Il cinema di Oguri Kohei

 

Cineasta dal rigore estremo, Oguri Kohei rappresenta un caso singolare nel panorama cinematografico giapponese e non solo. Autore di soli cinque film in trent’anni di carriera, questo autore ha raccontato il Giappone del dopoguerra, non lesinando di toccare aspetti anche molto scomodi, approdando poi a un cinema sospeso tra l’allegorico e l’elegiaco. Le sue opere, in particolare le ultime due, portano agli estremi quella tendenza, propria del cinema giapponese classico, del dare grande importanza alla rappresentazione dei paesaggi, alla relazione tra i personaggi e l’ambiente circostante. E’ una concezione non antropocentrica, coerente con lo shintoismo, con quel fondamento animista e non monoteista, della cultura nipponica che vede il mondo della natura come un’estensione armonica dell’uomo. Se normalmente nel cinema, occidentale e non, la cosa più importante, nella costruzione delle scene, sono i dialoghi e la sceneggiatura, per Oguri queste rivestono un ruolo secondario cui anteporre i luoghi in cui si svolge la scena, che assurgono il ruolo di protagonisti. La casa tradizionale giapponese non è costruita di materiale pesante, in modo da costituire una rigorosa barriera tra interno ed esterno. E’ fatta di elementi scorrevoli e removibili, che non costituiscono un confine netto tra il dentro e il fuori e questo, secondo il regista, è un esempio del modo peculiare nipponico di concepire la natura.

Molto frequenti, nel suo cinema, sono gli elementi della tradizione secolare della cultura giapponese, quali cerimonie, riti e processioni. Ne è un esempio la lunga sequenza di teatro che, in L’uomo che dorme, scandisce il passaggio tra la vita e la morte. Oguri preferisce, in tal proposito, non parlare di “tradizioni giapponesi”, ma semplicemente di “tradizioni”, togliendo l’etichetta “giapponese” che, a suo dire, costituisce una limitazione. La tradizione infatti è un concetto universale, e ancestrale, che lega l’uomo alla campagna circostante. L’autore riconosce comunque una maggiore connotazione spirituale dei riti e le celebrazioni propri della cultura nipponica, a differenza di quelli delle civiltà monoteiste.

Importante è anche la lettura che Oguri fa della storia recente del Giappone. Si tratta del primo paese asiatico ad aver avviato, nell’era Meiji, un forte processo di modernizzazione, che equivaleva a una occidentalizzazione o europeizzazione. Questo grande sforzo sarebbe stato possibile solo per il fatto di essere una potenza coloniale e imperialista, che poteva così disporre di una gran quantità di mano d’opera proveniente dalle colonie. La sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale è stato lo scotto sovrumano che il paese ha dovuto pagare per questa politica espansionista, e ha costituito una crisi, una ferita non rimarginabile anche con il successivo sviluppo economico.

Le opere di Oguri, nella loro successione cronologica, rappresentano l’avvicendarsi delle stagioni della vita. Il primo film, Doro no kawa (Fiume di fango, 1981), è dedicato all’infanzia. Ambientato a Osaka negli anni ’50, è la storia di due bambini, uno dei quali vive su una chiatta, ormeggiata sul fiume Aji, dove la madre esercita l’attività di prostituta. Uno sguardo neorealista impietoso, al pari dell’Oshima di Il cimitero del sole (1960), sulla miseria del Giappone postbellico, girato in bianco e nero con lo stile del cinema giapponese classico, tanto da non sembrare per nulla un film degli anni ‘80. In particolare, Oguri mostra una grande sensibilità nei confronti del mondo infantile, avvicinandosi al genere classico shoshimin kazoku eiga ("film sui bambini e sulle loro famiglie"), che ha visto protagonisti grandi maestri quali Shimizu Hiroshi e Shindo Kaneto. Il fiume, immagine ricorrente nel cinema di Oguri, che dalla purezza della sorgente fino allo sfociare nel mare, diventa via via più fangoso, rappresenta il corso della vita, il suo “sporcarsi” man mano che si lascia l’innocenza dell’infanzia.

Il secondo film, Kayako no tameni (Per Kayako, 1984), incentrato sulla giovinezza, racconta la storia d’amore di due immigrati coreani di seconda generazione. Uno dei tabù più intoccabili del Giappone, quello del razzismo nei confronti dei coreani, viene affrontato e denunciato con una lucidità che ha pari, ancora una volta, solo nell’opera di Oshima con film come Il ritorno degli ubriaconi (1968).

L’approdo alla vita adulta è oggetto del terzo film, Shi no toge (L’aculeo della morte, 1990), che, avendo per oggetto un tradimento coniugale, tocca il tema della condizione della donna in Giappone. E’ tratto da un romanzo che appartiene al genere letterario detto shishosetsu o watakushishosetsu, la cui caratteristica è il racconto in prima persona delle esperienze vissute dall’autore. Oguri si confronta con un concetto a lui totalmente estraneo, la fede cristiana dello scrittore. Il titolo riprende infatti un brano della Lettera ai Corinzi che recita: “il pungiglione della morte è il peccato”.  A partire da quest’opera, lo stile narrativo di Oguri si fa meno lineare, diviene ellittico e astratto, fino ad arrivare ai successivi due film, in cui predomina l’aspetto simbolico.

Il passaggio tra la vita e la morte, che avviene come un soffio di vento, è il tema di Nemuru otoko (L’uomo che dorme, 1996), un’elegia sul ciclo della vita e della natura. Racconta di un piccolo villaggio rurale, Hitosuji, dove abita un uomo in coma che attende la fine della sua esistenza. Si tratta di un’opera decisamente criptica, coerente con il rifiuto netto, da parte del l’autore, di ogni tipo di didascalismo e con la sua volontà di instaurare dubbi, più che certezze, nello spettatore.

