Un tanka alla settimana
"Orsù, fiore di ciliegio,
anch'io cadrò come te.
Dopo un breve attimo
di fioritura, mi vedranno
in pietoso stato."
"Iza sakura
ware mo chirinamu
hitosakari
arinaha hito ni
ukime mienamu."
いざさくら
我もちりなん
一盛り
有りなば人に
憂めみえなん
Sōku
Prossima destinazione - Ciliegi fioriti
“Ogni giorno è un viaggio e il viaggio è la dimora” scriveva il poeta Matsuo Bashō (1644-1694), nelle prime righe del suo diario in pellegrinaggio attraverso il Giappone. Questo haiku torna alla mente scorrendo le tappe del percorso che ripercorre una delle antiche strade che collegavano Edo (l’attuale Tōkyō) a Kyōto e al resto del Paese. Ai tempi del poeta si viaggiava a piedi e sono ancora tanti i sentieri percorsi da escursionisti-pellegrini che si fermano ad accendere un bastoncino d’incenso in ogni santuario sul cammino. Ancora oggi il sentiero di Bashō si snoda attraverso paesaggi eterni e antichi luoghi di culto, tagliando boschi secolari e campi di riso. Il viaggiatore può recuperare il contatto con il passato, si può immaginare come si viveva nel Giappone del periodo.
Fu il primo shogun, Togugawa Ieyasu, a volere questa via di collegamento chiamata Nakasendō , la via in mezzo alle montagne, contrapposta a quella che costeggiava il mare. Alcuni degli undici snodi di smistamento della posta e delle stazioni di rifornimento che punteggiano il primo tratto, raggiungibili un tempo solo a piedi, hanno mantenuto il fascino di allora e conservano la tipica architettura rustica. Alla ruralità dei villaggi si alterna la solennità composta dei santuari shintoisti.
Al termine della guerra civile, grazie ai Tokugawa emerse una nuova classe: i chōnin (abitanti della città) la nuova borghesia cittadina. I membri della classe artigiana e mercantile che abitavano le città esercitavano professioni molto diversificate: il mercante all'ingrosso accanto al venditore ambulante, l'incisore e il forgiatore di spade, il ristoratore e il proprietario di mescite di sakè. Artigiani e artisti che ci hanno lasciato pettini, ventagli, kimono, ceramiche, paraventi, monili e così via, oggetti di fattura e gusto squisiti. Questo è l’ambiente che ritroviamo visitando Tsumago e Magome. Passeggiando nelle viuzze principali ci si imbatte nelle botteghe artigiane che risalgono all’epoca Edo (1603 - 1868), come le antiche case nobiliari dall’inconfondibile architettura con porte scorrevoli affacciate su giardini curatissimi.
Dai villaggi agricoli alla città la distanza è breve. A Kyōto, possiamo ancora trovare il quartiere che fu delle geisha e dei samurai come nel XVII secolo. Uno dei fenomeni culturali che si svilupparono nel periodo Edo fu proprio la nascita dei quartieri di piacere, vere e proprie città nelle città. La loro istituzione mirava a porre sotto controllo governativo il fenomeno della prostituzione. Il termine "quartiere di piacere" però è un'etichetta fuorviante: non si tratta solo di un luogo dedicato al commercio sessuale, ma un organismo complesso dove nuove forme d'arte, musica e letteratura nacquero e si svilupparono, contribuendo a fare della cultura di Edo uno dei momenti più brillanti della storia giapponese. Addirittura vennero coniati nuovi termini per definire le qualità del "frequentatore dei quartieri di piacere", lo "tsūjin" l'uomo di mondo, arbitro indiscusso di eleganza. Solo in un secondo tempo entrarono a far parte di quel mondo anche le geisha: venivano infatti chiamate per allietare i banchetti, con la musica del loro shamisen e a intrattenere gli ospiti. Il termine significa "persona versata nelle arti di intrattenimento". Esistevano sia gli uomini-geisha (otoko geisha) sia le donne-geisha (onna geisha). Tra le case da tè nel quartiere di Gion, a Kyōto, è possibile ancora incontrare una donna con l’inconfondibile trucco e abbigliamento tipico.
