Paravento di Kanō Einō

Paesaggio primaverile con fagiani - Paravento a sei ante
di Kanō Einō (1631-1697)

Inchiostro, pigmenti e gofun su fondo oro,105x280 cm
Firma: ”Kyoō Sanjin hitsu” (居翁散人筆); con sigillo dell'artista

Mostre/Bibliografia:
Kanō-ha no sekai (“Il mondo della scuola Kano”), Shizuoka Prefectural Museum of Art: 1999, cat. 12

Il paravento raffigura un lussureggiante paesaggio naturale con una ricca varietà di uccelli e fiori che spiccano tra rocce e nuvole dorate: giunchi, peonie, bambù ed un pruno rosso in fiore che funge da cornice ad un elegante e colorato fagiano maschio, rappresentato al centro della composizione. Lì vicino, la femmina accudisce i propri piccoli, mentre una coppia di gru si nasconde nel canneto.

Il pruno in fiore suggerisce che la scena è ambientata nei primi giorni di primavera; questi alberi sono talvolta raffigurati anche in paesaggi invernali ma, in questo caso, la presenza delle rondini, dei passerotti e di altri uccelli, è un chiaro segno che la stagione fredda si è ormai conclusa.

Il dipinto è firmato nell’angolo in basso a destra "Kyoō Sanjin hitsu” (“Dipinto da Kyoō Sanjin”) con due sigilli rossi. “Kyoō” è una delle firme usate da Kanō Einō mentre “Sanjin” si riferisce a suo padre Sansetsu, che spesso firmava con questo nome, anche se con diversi kanji.

La composizione ricorda un’opera dello stesso artista, conservata al Tōkyō Suntory Museum of Art. I paesaggi con fagiani, sono tipici della scuola Kanō. Questo soggetto è stato rappresentato anche da Kanō Shōei (1519-1592) e da suo padre Motonobu (1476-1559).
Kanō Einō, oltre ad essere famoso per i suoi dipinti di paesaggi e kachōga (fiori e uccelli), è anche celebre per essere l’autore di Honchō Gashi, una dei manuali di storia della pittura più importanti in Giappone. Einō succedette a suo padre diventando così, per la terza generazione, maestro dello studio artistico Kyō-Kanō. La Kanō-ha è stata una delle più importanti scuole di pittura nella storia del Giappone e i membri della famiglia Kano hanno servito i più prestigiosi membri della classe militare per oltre quattro secoli. Il ramo di Kyōto della scuola Kanō è stato fondato da Sanraku, che rimase a Kyōto quando la maggior parte dei pittori si spostò a Edo. In seguito, diede in sposa sua figlia a Sansetsu, che divenne quindi capo del suo laboratorio.

Questo pezzo e molto altro presso:

Giuseppe Piva Arte Giapponese
Via San Damiano, 2 – Milano
http://www.giuseppepiva.com/


Mottainai!

Mottainai è un termine giapponese di origine buddhista che indica rammarico per uno spreco. E' un concetto fortemente sentito dalla cultura giapponese, che si declina in molti ambiti: dalla preferenza per l'utilizzo di stoffe al posto della carta per impacchettare i doni, alla regola di buona educazione che richiede di mangiare tutto il cibo presente nel piatto, fino all'ultimo chicco di riso.

Le radici culturali del concetto si possono trovare nella geografia giapponese. Il Sol Levante infatti è un'isola densamente popolata e proprio per questo motivo su lungo periodo potrebbe correre il rischio dell'esaurimento delle risorse. Si può dunque ipotizzare che questo pilastro di buonsenso sociale sia nato da un'esigenza tutt'altro che spirituale, per la salvaguardia dell'ambiente comune.

Se originariamente il termine era utilizzato per mostrare gratitudine mista a imbarazzo per un dono ritenuto troppo grande, è proprio l'accezione più recente che è stata diffusa a livello internazionale da Wangari Maathai, vincitrice del Nobel per la Pace: infatti l'attivista ne ha tratto uno slogan che sintetizzi le 4 R, ridurre, riutilizzare, riciclare e riparare.

