Aruitemo Aruitemo - Ritratto di una famiglia tra morte e memoria

“Un mare apparentemente calmo che, con l’alzarsi e l’abbassarsi della marea, è continuamente increspato da piccole onde.”: così descrive Koreeda Hirokazu il trascorrere del tempo in Aruitemo aruitemo.

Quelle tanto piccole quanto significative increspature sono raccolte nel film come foto in un vecchio album di famiglia che, sfogliato pagina dopo pagina, tratteggia, ma non rivela apertamente, la complessità delle vicende  della famiglia Yokoyama, protagonista della pellicola.

Il film ritrae la famiglia durante l'annuale commemorazione della scomparsa del primogenito Junpei, annegato per salvare la vita di un ragazzino sconosciuto. L’interesse del regista si concentra sul quotidiano, su come i personaggi affrontino la loro nuova esistenza, svelando a poco a poco i rapporti tra gli anziani genitori, Toshiko e Kyōhei, e i due figli rimasti, Chinami e Ryōta. I genitori, del tutto incapaci di superare la perdita del figlio prediletto, sembrano vivere nel suo ricordo, lasciando che la morte domini le loro vite. Diverso è, invece, l’atteggiamento dei due figli: la maggiore sembra essersi lasciata il passato alle spalle vivendo il presente e pensando al futuro, mentre il minore, meno spensierato della sorella, è vittima della frustrazione del padre che non può fare a meno di paragonarlo al figlio perso e ritenerlo un buono a nulla.

L’anniversario si trasforma in una vera e propria rievocazione del dolore con la rituale visita del ragazzo salvato, espressamente voluta da Toshiko. L’episodio contrasta con il clima nostalgico e tranquillo percepito fino a quel momento dando sfogo alla crudeltà dei due genitori. La madre desidera ricordare costantemente al ragazzo il peso del sacrificio che la famiglia ha dovuto affrontare per salvare la sua vita, che, soprattutto secondo Kyōhei, non valeva certamente il prezzo che è stata pagata.

Aruitemo aruitemo è girato dal punto di vista di Ryōta che non risulta però essere il personaggio principale in senso assoluto. Protagonista della pellicola non è il singolo individuo, ma la collettività, in questo caso la famiglia Yokoyama nel suo insieme. Tuttavia  Koreeda applica ai membri della famiglia un isolamento visivo per mettere in evidenza alcune di quelle piccole increspature che agitano la superficie di tranquillità della giornata. L’esempio più toccante è il mezzo primo piano su Yukari durante una conversazione con Toshiko: l’inquadratura cattura il sorriso della donna che si dilegua a poco a poco fino a sparire completamente quando la suocera afferma che forse la cosa migliore sarebbe che lei e Ryōta non avessero dei figli loro.

 

Ancora una volta Koreeda utilizza la memoria per dissolvere i confini tra realtà e finzione e il mezzo cinematografico per filtrare il reale. In Aruitemo aruitemo sono presenti diversi elementi che rievocano ricordi, alcuni propri della memoria di Koreeda (la figura di Toshiko è ispirata alla madre del regista), altri appartenenti ad una memoria collettiva e quindi presumibilmente noti anche allo spettatore e altri ancora di origine puramente fittizia.

Ai temi cari a Koreeda della morte e della memoria, in Aruitemo aruitemo si aggiunge quello della famiglia, la cui esplorazione, intima e personale, è condotta dall’interno, dal punto di vista di un figlio che vive un rapporto distaccato con i propri genitori. Come nei drammi familiari del cinema più tradizionale, Koreeda dipinge con una sensibilità tutta giapponese un modello della tipica famiglia nipponica, ma grazie all’universalità dei sentimenti presentati, il film risulta accessibile anche ad un pubblico occidentale. I personaggi sono persone del tutto ordinarie con preoccupazioni comuni a qualsiasi cultura, come il progressivo invecchiamento dei genitori e l’apprensione che ne deriva, nei cui atteggiamenti si celano tensioni e disaccordi non sempre dichiarati.

