Anime Cult Speciale sulle Locandine degli Anime

L'articolo è tratto dal sito corriereNERD

Nel mondo dell’animazione giapponese, l’arte delle locandine ha sempre avuto un ruolo fondamentale nel catturare l’essenza di un film e nel renderlo indimenticabile per i fan. A febbraio 2025, Sprea Edizioni celebra questa tradizione con l’uscita del quinto volume della collana Anime Cult Special, un’edizione che promette di entusiasmare i collezionisti e gli appassionati di anime. Il nuovo volume è interamente dedicato alle “Locandine degli Anime”, raccogliendo quasi 50 locandine originali a grandezza naturale, pronte per essere staccate, incorniciate e conservate.

Questo volume si distingue non solo per la qualità della proposta, ma anche per la varietà e l’importanza delle opere che raccoglie. Tra le locandine, infatti, non mancano i capolavori di Hayao Miyazaki, come Il mio vicino Totoro e La città incantata, che sono diventati veri e propri simboli della cultura popolare giapponese. Accanto a questi, ci sono anche i grandi classici di Leiji Matsumoto, come Capitan Harlock e Galaxy Express 999, che hanno segnato un’epoca e influenzato generazioni di appassionati.

Ma cosa rende questo volume così speciale? Innanzitutto, le locandine presenti non sono semplici riproduzioni, ma veri e propri chirashi a grandezza naturale. I chirashi sono dei piccoli poster distribuiti gratuitamente durante le campagne promozionali dei film o agli eventi, e rappresentano una forma unica di arte pubblicitaria. Questi piccoli gioielli, che spesso riproducono l’immagine del poster del film sul lato anteriore e contengono informazioni varie sul retro, sono una parte fondamentale della cultura giapponese. La loro dimensione ridotta e il loro carattere effimero li hanno resi oggetti da collezione molto ricercati, e il volume di Sprea Edizioni offre ai lettori l’opportunità di ammirarli nella loro forma originale, a grandezza naturale.

La scelta di celebrare le locandine di anime non è casuale: queste opere d’arte hanno avuto un impatto significativo nel definire l’immaginario collettivo legato agli anime. Ogni locandina racconta una storia visiva che, pur nella sua immediatezza, racchiude tutta la magia, l’emozione e la potenza visiva che caratterizzano i film d’animazione giapponesi. Non è solo un oggetto da appendere alla parete, ma una finestra su un mondo ricco di emozioni e di estetica senza tempo.

Questa edizione speciale è disponibile sia in formato cartaceo che digitale, offrendo così a tutti gli appassionati, ovunque si trovino, la possibilità di collezionare e apprezzare queste straordinarie locandine. Con il volume che arriva a febbraio 2025, Anime Cult Speciale: Locandine degli Anime si prepara a diventare un must per ogni amante dell’animazione giapponese e per chiunque voglia approfondire la propria passione per l’arte che ha fatto la storia di tanti titoli leggendari.

In definitiva, il quinto volume di Anime Cult Speciale non solo celebra l’arte delle locandine giapponesi, ma porta con sé un pezzo di storia che ogni vero fan non vorrà lasciarsi sfuggire. Con la possibilità di staccare, incorniciare e conservare queste magnifiche opere, questo volume si propone come un tributo all’iconicità che ha reso immortali i titoli anime che amiamo. Non resta che aspettare l’uscita e prepararsi a rivivere la magia delle locandine degli anime!


IL GIOCO DEL DESTINO E DELLA FANTASIA (Gūzen to sōzō, 2021), Ryūsuke Hamaguchi

di Marcella Leonardi

 

L'articolo è tratto dal blog di cinema giapponese classico e contemporaneo NUBI FLUTTUANTI

 

Da tre racconti di Ryūsuke Hamaguchi: Magia (o qualcosa di meno rassicurante) - Porta spalancata - Ancora una volta. Il film è in streaming su Raiplay.

Per chi scrive, Il gioco del destino e della fantasia è forse il più bel film di Hamaguchi. Un’opera che instaura un contatto intimo e intenso con lo spettatore, una “specie di magia”, come vuole il titolo del primo episodio; o una “porta spalancata” sull’animo dei personaggi, le cui vicende ed emozioni si ripercuotono sulla nostra esperienza.

