La cultura del cibo in Giappone

La cultura del cibo ha un’antichissima tradizione in Giappone, ed è legata in modo particolare alle stagioni e a una natura che rende questo Paese così affascinante, ma lo colpisce anche in modo incredibilmente devastante.

Il popolo del Sol Levante ha sin dall’antichità usufruito di tutti i beni che la natura offre: vegetali, pesci e altri animali. I precetti della religione buddhista hanno però nei secoli limitato il consumo di carne. L’uso quotidiano di vegetali d’ogni tipo, foglie, fiori, radice, erbe selvatiche, alghe e prodotti di origine non animale ha quindi permesso ai giapponesi di sviluppare una straordinaria varietà di piatti legati ai prodotti locali e al momento della vita della terra durante le tradizionali 24 stagioni (nijūshiki) di 15 giorni che dividevano l’antico anno agricolo secondo il calendario lunare. L’estetica della disposizione sul piatto è considerata fondamentale per l’apprezzamento dei cibi e, poiché la secolare tradizione di sobrietà fa utilizzare tutto ciò che è commestibile, persino l’alimento più povero viene trattato come prezioso e servito nel modo più elegante possibile.

I piatti, le ciotole e i contenitori del cibo vengono scelti con accurata attenzione perché si armonizzino con esso, ma creino nel contempo un piacevole contrasto di colore e di forma. Le regole estetiche sono tante, ma basterà assorbirne alcune per poter dare un tocco in più alla nostra cucina quotidiana.

Molti grandi scrittori, nipponici e stranieri, hanno descritto le sensazioni uniche provocate dall’arte gastronomica giapponese ai cinque sensi dell’essere umano: vista, tatto, gusto, odorato e perfino udito. Nella bibliografia che segue ho indicato alcuni libri in cui gli autori hanno, colpi di fulmine espresso la fascinazione subita all’incontro con la cultura del cibo in Giappone, a volte amori a prima vista, colpi di fulmine che si sono poi evoluti in amori di tutta una vita.

Graziana Canova Tura

 

Bibliografia:

Fondamentale per chi voglia conoscere il Giappone in tutti i suoi aspetti:

  • MARAINI Fosco, Ore giapponesi, Milano, Corbaccio, 2000, pp. 524 (1° ed. 1956).

Poi

  • BARTHES Roland, L’impero dei segni, Torino, Einaudi, 1984, pp. 135.
  • CALZA Gian Carlo, Stile Giappone, Torino, Einaudi, 2002, pp. 213.
  • MARCHESI Gualtiero e VERCELLONI Luca, La tavola imbandita. Storia estetica della cucina, Bari, Laterza, 2001, pp. 226.
  • PARISE Goffredo, L’eleganza è frigida, Milano, Adelphi, 2008, pp. 169 (1° ed. 1982).
  • PASQUALOTTO Giangiorgio, Yohaku, Padova, Esedra, 2001, pp. 157.
  • RICHIE Donald, A Taste of  Japan, Tokyo, Kodansha, 1985, pp. 112.
  • TANIZAKI Jun’ichirō, Libro d’ombra, Milano, Bompiani, 1982, pp. IX-117.
  • TSUCHIYA Yoshio, A Feast for the Eyes. The Japanese Art of Food Arrangement, Tōkyō, Kodansha, 1985, pp. 166.
  • Cucina zen
  • DŌGEN – Uchiyama Rōshi, Istruzioni a un cuoco zen, Roma, Ubaldini, 1986, pp. 133.
  • EIHEI DŌGEN, La cucina scuola della Via, trad. e a cura di Jisō Forzani e p. Luciano Mazzocchi, Bologna, Ed. Devoniane, 1998, pp. 125.
  • HOOVER Thomas, La cultura zen, Milano, Mondadori, 1981, pp. 252.
  • TSUJI Kaichi, Zen Tastes in Japanese Cooking, Tōkyō, Kodansha, 1972, pp. 207.

