio Peluzzi.


Hokusai Manga: "schizzi casuali" per aspiranti pittori

Uno dei nomi simbolo dell’arte ukiyo-e, Katsushika Hokusai (1760 – 1849), è celebre al pubblico internazionale per la stampa intitolata Kanagawa-oki namiura (Sotto l’onda vicino a Kanagawa), più nota come “La grande onda”. Ma questo artista è altresì famoso per aver coniato il termine Manga, traducibile come “schizzi casuali”, con un’accezione che si allontana da quella contemporanea di fumetto giapponese.
Gli Hokusai manga nascono come manuali di pittura indirizzati a soddisfare le velleità artistiche di una cerchia molto ampia di aspiranti pittori e compratori casuali. Raccolti in quindici volumi composti da circa quattromila tavole differenti, essi rappresentano un’enciclopedia eterogenea e panoramica della vita, della storia, delle leggende e della civiltà materiale dell’Estremo Oriente attraverso ritratti, scene corali, immagini religiose e mitologiche, paesaggi, disegni tecnici e da manuale di pittura, alberi, animali e moltissime caricature.
Risulta vano cercare un senso globale dei Manga: essi sono veramente “schizzi casuali” e l’unità che possiedono deriva unicamente dal loro artefice, il quale pone l’enfasi sull’umanità comune mostrata in atteggiamenti insoliti e filtrata attraverso una sua personale, affettuosa e allo stesso tempo distaccata visione dell’Universo.
Nella prefazione a uno dei suoi volumi Hokusai scrive: “Io mi accorgo che i miei animali, i miei insetti, i miei personaggi vogliono fuggire dalle pagine. […] Fortunatamente l’incisore Ko Izumi […] si è assunto il compito di recidere le vene e i nervi degli esseri che ho disegnato e ha potuto togliere ad essi la libertà di fuggire”.
Questo è il dato essenziale del suo stile: ogni elemento nel disegno deve essere vivo.
Grazie ai suoi libri illustrati, lo spirito della pittura dell’Estremo Oriente diviene così per la prima volta accessibile anche agli strati più umili della società giapponese.

Claudio Testori
claudio.testori@alice.it


Netsuke: Pera con vespa

Pera con vespa
Sangetsu
XIX secolo

Netsuke in legno; occhi intarsiati in corno nero
Firmato entro riserva irregolare: Sangetsu
Altezza: 5 cm

Bibliografia:
R. Bandini, Expressions of Style: Netsuke as Art, New York, 2001, nr. 190

Ottimo esemplare di netsuke raffigurante una vespa che si ciba della polpa di una pera marcita. La pelle del frutto è lavorata in ukibori per renderne la ruvidità.
Sangetsu è il più famoso tra il gruppo dei cinque cosiddetti "wasp carvers" e questo esemplare spicca sugli altri conosciuti per le grandi dimensioni (in genere l'altezza si assesta sui 4,4 cm) e soprattutto per la resa degli himotoshi: se difatti in genere Sangetsu si limita ad utilizzare gli usuali due fori tondi, in questo caso ha  proseguito con il tema della "pera marcia" intagliando in maniera naturalistica il frutto sul retro fino a creare il passaggio per la corda del sagemono.

La tecnica ukibori consiste nel lasciare il decoro in rilievo rimuovendo il materiale attorno ad esso. In questo caso probabilmente la metodologia utilizzata è più complessa: dopo aver schiacciato con un punteruolo la superficie della pera, si è abrasa tutta la superficie allo stesso livello: rianimando successivaente le fibre schiacciate, bagnandole con dell'acqua, queste diventano quindi in rilievo.

Quest'opera e molte altre presso http://www.giuseppepiva.com/index.php/home


J + I - 6 Intervista con Kaori Shiina

J + I - 6 Designers Giapponesi + grandi Artigiani Italiani

In occasione del Fuori Salone 2013, si svolgerà un nuovo evento all'insegna del design orientale in uno dei luoghi più rappresentativi della comunità cinese in Italia. Dal 9 al 14 Aprile, infatti, si terrà il Sarpi Bridge, presso il quale giovani artisti di Cina, Giappone e Corea esporranno le proprie creazioni; un vero e proprio crocevia di personalità che proporrà al pubblico, milanese e non solo, una vasta scelta di opere.

Fra le iniziative cui hanno collaborato personalità dell'arte giapponese, ad esempio la mostra Portrait e l'installazione Insectida, spicca "J + I - 6 Designers Giapponesi + grandi Artigiani Italiani", in cui sono esposte le opere nate dalla collaborazione di Sakura Adachi, Tomoko Azumi, Kazuyo Komoda, Kuniko Maeda, Kaori Shiina e Shinobu Ito e i grandi nomi dell'artigianato italiano. Sei designer di fama internazionale, ma soprattutto sei donne talentuose che hanno messo a confronto la propria creatività con tecniche e materiali lontanissimi dalla propria tradizione.

Per comprendere meglio l'iniziativa, abbiamo chiesto a Kaori Shina, una delle organizzatrici del Sarpi Bridge nonchè autrice di alcune delle opere in esposizione, di parlarci della sua esperienza.

Come guardare la collezione? Con una visione aperta e personale, ha risposto. Collaborare con degli artigiani italiani è stata un'esperienza unica, in cui si è allontanata dal suo background di designer aziendale. Se nel quotidiano la sua creatività è limitata dai vincoli di produzione, entrare di persona nella tradizione manifatturiera italiana le ha offerto la possibilità di realizzare opere uniche, in cui traspaiono gli ideali di semplicità e onestà che caratterizzano il suo lavoro.

Fra le conseguenze della collaborazione con gli artigiani ci sono i costi elevati: le opere hanno prezzi che risultano quindi necessariamente più alti di una normale produzione di serie. Dall'esterno era quasi impossibile valutare la difficoltà nella lavorazione di materiali come il vetro di Murano, sottolinea la signora Shiina. Tuttavia questa nuova esperienza ha aperto un nuovo percorso di pensiero e nuove possibilità per il futuro.

Designer, straniera, donna. Tre caratteristiche che indicano implicitamente un percorso difficile, un percorso che ha formato dei caratteri determinati e decisi. Non è facile emergere in questo settore, confessa. Ma la sfida di trovare una mediazione fra dei punti di vista così forti è stata superata e alla fine ha prevalso il fine comune. Ognuna ha creato con il proprio stile personale un oggetto gentile e onesto, che deriva dalla capacità di mettere da parte l'autocelebrazione, e aprirsi ad una discussione alla pari.

Non resta che invitarvi al Sarpi Bridge e ammirare di persona il frutto di questa collaborazione straordinaria.