Nel 2004 in Giappone Mariko Shinju ha pubblicato il libro "Mottainai Baasan" (foto), un libro per bambini la cui protagonista, la nonna, interviene ogni volta che uno dei nipoti spreca del cibo. Le immagini insegnano con ironia anche ai più giovani l'importanza di ciò che la natura offre e il rispetto che ad esso va dedicato.

In questa accezione, l'esclamazione giapponese è stata ripresa per lanciare una campagna mondiale contro gli sprechi. La mostra "Mottainai" in esposizione fino al 3 maggio presso il Museo Fondazione Matalon di Milano si inserisce all'interno di questo contesto, ed esplora le potenzialità artistiche del materiale di recupero Greenbiz®.


Vita e morte nel cinema di Kitano Takeshi

Una nuova visione della vita e della morte nel cinema di Kitano Takeshi: Kids Return e Hana-bi

Nell’agosto del 1994 Kitano resta vittima di un gravissimo incidente motociclistico, da lui stesso definito come un “involontario tentativo di suicidio”. L’incidente è uno shock per il mondo dello spettacolo e soprattutto la stampa straniera suppone che Kitano non potrà più tornare a lavorare. Dopo una lunga riabilitazione, durante la quale ha cominciato a dipingere, Beat Takeshi torna però nel 1996 con il suo sesto film Kids Return.

I protagonisti, Masaru e Shinji, sono due studenti che passano il tempo a disturbare le lezioni e a fare scherzi a compagni e professori. Cercando di dare un senso alla loro vita scelgono strade diverse: Masaru entra a far parte della yakuza locale e Shinji si dedica alla boxe. Entrambi i tentativi falliscono, ma nel film è possibile notare come, dopo l’incidente, l’atteggiamento del regista nei confronti della morte sia cambiato. I film precedenti erano, infatti, caratterizzati dal tema del “come morire nel modo giusto” e la morte per i protagonisti rappresentava una risposta. Alla fine di Kids Return, invece, entrambi i protagonisti, anche se non hanno trovato una risposta alla domanda “come vivere”, per la prima volta nella filmografia di Kitano, sono ancora vivi e si sforzano di andare avanti, non si arrendono. La vita assume quindi un nuovo valore e la morte è vista come uno dei tanti momenti dell’esistenza, anziché come il suo solo scopo.

Il successo di Kids Return sarà superato nel 1997 da Hana-bi con cui Kitano torna allo stile e ai contenuti delle sue prime opere: Hana-bi è, infatti, un poliziesco il cui protagonista, Nishi, è interpretato dallo stesso regista. Diviso tra l’impegno sul lavoro e il dovere verso la moglie malata terminale, decide di lasciare la polizia in seguito ad un grave incidente di cui è vittima il suo collega Horibe: affrontando da solo un’operazione di polizia, per permettere a Nishi di visitare la moglie in ospedale, rimane gravemente ferito. Nishi, spinto dal senso di colpa, intraprende quindi una violenta ricerca di giustizia e redenzione.

I personaggi, a differenza di quelli degli altri film, si pongono domande sul significato della vita e della morte e sulle conseguenze a cui portano le loro azioni violente. Nishi è diverso dai protagonisti di Violent Cop o Sonatine in quanto, anziché trovare una via di fuga nella morte, cerca di fronteggiarla sfidandola direttamente. Sebbene alla fine scelga comunque di porre fine alla sua vita e a quella della moglie, la loro morte non è che una realtà della vita, rappresentata dalla bambina che per caso assiste al loro suicidio, attraverso cui compiono un passo avanti verso un’altra vita. La morte è quindi vista come una trasformazione, un passaggio.

Il collega Horibe sceglie, invece, di percorrere una strada diversa continuando a vivere. Dopo essere rimasto paralizzato e aver perso il lavoro, Horibe perde anche la sua famiglia, ma, grazie al disegno e alla pittura, che lo aiuteranno a vedere il mondo da un’altra prospettiva, riuscirà a riconciliarsi con la vita.