Enigmatico anche il successivo, Umoregi (La foresta pietrificata, 2005), lirico e sempre più tendente all’astratto e all’onirico. Ambientato in un villaggio di montagna dove la vita dei ragazzi, intenti a inventare una storia, e degli adulti, legati ai rimi della natura e alle tradizioni, viene sconvolta dalla scoperta di una foresta fossilizzata. Le età dell’uomo, oggetto delle precedenti opere, alla fine si incontrano e coesistono in un racconto fiabesco, in quello che è ad oggi l’ultimo film di Oguri Kohei.

Giampiero Raganelli


Antiquariato giapponese

Scuola Kano
Prima metà del periodo Edo (1615-1867), XVII-XVIII secolo
Papaveri
Paravento a due ante, 155,5 x 169 cm
Inchiostro, gofun e pigmenti su fondo oro
 Questo splendido paravento raffigura un cespuglio di papaveri in fiore intrecciati in un esuberante reticolo. Il gusto riccamente decorativo è tipico del linguaggio estetico della scuola Kano, destinato ad ornare le magnifiche residenze dei nuovi daimyo con colori ricchi e forme forti e decise.
La composizione ricorda immediatamente il paravento con "papaveri, grano e bambù" conservato al Kimbell Art Museum di Forth Worth, opera di Kano Shigenobu databile verso il 1620-30.
Giuseppe Piva
www.giuseppepiva.com

Il periodo Asuka Il Gigaku

 

Introdotto durante l’era dell’Imperatore Kinmei (539 - 571), così secondo il Nihonshoki, il Gigaku non è esattamente una forma musicale in senso stretto, bensì una forma teatrale elaborata il cui nome significa, se tradotto letteralmente, musica dell'atto. Chiamato con molti nomi, tra cui kuregaku e kure no utamai dal nome della terra da cui derivava oggi non ancora identificata in maniera univoca, fu introdotto inizialmente da un monaco di nome Chisō, proveniente dalla regione cinese di Wu, che portò in Giappone in quegli anni l’intero organico strumentale per l’esecuzione di questo repertorio.

Solo durante l'era dell'Imperatrice Suiko, nell’anno 612, vi fu la definitiva introduzione di tutto l'apparato sia musicale che scenico grazie soprattutto all'incessante lavoro di promozione delle arti e  della religione del continente operata dal Principe Shōtoku Taishi che allo scopo fece trasferire una persona naturalizzatasi giapponese di nome Mimashi proveniente dal regno di Paekje. Questi era, secondo quanto riportano gli annali, uno “studioso di gigaku nella terra di Kure, insegnante poi ai giovani di Sakurai, nella terra di Yamato”, di questi giovani noi oggi conosciamo solo il nome di Mano no Obitoteishi e Imaki no Aya no Saimon.

Andato via via scomparendo già dall'epoca Heian, riuscì a sopravvivere come repertorio autonomo sino agli inizi del periodo Edo all'interno dei templi buddisti per poi scomparire completamente.
Studiosi come Tanabe Hisao sono però convinti che alcuni brani di Gigaku siano arrivati sino ad oggi grazie al repertorio che di fatto inglobò questo ed altri stili quali ilGagaku, più precisamente egli rintraccia nei brani ShinshōtokuDaishōtokuNasori eChikyū del lato destro probabili discendenti di quelle antiche danze e musiche.
Se da un punto di vista uditivo le informazioni sono scarse, diverse sono invece le fonti iconografiche: tra queste, il Dankyu (fig.1), un arco conservato anch'esso allo Shosoin di Nara, rappresenta sicuramente la fonte più importante. In esso vi sono infatti riportate varie figure di danzatori vestite con foggia non Giapponese impegnate proprio nel repertorio Gigaku e da questo è possibile ricavare alcune informazioni anche sugli strumenti impiegati tra cui spiccano gli Dōbyōshi, castagnette, il Sasara, specie di frusta fatta con asticelle di legno ancora oggi in uso nelle campagne, il Narabishō, simile alla syrinx greca più altri strumenti a percussione quali il Gigakutsuzumi e loYoko.

Sono inoltre sopravvissute varie maschere di grande formato sia in legno che in tela (Fig.2) che confermano come questo repertorio fosse principalmente usato nell'accompagnamento di processioni e pantomime e celebrato principalmente all'aperto.

Si è quasi certi che tale rappresentazione si aprisse con una danza di leone, Shishimai, prima rappresentazione di quest'animale sentito come creatura mitica poiché non presente sul territorio e proseguiva poi con una danza che questa aveva personaggio principale il Dio Susanō chiamata Oroshi taiji di cui si è persa completamente traccia.
Nell'attuale ricostruzione del repertorio, condotto anche grazie alle descrizioni contenute nel Kyōkunshō, uno spettacolo completo di gigakucomprende al massimo ventitre attori, e viene diviso in due parti, una processione e la rappresentazione vera e propria messa in scena nel seguente modo:
Durante la processione appare è il Chidō la cui funzione è quella di purificare la strada che conduce al tempio e di controllare il luogo della rappresentazione a tempo di musica a cui segue la già citata Shishimai.
Si susseguono quindi una serie abbastanza lunga di danze che oscillano tra il serio ed il parodico, come la danza che racconta la storia dell'uccello Karura, in indiano Garuda, una delle otto divinità protettrici del buddismo ed altre due immediatamente successive a questa che raccontano di un barbaro ed una fanciulla importunata dal primo in maniera oscena e salvata dall'intervento di due guardiani del tempio e di un Brahmino messo completamente in ridicolo.
Dopodiché si ritorna al serio grazie all'introduzione del personaggio di nome Taikofu, grande padre degli orfani, che effettua varie benedizioni e preghiere rivolgendosi infine anche ai defunti.
La rappresentazione si chiude nel grottesco con la danza Suikoō o Suikojū, nient'altro che una satira nei confronti dei regni stranieri.
Questa è purtroppo solo una ricostruzione sulle fonti che ci sono pervenute comunque scarse, però è chiaro come un repertorio che conteneva una tale commistione di generi fosse destinato via via a scomparire con l'avanzare di forme ben più raffinate quali ilGagaku prima ed il  ed il Kabuki poi che avrebbero portato la cultura teatrale e musicale Imperiale e Shogunale giapponese ad un livello di raffinatezza ed astrazione filosofica cui il Gigaku non avrebbe mai potuto sperare.

