L’iki e la modernità
L'”Iki” e la “modernità”, applicati al Kimono, sono difficili da spiegare – ma nella misura in cui la differenza fra i due termini esiste in maniera definitiva nel mondo del Kimono, questi due termini devono essere compresi se si deve parlare del Kimono o saperne qualcosa.
L’”Iki” nel caso del Kimono non significa la stessa cosa di una “persona chic” o avere “un bell’aspetto”. Fra le donne che indossano il Kimono, i termini “Iki “ e “Shibui” e “moderno” sono utilizzati spesso. A parte da “moderno”, questi sono termini non applicati generalmente agli abiti in stile occidentale. Una rigida interpretazione di questi termini sembrerebbe renderli l’antitesi del “moderno”, ma non è così dal momento che tali termini possono essere applicati al Kimono dei giorni nostri.
L’”Iki” non è in nessun modo qualcosa di vecchio. In ogni età, l’”Iki” esiste in una maniera adeguata a quell’epoca. Così, l’”Iki” è qualcosa che consente a una donna al passo coi tempi che può essere molto “moderna”, di dar abilmente vita a un’emozione che potrebbe a tratti essere considerata antica.
Da ciò possiamo dire che l’”Iki” non è in nessun modo qualcosa da considerare separata dalle mode. Al contrario, quello che è di moda può essere considerato “Iki”, Altrimenti, l’”Iki” diventerebbe meramente antico e fuori moda.
Ritengo che esempi del genere possano essere trovati in altri luoghi che nel Kimono giapponese. Direi che esiste fra gli uomini e le donne di tutto il mondo. L’attrice vamp americana Mae West è un’attrice “Iki”. La pistola e i pantaloni aderenti del dinoccolato cowboy americano, l’espressione delle mani parigine, la camminata di un inglese – tutto ciò è vicino a quello che trasmette il termine “Iki”.
Fra le donne giapponesi, ce ne sono alcune con le unghie pittate di rosso che indossano Kimono con il colletto nero. O quelle che indossano un Kimono a strisce sottili di antico design in maniera moderna.Queste sono le donne che raggiungono un effetto con un tocco di antico nel mezzo della regolarità o della moda prevalente.
Un altro termine applicato al Kimono giapponese è “Shibui”.
“Shibui” o “Shibusa” è una sensazione tipicamente giapponese. C’è quella famosa poesia haiku:
“Furuike ya Kawazu tobikomu Mizu no oto.”
Tradotta letteralmente significa: “In un antico lago salta una rana – il suono dell’acqua.”
A meno che il significato di questa breve poesia possa realmente essere compreso, gli stranieri possono trovare difficile apprezzare il senso del “Shibusa”.
Applicato al Kimono, il termine “Shibusa” può essere spiegato al meglio con un Kimono di alto livello chiamato “Tsumugi”. A prima vista, questo è un tessuto dall’aspetto monotono. Comunque, per ottenere il colore e il motivo, ciascun singolo filo viene selezionato e tessuto a mano. Sia la sensazione che la trama hanno profondità. Senza essere vistoso, è autenticamente “Shibui”.
Perché, allora, consideriamo “Shibui” l’Haiku “In un antico lago salta una rana – il suono dell’acqua”? È perché un mondo di profondità è stato scoperto in una scena che la maggioranza delle persone considererebbe ordinaria e comune e forse addirittura la ignorerebbero, e perché è stato cristallizzato in una poesia cioè in ultima analisi in arte.
Ciononostante, dare semplicemente forma al luogo comune non è necessariamente “Shibui”.
Lo “Shibui” è in realtà un gusto lussuoso. È opposto a un tentativo di apparire migliori al fine di attrarre l’attenzione. È il valore inaspettato di qualcosa che non attira l’attenzione a distanza, qualcosa che appare splendido solo quando viene preso in mano per un’ispezione più da vicino. Invece di una eleganza esteriore, è una eleganza interiore.
Dal punto di vista dell’abbigliamento, “Shibusa” è forse più britannico nell’emozione di quanto non sia americano.
È solo naturale che qualcosa come il Kimono, cha ha una lunga tradizione dietro di sé, abbia sia lo “Shibusa” che l’”Iki”. E questi devono trovarsi non soltanto nel motivo e nel colore ma anche nella maniera di indossare per rendere il Kimono inusuale fra gli stili di abbigliamento del mondo.