Per questo differente approccio verso la vita e la morte si può parlare di una simmetria tra i due personaggi che, per certi versi, possono essere visti anche come due aspetti di una stessa personalità. Nishi e Horibe, infatti, vengono spesso interpretati come rappresentazioni di Kitano prima e dopo l’incidente. Il primo, visto come un elemento di troppo in un mondo dove non può più vivere, decide di percorrere la strada verso la morte. Il secondo, invece, dopo essersi confrontato direttamente con la morte, sceglie di accettare la vita e, secondo quanto detto dal regista stesso, di morire lentamente, come se in realtà avesse scelto un lento suicidio.

Maddalena Pologna
maddpol@gmail.com


Hanami

Hanami, ammirare i fiori. Si tratta di una tradizione ben radicata nella cultura giapponese: alcune fonti fanno risalire l'usanza addirittura al periodo Nara, dove era appannaggio di un'elite, per poi radicarsi anche fra la popolazione nel periodo Edo. Un tempo infatti l'hanami aveva una funzione sacrale: si utilizzava la fioritura dei ciliegi per predire se la stagione del raccolto sarebbe stata propizia o meno e, proprio per questo, si lasciavano piccole offerte accanto alle radici delle piante.

Quali possono essere i fiori per eccellenza del Giappone se non i sakura? Le fioriture dei ciliegi sono uno spettacolo che attira tutte le famiglie giapponesi nei parchi, secondo un calendario determinato dalle sakura zensen (lett. fronte di fioritura dei ciliegi), delle vere e proprie previsioni offerte dai centri meteorologici che permettono alle famiglie di organizzare le proprie gite fuori porta nell'arco dei dieci giorni di maggior splendore questi delicatissimo fiore. Accanto ai sakura, si possono ammirare anche i fiori di ume (umemi), un tipo particolare di prunus; di solito questi attirano meno persone e dunque sono preferiti dagli anziani che vogliono evitare le resse festose dell'hanami.

Le date migliori per l'hanami variano a seconda della zona del Giappone: si parte a Gennaio in Okinawa per arrivare in Hokkaido a Maggio. Proprio per la sua collocazione temporale, che coincide con il nuovo anno accademico e finanziario, questa tradizione primaverile rappresenta rinnovamento e un nuovo inizio, basandosi su un fiore che, a causa del suo brevissimo splendore, simboleggia la bellezza effimera della vita. Da qui, il concetto di wabi-sabi, che unisce ammirazione e malinconia, imperfezione e serenità, in un sentimento intraducibile.

In queste occasioni i giapponesi si ritrovano all'ombra dei ciliegi per ammirare i fiori e festeggiare in compagnia, sia di giorno che durante le serate apposite, a lume di lanterna. I parchi si riempono di tovaglie per il picnic, attorno alle quali gruppi di persone si ritrovano per mangiare, cantare, danzare e bere in compagnia.

I migliori parchi dove osservare i fiori a Tokyo sono lo Shinjuku Gyoen, il parco più grande della città, lo Ueno Koen con i suoi 1000 alberi di ciliegio, Chidorigafuchi e Sumida. Ci sono altre mete preferenziali che attirano gli appassionati dei sakura da tutto il Giappone, quali il Philosopher's Path in Kyoto e il parco Kema Sakuranomiya di Osaka; da non sottovalutare il Maruyama-kōen in Kyoto, con il suo maestoso albero di ciliegio, i cui rami si piegano verso terra. Tappa obbligatoria è lo spettacolo unico offerto dal Yoshinoyama nella prefettura di Nara: i fiori ammantano gradualmente l'intera montagna, in un tappeto composto da migliaia di alberi. 

Fotografia di Alessio Guarino


Oiso, Tora ga Ame di Hiroshige

OISO, TORA-GA-AME La pioggia di Tora a Oiso
Nishiki-e, kirazuri-e. Silografia a colori, firmata in lastra: Hiroshige ga

Serie: Tokaido gojusan tsugi no uchi
(Le cinquantatre stazioni della Tokaido)
Data: 1833-34, periodo Tempo
Formato: oban yoko-e (mm. 229x354)
Censore: kiwame
Editore: Hoeido Senkakudo
Bibliografia: Strange 137.9, Lane (1978) 233.78(1).9, Salamon (1980) 9, Shiroishi 29.9.