Edmondo Filippini


Il Tofu

La comune definizione “formaggio di soia” usata in Occidente può essere fuorviante perché il to¯fu, al contrario del vero e proprio formaggio, ha origine esclusivamente vegetale. Si produce con il latte ricavato dai fagioli di soia che, con l’aiuto di un coagulante (cloruro di magnesio o solfato di calcio) viene fatto rapprendere versandolo in forme rettangolari, indi tagliato in panetti di circa300 grammiche saranno poi venduti in vaschette contenenti acqua fredda. Di colore bianco e quasi insapore, ha la consistenza di un compatto formaggio magro oppure di un solido budino.

Tra le qualità del tofu, oltre al fatto che per millenni ha costituito la maggior fonte proteica per le popolazioni estremo-orientali, è necessario mettere in evidenza che:

  • ha un basso valore calorico (meno di 100 calorie per100 grammi) e un alto valore proteico
  • del tutto privo di colesterolo, contiene potassio, 80% di grassi insaturi (come l’acido linoleico) e un minimo di grassi saturi
  • non contiene tossine chimiche
  • è molto digeribile, quindi adatto a bambini e anziani.

In Giappone il tofu viene venduto fresco di giornata, in Italia lo si trova in piccoli contenitori di cartone (brik) simili a quelli del latte ed è pronto da consumare, oppure lo si può acquistare fresco in qualche ristorante take-away; esiste anche quello istantaneo da preparare utilizzando la polvere contenuta in scatolette di cartone.

Il tofu fresco si conserva in frigorifero, in un recipiente pieno d’acqua fredda cambiata quotidianamente, per alcuni giorni. Può essere cucinato in moltissimi modi perché assorbe il sapore dei condimenti o degli ingredienti con cui viene cotto. Eccone ad esempio alcuni:

  • agedashido¯fu: tagliato a dadini, passati nella fecola e fritti, serviti in una leggera salsa preparata con brodo dashi, salsa di soia, zucchero, sake e insaporita con daikon grattugiato e peperoncino;
  • ganmodoki: sbriciolato, mescolato con carote, alghe kijiki, funghi e altro, ridotto a polpette che vengono poi fritte;
  • hiyayakko: al naturale, freddo, condito con salsa di soia e zenzero o rafano o limone o altro;
  • niyakko: al naturale, in un brodo caldo con zenzero, sake e salsa di soia;
  • yudofu: cotto in brodo di alga konbu, in una casseruola di terracotta, e poi condito con salsa di soia, zenzero grattugiato e/o daikon grattugiato con peperoncino.

Graziana Canova Tura, tratto da Pagine Zen numero 16


L'arte della Cucina Giapponese

"Mangiare e bere sono il nutrimento della vita. Mangia cibo semplice. La carne dovrebbe essere consumata in piccole quantità. Scegli alimenti che nutrano il corpo.

Smetti di mangiare prima che il tuo appetito sia del tutto soddisfatto.


Cinque cose da tenere a mente quando ci si nutre:

  1. 1.       pensa a chi ti dà il cibo
  2. 2.       pensa alle fatiche di chi l’ha prodotto
  3. 3.       ricorda che sei fortunato a godere di un buon pasto senza avere fatto nulla per meritarlo
  4. 4.       ricorda che ci sono tanti esseri umani ben più poveri di te
  5. 5.       pensa ai tempi antichi in cui gli uomini mangiavano frutta, radici e semi senza conoscere la cottura.

Astieniti dal mangiare troppo. Sii moderato nel cibo e nelle bevande.

 

Così prescriveva nel 1713 lo Yojokun, un trattato in cui venivano formulate regole di vita per una buona salute fisica e spirituale.
L’arte della cucina è da secoli tenuta in grande considerazione in Giappone e ha collegamenti anche inattesi con molti aspetti della vita dei suoi abitanti.
Chiunque sia stato in Giappone avrà apprezzato l’estrema eleganza e la squisita delicatezza dei piatti anche più semplici. La cucina giapponese è la più “spirituale” del mondo: regola vuole che gli ingredienti mantengano la propria natura, il colore, la consistenza, che i colori del vasellame armonizzino con il cibo e con la stagione del momento, che i sapori siano leggeri ma non insipidi, che non vi sia ostentazione ma che ogni cosa sia perfetta nella sua austera, raffinata semplicità.
L’estetica dell’ospitalità giapponese è essenzialmente rappresentata dalla cucina kaiseki, che di solito viene servita prima della cerimonia del tè e nella quale si raggiungono vette di delicata, “povera” eleganza. Essa ha origine dall’elaborato pasto formale delle classi dominanti e dal cibo vegetariano dei monasteri Zen. Takeno Joo, un grande maestro del tè, nel 1500 raccomandava che durante il kaiseki non si servisse più di una zuppa e tre piatti (ichiju sansai) e questa regola fondamentale ha improntato l’arte della cucina fino ai nostri giorni. L’abbondanza è bandita: lo scopo del pranzo non è quello di riempirsi, ma di godere insieme agli ospiti del piacere della reciproca compagnia, in armoniosa pace e tranquillità.
L’influenza dello Zen è impalpabile ma forte: aeree composizioni vegetali ornano rustici piatti di ceramica e leggere ciotole di legno laccato, poste su bassi tavolini, creano sottili contrasti di rosso e di nero; i freschi colori dei vegetali armonizzano con il contenitore in cui sono deposti, il tavolino-vassoio si presenta come un quadro.