Allo spettatore non resta che lasciarsi condurre da Koreeda attraverso il mare dei sentimenti umani e le sue increspature, in cui si trova l’essenza della vita di tutti.

Maddalena Pologna


Un tanka alla settimana

"Leggiadro pino
sulla riva di Sumiyoshi,
se tu fossi una persona
ti chiederei
quante ere hai vissuto."

"Sumiyoshi no
kishi no himematsu
hito naraba
ikuyo ka heshi to
towamashi mono o"

住吉の
岸のひめ松
人ならば
幾世かへしと
問はまし物を

Anonimo


FujiQ Highland, emozioni da guinness (parte 1)

Situato alle pendici del Monte Fuji, il parco divertimenti più famoso del Giappone risalta su uno sfondo pittoresco: le vertiginose montagne russe spiccano su uno sfondo di alberi fioriti e colline verdi sovrastate dall'imponente eleganza del Monte Fuji, l'indiscusso protagonista del quadro. In primavera, data la bellezza del paesaggio circostante, il FujiQ è un'esperienza magica; per tutto il resto dell'anno, specialmente per gli amanti dell'adrenalina, è semplicemente un'esperienza imperdibile.

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Biglietto giornata intera

Il FujiQ con i suoi roller coaster futuristici, vanta numerosi record mondiali, insieme ad un'ampia varietà di attrazioni per famiglie ed aree dedicate agli appassionati di manga. L'entrata al parco costa circa 48€ per una giornata intera e permette il libero accesso alla maggiorparte delle strutture. In alternativa, l'ingresso alle attrazioni può essere pagato singolarmente (il prezzo varia intorno agli 8€ per corsa). Anche se un pò caro, vi posso assicurare che il parco li vale tutti, e che alla fine della giornata non ne avrete abbastanza. Un punto su cui consiglio di prestare attenzione è la scelta del giorno della visita: nel caso in cui progettiate di visitare il parco durante giorni di festa nazionale, preparatevi a lunghissime attese. In particolare durante la Golden Week, la media è di 3 ore di coda per ogni attrazione.

La sezione del parco dedicata agli amanti dell'adrenalina è composta da quattro attrazioni principali, ciascuna incredibile a modo suo:

Eejanaika - Se siete curiosi di vedere il mondo a testa in giù, questa è l'attrazione giusta. L'Eejanaika è il roller coaster con più giri su sè stessi al mondo ed appartiene alla categoria delle montagne russe ''a quattro dimensioni'' (per ulteriori informazioni cliccare qui ). Durante la corsa i passeggeri vengono sottoposti a 14 capovolgimenti nell'arco di un minuto. La posizione dei sedili (autonomi nel movimento rispetto al vagone) accompagna le numerose e mozzafiato cadute libere, permettendo al passeggero di osservare, seppure per brevissimi momenti, curiose prospettive sul paesaggio intorno a sè. La mancanza della struttura sotto i piedi e le continue evoluzioni della pista contribuiscono allo sviluppo di un senso di libertà e smarrimento che rendono il ricordo di questa montagna russa indimenticabile. L'Eejanaika, letteralmente ''Non è fantastico?'', pone una domanda a cui è facile rispondere. Sì, è decisamente fantastico. Tuttavia, essendo in tutti i sensi un'esperienza a 360°, lo consiglierei solo agli stomaci più forti!

eejanaika(Per vedere la corsa completa --> https://www.youtube.com/watch?v=cgbWjTGOqBk)

Fujiyamaaltresì definito come il ''Re delle montagne russe'', è l'attrazione più antica all'interno del parco. Aperto al pubblico nel 1996, con i suoi 79 mt di altezza ha detenuto per un certo periodo il titolo di roller coaster più alto, più veloce e con la discesa più alta del mondo. Nonostante i suoi 21 anni di servizio la pista non delude affatto, l'ebbrezza della velocità e la sensazione di vuoto in caduta libera vengono anzi percepiti in maniera estremamente nitida. Durante la prima salita, in una giornata limpida è possibile osservare per lungo tempo l'elegante profilo del Fuji. Una buona distrazione da ciò che sta per succedere! 70 metri di caduta libera ed una pista che si sviluppa su 2km percorsa ad un picco di 130 km/h. Unica nota negativa, per colpa della durezza dei sedili e dei cambi di direzione a gran velocità, ne si esce con un gran mal di schiena.