Il primo episodio è focalizzato sulla giovane Meiko e sui sentimenti contrastanti nel confronti dell’ ex Kazu, che ora frequenta la sua migliore amica Tsugumi. Durante una corsa in taxi l’ignara Tsugumi racconta a Meiko dell’incontro; ed è meraviglioso come Hamaguchi trasformi un semplice spostamento in automobile in una discesa nel segreto, quasi un’immersione nella psiche. Mentre le due amiche parlano, la strada scorre illuminata nella notte, si addentra in sottopassi, si attorciglia in infiniti percorsi lungo la città. Le luci si riflettono sui volti delle donne e la conversazione diviene rivelazione profonda. Hamaguchi gioca su un’alternanza di “dentro e fuori”: dentro l’auto, fuori nella città-mappa dell’inconscio, ma anche dentro e fuori l’ufficio dove Meiko confronterà Kazu e infine dentro-fuori il bar. Le dimensioni sono separate da vetrate e finestre, in un indefinito di iridescenze e illusioni; il vetro è anche uno schermo dove la vita proietta l’imprevisto.
C’è un misto di irrazionalità ed entomologia che solo il brano di Schumann, che introduce ed intervalla i tre episodi, riesce a sintetizzare con la sua melodia matematica. Sensuale ma nitida, intima e autunnale ma anche chiara e ben scandita, la partitura di Schumann è la controparte musicale dei dialoghi, delle confessioni a due voci, delle pause e degli “andanti” animosi che si scatenano nella mente.

Il secondo episodio è più malinconico: un destino di solitudine per Nao, che accetta di aiutare il suo giovane amante Sasaki tendendo una trappola al professore universitario che lo ha bocciato. “I nostri corpi sono perfettamente compatibili” dice Sasaki per convincerla. Le inquadrature sembrano dargli ragione: i corpi degli amanti si muovono all’unisono, o si allungano in orizzontale in composizioni armoniche, l’uno lo specchio dell’altro, in una mise-en-abyme del desiderio. Ma se con Sasaki l’intesa è fisica, con il professor Segawa sarà la parola a schiudere un’affinità elettiva, una messa a nudo del cuore. Hamaguchi filma la conversazione tra Nao e Segawa modulando in modo incantevole la luce solare che entra dalla finestra. I raggi aumentano o diminuiscono d’intensità, mentre le emozioni vengono inondate di sole, o si nascondono ritrose nell’ombra. È un
momento magnifico e delicato, che contrasta con la pornografia del romanzo del professore, letto da Nao ad alta voce; eppure, sono proprio quelle volgarità “lette con una voce bellissima” ad avere effetto inebriante. La regia del dialogo attinge esplicitamente alla filosofia di Ozu secondo cui “esiste la sensibilità, non la grammatica (del cinema)”: la codifica relativa al raccordo di sguardo viene completamente disattesa. Nao e Segawa dialogano “guardando in macchina” e lo spettatore incrocia in prima persona i loro occhi. La sensazione è di profonda emozione. È raro e bellissimo che un regista si prodighi per condividere con il suo pubblico un momento cruciale: il cinema di Hamaguchi è un privilegio.

L’ultimo episodio è il più magico e tremulo: un gioco che cambia la realtà e la vita stessa. Ciò che accade tra Natsuko e Aya ha del meraviglioso: da un fraintendimento nasce la possibilità di mettere in scena la vita, mutarla, stabilire un nuovo (lieto) fine. In un certo senso i due gentili, timidi personaggi femminili si appropriano del mestiere del regista e inventano per sé un destino, confondendo realtà e finzione. Le attrici Fusako Urabe e Aoba Kawai sono così brave da farci percepire ogni sfumatura, ogni minimo movimento nell’anima delle due donne; si piange e si ride con loro, mentre Hamaguchi le avvicina sempre più. Con stacchi a 180° intreccia le due esistenze, le mette di fronte a uno specchio in cui finalmente è possibile un riconoscimento.
A volte mi chiedo perché sono qui. Potevo diventare qualsiasi cosa, ma il tempo è volato via prima che me ne accorgessi.
L’episodio conquista qualcosa di bello e vero – raggiunge un nucleo di verità, lo sfiora appena lasciandolo intatto in tutta la sua bellezza. Ogni essere umano è fragile. Nulla sembra accadere mentre le parole scorrono come un fiume; ma ogni parola, libera e misteriosa, diventa la sostanza impalpabile in cui il mondo interiore si rivela. Le domande dell’esistenza – i “se”, i “forse” – sembrano approdare a una quiete, forse una temporanea soluzione. E la vita, nonostante tutto, è ancora una volta meravigliosa e degna di essere vissuta.