Graziana Canova Tura, tratto da Pagine Zen numero 10


Il significato di Wabi

Wabi, insieme al termine yūgen (mistero e profondità), strettamente legato al teatro nō, e a sabi (bellezza solitaria), che trovò un suo pieno sviluppo nella poesia haiku, rappresenta uno dei principi estetici cardine della sensibilità giapponese. Wabi è il sostantivo del verbo wabiru e, originariamente, indica una condizione materiale di privazione, solitudine e frustrazione dei propri desideri. È sinonimo di una vita povera e miserabile, caratterizzata da delusioni e fallimenti. Il monaco Zen Jakuan Sōtaku, autore di un importante testo giapponese il Zencharoku (1828), scriveva: “Se consideri limitante trovarti in condizioni economiche precarie, se ti lamenti dell’insufficienza come se fosse una privazione, se ti rammarichi che le cose hanno avuto un decorso sbagliato, tutto ciò non è wabi. Allora sei un vero indigente.” Il valore di questo testo è l’approccio rivoluzionario verso la povertà, vista come veicolo per raggiungere una libertà spirituale non condizionata dalla bramosia per gli oggetti materiali.

Questa presa di coscienza, per essere autentica, deve essere vissuta con profondità d’animo e non come atteggiamento superficiale. D’altro canto la semplicità wabi, fatta di non pretenziosità e ruvidezza, non deve essere confusa con la povertà e la rozzezza. È importante, quindi, con la propria sensibilità, poter cogliere la grande nobiltà di spirito e la purezza interiore nascosta sotto un aspetto grezzo e modesto. Bisogna saper percepire la bellezza interiore delle persone, e non fermarsi all’esteriorità. Wabi non esibisce l’attenzione che è stata rivolta al più piccolo dettaglio delle cose, né al costo, né allo sfarzo che è stato profuso in ciò che si può vedere. È una bellezza di grande profondità che trova la sua espressione in termini semplici e non pretenziosi, la sua componente principale risiede nell’inespresso, l’elemento interno è superiore all’esterno. L’estetica wabi rifugge l’eccesso e l’arroganza in tutte le sue manifestazioni e ricerca l’umiltà e la reticenza.

Un altro aspetto importante della bellezza wabi è l’amore per l’irregolarità e l’imperfezione. Un grande maestro del tè Murata Shuko (1422-1503) sosteneva: “La luna non è piacevole se non parzialmente oscurata da una nuvola”. Per le persone è molto facile ammirare la luna piena, mentre riuscire ad apprezzare il fascino e il mistero che emana da una luna velata dalle nuvole è per pochi. In natura non esiste nulla di perfetto e il senso della bellezza in Giappone non ha un valore oggettivo ma, per realizzarsi, deve passare attraverso la sensibilità dello spettatore. La perfezione sta nel movimento (es. il passaggio delle nuvole) perché tutto è impermanente.

Il monaco Zen e professore di filosofia delle religioni presso l’Università di Kyoto Shin’ichi Hōseki Hisamatsu (1899-1980) sosteneva che le caratteristiche di wabi fossero le seguenti: l’irregolarità, la semplicità, l’austerità, la naturalezza, il mistero, l’immaterialità e la tranquillità. Il grande poeta di haiku Matsuo Bashō (1644-1694) sosteneva inoltre che: “apprezzare l’insufficiente (wabishiki) è il frutto di essere entrati nella Via”. Il periodo dell’anno che maggiormente si avvicina allo spirito wabi si colloca tra il tardo autunno e l’inizio dell’inverno, quando cadono le foglie e iniziano i primi fiocchi di neve. Questo scenario trasmette un profondo senso di transitorietà e solitudine ma allo stesso tempo stimola la contemplazione e la meditazione.

Il forte richiamo all’introspezione e all’accettazione dell’impermanente è sicuramente influenzato dalla sensibilità buddista. In questa condizione di spirito si cerca di liberarsi dalla schiavitù del desiderio e del possesso, così da riuscire ad apprezzare la semplicità in tutte le sue manifestazioni. Wabi non è quindi da intendere solamente come concetto estetico ma anche come atteggiamento etico e religioso verso la vita. Nel XV secolo, la sensibilità wabi trovò nella cerimonia del tè la sua piena realizzazione come arte pratica della vita quotidiana. Ogni gesto della cerimonia deve trasmettere un sentimento di bellezza wabi così da raggiungere attraverso la frugalità e la semplicità uno spirito di comunione e di profonda armonia tra chi offre una tazza di tè e chi la riceve.

Alberto Moro


La dicotomia tra dovere e sentimento nel teatro di periodo Edo: l’esempio del Chūshingura

L’etica confuciana, soprattutto nel suo sviluppo neoconfuciano, rivestì un ruolo importante nella formazione di un’ideologia di dominio per il bakufu Tokugawa (1603-1868), funzionale alla giustificazione prima e al mantenimento poi (soprattutto con il terzo shōgun, Iemitsu 1623-1651) della propria posizione di potere, ma accanto ad essa resistette una cultura popolare che già prima dell’avvento dei Tokugawa al potere si era vista interessata agli aspetti più vistosi di questo sistema di pensiero  e che venne poi solo superficialmente intaccata dal “discorso” del regime il quale, però, andò penetrando lentamente ma progressivamente, nella mentalità popolare per tutta la durata del periodo, andando a ingrossare quel panorama culturale la cui complessità, fatta di tradizioni e modi di pensiero radicati nello shintō, nei culti ancestrali e nel folclore, è di ardua definizione.

Fra tutte le virtù confuciane, quella che più di ogni altra ha condizionato i rapporti fra gli uomini e ha inciso in profondità nel corso della storia giapponese è senza dubbio la lealtà (cin. zhong, giapp. chū).

Partendo da questo assunto, quello che mi interessa è analizzare come il concetto di lealtà (interpretabile sia come espressione del sistema etico utilizzato dal regime, sia come elemento originale del pensiero autoctono preesistente all’influenza cinese) sia esemplificato al meglio dall’episodio storico conosciuto come Akō gishi jiken   (il caso dei guerrieri giusti di Akō), episodio celeberrimo della storia giapponese conosciuto fuori dal Giappone come “la vendetta dei quarantasette rōnin” e, soprattutto, come questa esemplarità emerga dalla trasfigurazione poetica che ne è stata fatta nel più celebre dramma teatrale ispirato ad esso, il Kanadehon Chūshingura (1748), scritto originariamente per il ningyō jōruri, il teatro delle marionette, e poi riadattato per il kabuki, più funzionale sicuramente – nel gioco spettacolare degli attori e nella ricchezza delle variazioni di messinscena – ad incarnare un ideale (la lealtà) capace di legare profondamente gli uomini, al di là dei confini fra vita e morte.