Keiichi Takasawa
Traduzione di Mariella Minna
Italia - Giappone: le melodie giapponesi incontrano l'opera italiana - Mondovì Saluzzo (Cuneo)
Chihiro Yamanaka (2012) al Blue Note - Milano
Chihiro Yamanaka (2012)
29/04/2012 21.00 Prezzo Advance: € 25,00 Prezzo Door: € 30,00 |
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Chihiro Yamanaka piano Dodici dischi all'attivo sulla prestigiosa Verve Records, Chihiro Yamanaka si e' imposta come tra le pianiste piu' importanti della scena jazz contemporanea. Nativa di Tokyo ma residente a New York, negli ultimi anni ha effettuato concerti in PIANO SOLO, in trio e con Orchestra in jazz festival e venue tra i piu' importanti al mondo. Swing, ritmo, fender rhodes sparsi tra le pieghe dei suoi brani. Una giostra infinita di soluzioni musicali mai scontate, sorprendenti. Il tutto condito da una tecnica pianistica invidiabile e da uno stile impeccabile. Altro particolare non trascurabile, è il senso della melodia, frutto di un suo prolungato soggiorno in Brasile, che le ha aperto le porte alla bossanova ed in particolare alla musica di Jobim. Non è un caso che sia una dei giovani musicisti più richieste dal ghota deljazz internazionale. Si è esibita con importanti nomi del jazz, tra cui Clark Terry, Gary Burton, George Russell, George Benson ed Herbie Hancock. www.chihiroyamanaka.com Blue Note Milano vi aspetta in via Borsieri 37, quartiere Isola, a Milano. |
Strade e stazioni di posta del periodo Edo/Tokugawa (1600 - 1867)
Ieyasu (1542-1616), primo shougun della casata Tokugawa, pose cinque grandi strade sotto il controllo diretto dello shogunato allo scopo di facilitare i viaggi dei daimyou dai loro possedimenti a Edo (oggi Tokyo) e di rafforzare la difesa della città. Il governo Tokugawa aveva infatti imposto il sistema sankin koutai (residenza alternata), per cui i daimyou dovevano risiedere a Edo ad anni alterni e lasciarvi comunque mogli e figli. Tutto ciò allo scopo di tenere sotto controllo i vassalli, costringendoli inoltre a enormi spese per il mantenimento di doppie residenze e di migliaia di persone nel proprio han (feudo) e a Edo.
Le strade che portavano a questa grande città (nel 1720 superava il milione di abitanti) divennero quindi importanti e trafficate, percorse da ogni genere di viaggiatori, commercianti, artigiani e da sgargianti cortei di daimyou accompagnati da un seguito di samurai, dame e servitori. La più importante, conosciuta e frequentata era la Toukaidou resa famosa in tutto il mondo da dipinti e stampe che ne illustrano le 53 stazioni.
Su ognuna di queste strade vi erano stazioni di posta ogni 5 o 6 km., controllate da ufficiali dello shogunato. In esse il viaggiatore trovava tutto quanto potesse essere necessario: negozi, artigiani, cibo, compagnia e locande. Lo honjin (residenza del responsabile inviato da Edo) era riservato a ricevere i daimyou oppure i nobili di corte in transito sulla strada. Si viaggiava a piedi, in palanchino o a cavallo.
Nei punti strategici vi erano barriere (sekisho) che servivano a controllare i movimenti della popolazione.
Ogni viandante doveva passare da questi posti di blocco ed essere controllato accuratamente. Un detto dell’epoca ammonisce: “Attenzione alle donne che escono da Edo e alle armi che entrano”.
La Nakasendou è una tra le strade che si irradiavano da Nihonbashi (al centro di Edo) e portavano alla capitale (oggi Kyoto) o ai domini dei grandi signori nelle province più lontane: attraversava il Giappone nella parte centrale, tra le montagne e una parte di essa, detta Kisokaidou, si snoda lungo il corso del fiume Kiso, che scorre da nord a sud in una impervia vallata tra le Alpi giapponesi settentrionali e quelle centrali. Ricoperta di foreste per il 95% (1700 km. quadrati, circa 50.000 abitanti negli anni ’80, 40.000 negli anni ’90), la valle è per due terzi di proprietà dello stato ed è ricca di grandi conifere, come lo hinoki e il sawara (tipi di cipressi), usate sin dai tempi più antichi per la costruzione di castelli ed edifici religiosi.