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CANOVA TURA Graziana

  • Il Giappone in cucina, Nuova edizione riveduta e aggiornata, Milano, Ponte alle Grazie, 2006, pp. 397 (1° edizione, Mondadori, 1994, pp. 350 – esaurito)
  • La cucina zen, Milano Xenia, 1998, pp. 183.
  • Giappone (collana cucina etnica), Milano, Fabbri, 1999, pp. 120.
  • Sushi, Milano, Fabbro, 2000, pp. 71.

 

 

 


Antiquariato giapponese

Kano Tomokazu
Scuola di Gifu, inizio del XIX secolo

Tigre
Netsuke in legno, occhi intarsiati in corno chiaro e scuro
Firmato entro riserva ovale: Tomokazu
Lunghezza: 4,4 cm

Affascinante netsuke raffigurante una tigre intenta a leccarsi una zampa anteriore. Gli occhi sono in corno trasparente, con le pupille in corno scuro.

Kano Tomokazu è il principale artista della scuola di Gifu, che comprende un piccolo gruppo di artisti vicini ai lavori della linea Ittan della scuola di Nagoya. Lavorò esclusivamente in legno utilizzando, come in questo caso, una finitura nera che mette in risalto la tridimensionalità delle forme. Altre caratteristiche di questo netsukeshi che sono riscontrabili in questo pezzo sono l'assenza di himotoshi, a favore invece degli spazi realizzati seguendo le forme naturali del soggetto, gli occhi intarsiati in corno di due gradazioni, la raffinata lavorazione del manto dell'animale, qui visibile in particolar modo nelle zone inferiori dove il netsuke non è mai stato maneggiato.
La tigre è il terzo segno dello zodiaco cinese; era anche simbolo di coraggio e durante il XVIII secolo fu uno dei soggetti preferiti dai pittori. tuttavia in Giappone la tigre non era conosciuta e gli artisti dovevano ispirarsi a dipinti precedenti e studiare le pelli che venivano importate dalla Cina.
Giuseppe Piva
www.giuseppepiva.com

La musica del periodo Kofun e la preparazione per il nuovo stato giapponese

Successivo al periodo Yayoi si colloca il periodo Kofun che prende il nome dalle sepolture megalitiche tipiche dell'area soprattutto del Kansai (fig.1) ed è compreso tra gli anni  250 D.C. al 552 D.C., inizio del periodo Asuka.
Questa fu l'epoca in cui tutte le importanti innovazioni dei precedenti periodi, tra cui soprattutto quelle in ambito agricolo e militare, contribuirono a far nascere una nuova idea di unità nazionale dando il via a quell'unificazione, la prima della storia giapponese, che si sarebbe concentrata soprattutto attorno ad un piccolo gruppo di individui che si staccarono sempre più significativamente dalle popolazioni agricole, andando a fondare un nuovo stato che oggi generalmente identifichiamo con il termine Yamato, situato oggi nell'area del Kansai.

Le teorie su come avvenne questa formazione, tralasciando il mito narrato negli annali giapponesi, sono molte e varie, quella che viene oggi comunemente accettata ci deriva dal testo cinese Wei-Chih che farebbe risalire ad una principessa-sacerdotessa di nome Himiko, o Pimiko, la creazione del primo grande clan che attraverso un sistema di alleanze riuscì a creare un primo stato di nome Yamatai, identificato, anche se con molte riserve, proprio con lo stato Yamato (alcuni storici, pur confermando la validità di tali eventi, contestano che Yamatai potrebbe essere un'antica regione situata nel Kyūshū).
Inoltre in ambito religioso apparirono per la prima volta gli uji gami, Dei degli uji, antichi guerrieri o personalità di rilievo che nel tempo, venerati di generazione in generazione, si trasformarono in divinità locali.