Lo studioso del confucianesimo giapponese Peter Nosco ha osservato che non esiste miglior indizio circa la penetrazione del confucianesimo nella cultura di periodo Tokugawa che la sua presenza nella letteratura popolare dell’epoca, anche se ciò può apparire sorprendente a coloro che conoscono la sottigliezza del pensiero confuciano. Di questa popolarità non può esserci dubbio. [1]

Che il discorso confuciano fosse stato bene o male introiettato dalla popolazione del periodo Edo, è un dato inconfutabile che trova conferma nella massiccia presenza di elementi facilmente ascrivibili ad esso proprio nella letteratura coeva. Il rapporto (e spesso il conflitto) fra giri (ossia le obbligazioni sociali) e ninjō (ovvero l’insieme dei sentimenti umani, delle passioni, delle inclinazioni personali che animano l’individuo), è uno di questi elementi, e uno dei temi favoriti della letteratura e della drammaturgia dell’epoca.

Il caso del Kanadehon Chūshingura può essere considerato esemplare. Si tratta di un jidaimono, vale a dire di un dramma storico, nel quale la lunghezza e la complessità della sua trama hanno permesso di inserire atti che costituiscono veri e propri sewamono, ossia dei drammi di tipo domestico. Abbiamo quindi in questo testo la confluenza di due diverse concezioni di fare teatro, una legata strettamente alla tradizione del ningyō jōruri precedente alla comparsa di Chikamatsu Monzaemon,1653-1724 (ambientazione in un’epoca lontana, personaggi storici dal comportamento eroico), l’altra derivata dal nuovo corso imposto da Chikamatsu e dall’evoluzione nel gusto del pubblico (ambientazione nella contemporaneità con preoccupazioni di realismo, personaggi di bassa estrazione ma reali e plausibili).

Nel Kanadehon Chūshingura si ha dunque la possibilità di individuare la presenza di un complesso sistema di relazioni giri-ninjō.

Se si analizza infatti il dramma dal punto di vista della relazione giri-ninjō così come può essere isolata in un jidaimono, si ritrova una situazione di conflitto che definiremmo “classica”, legata alla lotta fra le richieste dello stato (o comunque di un’entità politica) e gli affetti familiari o i legami di lealtà nei confronti del proprio signore (come è appunto il caso del Chūshingura). Seguendo questo tipo di analisi, si potrà facilmente individuare nel Chūshingura, come ha fatto Adriana Boscaro, “un ninjō che si legittima in termini di giri, alla fin fine, sostanziato dalla forza di appartenenza al gruppo che i rōnin avevano dimostrato.”[2] Infatti, i vassalli di En’ya Hangan commettono un’azione che va contro le leggi del bakufu (il giri che costituisce l’obbligazione, le norme di comportamento imposte dalle autorità), ma lo fanno in forza del sentimento di lealtà che li lega alla memoria del loro signore (che in questo caso costituisce il ninjō), il sentimento profondo e interiore che sembra legittimare, agli occhi dell’opinione pubblica (vale a dire del pubblico che affollava i teatri per applaudire l’impresa di questi personaggi), il loro comportamento.

Questo per quanto riguarda il senso complessivo del dramma, costituito dall’ideazione della vendetta, dal sacrificio dei singoli personaggi in vista dello scopo da raggiungere e dalla realizzazione dell’impresa.

Se però si applica al dramma la nuova concezione del conflitto concepita da Chikamatsu e dai suoi epigoni, troveremo a confrontarsi l’individuo, con i suoi sentimenti e le sue passioni da un lato e la famiglia (in quanto “mondo” chiuso) e la società dall’altro, con le loro regole che tendono a schiacciare l’individuo e a caricarlo di tensioni. Andrew Gerstle ha analizzato la presenza di queste tensioni nelle tragedie sewamono di Chikamatsu, ma è possibile applicare queste osservazioni anche ad alcuni personaggi del Chūshingura: “Queste opere hanno al centro giovani uomini e donne guidati dalla loro passione che va contro le regole della società, e quasi tutti loro commettono un crimine di qualche genere, come il furto, la fuga, l’adulterio o l’omicidio. La maggior parte di questi personaggi incontra una tragica fine sia per propria mano o per mano della legge.”[3]

Gli uomini e le donne di cui parla Gerstle sono Tokubei e Oharu di Sonezaki shinjū (Doppio suicidio a Sonezaki, 1703) o anche Koharu e Jihei  di Shinjū ten no Amijima (Doppio suicidio celeste a Amijima, 1720), forse  i drammi più celebri di Chikamatsu.

Ma è possibile riferire le stesse osservazioni alla tragica storia d’amore di Kanpei e Okaru nel Chūshingura. L’episodio che li riguarda Anche i due personaggi del Chūshingura sono presi dalla passione che li distrae dai propri doveri: dov’è Kanpei quando il suo signore ha più bisogno di lui? Accanto a Okaru, ad amoreggiare lontano, al di fuori della residenza degli Ashikaga, dove gli eventi stanno precipitando. Anche Kanpei e Okaru sono costretti a fuggire con disonore, e sulla scena la loro fuga è rappresentata proprio attraverso il procedimento classico del michiyuki, come avviene per i personaggi di Chikamatsu. Questa loro fuga non è meno drammatica: alla fine del viaggio per Okaru ci sarà la vendita ad un bordello, per Kanpei ci sarà la morte. Ma sono le motivazioni di fondo ad essere diverse. Se per le coppie sfortunate di Chikamatsu la morte reca con sé la promessa dell’eternità del loro amore nell’altra vita, i due personaggi del Chūshingura sono prima di tutto, è vero, un uomo e una donna innamorati che si trovano schiacciati da un meccanismo più grande di loro, ma sono animati da un ideale altrettanto grande, la lealtà al loro signore, che manifestano ognuno secondo il proprio ruolo e le proprie possibilità. Okaru si sottomette alla decisione dei genitori di venderla (ecco la pietà filiale, virtù confuciana), perché sa che il suo sacrificio aiuterà la causa della vendetta e il riscatto del marito. Kanpei consuma il suo inutile seppuku per riaffermare la propria sincerità, la propria buona fede nel drammatico episodio della morte del suocero di cui è accusato, in un estremo tentativo di recuperare il proprio onore di bushi. Il suo desiderio di partecipare alla vendetta non potrà realizzarsi a causa dell’errore commesso e Kanpei, conoscendo il suo destino, realizza che solo con la morte potrà rimediare all’errore e ritrovare il proprio onore, riacquistando il diritto di essere annoverato nel consesso dei guerrieri leali, nella lista, cioè, dei congiurati.