fujiyama-fuji-q-highland

(Per vedere la corsa completa --> https://www.youtube.com/watch?v=Xx4_NgCgGP4)

TakabishaSe siete dei veri collezionisti di record nei parchi divertimento, di certo non potrete lasciarvi sfuggire il roller coaster con la discesa più ripida al mondo. Aperta al pubblico nel 2011, questa attrazione è senza dubbio una delle più imprevedibili e sconvolgenti del parco. Già a partire dal nome (''il prepotente'' , ''il tiranno'') , potete cominciare a farvi un'idea su cosa vi aspetti. Il primo tratto viene percorso al buio completo. Dopo qualche giro della morte e qualche curva a velocità folle, si arriva alla parte che dà senso al nome della corsa. Una salita verticale (sì esatto, a 90° rispetto al terreno) che culmina in una discesa tanto ripida da non poter vedere la pista nemmeno sporgendosi in avanti. L'angolo che vanta il record mondiale (e che vi farà andare in tachicardia) è di 121° , e rende questa attrazione assolutamente unica ed impressionante. Sulla cima il vagone rallenta considerevolmente, per poi fermarsi brevemente sul ciglio della discesa e favi ammirare il panorama mentre soffrite i secondi più lunghi del mondo. Dall'infame discesa in poi, si susseguono altri giri della morte ed altre emozionanti evoluzioni, certamente non da meno rispetto le altre piste.

takabisha.jpg

(Per vedere la corsa completa --> https://www.youtube.com/watch?v=M9Vy_YzhwHE)

Dodonpalast but not the least (anche perchè è il mio preferito), vi presento il roller coaster con l'accelerazione più potente del mondo. Vi siete mai chiesti cosa prova un pilota di un Formula 1 durante la partenza? Salendo su questa attrazione ve ne farete un'idea. Aperto al pubblico nel 2001, il Dodonpa si appropria immediatamente di due record mondiali: roller coaster più veloce del mondo (perso alcuni anni dopo), e roller coaster con la maggiore accelerazione al mondo (titolo che detiene tutt'ora). Nonostante la durata della corsa sia di poco inferiore al minuto, è l'attrazione che più mi ha lasciata a bocca aperta (e che a dirla tutta, più mi ha terrorizzata!). A partire dall'ingresso, l'attesa in coda è accompagnata dall' insistente suono dei tamburi giapponesi, che fa montare la tensione ed il senso d'inquietudine. La partenza, momento cardine dell'attrazione, viene effettuata all'interno di un tunnel con tanto di semafori e countdown, il quale occasionalmente ha dei ''malfunzionamenti''. Alla fine del conto alla rovescia, alle volte viene improvvisato un problema tecnico per cui la partenza viene ritardata di alcuni secondi, sottoponendo i passeggeri ad un lancio a sorpresa ancor più gradevole di quello in previsione. Alla fine del countdown, si passa dunque da 0 a 172 km/h in 1.8 secondi. Se provate ora a contare due secondi, e pensate che in quel tempo venite sparati ad una velocità che rende impossibile persino gridare, probabilmente potete cominciare ad immaginare l'originalità di questa attrazione. Per rendere quest'esperienza ancora più stravolgente ai vostri occhi, specifico che la forza alla quale si viene sottoposti durante la partenza, è molto simile a quella a cui vengono sottoposti gli astronauti nella fase di decollo. A questa velocità la corsa prosegue su una discesa tanto ripida da riuscire a sollevare completamente il corpo dal sedile, per poi terminare in una serie di evoluzioni che nel complesso rendono questa attrazione un'esperienza straordinaria. Sia per la sensazione di totale impotenza durante la prima fase che per l'overdose di adrenalina durante il resto della pista, questa è senza dubbio la mia attrazione preferita. Attualmente è in fase di rinnovo, ma verrà riaperta al pubblico a breve (luglio 2017).