A Kyōto la ricchezza di siti sacri riflette la molteplicità di culti. Templi buddhisti e santuari Shintō coesistono in un Paese che possiamo definire laico: stato e chiesa non interferiscono fra loro. È un tratto peculiare della storia religiosa giapponese la coesistenza di numerosi culti diversi, come lo Shintō, il Buddhismo - a loro volta già influenzati da confucianesimo e taoismo - oltre a una miriade di Nuove Religioni, movimenti caratterizzati da elementi presi da una o più religioni esistenti. Ad eccezione del Jōdo Shinshū e della tradizione di Nichiren, nessuna delle scuole giapponesi storiche rivendica l’assoluta verità o l’esclusione delle altre scuole.
A Nara possiamo visitare per esempio il tempio Todaiji che contiene un grande Buddha legato alla scuola Kegon, una delle prime scuole del buddhismo antico. Lo spostamento della capitale da Nara a Kyōtō nel 794 d.C. coincide con un ulteriore sviluppo del buddhismo giapponese, grazie ai contatti con la Cina. Le due correnti principali che nacquero e si svilupparono in questo periodo, grazie al contatto diretto con il buddhismo cinese, furono la Tendai e la Shingon, alle quali si aggiunse la dottrina del buddhismo amidista.
La dottrina Tendai si fonda principalmente sul Sūtra del Loto, sullo studio dei testi e sulla meditazione e ha il suo centro di culto sul Monte Hiei. Nel complesso monastico del monte Koya, invece, la scuola Shingon ha un approccio più pratico alla dottrina e allo studio dei testi predilige l’uso di immagini simboliche, i mandala, i mudra, i gesti rituali e i mantra, formule magiche più vicine al buddhismo tantrico.
I templi del Monte Koya sono quasi tutti circondati dai famosi “giardini asciutti”, impropriamente chiamati giardini zen. Karesansui, è il giardino tipico della cultura giapponese, i cui elementi (acqua, piante, montagne) sono rappresentati in maniera simbolica da sole pietre e ghiaia. L'acqua viene rappresentata da "fiumi" di ghiaia il cui moto si scontra con l'emergere dal suolo di grosse pietre disposte in modo apparentemente casuale, allo scopo di simboleggiare il dinamismo delle forme della natura. L’idea che i monaci Zen usino i giardini per la meditazione è una leggenda; in Giappone i monaci Zen meditano quasi sempre al chiuso. Un altro esempio di religiosità genuina e più popolare è la devozione al Buddha Amida che si sviluppa in Giappone dal X secolo. Il Padiglione della Fenice, Byōdō-in, prima residenza della famiglia Fujiwara, diventò un bellissimo esempio di sincretismo religioso, un tempio dedicato al Buddha Amida che unisce la scuola Jōdo-shū (il Buddhismo della pura terra) e la scuola Tendai.
Chiara Bottelli
www.ilbuontempo.it
Cinema giapponese: la nuova produzione nella "seconda epoca d’oro"
A metà del ventesimo secolo, per l’industria cinematografica giapponese ebbe inizio un glorioso periodo di rinascita che avrebbe percorso gli anni Cinquanta nel cosiddetto "secondo decennio d’oro".
In seguito alla ripresa economica del dopoguerra, nello scenario cinematografico il decisivo confronto con gli Stati Uniti, sebbene avesse determinato una riorganizzazione dell’assetto industriale, aveva offerto alle case giapponesi l’occasione di espandersi nel mercato internazionale, attraverso una produzione rinnovata e per la prima volta orientata all’esportazione. Il dopoguerra vide inoltre la fioritura di numerose personalità che difficilmente si sarebbero imposte negli anni precedenti a causa del tipico sistema di apprendistato giapponese, per cui la quasi totalità dei registi si vedeva affidare la piena responsabilità di un film solo dopo un lungo tirocinio come assistenti.
Uno tra questi fu senza dubbio Kurosawa Akira, che già nel 1943 aveva esordito con Sugata Sanshiro. Con Rashomon, infatti, nel 1950 una nuova era di rinnovamento e prosperità si era affacciata alle porte del cinema giapponese, che fino a quel momento aveva sviluppato uno stile proprio nella costante alternanza tra codici provenienti dall’esterno e rappresentazioni minuziose dei costumi del popolo. Il film riscosse un successo senza precedenti: fu premiato l’anno successivo al Festival di Venezia con il Leone d’Oro e in seguito con l’Oscar come miglior film straniero a Hollywood, dando così la possibilità al cinema nazionale di essere conosciuto e apprezzato all’estero per la prima volta.