Altri personaggi del dramma, protagonisti o figure minori, si trovano a dovere affrontare in varia misura il conflitto giri e ninjō. Ognuno testimonia la sua adesione all’ideale supremo di lealtà dalla propria posizione, guerriero, contadino o mercante che sia. Ho analizzato altrove il comportamento di ciascuno.[4] Ma, a mio avviso, vi è una battuta pronunciata da Yuranosuke verso la fine del VII atto del Chūshingura, che ben riassume la dolorosa scelta collettiva compiuta dall’intero gruppo dei vassalli fra il ninjō costituito dagli affetti familiari e il giri, il dovere sentito da tutti come ineluttabile, di vendicare il proprio signore. Le parole del capovassallo sintetizzano come meglio non si potrebbe tutto il coacervo di sentimenti, di passioni, di rabbia trattenuta e di senso del dovere e della dignità personale che anima il gruppo come un sol uomo e, insieme, esprime i sentimenti più intimi dello stesso Yuranosuke:

 

Ecco! Più di quaranta uomini che siamo - abbiamo abbandonato genitori e figli, abbiamo lasciato che le mogli, compagne della nostra vita, lavorassero come prostitute - e tutto questo per vendicare il nostro signore. Dal risveglio e per tutto il giorno, al ricordo del seppuku del nostro signore piangiamo lacrime di dispetto, ci si torcono le cinque viscere e le sei budella![5]  

 

Se questa battuta di Yuranosuke è rivelatrice della determinazione sua e dei suoi uomini a portare avanti la loro scelta di vendetta fino alla fine, non viene trascurata però la serie di sacrifici che questa decisione comporta. Ci trova perciò d’accordo la constatazione di Donald Shively che nessuna opera teatrale illustra meglio del Chūshingura, la capacità di sacrificio e il dramma del conflitto giri-ninjō. Shively afferma che il pubblico dell’epoca simpatizzava per gli eroi e le eroine che soffrivano per le richieste di una disciplina assoluta che inevitabilmente conduceva ad un estremo sacrificio: “Il codice etico era essenziale all’autore di teatro, perché i drammi derivavano la loro qualità drammatica dai conflitti originati dalla determinazione dei personaggi a seguire il codice. La crisi, nel dramma, coinvolgeva i conflitti fra dovere e aspirazioni personali, o fra lealtà e responsabilità filiali. Sacrificare la propria vita era bello perché dimostrava purezza di motivazioni. Nessun dramma illustra questo meglio del Chūshingura in cui quarantasette eroi, nella loro determinata dedizione alla lealtà, compiono innumerevoli sacrifici fino a che, alla fine, senza il minimo rimpianto, danno la loro vita per mantenere questo principio.”[6]

 

Su questo tema vi sarà una conferenza nell’ambito del ciclo Filosofia sui Navigli presso il Ristorante ‘Officina 12’ , Alzaia Naviglio Grande, 12 – Milano

25 marzo, dalle 10.15 alle 12.15

“Il Neoconfucianesimo in Giappone: la dicotomia tra dovere e sentimento nel Teatro del periodo Edo (1603-1868)”

Per informazioni: http//filosofiasuinavigli.wordpress.com

 

Rossella Marangoni

 


[1] P. NOSCO, “Introduction: Neo-Confucianism and Tokugawa Culture” in NOSCO, Peter  (ed.), Confucianism and Tokugawa Culture, Honolulu, Hawai’i University Press, 1997, p. 11.

[2]  BOSCARO, Adriana (a cura di), Letteratura giapponese. I. Dalle origini alle soglie dell’età modena, Torino, Einaudi, 2005, p. 147.

[3]  GERSTLE Andrew C., The Tragic Hero in Japanese Traditional Popular Drama, Venezia, Università Ca’ Foscari, 1998, p. 318.

[4] Un’analisi completa del dramma, anche sotto questo aspetto, l’ho compiuta in Specchio di Edo. Il Kanadehon Chūshingura tra ideologia di potere e cultura popolare, non ancora pubblicato.

[5] Kanadehon Chūshingura 仮名手本忠臣蔵, edizione critica a cura di Hattori Yukio,服部幸雄, Tōkyō, Hakusuisha 白水社, “Kabuki on-stage collection”, 1994 p. 219.

[6] D. SHIVELY, “Tokugawa Plays on Forbidden Topics”, in J. BRANDON (a cura di), Chūshingura: Studies in Kabuki and Puppet Theater, University of Hawaii Press, 1982, pp. 53 e 54.