Nella vallata si contano 11 città e villaggi i cui abitanti sono in prevalenza boscaioli, falegnami, carpentieri, artigiani che lavorano il legno e allevatori di bestiame. In numero esiguo sono invece gli agricoltori, dato che il terreno coltivabile è scarsissimo.
La Kisokaidou era nota nel passato per i pericoli affrontati da chi la percorreva. Vi si nascondevano ladri e rapinatori che depredavano i viaggiatori dei loro averi, spesso anche uccidendoli. Il passo Torii era famoso come luogo di rifugio di briganti, spesso chiamati kumosuke (“aiutanti nuvola” perché, ingaggiati e pagati a giornata per unirsi ai portatori stabili che a volte erano in numero insufficiente nelle stazioni di posta, erano volatili e transitori come le nuvole). Nel lessico arcaico, kumosuke indica un portatore o un cocchiere rapinatore.
Aperta già nell‚VIII secolo, nel periodo Sengoku (1477-1573) le sue caratteristiche topografiche attirarono l’attenzione dei daimyou: era ideale come base per gli eserciti, facile da difendere e difficile da attaccare. Vi avvennero furiose battaglie e fu teatro di eventi che abbiamo visto mille volte nei film di samurai.
Lungo la Nakasendou vi erano 69 stazioni di posta, undici delle quali sulla Kisokaidou.
Questa via, tracciata all‚interno del Paese, era spesso preferita alla Tokaido, che correva in gran parte lungo la costa e offriva servizi di gran lunga migliori, ma i daimyou la sceglievano perché lungo il suo percorso potevano godere di bellezze naturali quali monti, foreste, fiumi, cascate, passi di montagna come il Magome e il Torii. E, motivo non meno importante, perché lungo la Toukaidou molti fiumi erano senza ponti, per rendere difficile il passaggio di eventuali armate ostili, e dovevano essere attraversati dai daimyou con tutti gli accompagnatori su barche o addirittura in spalla a traghettatori. Ogni anno percorrevano la Kisokaidou almeno 50 daimyou, ognuno con un seguito che andava dai 150 ai 2.000 addetti. Agli inizi del periodo Edo viaggiavano senza pompa né sfarzo, portando gli alimenti necessari, e non disdegnavano di accamparsi per la notte. Col tempo invece questi trasferimenti divennero motivo per ostentare ricchezza e potere, tanto che qualcuno arrivò a portare con sé anche la propria vasca da bagno (solitamente di legno di hinoki).
Nel 1843 Magome, la più piccola delle undici stazioni di posta sulla Kisokaidou, aveva 69 locande che potevano accogliere 717 ospiti, mentre a Narai, la maggiore, vi erano 409 alberghi per 2.155 viaggiatori.
In ogni cittadina 25 portatori e 25 cavalli erano a disposizione per poter trasportare bagagli e vettovaglie fino alla stazione successiva. Ma col tempo, con l’aumento dei viandanti e l’ostentazione di ricchi bagagli, il numero dei portatori si rivelò insufficiente così che fu deciso di ingaggiare la gente dei villaggi vicini per aumentare gli addetti, quando fosse stato necessario. I paesi furono chiamati sukegou (villaggi “aiutanti”) e molti dei loro abitanti morirono per il superlavoro, tanto che lungo le strade si possono vedere steli buddiste erette in loro memoria.
I viaggiatori a volte si prendevano gioco di coloro che li trasportavano, agitandosi e dondolandosi nel palanchino in modo da rendere difficile il movimento e il passo dei poveri portantini; giungevano così a chiedere loro denaro in cambio di un viaggio più tranquillo. Il vocabolo giapponese che indica l’estorsione, yusuri, nasce qui, dal verbo yusuru = scuotere, dondolare, oscillare.
Altri casi di vessazioni nei confronti degli abitanti dei paesi lungo la strada di Kiso si avevano quando un nobile di corte (reiheishi) veniva inviato a Edo dall’imperatore per un incarico particolare. Poteva accadere, a volte, che l’aristocratico cadesse intenzionalmente dalla portantina e poi accusasse i portatori dell’incidente.