Dodonpa.original.35516.jpg

(Per vedere la corsa completa --> https://www.youtube.com/watch?v=woyRp9nN_gg)

(to be continued)


Un tanka alla settimana

"Solo quello che si vede
durante il sonno
dovrei chiamare sogno?
Anche questo mondo effimero
non mi sembra una realtà."

"Nuru ga uchi ni
miru o nomi ya wa
yume to iwamu
hakanaki yo o mo
utsutsu to wa mizu."

寝るがうちに
見るをのみやは
夢といはむ
はかなき世をも
現とは見ず

Mibu no Tadamine (898 - 920)


Un tanka alla settimana

"Orsù, fiore di ciliegio,
anch'io cadrò come te.
Dopo un breve attimo
di fioritura, mi vedranno
in pietoso stato."

"Iza sakura
ware mo chirinamu
hitosakari
arinaha hito ni
ukime mienamu."

いざさくら
我もちりなん
一盛り
有りなば人に
憂めみえなん

Sōku


Prossima destinazione - Ciliegi fioriti

 

“Ogni giorno è un viaggio e il viaggio è la dimora” scriveva il poeta Matsuo Bashō (1644-1694), nelle prime righe del suo diario in pellegrinaggio attraverso il Giappone. Questo haiku torna alla mente scorrendo le tappe del percorso che ripercorre una delle antiche strade che collegavano Edo (l’attuale Tōkyō) a Kyōto e al resto del Paese. Ai tempi del poeta si viaggiava a piedi e sono ancora tanti i sentieri percorsi da escursionisti-pellegrini che si fermano ad accendere un bastoncino d’incenso in ogni santuario sul cammino. Ancora oggi il sentiero di Bashō si snoda attraverso paesaggi eterni e antichi luoghi di culto, tagliando boschi secolari e campi di riso. Il viaggiatore può recuperare il contatto con il passato, si può immaginare come si viveva nel Giappone del periodo.

Fu il primo shogun, Togugawa Ieyasu, a volere questa via di collegamento chiamata Nakasendō , la via in mezzo alle montagne, contrapposta a quella che costeggiava il mare. Alcuni degli undici snodi di smistamento della posta e delle stazioni di rifornimento che punteggiano il primo tratto, raggiungibili un tempo solo a piedi, hanno mantenuto il fascino di allora e conservano la tipica architettura rustica. Alla ruralità dei villaggi si alterna la solennità composta dei santuari shintoisti.

Al termine della guerra civile, grazie ai Tokugawa emerse una nuova classe: i chōnin (abitanti della città) la nuova borghesia cittadina. I membri della classe artigiana e mercantile che abitavano le città esercitavano professioni molto diversificate: il mercante all'ingrosso accanto al venditore ambulante, l'incisore e il forgiatore di spade, il ristoratore e il proprietario di mescite di sakè. Artigiani e artisti che ci hanno lasciato pettini, ventagli, kimono, ceramiche, paraventi, monili e così via, oggetti di fattura e gusto squisiti. Questo è l’ambiente che ritroviamo visitando Tsumago e Magome. Passeggiando nelle viuzze principali ci si imbatte nelle botteghe artigiane che risalgono all’epoca Edo (1603 - 1868), come le antiche case nobiliari dall’inconfondibile architettura con porte scorrevoli affacciate su giardini curatissimi.