L’ambiguità del trionfo conseguito dalla pellicola derivò dall’innovativa interpretazione del genere jidaigeki proposta da Kurosawa, che tramite questo esperimento d’avanguardia stabilì un punto di rottura rispetto alla tradizione e ai film in costume convenzionali ai quali il pubblico era abituato. A ossessionare il popolo giapponese, oltre Kurosawa stesso, era la preoccupazione di aver fornito al resto del mondo un’immagine troppo eccentrica della cultura nipponica. Tuttavia Rashomon diede al regista l’opportunità di trasporre al meglio il suo stile espressivo, ma soprattutto rappresentò un passo importante verso l’internazionalizzazione del cinema giapponese, che in breve tempo avrebbe conquistato l’attenzione dei grandi festival europei.
L’iniziale diffidenza di Nagata Masaichi della Daiei riguardo alla produzione di Rashomon fu così smentita, tanto che il presidente della casa si convinse a produrre una quantità sempre maggiore di jidaigeki per il mercato straniero. Inoltre, Nagata lanciò un programma di produzioni a colori permettendo alla Daiei di diventare la prima major giapponese a servirsi del colore non solo sul piano sperimentale. Il procedimento utilizzato per questa novità era il Fujicolor, già impiegato dalla Shochiku in Carmen torna a casa del 1951; quest’ultimo film, diretto da Kinoshita Keisuke, aveva ottenuto un grande successo al botteghino che consentì alla casa produttrice di recuperare il potere perduto a causa della mancata adesione agli standard moderni, concentrandosi piuttosto sui classici melodrammi destinati a un pubblico prevalentemente femminile.
In seguito alla nuova disposizione postbellica dell’apparato industriale, il numero delle major era aumentato a tal punto che il monopolio del mercato fu spartito tra sei grandi case: Nikkatsu, Shochiku, Daiei, Toho, Shintoho e la neocostituita Toei. Mentre la Daiei era occupata nella realizzazione di film di alta qualità e continuava a rivolgere la sua attenzione al mercato estero, la Toho era ancora troppo debole per reggere il confronto con le altre case. In tale contesto, la Toei si fece avanti proponendo un piano di produzione il cui scopo era distribuire un nuovo doppio programma ogni settimana: il piano permise alla casa di concentrarsi sulla produzione interna di film in costume con budget decisamente ridotti.
Dal 1950 ci fu anche una rinnovata proliferazione di compagnie indipendenti, interessate principalmente alla politica. Nello stesso anno, infatti, un provvedimento del Comandante Supremo delle Forze Alleate aveva allontanato i comunisti da tutti gli organismi di comunicazione di massa attraverso la cosiddetta red purge, che aveva già coinvolto numerosi nomi celebri a Hollywood. Le più importanti tra queste case nascenti furono la Studio 8, fondata da Gosho Heinosuke, la Kindai Eiga Kyokai e la Shinsei Eigasha. In alcuni casi la scelta dell’indipendenza risiedeva piuttosto nel desiderio di usufruire di una libertà creativa fino ad allora limitata da alcune major, come la Shochiku.
Mentre già nel 1953 la quasi totalità delle sale cinematografiche proiettava spettacoli a doppio programma, l’industria aveva l’onere di soddisfare sia le esigenze del pubblico locale che quelle dell’audience straniera. Tuttavia, a causa di una fiacca coordinazione tra le major non fu possibile attuare in questi anni una politica esportatrice adeguata; soltanto nel 1957 la creazione della UniJapan Film compensò l’assenza di un organismo centrale destinato all’esportazione.
Lorenzo Leva
Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.
Contatti:
lorenzo.leva@gmail.com
Un tanka alla settimana
"Se fosse caduto,
vano sarebbe
sospirare.
Ebbene, oggi il fiore di ciliegio
deciderò di cogliere."
"Chirinureba
kouredo shirushi
naki mono o
kyō koso sakura
oraba oriteme"
散りぬれば
恋ふれどしるし
なき物を
けふこそ桜
おらばおりてめ
Anonimo
Architettura invisibile - Sou Fujimoto tra uomo e natura
Roma, 2 marzo – Nell'elegante cornice dell'Aula dei Gruppi Parlamentari, partecipiamo alla lezione di Sou Fujimoto, architetto giapponese di fama internazionale, capo dello studio Sou Fujimoto Architects. L'incontro si svolge nell'ambito degli eventi collaterali della mostra “Architettura invisibile”, ospitata dal 19 gennaio al 26 marzo presso il Museo Carlo Bilotti. Non è la prima volta che l'architetto si reca a Roma. Ha già visitato la nostra capitale quando era ancora studente e si recò in viaggio-studio in Europa, alla scoperta degli stili architettonici del Vecchio Continente.