Il tè

Il tè era usato anticamente come medicinale. Grazie al suo potere stimolante, veniva consumato dai monaci per mantenere viva l’attenzione durante lo studio e la meditazione. La consuetudine di bere l’infuso fu importata dalla Cina e col tempo agli scopi medicinali si aggiunsero quelli rituali.
Il tè, cha, anche ocha (lat. Camellia sinensis) contiene teina (del tutto simile alla caffeina), tannino, vitamina C, aminoacidi. Aiuta la concentrazione, libera la mente, stimola la circolazione, riesce a eliminare le tossine dell’alcol, è dissetante, diuretico e astringente (ad esempio per le gastroenteriti). Il delicato sapore leggermente amaro del tè verde giapponese e di alcuni tè cinesi è dovuto alle catechine, sostanze che vengono considerate importanti anche da un punto di vista medico per le proprietà antiossidanti, oltre che antibatteriche (e anticarie!), per la capacità di abbassare la pressione sanguigna e il livello di colesterolo nel sangue. Pare addirittura che, molto concentrato e applicato in loco, il tè fosse usato nella cura del Fuoco di Sant’Antonio (Herpes zoster).
Il tè verde usato in Giappone e in molti Paesi dell’Asia orientale, si ottiene con un procedimento diverso da quello usato per il tè che si beve in Occidente. Le foglioline di quest’ultimo (scuro) vengono lasciate fermentare e poi essiccate, mentre per quello verde i teneri germogli sono messi a seccare dopo una leggera cottura a vapore. Ciò fa sì che le sostanze in esso contenute rimangano inalterate.
In genere tutti i tè consumati in Cina e Giappone non ammettono aggiunte di latte, limone e dolcificanti: vanno bevuti al naturale. In altri Paesi invece si possono mescolare con spezie, burro e molti altri ingredienti.
I diversi tipi di tè giapponese che possiamo trovare in Italia sono, grosso modo, i seguenti:

  • gyokuro, molto delicato, è considerato di altissima qualità e ha un aroma fragrante, leggero, che giustifica il suo nome: “rugiada di gemme”;
  • sencha, di buona qualità, è quello che in famiglia si offre più comunemente a un ospite;
  • hôjicha, di colore marrone ha un sapore di affumicato dovuto alla tostatura;
  • genmaicha, di tipo comune, mescolato con riso tostato;
  • bancha, è il meno costoso, a foglie grosse, di un color marrone chiaro.

Il konbucha (o kobucha) è una bevanda istantanea di alga konbu polverizzata. Ha un sapore di mare e si può usare nelle minestre trasparenti, come brodo per il tôfu o in qualsiasi ricetta che richieda un “profumo di mare”. La preparazione è molto semplice: un cucchiaino di konbucha e una tazza di acqua bollente, si mescola con i bastoncini di legno ed è pronto.

Il matcha è il tè in polvere usato nella cerimonia del tè. Piuttosto costoso, si vende in piccole scatolette metalliche e viene preparato con le più tenere e fresche foglioline, rigorosamente scelte e raccolte a mano. Esse vengono poi fatte asciugare e ridotte in polvere finissima, quasi simile a cipria, pestandole in un mortaio.
Per la preparazione del tè giapponese, che va servito nelle ciotole o tazze cilindriche senza manico, si deve mettere nella teiera un cucchiaino di foglie per persona (meno per il sencha), e poi versarvi l’acqua calda, che è stata tolta dal fuoco poco prima del bollore.
In genere la temperatura dell’acqua dev’essere attorno agli 80° (o poco meno per il gyokuro) 50-60°; si lascia in infusione per un minuto o due e non appena il tè ha raggiunto il colore previsto, lo si versa nelle tazze attraverso un colino di bambù. Si può anche farne a meno in quanto le foglie aumentano di volume e non passano dai forellini della teiera.

Graziana Canova Tura

Tratto da Pagine Zen numero 17


Furisode, grazia e giovinezza


 

Fra i vari tipi di kimono di cui è ricca la tradizione giapponese, il più suggestivo è senza alcun dubbio il furisode振袖, evocatore com’è di grazia e giovinezza.

L’etimologia del nome furisode, letteralmente maniche (sode) fluttuanti (furi dal verbo furu), deriva dal movimento aggraziato che compiono le lunghe maniche che lo caratterizzano, la cui misura può variare dai 75 ai 125 centimentri.

Anticamente si credeva che il movimento di far svolazzare le maniche servisse a esorcizzare il male e a purificarsi per attirare la buona sorte. Inoltre le fanciulle credevano di poter richiamare l’interesse dell’uomo di cui erano innamorate e compiere la magia di attirarne il sentimento.

Il furisode è il kimono più formale per le giovani donne nubili. È indossato in occasioni speciali, durante le cerimonie del té (chanoyu), durante le feste di conferimento dei diplomi scolastici, durante le feste annuali del calendario giapponese (nenjūgyōji) e in occasione di cerimonie pubbliche e private, come i matrimoni (durante i quali è indossato dalle giovani invitate parenti degli sposi) e è di prammatica per la cerimonia dello seijin shiki, la festa durante la quale si celebra comunitariamente il passaggio alla maggiore età dei vent’anni e che ha luogo ogni anno il secondo lunedì di gennaio.

I motivi decorativi ne ornano gran parte della superficie, dall’alto al basso e possono essere anche molto vistosi o dai colori vivaci, proprio perchè legati alla giovinezza di chi lo indossa. Nei motivi decorativi sono prevalenti i richiami stagionali e alla buona fortuna.

La ricchezza della decorazione e la preziosità delle sete fa sì che il furisode sia uno dei kimono più costosi.

Tradizionalmente si possono distinguere tre tipi di furisode :

 

- ōfurisode (大振袖 "grande furisode") è il più lungo. Le sue maniche possono raggiungere i 125 cm di lunghezza. Viene confezionato con tipo di seta damascata molto preziosa (il rinzu), mentre lo obi che lo accompagna spesso è intessuto di fili d’oro o d’argento.

Prima della Seconda Guerra Mondiale veniva utilizzato anche come abito da sposa e, in quell’occasione, doveva essere nero (kurofurisode). Ora solo le damigelle d’onore lo indossano ed è, in generale, molto colorato (irofurisode).

- chūfurisode (中振袖 "furisode medio") è un furisode con maniche di misura media, lunghe dai 91 ai 106 cm. Si tratta del tipo di furisode più diffuso perchè le sue dimensioni permettono grande libertà di movimento pur mantenendo una certa bellezza e conferendo grazia ai movimenti.