Dai villaggi agricoli alla città la distanza è breve. A Kyōto, possiamo ancora trovare il quartiere che fu delle geisha e dei samurai come nel XVII secolo. Uno dei fenomeni culturali che si svilupparono nel periodo Edo fu proprio la nascita dei quartieri di piacere, vere e proprie città nelle città. La loro istituzione mirava a porre sotto controllo governativo il fenomeno della prostituzione. Il termine "quartiere di piacere" però è un'etichetta fuorviante: non si tratta solo di un luogo dedicato al commercio sessuale, ma un organismo complesso dove nuove forme d'arte, musica e letteratura nacquero e si svilupparono, contribuendo a fare della cultura di Edo uno dei momenti più brillanti della storia giapponese. Addirittura vennero coniati nuovi termini per definire le qualità del "frequentatore dei quartieri di piacere", lo "tsūjin" l'uomo di mondo, arbitro indiscusso di eleganza. Solo in un secondo tempo entrarono a far parte di quel mondo anche le geisha: venivano infatti chiamate per allietare i banchetti, con la musica del loro shamisen e a intrattenere gli ospiti. Il termine significa "persona versata nelle arti di intrattenimento". Esistevano sia gli uomini-geisha (otoko geisha) sia le donne-geisha (onna geisha). Tra le case da tè nel quartiere di Gion, a Kyōto, è possibile ancora incontrare una donna con l’inconfondibile trucco e abbigliamento tipico.

A Kyōto la ricchezza di siti sacri riflette la molteplicità di culti. Templi buddhisti e santuari Shintō coesistono in un Paese che possiamo definire laico: stato e chiesa non interferiscono fra loro. È un tratto peculiare della storia religiosa giapponese la coesistenza di numerosi culti diversi, come lo Shintō, il Buddhismo - a loro volta già influenzati da confucianesimo e taoismo - oltre a una miriade di Nuove Religioni, movimenti caratterizzati da elementi presi da una o più religioni esistenti. Ad eccezione del Jōdo Shinshū e della tradizione di Nichiren, nessuna delle scuole giapponesi storiche rivendica l’assoluta verità o l’esclusione delle altre scuole.


A Nara possiamo visitare per esempio il tempio Todaiji che contiene un grande Buddha legato alla scuola Kegon, una delle prime scuole del buddhismo antico. Lo spostamento della capitale da Nara a Kyōtō nel 794 d.C. coincide con un ulteriore sviluppo del buddhismo giapponese, grazie ai contatti con la Cina. Le due correnti principali che nacquero e si svilupparono in questo periodo, grazie al contatto diretto con il buddhismo cinese, furono la Tendai e la Shingon, alle quali si aggiunse la dottrina del buddhismo amidista.

La dottrina Tendai si fonda principalmente sul Sūtra del Loto, sullo studio dei testi e sulla meditazione e ha il suo centro di culto sul Monte Hiei. Nel complesso monastico del monte Koya, invece, la scuola Shingon ha un approccio più pratico alla dottrina e allo studio dei testi predilige l’uso di immagini simboliche, i mandala, i mudra, i gesti rituali e i mantra, formule magiche più vicine al buddhismo tantrico.

I templi del Monte Koya sono quasi tutti circondati dai famosi “giardini asciutti”, impropriamente chiamati giardini zen. Karesansui, è il giardino tipico della cultura giapponese, i cui elementi (acqua, piante, montagne) sono rappresentati in maniera simbolica da sole pietre e ghiaia. L'acqua viene rappresentata da "fiumi" di ghiaia il cui moto si scontra con l'emergere dal suolo di grosse pietre disposte in modo apparentemente casuale, allo scopo di simboleggiare il dinamismo delle forme della natura. L’idea che i monaci Zen usino i giardini per la meditazione è una leggenda; in Giappone i monaci Zen meditano quasi sempre al chiuso. Un altro esempio di religiosità genuina e più popolare è la devozione al Buddha Amida che si sviluppa in Giappone dal X secolo. Il Padiglione della Fenice, Byōdō-in, prima residenza della famiglia Fujiwara, diventò un bellissimo esempio di sincretismo religioso, un tempio dedicato al Buddha Amida che unisce la scuola Jōdo-shū (il Buddhismo della pura terra) e la scuola Tendai.

Chiara Bottelli
www.ilbuontempo.it


Cinema giapponese: la nuova produzione nella "seconda epoca d’oro"

A metà del ventesimo secolo, per l’industria cinematografica giapponese ebbe inizio un glorioso periodo di rinascita che avrebbe percorso gli anni Cinquanta nel cosiddetto "secondo decennio d’oro".