Se precedentemente si era ravvisato negli strumenti la maggiore fonte di conoscenza del mondo sonoro dell'antico Giappone, l'oggetto di maggiore interesse di questo periodo risiede in una serie non molto amplia di piccole statue chiamate haniwa, statue di terracotta facenti parte del corredo funerario degli imperatori e dei dignitari di corte, poste vicino ai Kofun, che solo nella fase di mezzo iniziarono a essere prodotte con fattezze umane (ancora molto rudimentali in verità) abbandonando l'abitudine iniziale di riprodurre templi e case, conservate oggi in vari musei del Giappone (Tōkyō e Kyōto National Museum, Fukushima ed Aikawa Museum Castello di Hikone,) ed esteri (Metropolitan Museum of Art di New York).

Nonostante la loro qualità storica sorpassi nettamente la qualità artistica, soprattutto se messa in raffronto alla coeva tecnica cinese di modellazione della terra cotta, di queste statue sono sopravvissute sino ai giorni nostri un centinaio di guerrieri, che rappresentano sicuramente la categoria più cospicua ed un numero esiguo di suonatori e danzatori.

Alcuni esempi tra i più significativi sono le statue raffiguranti delle Miko, sacerdotesse, nell'atto della danza, come quella rinvenuta a Kokai, Oizumi-machi, prefettura di Gunma, risalente al VI secolo D.C. che fa ancora riferimento ad un passato sciamanico perfettamente rappresentato dalla danza della Dea Ame no Uzume no Mikoto nel mito della Caverna di Amaterasu (narrata da Kojiki e Nihon Shoki) o la coppia di statue chiamate Odoru-danjo (rinvenuti a Nohara, Konan-machi, prefettura di Saitama) (Fig.2) che mostrano un tipo di danza che usava accompagnarsi col canto e con l'utilizzo del proprio corpo quale strumento musicale.

Tra queste statue rappresentanti figure di sacerdotesse vi sono anche alcuni esempi di  rappresentazioni di strumenti musicali quali un danzatore seduto nell'atto di suonare un wagon (rinvenuto a Mōka-shi, prefettura di Tochigi) (Fig.3), tra le prime testimonianze visive pervenuteci di questo strumento ed un'altra sacerdotessa che regge un frammento di strumento a percussione, waritake, costituito da due aste di bambù percosse l'una sull'altra diffuso ancora oggi in alcune zone di campagna dell'arcipelago giapponese.

Gli Haniwa descritti sopra offrono non solo una panoramica di un mondo perduto ma permettono alcune ulteriori riflessioni sul ruolo della musica all'interno del rito religioso qual'era la sepoltura, dove la mondanità, rappresentata dagli strumenti a fiato, di gran lunga più diffusi in questo periodo, era completamente bandita, infatti, in nessun caso è stata rinvenuta una statua raffigurante un suonatore di un qualsivoglia tipo di flauto, tranne in un caso particolare di dubbia identificazione.
Successivamente al contato con il continente asiatico e soprattutto con lo stato cinese, tutto in Giappone subirà una modifica radicale che ne muterà per sempre le sorti sia politiche che musicali.

Edmondo Filippini da Pagine Zen N. 78

 