Minacciava di informare lo shogunato della negligenza degli addetti al trasporto cosicché la cittadina responsabile di averli forniti, temendo le ire del governo, offriva all’aristocratico del denaro perché tacesse. I nobili della corte imperiale di Kyoto erano all’epoca impoveriti dalle spese ingenti per le cerimonie che dovevano avere luogo in continuazione per motivi religiosi o di “rappresentanza”. Capitava addirittura che i creditori del nobile (commercianti di riso, toufu, pesce o altro) lo accompagnassero nascondendosi tra il seguito e che estorcessero denaro ai villaggi con la sua connivenza. E ancora, approfittando del fatto che, secondo la regola, le armature viaggiavano gratis indipendentemente dal peso, alcuni samurai le riempivano di oggetti diversi così da non pagare il trasporto.
Nel 1861 una sorella dell‚imperatore con un seguito di 30.000 persone si recò a Edo, dove avrebbe sposato il 14° shougun, Tokugawa Iemochi. Ci vollero quattro giorni per percorrere il tratto della Kisokaidou e ogni notte occupavano quattro stazioni di posta perché le locande di una sola non erano sufficienti per quel numero spropositato di personaggi.
La Kisokaidouera anche affollata da pellegrini che si recavano al tempio Zenkouji oppure alle sacre montagne Ontake e Kiso komagatake. Ciò avvenne fino al periodo Meiji (1868-1912), quando le stazioni di posta vennero abolite e le antiche strade abbandonate per essere sostituite da moderne vie o da linee ferroviarie. Per fortuna, perché il percorso del fiume Kiso nella sua valle selvaggia è rimasto un luogo di natura intatta, con strade lastricate di pietra, villaggi e case centenari preservati per la gioia dei viaggiatori moderni.
Una specialità di Tsumago e paesi lungo il Kiso, è la soba (vermicelli di grano saraceno). Il grano saraceno cresce velocemente, anche in montagna, e offre più raccolti in un anno. In questi villaggi non era possibile coltivare riso in grande quantità e non era quindi alla portata della gente comune. A Tsumago sembra di avere viaggiato indietro nel tempo di diversi secoli. Ci si aspetta di vedere uscire dalle locande un samurai con le due spade o una intrattenitrice itinerante con il suo shamisen e un largo cappello che la protegge dal sole o dalla pioggia.
Questo paesino è il meglio conservato tra quelli sulla Kisokaidou. Non vi sono fili elettrici visibili né altri marchingegni moderni, così che qui vi vengono ancora oggi girati i film di samurai. Nel 1969 un gruppo di residenti e di appassionati si mise a studiare come salvare gli edifici del periodo Edo e restaurare le antiche case per riportare Tsumago all’antico splendore. Approfittando del fatto che il villaggio era stato poco modernizzato grazie alla sua lontananza dai centri maggiori e che aveva sofferto rari incendi (comuni in Giappone), vi erano rimaste abitazioni tradizionali che potevano essere restaurate o rimodellate secondo lo stile dell’epoca. Riapparvero così l’ufficio postale, la scuola elementare, l’ufficio dell’associazione degli agricoltori e 26 case private in cui vivono più di un centinaio di persone. Le cassette postali sono degli inizi del periodo Meiji (1871, anno dell’istituzione del servizio), dato che nell’epoca Edo non esisteva un vero e proprio servizio postale e soprattutto non vi era l’uso di porre le cassette davanti a ogni casa. Negli anni ’90 questa zona attirava già 900.000 turisti all’anno e si presentava il problema di costruire alberghi, ma i residenti preferirono mantenere le antiche locande o far accompagnare i turisti dagli autobus fino ad alberghi costruiti fuori dalla vista o in altri villaggi. Vi è naturalmente una strada asfaltata percorsa da automobili e autobus, ma si trova alle spalle del paese, così che la strada che lo attraversa è ancora pavimentata con pietre, almeno in alcune parti più caratteristiche.
Per gli appassionati oggi sono percorribili a piedi lungo l’antica strada circa8 km (e le pietre che si calpestano sono state posate più di trecento anni fa) che costeggiano case coloniche, orti e piccole risaie o si snodano per salite e discese in una splendida selvaggia foresta.
di Graziana Canova Tura, da Pagine Zen numero 59/60
La fotografia erotica giapponese
di Giuseppe De Francesco
L’erotismo in Giappone, in tutte le sue più svariate manifestazioni, è un elemento che fluttua all’interno di una cultura che da millenni valorizza la nozione di caducità.