In seguito alla ripresa economica del dopoguerra, nello scenario cinematografico il decisivo confronto con gli Stati Uniti, sebbene avesse determinato una riorganizzazione dell’assetto industriale, aveva offerto alle case giapponesi l’occasione di espandersi nel mercato internazionale, attraverso una produzione rinnovata e per la prima volta orientata all’esportazione. Il dopoguerra vide inoltre la fioritura di numerose personalità che difficilmente si sarebbero imposte negli anni precedenti a causa del tipico sistema di apprendistato giapponese, per cui la quasi totalità dei registi si vedeva affidare la piena responsabilità di un film solo dopo un lungo tirocinio come assistenti.

Uno tra questi fu senza dubbio Kurosawa Akira, che già nel 1943 aveva esordito con Sugata Sanshiro. Con Rashomon, infatti, nel 1950 una nuova era di rinnovamento e prosperità si era affacciata alle porte del cinema giapponese, che fino a quel momento aveva sviluppato uno stile proprio nella costante alternanza tra codici provenienti dall’esterno e rappresentazioni minuziose dei costumi del popolo. Il film riscosse un successo senza precedenti: fu premiato l’anno successivo al Festival di Venezia con il Leone d’Oro e in seguito con l’Oscar come miglior film straniero a Hollywood, dando così la possibilità al cinema nazionale di essere conosciuto e apprezzato all’estero per la prima volta.

L’ambiguità del trionfo conseguito dalla pellicola derivò dall’innovativa interpretazione del genere jidaigeki proposta da Kurosawa, che tramite questo esperimento d’avanguardia stabilì un punto di rottura rispetto alla tradizione e ai film in costume convenzionali ai quali il pubblico era abituato. A ossessionare il popolo giapponese, oltre Kurosawa stesso, era la preoccupazione di aver fornito al resto del mondo un’immagine troppo eccentrica della cultura nipponica. Tuttavia Rashomon diede al regista l’opportunità di trasporre al meglio il suo stile espressivo, ma soprattutto rappresentò un passo importante verso l’internazionalizzazione del cinema giapponese, che in breve tempo avrebbe conquistato l’attenzione dei grandi festival europei.

L’iniziale diffidenza di Nagata Masaichi della Daiei riguardo alla produzione di Rashomon fu così smentita, tanto che il presidente della casa si convinse a produrre una quantità sempre maggiore di jidaigeki per il mercato straniero. Inoltre, Nagata lanciò un programma di produzioni a colori permettendo alla Daiei di diventare la prima major giapponese a servirsi del colore non solo sul piano sperimentale. Il procedimento utilizzato per questa novità era il Fujicolor, già impiegato dalla Shochiku in Carmen torna a casa del 1951; quest’ultimo film, diretto da Kinoshita Keisuke, aveva ottenuto un grande successo al botteghino che consentì alla casa produttrice di recuperare il potere perduto a causa della mancata adesione agli standard moderni, concentrandosi piuttosto sui classici melodrammi destinati a un pubblico prevalentemente femminile.

In seguito alla nuova disposizione postbellica dell’apparato industriale, il numero delle major era aumentato a tal punto che il monopolio del mercato fu spartito tra sei grandi case: Nikkatsu, Shochiku, Daiei, Toho, Shintoho e la neocostituita Toei. Mentre la Daiei era occupata nella realizzazione di film di alta qualità e continuava a rivolgere la sua attenzione al mercato estero, la Toho era ancora troppo debole per reggere il confronto con le altre case. In tale contesto, la Toei si fece avanti proponendo un piano di produzione il cui scopo era distribuire un nuovo doppio programma ogni settimana: il piano permise alla casa di concentrarsi sulla produzione interna di film in costume con budget decisamente ridotti.