“Architettura invisibile” è un'espressione che riassume efficacemente la filosofia dietro ai lavori di Fujimoto. La spiegazione ce la fornisce lui stesso, proprio all'inizio della conferenza, raccontandoci il contesto geografico e sociale in cui è vissuto. Sōsuke, il suo vero nome, è nato e cresciuto in un piccolo paesino sperduto tra le foreste dell'Hokkaidō, in cui si conoscevano tutti e le porte delle case erano sempre aperte. La giovinezza è trascorsa giocando nei boschi tra gli alberi. È proprio qui che ha avuto la prima ispirazione che ha contribuito alla formazione del suo concetto di architettura. Lo spazio-foresta non è delimitato da pareti o colonne, ma da tutta una serie di piccoli elementi che ne plasmano la struttura, in cui anche i vuoti e le trasparenze contribuiscono a rafforzare la spazialità esistente. La sensazione è quella di essere in uno spazio intimo e familiare. La stessa peculiare caratteristica, secondo la sua testimonianza, si può ritrovare nelle strade di Tokyo, dove si è trasferito per frequentare l'università, nonostante in questo caso si tratti di uno spazio completamente artificiale. Anche qui la spazialità era definita da una serie di elementi apparentemente scollegati, come possono essere pali della luce, panchine o distributori automatici, a ognuno dei quali ci si relaziona con un differente comportamento, un differente approccio. Il suo duplice background, spiega come mai una delle sue principali preoccupazioni sia l'unione armoniosa tra artificiale e naturale, tra uomo e natura, tra visibile e invisibile.
Questa sua inusuale concezione dell'architettura, continua a spiegare, ha trovato la sua massima espressione nel Serpentine Pavillion, realizzato ad Hyde Park, a Londra, nel 2013, “costruzione” che l'architetto considera il suo miglior lavoro. Non si tratta di un edificio vero e proprio, quanto dell'unione di innumerevoli singoli elementi – una successione irregolare di pali e piattaforme bianche – che singolarmente presi non significano nulla, ma nel complesso creano un ambiente liberamente fruibile. Il pubblico è incoraggiato a esplorarlo e a capire in quale modo approcciarvisi. Lo si può esplorare, cercare un tavolo per mangiare o una panchina per sdraiarsi. Ci si può anche arrampicare in cima. È uno spazio veramente pubblico. Inoltre, grazie al modo in cui è realizzato, non esistono veri limiti tra il dentro e il fuori, e tutta la costruzione è immersa completamente nella natura, senza creare contrasti forti. È una soluzione in cui il naturale e l'artificiale si fondono, in cui non si percepisce la linea di demarcazione tra i due. Fujimoto insiste che si tratta di una nuova interpretazione di architettura. Non tanto tecniche di costruzione, quanto capacità di saper reinterpretare lo spazio.
Giochi di prospettive, rapporti mutevoli tra interno ed esterno, tra pubblico e privato – sono le caratteristiche fondanti dello stile di Fujimoto, e si possono ritrovare in ogni sua opera, sia pubblica che privata. I due progetti di abitazione House NA e House N, ad esempio, che uniscono la visionarietà di Fujimoto alla più antica tradizione architettonica nipponica. Nelle case del Giappone classico, infatti, i locali erano separati da una semplice parete scorrevole di carta di riso, che pur delimitando lo spazio non costituiva una netta separazione tra le varie stanze. Allo stesso modo in House NA la divisione tra i vari locali, così come tra interno ed esterno, viene meno. Tutto è unico e la funzione di ogni spazio dipende unicamente da come le persone vogliono interpretarlo. Un pavimento può diventare un tavolo, una sedia può diventare una mensola, un soffitto può essere un letto. Si tratta solo della ripetizione dello stesso modulo in dimensioni e rapporti diversi, proprio come nel padiglione Serpentine. La coppia che ha commissionato il progetto ha raccontato all'architetto di usare gli ambienti della casa in modo non convenzionale, per esempio leggendo in cucina o mangiando sul letto. Fujimoto ha così creato per loro una casa in cui tutto può essere tutto. In House N, invece, la distinzione tra dentro e fuori è completamente ribaltata grazie ai vari moduli che si contengono a vicenda e al fatto che il più esterno non è chiuso. Non si può mai dire di essere del tutto dentro o del tutto fuori. Altri progetti di Fujimoto basati su queste idee sono Public toilet, la nuova biblioteca dell'Università di Musashino, l'auditorium Forest of Music o il complesso residenziale Arbre blanche.