L'identità degli esseri è transitoria, il piacere è fugace, la logica è sfocata, il reale è virtuale e la bellezza è mortale per definizione. Quanto al sesso, inevitabilmente assume contorni protéiformi, polimorfi e perversi. È impregnato di questa tradizione che dona ad ogni cosa un anima: uomo, donna, farfalla, pietra o fiore, tutto in questo mondo giapponese (buddista e shintoista) partecipa in una tendenza universale a fare l'amore in tutti modi possibili. A differenza del mondo occidentale, qui l’attività sessuale si svolge più con lo spirito degli elementi in causa che attraverso gli organi genitali. In questo paese che non conosce il sistema binario, che non oppone l'uomo alla donna, né il male al bene non sembra esserci alcuna barriera alle immaginazioni erotiche. In questo contesto le arti figurative - più nello specifico la fotografia - ci portano delle visioni di un erotismo assolutamente diverso ed apparentemente incomprensibile quando accostato al nostro.
Possiamo trovare una testimonianza particolarmente feconda ed emblematica attraversando l’opera di Nobuyoshi Araki, uno dei più controversi e più rappresentativi artisti della contemporaneità. Per Araki la fotografia è uno strumento di ricerca iconica attraverso il quale costruire dei quadri esteticamente raffinati e sublimi, che sprigionano un cupo erotismo. Benché egli sovente rappresenti in maniera esplicita il sesso dei suoi soggetti, fatto decisamente raro in un Paese come il Giappone dove la censura di questo tipo di immagini è onnipresente fin dal periodo Edo, la carica erotica delle opere viene piuttosto trasmessa dalla tensione interiore delle figure fotografate e dai sottilissimi rapporti che l’artista costruisce tra di esse. Il risultato di quest’operazione sono delle immagini inquietanti all’interno delle quali la lettura dei singoli elementi può risultare fuorviante. Nell’universo di Araki il kinbaku, una forma giapponese del bondage, non è altro che un modo diretto per arrivare al cuore di una donna, quasi fosse una profonda forma di abbraccio, mentre i fiori presenti nella scena rappresentano i genitali femminili in tutta la loro carica erotica. Durante la realizzazione delle immagini il fotografo si trova a breve distanza dal soggetto, a sottolineare le implicazioni che l’amore ha con la prossimità degli odori, delle sensazioni e degli ambienti.
Un altro esempio caratteristico della rappresentazione dell’eros attraverso il mezzo fotografico, si può trovare lasciandosi guidare dalle immagini di Rinko Kawauchi. In questo caso, l’uso di colori muti ed un leggero gioco di sfumature, con i quali l’artista cattura la bellezza dei momenti più profondi e silenziosi della vita quotidiana, ci riportano ai temi della relazione dell’uomo con la natura e - più in generale - con il ciclo della vita. Il risultato è la creazione di una particolare atmosfera di inspiegabile bellezza, all’interno della quale gli elementi, combinati insieme, formano un flusso visivo magicamente coerente, che al tempo stesso trasmette un senso di sottile inquietudine all’osservatore.
Semi d'anguria in un piatto, una goccia di rugiada nell'incavo di una foglia, un'ape che agonizza su un davanzale, l’artista si cimenta nella collezione di elementi apparentemente inutili organizzando il proprio racconto attraverso la relazione tra le immagini. Questi lavori in serie assumono una forma narrativa aperta che combina poesia ed emozione con la rappresentazione della mortalità, attraversata da una occasionale melanconia. Il formato quadrato, con il quale l’artista prova una sorta di “affinità fisiologica” consente di definire dei microcosmi, estrapolandone la compiutezza del significato e la perfezione interiore. La raffigurazione squisitamente delicata di ogni singolo dettaglio concorre, infine, allo svelamento delle varie fasi della vita, portando alla creazione di veri e propri haiku visivi.
Il complesso immaginario erotico giapponese si esplicita attraverso una ricerca fotografica dotata di un estetica dalle tinte apparentemente perverse e decadenti, sotto le quali si celano un profondo e mai dissimulato senso di caducità della vita e, con essa, dell’esperienza amorosa.
www.giuseppedefrancesco.com
Thermae Romae - Far East Film Festival di Udine
Music for Japan - Siena
Paesaggi di cultura giapponese
MUSIC FOR JAPAN
Martedì 24 aprile approda a Siena il tour europeo di Chihiro Yamanaka Trio
Martedì 24 aprile alle ore 21.00 in Sala San Pio, Complesso Museale Santa Maria della Scala, si terrà il concerto del CHIHIRO YAMANAKA TRIO dal titolo Music for Japan, con Chihiro Yamanaka, Mauro Gargano, Mickey Salgarello, e la direzione artistica di Michela D'Alessandro.