Dal 1950 ci fu anche una rinnovata proliferazione di compagnie indipendenti, interessate principalmente alla politica. Nello stesso anno, infatti, un provvedimento del Comandante Supremo delle Forze Alleate aveva allontanato i comunisti da tutti gli organismi di comunicazione di massa attraverso la cosiddetta red purge, che aveva già coinvolto numerosi nomi celebri a Hollywood. Le più importanti tra queste case nascenti furono la Studio 8, fondata da Gosho Heinosuke, la Kindai Eiga Kyokai e la Shinsei Eigasha. In alcuni casi la scelta dell’indipendenza risiedeva piuttosto nel desiderio di usufruire di una libertà creativa fino ad allora limitata da alcune major, come la Shochiku.

Mentre già nel 1953 la quasi totalità delle sale cinematografiche proiettava spettacoli a doppio programma, l’industria aveva l’onere di soddisfare sia le esigenze del pubblico locale che quelle dell’audience straniera. Tuttavia, a causa di una fiacca coordinazione tra le major non fu possibile attuare in questi anni una politica esportatrice adeguata; soltanto nel 1957 la creazione della UniJapan Film compensò l’assenza di un organismo centrale destinato all’esportazione.

Lorenzo Leva

 

Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.

Contatti:
lorenzo.leva@gmail.com


Un tanka alla settimana

"Se fosse caduto,
vano sarebbe
sospirare.
Ebbene, oggi il fiore di ciliegio
deciderò di cogliere."

"Chirinureba
kouredo shirushi
naki mono o
kyō koso sakura
oraba oriteme"

散りぬれば
恋ふれどしるし
なき物を
けふこそ桜
おらばおりてめ

Anonimo


Architettura invisibile - Sou Fujimoto tra uomo e natura

Roma, 2 marzo – Nell'elegante cornice dell'Aula dei Gruppi Parlamentari, partecipiamo alla lezione di Sou Fujimoto, architetto giapponese di fama internazionale, capo dello studio Sou Fujimoto Architects. L'incontro si svolge nell'ambito degli eventi collaterali della mostra “Architettura invisibile”, ospitata dal 19 gennaio al 26 marzo presso il Museo Carlo Bilotti. Non è la prima volta che l'architetto si reca a Roma. Ha già visitato la nostra capitale quando era ancora studente e si recò in viaggio-studio in Europa, alla scoperta degli stili architettonici del Vecchio Continente.

“Architettura invisibile” è un'espressione che riassume efficacemente la filosofia dietro ai lavori di Fujimoto. La spiegazione ce la fornisce lui stesso, proprio all'inizio della conferenza, raccontandoci il contesto geografico e sociale in cui è vissuto. Sōsuke, il suo vero nome, è nato e cresciuto in un piccolo paesino sperduto tra le foreste dell'Hokkaidō, in cui si conoscevano tutti e le porte delle case erano sempre aperte. La giovinezza è trascorsa giocando nei boschi tra gli alberi. È proprio qui che ha avuto la prima ispirazione che ha contribuito alla formazione del suo concetto di architettura. Lo spazio-foresta non è delimitato da pareti o colonne, ma da tutta una serie di piccoli elementi che ne plasmano la struttura, in cui anche i vuoti e le trasparenze contribuiscono a rafforzare la spazialità esistente. La sensazione è quella di essere in uno spazio intimo e familiare. La stessa peculiare caratteristica, secondo la sua testimonianza, si può ritrovare nelle strade di Tokyo, dove si è trasferito per frequentare l'università, nonostante in questo caso si tratti di uno spazio completamente artificiale. Anche qui la spazialità era definita da una serie di elementi apparentemente scollegati, come possono essere pali della luce, panchine o distributori automatici, a ognuno dei quali ci si relaziona con un differente comportamento, un differente approccio. Il suo duplice background, spiega come mai una delle sue principali preoccupazioni sia l'unione armoniosa tra artificiale e naturale, tra uomo e natura, tra visibile e invisibile.