Tako - Gli Aquiloni

In tutti i paesi del mondo gli uomini hanno sempre cercato modi e mezzi per comunicare con i loro dei e in Oriente furono gli aquiloni a rappresentare il contatto fra la terra e il cielo.
L'uomo comunica il suo pensiero a una forma costruita in seta e bambù che, sospinta dal vento, vola in alto verso il destinatario del messaggio. Il filo teso permette alla mano di guidare l'aquilone nel cielo e di richiamarlo poi a terra quando, per imperscrutabili ragioni, si sente che la comunicazione è avvenuta.
I primi aquiloni nascono in Cina già intorno all'anno 1000 a.C e, grazie ai viaggi di monaci, navigatori, esploratori e commercianti, si diffondono ben presto in tutti i paesi orientali, assorbendo gli usi e costumi delle tradizioni locali. Quando arriva in Giappone l'aquilone prende il nome di “tako” e il suo ideogramma assomiglia a quello di “kaze” , il vento, che per ogni aquilone rappresenta l'elemento vivificante. L'aquilone infatti, essendo più pesante dell'aria, ha bisogno di una forza che gli permetta di volare. Grazie al vento che lo rende vivo e alla mano dell'uomo che gli trasmette un significato l'aquilone diventa, di volta in volta, un gioco, un simbolo, un oggetto utile, uno strumento di lavoro, un'arma di combattimento e tante altre cose ancora. Gli aquiloni costruiti in forma di animali, pesci, uccelli, insetti solitamente rappresentano i protagonisti delle fiabe e delle leggende popolari e il loro volo racconta l'una o l'altra storia. Per esempio un aquilone in forma di carpa veniva fatto volare per favorire la forza nei bambini maschi, così come diventano forti le carpe che risalgono i fiumi controcorrente.

Aquiloni dalle forme più geometriche e funzionali erano usate per i riti della semina o per la pesca d'altura. Sotto un aquilone si mettevano alcuni semi che, strattonando il filo di traino, cadevano “dal cielo” fecondando il campo e favorendo così un buon raccolto. Su altri aquiloni i pescatori aggiungevano un filo libero con un'esca attaccata in fondo. Lasciando volare gli aquiloni sull'acqua bastava aspettare che il pesce abboccasse. Legato alle tradizioni animiste l'uso degli aquiloni per purificarsi dalle cattive azioni e dalle disgrazie dell'anno: durante una festa gli abitanti del villaggio facevano volare più in alto possibile i loro aquiloni, a cui avevano raccontato le proprie storie e al tramonto tagliavano i fili, lasciando così andare via, insieme agli aquiloni, tutte le negatività. Il giorno dopo, chi trovava gli aquiloni caduti li bruciava completando così la purificazione. Usi meno poetici ma altrettanto pacifici per sistemare questioni litigiose: due gruppi avversari costruivano due grandi aquiloni, di solito rettangolari, e vi dipingevano sopra figure di draghi e di mostri terrificanti della mitologia giapponese. Il giorno convenuto i due gruppi, costituiti a volte da centinaia di persone, innalzavano gli aquiloni e col filo dell'uno si cercava di agganciare a far cadere a terra l'altro, che così perdeva la gara e nel villaggio si ristabiliva la pace. Nei periodi di guerra l'aquilone veniva usato per spaventare il nemico e convincerlo a ritirarsi: si attaccavano a grandi aquiloni corde vibranti che, nottetempo, sibilavano sugli accampamenti nemici per intimorirli, come fossero spiriti inviati dagli dei.

Luisa Canovi, da Pagine Zen numero 31


Un ponte dal Giappone

La rush hour non può essere descritta fino a che non la si è vissuta. Ogni spazio fino a circa un metro e sessanta centrimetri da terra è inesorabilmente occupato, con non poche difficoltà per le persone con statura più bassa.