Magnifica prova con ottimi colori impreziosita con il kirazuri, polvere di mica caratteristica delle edizioni più lussuose e caratteristica rara per questi soggetti. Impressa su carta del Giappone, databile nella prima metà del XIX secolo. In buono stato di conservazione, ad eccezione di leggere consunzioni sul margine inferiore, di leggerissime macchie al verso che non interessano il recto e di restauri ben eseguiti che interessano il margine bianco sinistro e l’angolo superiore destro. Con margine da sottile a buono tutt’intorno oltre la linea marginale.

L'opera al momento è in esposizione presso Hiroshige, attualmente in corso alla galleria L'arte antica di Torino. Tutte le informazioni in merito sono disponibili nell'articolo sulla mostra.

L’ARTE ANTICA
Via A. Volta 9 – Torino
tel 011 5625834 – 549041
fax 011 534154
salamon@salamonprints.com
www.salamonprints.com


Shigeru Ban vince il premio Pritzker 2014

Abilità tecnica e impegno civile. Queste sono le caratteristiche che la giuria del premio Prizker 2014 ha riconosciuto a Shigeru Ban. Nato a Tokyo nel 1957, l'architetto si caratterizza per l'utilizzo di materiali di riciclo ed ecosostenibili, come cartone e bamboo, nella costruzione di edifici.

Una particolare attenzione all'ambiente, dunque, ma anche alle questioni umanitarie. Proprio per la rapidità di reperimento dei materiali e di costruzione che sono i tratti distintivi dei suoi progetti, il suo intervento ha permesso la costruzione di rifugi per gli sfollati a seguito dei terremoti come quelli di Kobe, in Turchia o Rwanda.

Dal 1979, data della sua creazione, il premio Pritzker è considerato il Nobel dell'architettura. E' significativo che quest'anno sia stato attribuito a Shigeru Ban, che, per molti versi, viene considerato un "anti-architetto" per le sue creazioni.

Un esempio fra tutti: la Christchurch Cathedral in Nuova Zelanda, cattedrale con impianto del 19° secolo. Dopo i gravissimi danni riportati a seguito del terremoto del 2011, l'architetto giapponese ha ricostruito la struttura utilizzando tubi di cartone. Fra i progetti più tradizionali, invece, si annovera il museo satellite del Centro Pompidou a Metz, in Francia. In Italia, l'Aquila Temporary Concert Hall porta la sua firma.

Qual'è la motivazione alla base delle sue creazioni? "Finchè posso rendere le persone felici di utilizzare i miei edifici, sono contento anch'io."

Per maggiori informazioni: sito Premio Pritzker

Photo by Shigeru Ban Architects


Koreeda Hirokazu

Nato a Tōkyō nel 1962, Koreeda Hirokazu fa parte di una generazione cresciuta guardando la televisione, da cui, secondo quanto lui stesso sostiene, deriva l’interesse per le immagini sviluppato da ragazzo. Tuttavia, la sua prima aspirazione è quella di diventare scrittore e, infatti, nel 1987 si laurea presso la Facoltà di Lettere dell’Università Waseda di Tōkyō.

La produzione cinematografica di Koreeda è caratterizzata da una continua sperimentazione, sia a livello formale che contenutistico, che rende complessa l’analisi generale della filmografia nel suo insieme. Tuttavia, è comunque possibile identificare un filo conduttore, degli elementi ricorrenti che accomunano, più o meno significativamente, tutte le opere.