Questa sua inusuale concezione dell'architettura, continua a spiegare, ha trovato la sua massima espressione nel
Serpentine Pavillion, realizzato ad Hyde Park, a Londra, nel 2013, “costruzione” che l'architetto considera il suo miglior lavoro. Non si tratta di un edificio vero e proprio, quanto dell'unione di innumerevoli singoli elementi – una successione irregolare di pali e piattaforme bianche – che singolarmente presi non significano nulla, ma nel complesso creano un ambiente liberamente fruibile. Il pubblico è incoraggiato a esplorarlo e a capire in quale modo approcciarvisi. Lo si può esplorare, cercare un tavolo per mangiare o una panchina per sdraiarsi. Ci si può anche arrampicare in cima. È uno spazio veramente pubblico. Inoltre, grazie al modo in cui è realizzato, non esistono veri limiti tra il dentro e il fuori, e tutta la costruzione è immersa completamente nella natura, senza creare contrasti forti. È una soluzione in cui il naturale e l'artificiale si fondono, in cui non si percepisce la linea di demarcazione tra i due. Fujimoto insiste che si tratta di una nuova interpretazione di architettura. Non tanto tecniche di costruzione, quanto capacità di saper reinterpretare lo spazio.



Giochi di prospettive, rapporti mutevoli tra interno ed esterno, tra pubblico e privato – sono le caratteristiche fondanti dello stile di Fujimoto, e si possono ritrovare in ogni sua opera, sia pubblica che privata. I due progetti di abitazione House NA e House N, ad esempio, che uniscono la visionarietà di Fujimoto alla più antica tradizione architettonica nipponica. Nelle case del Giappone classico, infatti, i locali erano separati da una semplice parete scorrevole di carta di riso, che pur delimitando lo spazio non costituiva una netta separazione tra le varie stanze. Allo stesso modo in House NA la divisione tra i vari locali, così come tra interno ed esterno, viene meno. Tutto è unico e la funzione di ogni spazio dipende unicamente da come le persone vogliono interpretarlo. Un pavimento può diventare un tavolo, una sedia può diventare una mensola, un soffitto può essere un letto. Si tratta solo della ripetizione dello stesso modulo in dimensioni e rapporti diversi, proprio come nel padiglione Serpentine. La coppia che ha commissionato il progetto ha raccontato all'architetto di usare gli ambienti della casa in modo non convenzionale, per esempio leggendo in cucina o mangiando sul letto. Fujimoto ha così creato per loro una casa in cui tutto può essere tutto. In House N, invece, la distinzione tra dentro e fuori è completamente ribaltata grazie ai vari moduli che si contengono a vicenda e al fatto che il più esterno non è chiuso. Non si può mai dire di essere del tutto dentro o del tutto fuori. Altri progetti di Fujimoto basati su queste idee sono Public toilet, la nuova biblioteca dell'Università di Musashino, l'auditorium Forest of Music o il complesso residenziale Arbre blanche.


L'arte di Fujimoto è quella di saper creare spazi innovativi, che sfidano le leggi dell'architettura portandoli – come dice lui stesso – all'estremo. L'ambiguità di fondo consiste nella difficoltà di etichettare le sue opere che proprio per questo motivo possono apparire troppo rivoluzionarie e di conseguenza poco funzionali. Ci racconta che spesso i suoi progetti sono stati cancellati, proprio per questi timori. Tuttavia, questa visionarietà e questo coraggio, gettano le loro basi in un background culturale ancorato saldamente al passato, alla tradizione nipponica e alla ruralità del suo paese natale, dove l'intimità condivisa, come se si trattasse di un unico nucleo familiare allargato, e lo strettissimo contatto con la natura fanno completamente decadere molte contrapposizioni manicheiste che nella società odierna diamo per scontate.

Federico Moia


Un tanka alla settimana

"Mai più di pochi lustri
durerà questa mia vita.
Perché, allora, mi tormento
in mille pensieri intricati
come grovigli d'alga raccolta dai pescatori?"

"Ikuyo shi mo
araji wa ga mi o
nazo mo kaku
ama no karu mo ni
omoimidaruru"

幾世しも
あらじわが身を
なぞもかく
海人の刈る藻に
思みだるる

Anonimo