La serata è inserita all'interno di Paesaggi di cultura Giapponese, l'evento è organizzato dal Comune di Siena e da Neverland l'isola che non c'è, in collaborazione con diverse realtà del territorio.
Un’ anteprima a Siena, in cui Chihiro Yamanaka presenta il suo ultimo lavoro REMINISCENCE. La serata fa parte di un tour europeo tra Italia, Francia, Austria e Germania, che rappresenta un omaggio al Giappone nel primo anniversario della catastrofe dello tsunami.
Una giostra infinita di soluzioni musicali mai scontate, il tutto condito da una tecnica pianistica invidiabile e da uno stile impeccabile, quello di Chihiro Yamanaka, pianista tra le più importanti della scena jazz contemporanea, o, come la definisce il New York Times: ‘Tra le pianiste più importanti e geniali del 21° secolo’.
Nata a Tokyo e residente a New York, negli ultimi anni ha presentato concerti in piano solo, in trio e con Orchestra in jazz festival e venue tra i più importanti al mondo. Swing, ritmo, fender rhodes sparsi tra le pieghe dei suoi brani e le influenze di sonorità tipiche della bossanova.
In questo lavoro è accompagnata al contrabbasso da Mauro Gargano e alla batteria Mikey Salgarello, tra i musicisti più innovativi del panorama jazz internazionale.
Ingresso a pagamento 10€ fino ad esaurimento posti
Informazioni e prenotazioni:
Complesso Mussale santa Maria della Scala
Piazza Duomo, 1 – 53100 Siena
La Fotografia del Giappone (1860-1910). I capolavori - Napoli
Villa Pignatelli - Casa della fotografia
Sede Riviera di Chiaia 200, Napoli 80121 - Mappa
Informazioni Tel +39 081 669675 | sspsae-na.pignatelli@beniculturali.it
Da sabato 21 aprile 2012 a domenica 03 giugno 2012
La Soprintendenza Speciale per il Patrimonio storico, artistico, etnoantropologico e per il Polo museale della città di Napoli e gli Incontri Internazionali d’Arte, nell’ambito del progetto Villa Pignatelli – Casa della fotografia, presentano una selezione di circa 150 stampe fotografiche originali realizzate tra il 1860 e i primissimi anni del Novecento dai grandi interpreti giapponesi ed europei di quest’arte.
Le immagini - profondamente caratterizzate dalla ricerca di un’armonia sottile fra le cose: paesaggi, edifici, architetture d’interni, scene di vita quotidiana, ritratti di uomini e donne - erano destinate prevalentemente ai viaggiatori stranieri e offrivano rappresentazioni del paesaggio e della cultura giapponese con la funzione di produrre souvenir di viaggio e della memoria esotica.
Sono esposte le opere di alcuni grandi fotografi delle origini, primo fra tutti Felice Beato (1833 - 1907) che, immediatamente seguito da artisti giapponesi, diede vita a uno stile, chiamato Scuola di Yokohama. Il percorso espositivo, organizzato per sezioni, indaga la rappresentazione del paesaggio e la natura “educata” dalla cultura, il gusto dell’esotismo e il profondo rapporto tra la fotografia e le stampe dell’ukiyo-e. L’immagine della donna è colta nei molteplici aspetti della bellezza e della vita quotidiana, in casa, al lavoro nelle botteghe e nei campi, nei quartieri a luci rosse chiamati “città senza notte”. O ancora, attenta e curata è la proposta degli stereotipi dell’immagine maschile, dai samurai ai bonzi, dai lottatori di sumo a tutti gli interpreti quotidiani di una realtà ideale che, talvolta, declina anche verso l'«anormalità» e il capriccio.
La relazione fra il sacro e il profano viene esaminata attraverso una serie di fotografie che ritraggono le attività lavorative e altre scene di vita comune, i templi, le cerimonie e le feste.
La mostra si snoda con le opere dei grandi interpreti della fotografia giapponese, come Kusakabe Kimbei, considerato da molti il più eccellente interprete della Scuola di Yokohama.
L’esposizione è accompagnata da un catalogo a cura di Francesco Paolo Campione e Marco Fagioli
edito GAmm Giunti, che affronta con il contributo di diversi specialisti i differenti aspetti della
fotografia in Giappone.