Testo e foto di Rachele Grassi


Capodanno Giapponese

L’inverno è il tempo della grande festa di Capodanno: importante come il Natale per gli occidentali, vede le famiglie giapponesi riunirsi, molti tornare al paese natio a godere gli antichi sapori della cucina della mamma (ofukuro no aji). In splendide scatole di legno laccato, quadrate e a più strati, verrà servito osechi, il cibo di Capodanno: sardine, frittate, fagioli neri cotti a lungo in un sugo dolce, nodi di alga, piccole orate, pezzetti di pollo, radici di loto all’aceto, uova di pesce e altre delicatezze. Le verdure di stagione sono gli spinaci e altre foglie verdi. Nelle case si predispongono le classiche decorazioni di Capodanno che comprendono: kaki essiccati (significano salute e successo nella vita), alga konbu (il suo nome ricorda il verbo yorokobu, rallegrarsi, gioire), mochi (anche omochi) è un cibo tipico dell’inverno e tradizionale del periodo di Capodanno. Si prepara con riso glutinoso (mochigome) cotto a vapore, pestato a lungo in un grosso mortaio di legno, finché diviene una pasta molle ma compatta, che va poi modellata in piccole focacce. Il vocabolo mochi, se scritto con un altro ideogramma, può significare “avere, possedere”: equivale quindi a un augurio di ricchezza. La ricetta principale di Capodanno contenente il mochi è la minestra chiamata ozooni, ma il modo più semplice e appetitoso per gustarlo è quello di abbrustolire il boccone di mochi, intingerlo in salsa di soia e avvolgerlo in un pezzetto di alga nori. Due mochi di misura diversa fanno parte obbligatoria delle decorazioni di Capodanno e vengono posti il piccolo sopra al più grande (kagami-mochi), insieme con arance amare e altri elementi, come offerta sull’altare shintoista presente nella casa, oppure in un luogo importante della dimora, o all’ingresso, dove di solito si pongono le decorazioni per il Capodanno. L’aragosta bollita è anch’essa indispensabile (appesa sulle porte o esposta nelle abitazioni). Il vocabolo generico ebi, che indica tutti i tipi di crostacei, dai gamberi all’aragosta, viene scritto con due ideogrammi che significano mare-vecchio, perché l’aragosta ha il corpo piegato come una persona anziana. Tutto ciò è di buon augurio per una lunga vita e anche in considerazione del fatto che in Giappone la vecchiaia è considerata dote apprezzabile, perché porta con sé saggezza ed esperienza.

di Graziana Canova Tura, da Pagine Zen numero 27


Ten Guardiano celeste

Scultura in legno scolpito e laccato in policromia

Inizio del periodo Edo (1615-1867)
XVII secolo
Altezza: 48 cm inclusa la base
La divinità è raffigurata in piedi, con un'espressione feroce, vestita in armatura di tipo cinese, con la mano destra alzata, il palmo rivolto in fuori, mentre la sinistra impugna un vajra, simbolo del fulmine e della natura stessa dell'illuminazione buddista.
Gli occhi sono intarsiati in vetro dipinto e tutta la superficie della scultura è laccata in policromia con colori sgargianti e bordi d'oro. Un ornamento in metallo dorato è posto sulla fronte del guardiano. La base su cui poggia, più tarda rispetto alla figura, è intagliata a forma di nuvola e porta la firma dello scultore Tanaka Munesuke di Kyoto assieme alla data novembre Meiji 26 (1893).
I gruppi di guardiani buddisti sono numerosi. Abbigliati sempre in modo simile, quasi sempre con un'armatura di tipo cinese, sono talvolta riconoscibili da qualche attributo quale il colore della pelle o il legame ad un animale dello zodiaco. Vengono spesso chiamati "guardiani" per il loro ruolo di protettori ma in realtà sono vere divinità celesti: Ten letteralmente sarebbe il cielo, il paradiso, ed è la traduzione del sanscrito Deva, che indica esseri celesti mortali. Tra questi si possono ricordare i 12 guardiani delle direzioni e il gruppo dei 4 protettori del buddismo (shitenno). Simili come iconografia e ruolo sono poi altri "non-umani", come i 12 generali di Yakushi Nyorai o i membri delle otto legioni a guardia del buddismo.
Giuseppe Piva
www.giuseppepiva.com