Tra questi spicca la memoria che non è solo un tema ricorrente, ma addirittura un elemento essenziale dell’intera produzione del regista, fin dagli esordi come documentarista. Questa ricopre un ruolo fondamentale nelle vicende dei suoi personaggi che sono, nella maggior parte dei casi, legate ad una perdita o ad un’assenza, in cui il rapporto con il proprio passato risulta determinante (Maboroshi no hikari, 1995; Distance, 2001). Di conseguenza, la memoria e i ricordi giocano un ruolo molto importante: uniscono coloro che hanno vissuto una comune esperienza e, allo stesso tempo, rinnovano il dolore per la perdita subita. I ricordi assumono perciò una doppia valenza: possono gettare un’ombra sull’esistenza attuale dei personaggi o fungere da stimolo per incominciare una nuova vita.

Koreeda utilizza la memoria anche per dissolvere i confini tra realtà e finzione e il mezzo cinematografico per filtrare il reale (Wonderful life, 1998; Aruitemo aruitemo, 2008). Uno degli obiettivi principali della sua produzione è, infatti, la convivenza di fiction e documentario all’interno della stessa opera. Koreeda cerca di superare quei limiti che ritiene esistano solamente perché imposti facendo partecipare ai suoi film non professionisti, costringendo gli attori ad improvvisare, recitando spontaneamente senza l’aiuto di un copione, oppure inserendo nelle pellicole elementi tratti dalle proprie esperienze personali.

La morte è un altro motivo ricorrente in tutta la filmografia: molti dei suoi protagonisti sono persone del tutto ordinarie che, in circostanze differenti, si trovano a dover affrontare la perdita di una vita, di un familiare o propria nel caso di Wonderful life. Koreeda non eccede mai nel drammatico, ma coinvolge il pubblico con delicatezza nelle tragedie narrate dai suoi film, non concentrandosi tanto sullo specifico evento all’origine del dolore, quanto su chi ne deve affrontare le conseguenze e in che modo si rapporti ad esse.

Maddalena Pologna
maddpol@gmail.com


Ventagli - Paravento a due ante

Ventagli - Paravento a due ante

Metà del periodo Edo (1615-1867)
Inchiostro, pigmenti e gofun moriage su fondo oro
173,5 x 190 cm

Le composizioni con ventagli furono una specialità della scuola di Tawaraya Sōtatsu a Kyōto verso la fine dell’era Ken’ei (1624-1643). Il byobu poteva essere decorato con ventagli dipinti direttamente sul paravento o, come in questo caso, con ventagli veri e propri, incollati sul fondo dorato.

Il ventaglio è sempre stato utilizzato nella tradizione giapponese come elemento decorativo. Questo oggetto possiede anche un significato benaugurale, rappresentando il ”dischiudersi” del futuro.

Molti dei ventagli di questo paravento raffigurano episodi letterali o soggetti mitologici, altri mostrano i fiori delle quattro stagioni e paesaggi naturali, con uno stile che varia da un ventaglio all’altro.

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Artista e donna: tre ritratti dal Giappone

In occasione della Festa della Donna, vi presentiamo tre artiste giapponesi che hanno profondamente influenzato la cultura del Sol Levante, lasciando tracce influenti rispettivamente nella letteratura, nel cinema e nell'arte: Murasaki Shikibu, Setsuko Hara e Yayoi Kusama.

Iniziamo il nostro viaggio in pieno Heianjidai, periodo di massimo splendore della corte. La lingua nobiliare è ancora il cinese, ma le prime forme di giapponese scritto stanno prendendo forza framite le opere femminili, basate su un alfabeto di scrittura sillabico, i kana.

Discendente di una famiglia di lunga tradizione letteraria, Murasaki Shikibu (pseudonimo di corte composto da Murasaki, nome di uno dei suoi personaggi, e Shikibu in riferimento al ruolo del padre, shikibu-shō) nasce alla fine del 10 secolo. Riceve fin da piccola una formazione non convenziale, grazie alla quale apprende il cinese, lingua riservata agli uomini, e le arti tradizionali.

Si sposò piuttosto tardi per il tempo e rimase fino ai suoi trent'anni inoltrati in casa del padre: gli sposi vivevano infatti in case separate al tempo e il marito si recava a fare visita in quella sede. Non è dato sapere se iniziò a scrivere il Genji Monogatari in quel periodo o subito dopo la morte del marito, avvenuta pochi anni dopo; è accertato invece che si trasferì presso la corte nei tardi trent'anni, come dama di compagnia dell'Imperatrice Shōshi.
Il Genji Monogatari è considerato il capolavoro della letteratura giapponese tradizionale.