In occasione della mostra l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale ha organizzato un ciclo di conferenze a cura del professor Giorgio Amitrano, che si terranno ogni sabato mattina nella sala delle conferenze del museo per tutta la durata dell’esposizione.
INAUGURAZIONE SABATO 21 APRILE, ORE 11
21 aprile - 3 giugno 2012
Orario: 8.30-14.00; chiuso martedì
Ingresso: € 2.00
Informazioni: Tel. 081 7612356 – Fax 081 669675 sspsae-na.pignatelli@beniculturali.it
www.polomusealenapoli.beniculturali.it; facebook.com/villapignatellicasadellafotografia
Ufficio Stampa
Soprintendenza - Simona Golia, tel. 081.2294478, sspsae-na.uffstampa@beniculturali.it
Incontri Internazionali d’Arte,tel. 06.68804009, fax. 06.68803993,incontriinternazionalidarte@gmail.com
CONFERENZE
Organizzate dall’Università degli Studi di Napoli L’Orientale,a cura del professor Giorgio Amitrano.
Sabato mattina nella sala delle conferenze del museo per tutta la durata dell’esposizione.
Sabato 28 aprile ore 11
Francesco Paolo Campione
(Direttore del Museo delle Culture di Lugano)
La scuola di Yokohama
Sabato 5 maggio ore 11
Lucia Caterina
(Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)
L’arte giapponese incontra l’Occidente
Sabato 12 maggio ore 11
Silvana de Maio
(Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)
La città giapponese dall’epoca Meiji ai nostri giorni, tra continuità e nuovi inizi.
Sabato 19 maggio ore 11
Giorgio Amitrano
(Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)
La malinconia e la bellezza. Riflessioni sul sentire giapponese.
Sabato 26 maggio ore 11
Franco Mazzei
(Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)
Il Giappone dalla tradizione al postmoderno.
Con il Patrocinio della Fondazione Italia Giappone (www.italiagiappone.it)
Cerimonia del tè all’orto botanico - Parma
via Farini 90, Parma
tenuta da Mayumi Mezaki Sensei
domenica 22 aprile 2012
ore 15.30
Organizzazione: “Aiki Juku Dojo” in collaborazione con “Amici dell’Orto Botanico di Parma” e Università degli studi di Parma
Per informazioni: info@aikijukuparma.com, www.aikijukuparma.com
In caso di maltempo la cerimonia si terrà presso la sede dell’associazione in b.go S. Giuseppe!26 a, Parma
I periodi Jōmon, Yayoi e gli albori della musica Giapponese
I primi periodi della storia musicale giapponese sono irti di problemi e controversie che a tutt'oggi sono ben lungi dall'essere risolti a causa della mancanza di fonti valide e dalla contaminazione col mito che gli stessi giapponesi, stanziatisi nello Yamato (le attuali prefetture di Osaka, Nara e Wakamiya) costruirono successivamente. A differenza di quanto accade in occidente, di cui ci rimangono una cinquantina di minuti del repertorio musicale greco (peraltro molto discutibili) dei periodi antichi le uniche testimonianze a cui possiamo affidarci in maniera incontrovertibile sono gli strumenti musicali sopravvissuti. Del periodo preistorico, che finisce nel300 A.C. ci sono rimasti solo alcuni fischietti di pietra forata, chiamati ishibue,in grado di emettere non più di quattro o cinque note, rintracciabili in fattura simile anche in altri scavi della vicina Corea, mentre altrettanto interessante è un altro strumento oggi conservato al Gakkigaku Shiryōkan del Kunitachi College of Music, una dorei (fig.1), campana, la cui datazione al Jōmon, nonostante le decorazioni tipiche, è profondamente messa in discussione; infatti nessun altro esemplare simile o assimilabile a questo tipo è stato sino ad ora rinvenuto, rendendo impossibile esprimersi in maniera certa.