Giappone Underground. Il cinema sperimentale degli anni ’60 e ‘70

Pag. 140 – € 12,00

Recensione su Pointblack: http://www.pointblank.it/?p=20484

Sebbene in Giappone la nascita del cinema sperimentale sia alquanto remota, solamente con i primi anni sessanta si svolgono gli esordi di una tendenza all’underground in qualche modo essenziale (quantomeno in ragione del suo più intimo travaglio teorico) e soprattutto consapevole del senso dei propri mezzi formali e del significato delle sue ipotesi ideologiche. Accanto agli autori legati alle grandi case di produzione come la Shochiku (Oshima, Yoshida, Shinoda) e la Nikkatsu (Imamura, Suzuki), ancora accanto agli indipendenti come Hani o Teshigahara che operano al di fuori del sistema degli studi, alcuni altri autori seguono la via solitaria della sperimentazione e della ricerca formale antinarrativa riflettendo così il tentativo di una radicale riorganizzazione delle funzioni del mezzo cinematografico per ambire ad una formalizzazione dell’espressione e alla risoluzione dell’orizzonte soggettivo pure se all’interno del conflitto irredimibile fra creazione ed atto. I cineasti dell’avanguardia oltrepassano la logica diegetica per giungere ad una concezione dell’opera come struttura e sistema di relazione tra dispositivi complessi e sostanzialmente oppositivi. Il loro cinema è un raffinato esperimento di astrazione dei materiali in favore della rarefazione della forma (sublimata, certamente, e compiuta nelle sue espressioni di valore pure nella sorte di conchiudersi al decadentismo dell’autoespressione e al compiacimento narcisistico di un soggettivismo estremo) e di un’articolazione strutturale concepite come condizioni di estremo rigore per la depurazione stilistica e la ieraticità espressiva, ancora assumendo l’alea introtelica della monumentalizzazione formalistica e in termini di contenuto sociale negato e in termini di disposizione puramente iconica del materiale espressivo. Dai primi maestri come Takahiko Iimura e Nobuhiko Obayashi si giunge ai sodali di Koji Wakamatsu, primo fra tutti Masao Adachi, passando per l’esperienza isolata dello scrittore Yukio Mishima, fino ai nomi di riferimento di Toshio Matsumoto e Shūji Terayama.

 

Beniamino Biondi è nato nel 1977 ad Agrigento. Ha compiuto studi classici e giuridici. Poeta e saggista, si occupa di teatro e cinema. Collabora con riviste di letteratura e critica cinematografica, cura rassegne di cinema d’autore e svolge attività di drammaturgo e regista teatrale. Come relatore partecipa a numerosi convegni e giornate di studio. Ha curato l’edizione delle poesie complete del filosofo Aldo Braibanti ed ha pubblicato numerosi volumi di scrittura creativa e critica. Svolge opera di consulenza per Enti, Associazioni e Facoltà Universitarie. Collabora per il Cinema e il Teatro Sperimentale con il Teatro della Posta Vecchia di Agrigento. Di prossima uscita un volume sul cinema greco degli anni ’60 e un testo drammatico per il teatro.

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Il “mito” di Kan Yasuda a Taormina

Nei luoghi simbolo della ”Perla” inedita mostra con i capolavori senza tempo del noto maestro giapponese


una scultura di Kan Yasuda al Teatro Antico

I capolavori del maestro Kan Yasuda protagonisti del Natale a Taormina, con “Il Mito Contemporaneo”, la Rassegna Internazionale di Scultura e Pittura, nell’ambito de “Il Circuito del Mito” promosso dall’Assessorato regionale al Turismo.

Il grande artista giapponese Yasuda, noto in tutto il mondo, sta esponendo nella Perla dello Jonio le sue opere che rappresentano un vero e proprio unicum, affascinanti e inimitabili per la capacità di fondere arte e spazio in una dimensione che sfugge al tempo.

Le sue imponenti ed armoniose sculture in bronzo e marmo, che si rifanno alla conoscenza Zen e all’origine della vita, si potranno ammirare sino al 28 febbraio nei luoghi simbolo di Taormina: lungo Corso Umberto, in piazza IX Aprile e nel meraviglioso Teatro Antico, dove si trovano le monumentali sculture in bronzo, ed anche nella ex Chiesa di San Francesco di Paola e all’Hotel Metropole, che ospitano le opere più piccole in marmo e bronzo.