Nelle 1100 pagine e 54 capitoli del monogatari sono tratteggiati le abitudini e lo stile di vita della corte del tempo, permeati da estrema raffinatezza ed eleganza. Il valore della narrazione risiede nel delicato tratteggio delle personalità e nell'incredibile capacità d'espressione dell'atmosfera del tempo.

Cambiamo completamente ambito e periodo: Masae Aida, meglio nota come Setsuko Hara, nasce nel Giugno 1920. Oggi di lei si sono perse le tracce ma mantiene suo status di simbolo del cinema giapponese degli anni '50.

Attiva dal 1935 al 1963, ha recitato sotto registi del calibro di Mikio Naruse, Akira Kurosawa e Yasujiro Ozu. I suoi ruoli sono stati molteplici e rappresentativi della propria epoca: dall'eroina pronta a sacrificare sè stessa del periodo pre bellico, si è trasformata nel perfetto modello di donna giapponese durante i film della Seonda guerra mondiale.

Nel secondo dopoguerra ha rappresentato il modello della nuova donna giapponese, positiva e ottimista nei confronti del futuro, ma anche ruoli profondamente legati ai valori tradizionali, impesonando l'artechipo femminile devoto al padre, o al marito.
Nelle sue collaborazioni con Ozu emerge un'altra Setsuko, desiderosa di esprimere se stessa nonostante i dettami sociali.

Filo conduttore delle sue interpretazioni è l'incredibile capacità espressiva e l'abilità con cui ha interpretato il conflitto interiore fra le aspirazioni personali e gli obblighi imposti dalla società. Piccola curiosità: Ozu e Kogo Noda hanno spesso attribuito al personaggio interpretato dalla Hara il nome di "Noriko", quasi a sottolineare una continuità fra le varie performance.

Nel 1963, anno della morte di Ozu, Setsuko si ritira a vita privata a Kamakura e da allora rifiuta i contatti con i media. E' stata fortemente criticata per non aver fornito spiegazioni per la sua scelta: la dichiarazione è stata improvvisa, comunicata nel suo stile tipico, con molte esitazioni e un sorriso finale.
In Giappone è tutt'ora definita "Eterna Vergine"

Un'altra figura controversa del '900 giapponese è sicuramente Yayoi Kusama. Arte pop, minimalismo e femminismo sono solo alcuni dei filoni che vedono in lei una valida rappresentante, riconosciuta da personalità come Andy Warhol. Colori psichedelici e pattern ripetitivi caratterizzono la sua variegata produzione e sono tuttora riconoscibili nelle sue opere

Nata a Matsumoto nel 1929, ha studiato arte a Tokyo; i canoni della pittura Nihonga erano troppo restrittivi per lei, così negli anni '50 si dedicò alle avanguardie americane. Iniziò a dipingere supefici, muri, oggetti e assistenti con pattern ripetitvi, adottando per la prima volta i pois che diventeranno il suo tratto distintivo.

Nel 1957 si trasferisce negli Stati Uniti, dove ha modo di entrare direttamente nel panorama degli artisti contemporanei. Lì aderì al movimento hippie e alle proteste contro la guerra in Vietnam, organizzando happening caratterizzati da nudità in luoghi pubblici simbolici.
Una delle sue opere più conosciute è il Narcissus Garden, esposto alla Biennale di Venezia nel 1966, composto da centinaia di sfere specchianti esposte all'esterno in un 'tappeto cinetico''. Kusama stessa aprì un banchetto al di fuori della Triennale, dove iniziò a vedere le sfere una ad una, fino a quando non intervenirono gli organizzatori.

Dopo anni di attiva partecipazione al mondo artistico americano, nel 1973 Kusama ritornò in Giappone. Dal 1977 continua la sua produzione all'interno di un ospedale psichiatrico, in cui si è internata volontariamente, dove affianca la scrittura alle arti figurative.