Con la successiva civiltà che prenderà il nome di Yayoi (il suo nome deriva dalla zona di Tōkyō, Yayoi-chō, in cui per la prima volta vennero rinvenuti i primi manufatti di questo periodo) che si concluderà nel 250 D.C., grazie soprattutto alle migrazioni delle popolazioni del continente sull'arcipelago giapponese, si iniziarono ad impiegare attrezzi di metallo e di bronzo, nonché a fare dell'agricoltura uno dei punti di forza dell'economia interna, avviando un processo che porterà il Giappone sulla via di una stratificazione gerarchica che da lì a qualche secolo avrebbe visto nascere in Yamato la prima dinastia regnante. Anche gli annali cinesi, in particolare il Wei Chih del 297 e lo Hou Han Shu del 445, restituiscono oltre all'immagine in una terra solcata da divisioni sociali anche quella di una popolazione dedita soprattutto Associazione Culturale Italo Giapponese Fujiall'agricoltura ed amante delle pantomime, dei canti e delle danze. E proprio a questo periodo risale una controversia musicale che dura ancora oggi: nel1943, aToro, vicino alla città di Shizuoka, venne rinvenuto un wagon, cetra giapponese, databile intorno al 250 D.C.,che farebbe di questo strumento, anticamente ritenuto di origine continentale, un prodotto genuino delle popolazioni giapponesi antiche. Ma questa non è l'unica testimonianza della vita musicale nello Yayoi, proprio grazie alla migrazione delle popolazioni straniere si rese possibile la forgiatura delle dōtaku (fig. 2) o nuride, particolari tipi di campane, costruite in bronzo, spesso usate senza batacchi e, forse, utilizzate anche come simbolo d’autorità.
Il luogo di ritrovamento nelle zone del Kantō, nel Kansai (zona di ōsaka), nello Shikoku ed in misura minore nella regione di Chōgoku, ha fatto ipotizzare ad alcuni studiosi, tra cui Harich-Schneider, di una possibile immigrazione che entrasse dal nord del Giappone e proseguisse verso sud, senza arrivare alle isole Kyōshō, andando in controtendenza all'idea di una possibile popolazione dell'arcipelago proveniente da sud, che comunque non spiega la completa assenza di manufatti di questo periodo nelle isole sopra citate e nel sud dello Shikoku. Anche uno degli antichi annali giapponesi, lo Shoku Nihongi, riporta come nel sesto anno dell'epoca Wadō, il 713 D.C.,un uomo del villaggio di Namusaka, di nome Udagōri, ritrovò una dōtaku nella terra di Nagaokanu, alta tre shaku (90 cm) e di uno shaku di diametro (30 cm) con una forma non ordinaria (per lo standard del periodo in cui viveva l'uomo) ed un suono in accordo con la scala musicale a quel tempo vigente, il che apre ulteriormente la possibilità a nuove ipotesi, essendo le scale musicali tutte di importazione cinese non prima del VI-VII secolo. Per decreto imperiale venne ordinata la sua preservazione negli anni ma non è oggi identificabile, ammesso l'episodio come veritiero, con quelle in nostro possesso e purtroppo nulla rimane su come queste avessero parte nella reale pratica musicale dōtaku.
Al di là dell'aneddoto, il fatto riportato rimane comunque curioso, soprattutto perché è facile chiedersi come mai queste campane venivano trovate in luoghi isolati, lontane dai centri abitati e vicino ai pendii delle montagne invece che preservate in templi o altre istituzioni dell'epoca. Molto probabilmente queste erano utilizzate nei templi solo durante le festività e per il resto dell'anno dovevano rimanere nascoste come oggetti segreti, sino a quando tale pratica non venne completamente abbandonata, decretando contemporaneamente anche lo smarrimento ed il non recupero delle campane ancora sepolte. Le forme di queste campane sono riassumibili in due tipologie, entrambe con decorazioni inerenti la natura. La prima, che è anche la più antica e di dimensioni ridotte, è stata rinvenuta anche in alcuni luoghi della Corea mentre la seconda, più diffusa ed a volte di dimensioni maggiori, è stata fino ad ora rinvenuta solo su territorio giapponese.
L'ultimo strumento certamente risalente a questo periodo è lo tsuchibue, di forma ovale con un numero di fori variabile da quattro a sei, simile Feimoall'ocarina e derivante quasi certamente dal flauto cinese xun. A conferma di questa parentela vi è un ritrovamento del 1966 di uno strumento in tutto uguale a quello cinese ad Ayaragi no Godaichi nella prefettura di Yamaguchi. Chiamato in tempi più recenti ken o kon, ma con uguale scrittura, la sua origine in Cina è ben più antica della sua prima comparsa e si attesterebbe tra il 6000 ed il5000 A.C. circa.
Edmondo Filippini