Le sculture di Yasuda a Taormina sono un portale spirituale tra l’Antico ed il Contemporaneo. La presentazione della mostra di Yasuda è avvenuta nelle scorse ore a Taormina alla presenza dell’assessore regionale al Turismo Daniele Tranchida, l’on. Carmelo Briguglio e l’assessore comunale alla Cultura, Antonella Garipoli, Salvatore Presti (direttore artistico del Circuito del Mito) e Massimiliano Simoni (art director di “Mito Contemporaneo). Consensi e sguardi ammirati, per la materia eterea di Kan Yasuda, che media tra Cielo e Terra ed emana un senso di profonda serenità.

Il maestro Yasuda, celebrato ad ogni latitudine del globo, sta riportando un forte senso di internazionalità a Taormina e sono già numerosi i turisti e residenti che hanno espresso apprezzamento per le sue esposizioni, poste nei luoghi più celebrati dell’Antichità siciliana.

“Tra cielo e terra” il titolo e tema della mostra, con delle sculture che esaltano ancor più i luoghi della storia e conferiscono a ciascuno di essi un ulteriore tocco di armonica modernità, esaltando l’orizzonte dell’interscambio culturale ed a perfetto coronamento del percorso millenario dell’uomo tra materia, spiritualità e Mito.

La mostra di Yasuda è, dunque, la migliore declinazione possibile del mito stesso nell’arte contemporanea: è l’appuntamento da non perdere con un percorso artistico inedito e suggestivo, che collega tempi, culture e contaminazioni. Yasuda sta suscitando la curiosità e l’attenzione di molti osservatori, che non si limitano a guardare le opere, ma le toccano e si fermano ad ascoltarne i suoni prodotti.

Sarà possibile vivere sino al 28 febbraio un modo unico di fare arte, che coinvolge pienamente il visitatore e lascia negli occhi e nel cuore una traccia indelebile dello scultore.

Tratto da Blogtaormina.it


Scatole in carta per gli Dei

L’origami, l’arte del piegare la carta in mille forme diverse, ha le sue radici nel Giappone antico, nei riti dello Shintoismo e nel nome dei suoi innumerevoli spiriti sacri: i Kami. Kami è anche il nome col quale i giapponesi chiamarono la carta, arrivata dalla Cina verso il 600 d.C insieme al Buddismo e alla scrittura ad ideogrammi, e a questo nome carico di significato si unirono gli usi più diversi, da quelli ludici a quelli pratici, da quelli artistici a quelli religiosi. Nelle cerimonie ai Kami (dei) era abitudine presentare nel tempio shintoista offerte in cibo quali sale, riso, frutta e altri semplici alimenti. La carta (kami), che già veniva usata in forma di striscioline ripiegate attaccate ad una corda per delimitare gli spazi sacri, costituiva il materiale ideale per contenere i doni degli dei. Racconta infatti una leggenda che fu la dea Kawakami a regalare agli uomini la tecnica del fare la carta con le piante, l’acqua, il sole e le loro mani. Il dono della carta rese più semplice comunicare attraverso i segni e gli ideogrammi ma anche attraverso la piegatura che trasformava un anonimo foglio di carta in una forma significante. Dalle mani di qualche origamista sconosciuto nacquero così figure di animali, insetti, pesci, fiori,stelle ma prima di tutto nacquero le carte per gli dei in forma di piccoli contenitori. Per mantenere puro e incontaminato il cibo ogni offerta veniva infatti riposta dentro un foglio di carta ripiegato nella forma più adatta ad avvolgerla e a proteggerla.Le piegature che sono arrivate fino a noi sono probabilmente le stesse di centinaia di anni fa quando ancora non esistevano libri di origami ma la tradizione si tramandava sull’esempio pratico e chi sapeva piegare insegnava a chi ancora non sapeva.
Modelli di scatole e contenitori semplici nella loro perfetta geometria e complessi nel loro reticolo di piegature tanto da far sorgere il dubbio che non solo la carta ma anche l’origami sia stato un dono degli dei.

Luisa Canovi, da Pagine Zen numero 29