- kofurisode (小振袖 "piccolo furisode") è il tipo con le maniche più corte (dai 75 agli 87 cm). È indossato solo in rare occasioni ed è spesso portato con lo hakama.

 

Rossella Marangoni

www.rossellamarangoni.com

www.asiateatro.it

 

In occasione della manifestazione Made in Japan. L’estetica del fare, la vestizione del kimono (tipo furisode) verrà presentata dalla maestra Tomoko Hoashi con la modella Erica Bertamini e il commento di Rossella Marangoni.

L’appuntamento è alla Triennale di Milano, venerdì 23 marzo, ore 18.00.


Wabi nella poesia di Fujiwara Ietaka

Foto di Antonello Anappo

 

A coloro che aspettano

solo le fioriture dei ciliegi

vorrei mostrare l’erba di primavera

che spunta attraverso la neve

in un villaggio montano.

Il maestro del tè Sen Rikyû (1522-1591), riteneva che questa poesia di Fujiwara Ietaka (1158-1237) riuscisse a esprimere molto bene lo spirito wabi. Rikyû, attraverso la citazione di questa poesia, voleva invitare coloro che desiderano con grande intensità ammirare le fioriture dei ciliegi a rivolgere lo sguardo dentro se stessi, così da realizzare che l’essenza autentica della bellezza dei fiori è già presente nei nostri cuori.

Il villaggio montano ricoperto dalla neve per lui simboleggiava il luogo ideale dove il nostro spirito poteva essere in grado di raggiungere una condizione di libertà dalle passioni.

Rikyû riconosceva l’esistenza di numerose persone che ricercano solo la contemplazione estetica di bellezze appariscenti: le fioriture, i colori delle foglie autunnali, la luna piena; ma nello stesso tempo attraverso la poesia di Ietaka desiderava presentare una sensibilità estetica molto più profonda. Anche nella stanza del tè ci sono persone che sono in grado di apprezzare solo gli oggetti preziosi e rinomati e non riescono ad andare oltre a un’impersonale adesione a canoni estetici largamente condivisi.

Per Rikyû l’erba di primavera che spunta attraverso la neve rappresenta un’immagine ideale di bellezza modesta e non appariscente che si manifesta in un paesaggio naturale apparentemente immoto. Per il maestro del tè inoltre il senso più profondo della bellezza si trova nel ciclo della natura che, attraverso lo spuntare dei fili d’erba, testimonia la transizione dalla stagione invernale, rappresentata dalla neve, alla rinascita della natura che anticipa la primavera. L’immagine del ciuffo d’erba come simbolo del ciclo naturale ha una valenza estetica profondamente minimalista e suggestiva nella sua modestia, rispetto all’eccessiva eccitazione dei nostri sensi prodotta dalle fioriture dei ciliegi e dal rosso cremisi delle foglie d’acero.

Questa percezione estetica veniva sviluppata da Rikyû anche nella stanza del tè, dove alle preziose e antiche porcellane cinesi dalla bellezza appariscente preferiva oggetti nativi dai colori meno brillanti e dalla forma grezza e irregolare, come le tazze nere in stile Raku. L’ideale estetico del maestro Takeno Jô-ô (1502-1555) trovava compimento nella semi-oscurità della stanza del tè, attraverso l’utilizzo combinato di oggetti cinesi antichi e preziosi con oggetti nativi grezzi e irregolari. Rikyû invece attraverso la poesia di Ietaka ci descrive un diverso ideale estetico che si manifesta attraverso la luce, l’energia, la vitalità e la continuità del ciclo della natura e che trova una perfetta rappresentazione nel fascino non appariscente dei ciuffi d’erba tra la neve.

La sensibilità wabi di Rikyû risulta quindi più viva ed estroversa rispetto a quella di Jô-ô e anche la dimensione di tranquillità creata nella stanza del tè è molto più ascetica e modesta. Nell’architettura della stanza del tè il senso estetico wabi di Jô-ô si realizzava nel costruire un ambiente poco illuminato (solitamente esposto a nord) dove l’ombra smorzasse il fulgore estetico degli oggetti preziosi cinesi, i quali non dovevano in alcun modo risaltare rispetto ai ben più sobri oggetti giapponesi.

La stanza del tè di Rikyû, pur non essendo molto più luminosa rispetto a quella di Jô-ô (era solitamente esposta a sud) riusciva comunque a trasmettere un piacere estetico molto più semplice, tranquillo e non artificiale. Rikyû in alcuni casi decise inoltre di ridurre la dimensione classica della stanza del tè costituita da 4 tatami e mezzo portandola a una dimensione più intima di 1 tatami e mezzo, così da renderla sempre più simile a un piccolissimo rifugio montano.

Il grande maestro Sen Genshitsu, XV erede della scuola Urasenke di cerimonia del tè, in un suo scritto relativo alla Via del tè ha raccontato il seguente aneddoto per evidenziare la concezione estetica wabi sabi che Sen Rikyû riscontrava nella poesia di Ietaka: “Una volta, quando chiesi al mio vecchio maestro Gôto Zuigan il significato di sabi, disse: ‘Guarda lo stagno laggiù’. Pur avendo contemplato a lungo lo stagno – situato al Daijuin, non riuscivo comunque a comprendere il significato di sabi. Dissi al maestro che avevo osservato lo stagno e lui mi chiese  se adesso avessi capito. Quando risposi di no, mi diede istruzioni di continuare a osservare. Tornai sulla riva dello stagno e mi sedetti nella posizione zazen sopra una roccia. Era metà inverno e c’erano i fiori di loto avvizziti sulla superficie dell’acqua. Improvvisamente compresi che i fiori non erano semplicemente avvizziti e che la loro bellezza risiedeva nella capacità rigenerativa della natura. Solo allora realizzai che questo era lo spirito sabi. E capii che la forza che si avverte sul punto di emergere nella poesia di Ietaka era sicuramente una manifestazione dell’estetica sabi.

Alberto Moro