L'arte di Fujimoto è quella di saper creare spazi innovativi, che sfidano le leggi dell'architettura portandoli – come dice lui stesso – all'estremo. L'ambiguità di fondo consiste nella difficoltà di etichettare le sue opere che proprio per questo motivo possono apparire troppo rivoluzionarie e di conseguenza poco funzionali. Ci racconta che spesso i suoi progetti sono stati cancellati, proprio per questi timori. Tuttavia, questa visionarietà e questo coraggio, gettano le loro basi in un background culturale ancorato saldamente al passato, alla tradizione nipponica e alla ruralità del suo paese natale, dove l'intimità condivisa, come se si trattasse di un unico nucleo familiare allargato, e lo strettissimo contatto con la natura fanno completamente decadere molte contrapposizioni manicheiste che nella società odierna diamo per scontate.
Federico Moia
Un tanka alla settimana
"Mai più di pochi lustri
durerà questa mia vita.
Perché, allora, mi tormento
in mille pensieri intricati
come grovigli d'alga raccolta dai pescatori?"
"Ikuyo shi mo
araji wa ga mi o
nazo mo kaku
ama no karu mo ni
omoimidaruru"
幾世しも
あらじわが身を
なぞもかく
海人の刈る藻に
思みだるる
Anonimo
Washoku kentei - A tu per tu con chi l'ha voluto portare in Italia
In Italia, la cucina giapponese è sicuramente una delle più apprezzate e popolari. E, nonostante tutto, anche una delle meno conosciute. Nell'opinione comune, infatti, è facile che la ricchissima tradizione gastronomica del Paese del Sol Levante sia appiattita al solo sushi, magari anche mangiato in uno di quei ristoranti "all you can eat" che abbondano nelle nostre città e che di giapponese non hanno quasi nulla. Per correggere questa innocente inconsapevolezza e diffondere una vera conoscenza della tradizione alimentare giapponese – chiamata anche washoku (il carattere “wa “ significa armonia, e si usa normalmente per indicare il Giappone; “shoku” è il carattere che indica “mangiare”) – Fumiaki Tamada ha deciso di portare in Italia il corso Washoku culture. Il corso, la cui prima lezione si è tenuta lo scorso sabato 25 febbraio presso i locali della scuola di lingue Eurasia Academy, continuerà fino a maggio e offrirà una ricca panoramica sulla cultura alimentare giapponese. Ma di cosa si tratta esattamente? Lo abbiamo chiesto direttamente al signor Tamada.
“Il corso washoku culture si prefigge lo scopo di diffondere la conoscenza della reale cultura alimentare giapponese, cercando di aumentare la consapevolezza verso questa tradizione gastronomica. La cucina giapponese infatti non è solo un insieme di tecniche e ricette, ma ha radici profondamente ancorate alla storia e alla cultura del nostro Paese, che oggi si tendono a ignorare. Ma senza conoscere queste basi non è possibile comprenderla fino in fondo e si rischia di dimenticare il motivo per cui certi piatti si preparino o si consumino in un certo modo.”
Il pubblico accorso alla prima lezione, in realtà, non era proprio numerosissimo. “Temo che molte persone non abbiano capito esattamente in cosa consiste il corso” ci spiega Tamada. “Noi non vogliamo insegnare le tecniche della cucina, ma la cultura della cucina, che sta dietro quelle tecniche. Alla fine del corso, dopo il superamento di un esame, si ottiene il certificato washoku kentei (kentei significa certificazione), che attesta la conoscenza della cultura alimentare giapponese.” Un corso molto sui generis, quindi, ma nel cui successo Tamada crede fermamente, senza farsi scoraggiare dai numeri iniziali. "Pensavamo fosse un momento ideale per proporre questo corso in Italia, dal momento che moltissimi giovani sono interessati alla cucina giapponese e, conseguentemente, alla cultura giapponese trasmessa attraverso la cucina. Alla fine, è la nostra prima volta, e anche una delle prime che viene proposto fuori dal Giappone, da quando la certificazione è stata istituita nel 2011. La prima impressione è molto positiva. Durante la lezione, c'è stata una bella atmosfera, molto familiare. I partecipanti hanno creato subito un rapporto diretto con la maestra, cosa che ha favorito anche le domande e gli interventi. E' stato anche un esempio della squisita ospitalità giapponese.”
Ma a chi è rivolto esattamente un corso così particolare? Anche su questo, Tamada ha le idee ben chiare. “Il nostro corso è indirizzato sia ai semplici appassionati di cucina giapponese, che ai professionisti operanti nel settore della ristorazione. Non voglio criticare nessuno, ma oggi c'è davvero poca consapevolezza circa la vera tradizione gastronomica giapponese, anche da parte degli addetti ai lavori. Grazie alla collaborazione dell'Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi e del suo presidente Minoru Hirazawa – o, come è più conosciuto, Shiro-san di Poporoya – ho già raccolto numerosi contatti di professionisti interessati. Per ora c'è un unico corso base, ma pensiamo di crearne in seguito uno esclusivamente dedicato agli addetti ai lavori. Per i semplici appassionati, invece, c'è anche la possibilità di frequentare solamente una singola lezione, un'ottima soluzione per chi non ha la possibilità di essere sempre presente nei tre mesi di corso”
Dopo averci parlato entusiasticamente della sua creatura, Tamada inizia a raccontarci la sua storia, e delle circostanze che lo hanno spinto a proporre il washoku kentei agli Italiani. "Sono arrivato in Italia nel 1979, alle dipendenze di un calzaturificio giapponese che collaborava con vari brand italiani. In seguito mi sono messo in proprio, spostandomi da Roma a Milano. Sono più di 30 anni che la mia società opera nel trading nel settore tessile. Negli ultimi anni, una flessione degli affari mi ha spinto a cercare nuove strade da percorrere. Grazie ad alcuni amici giapponesi, ho conosciuto la realtà del washoku kentei, che in quel momento stava cercando proprio alcuni collaboratori all'estero per poter diffondere i loro corsi anche fuori dal Giappone. Conoscendo la grande passione degli Italiani per il cibo e la cucina giapponese, ho deciso di tentare la sfida”.
Una vicinanza forse scomoda quella di due tradizioni alimentari così importanti, entrambe, non a caso, inserite nel novero dei Patrimoni Culturali Immateriali dell'Unesco. Tamada, tuttavia, non reputa che le due culture culinarie siano così distanti.”Senza dubbio non ci sono delle vere e proprie somiglianze, visto che le due tradizioni sono frutto di due culture differenti, e il rapporto che esiste tra queste è molto profondo. È dalla cultura che nascono i piatti. Ci possono però essere in futuro vari punti di contatto, o delle reciproche influenze. Basti vedere come oggi chef e cuochi italiani si ispirino sempre più alle tecniche di lavorazione o agli ingredienti della cucina giapponese. È una cosa che fa capire come sia ricercata e richiesta la vera tradizione alimentare giapponese. Credo molto in uno scambio di questo tipo, di materiali, di tecniche e di idee, anche per poter avviare dei progetti insieme.”
Federico Moia
Un tanka alla settimana
"È la mia sorte, sempre,
che m'induce a chiamare
penoso questo mondo;
perché allora mi affliggo
anche per gli altri?"
"Wa ga mi kara
uki yo no naka to
nazuketsutsu
hito no tame sae
kanashikaruramu"
わが身から
憂き世中と
なづけつつ
人のためさへ
悲しかるらむ
Anonimo
Un tanka alla settimana
"Si dice 'ieri',
si vive 'oggi', e via,
come l'acqua del fiume Domani,
sì veloci scorrono
i giorni e i mesi!"
"Kinō to ii
kyō to kurashite
Asukagawa
nagarete hayaki
tsukihi narikeri"
昨日といひ
今日とくらして
あすか河
流れてはやき
月日なりけり
Harumichi no Tsuraki, 910-920 ca.
Un tanka alla settimana
Un tanka alla settimana
"Le lacrime, che verso
nel desiderio di te, hanno inondato
il mio giaciglio; e così ora
mi ritrovo un segnale di rotta
eroso dalla marea dei sospiri d'amore."
"Kimi kouru
namida no toko ni
michinureba
miotsukushi to zo
ware wa narikeru"
きみ恋ふる
涙のとこに
満ちぬれば
みをつくしとぞ
我はなりける
Fujiwara no Okikaze, era Kanpyō (889-898 d.C)