[Marcella Leonardi è critica cinematografica e docente. Da sempre appassionata di cinema, ha collaborato con varie testate tra cui Sonatine, Cinefilia Ritrovata, Nocturno e Otto e mezzo. Da alcuni anni si dedica prevalentemente al cinema giapponese.]


Kagurazaka Saryo, la sala di tè giapponese a Milano per la prima volta in Europa

Kagurazaka Saryo 神楽坂 茶寮, storica sala di tè e bistrot giapponese originaria di Tokyo, apre per la primissima volta in Europa proprio a Milano, a Corso Como 12, zona Garibaldi.

Il brand di caffetteria del gruppo Aya Company ha aperto i battenti per portare qui a Milano la vera gastronomia giapponese tra dolci artigianali e tè pregiati, ma anche piatti come ramen e udon.

Il menù del locale promette l'autenticità dei suoi piatti alla tradizione giapponese: proprio come nelle sue sedi giapponesi, la proposta si focalizza sulla selezione di tè raffinati selezionati dai giardini di Kakegawa nello Shizuoka, come il tè verde sencha, e dessert preparati con matcha proveniente da Uji a Kyoto. I dolci più popolari offerti sono sicuramente l’Hekira Mont Blanc al matcha, preparato esclusivamente al momento con castagne giapponesi e una crema di matcha di alta qualità, e la Coppa di gelato milleveli "Saryō", un parfait al matcha con decorazioni per richiamare l'aspetto dei giardini giapponesi.

L'offerta gastronomica però non si ferma qui: per la pausa pranzo si può ordinare anche specialità come il ramen allo yuzu, gli udon al curry con tempura di gambero, e lo tsukemen con zuppa di pomodoro allo zenzero. Non manca l'appuntamento dell'aperitivo, in cui si possono bere lemon sour giapponese artigianale, birra, sakè e whisky giapponesi.

Kagurazaka Saryo, oltre alle diverse sedi nel Paese del Sol Levante, ha alcuni locali in paesi esteri come in Canada e Thailandia, ma fino ad ora non in un paese europeo.

La scelta della recente apertura a Milano non è per nulla casuale: "Milano non è solo un faro mondiale per la moda e il design, ma è anche la città dove nascono le innovazioni", afferma Kinya Oguchi, presidente del gruppo Aya Company. "Abbiamo deciso di portare la cucina giapponese autentica in Italia, convinti che il pubblico italiano, con il suo amore per la raffinatezza e la sua lunga tradizione gastronomica, fosse il più adatto ad apprezzarla”.

Il locale ha uno stile tra l'estetica tradizionale giapponese, con elementi d'arredo artigianali e bonsai importati, e design moderno, basandosi del concetto "wa-modern", ovvero "giapponese-moderno"; gli spazi sono stati progettati dall'architetto Katsuya Takeda.


L'insolita estate di Kikujirō

“L’estate di Kikujirō” (Kikujirō no natsu) è una pellicola del 1999 scritta, diretta e interpretata da Kitano Takeshi. In concorso al Festival di Cannes dello stesso anno, il film ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti, tra cui il premio come miglior colonna sonora e miglior attrice non protagonista a Kayoko Kishimoto (che interpreta la moglie di Kikujirō, interpretato da Kitano stesso), entrambi conferiti dalla prestigiosa Japanese Academy. Inoltre, il film è stato insignito del premio per il miglior attore per la performance di Kitano e del premio FIPRESCI alla Settimana internazionale di cinema di Valladolid, sempre nel 1999.

La pellicola parla di Masao, un bambino di nove anni che abita a Tōkyō con la nonna, la quale lavora costantemente. Improvvisamente Masao si ritrova solo, senza più allenamenti di calcio a causa della pausa estiva e senza amici, partiti per le vacanze con le relative famiglie. Così, il piccolo decide di andare a cercare la madre, che non ha mai conosciuto e che lavora da anni in un’altra città, della quale ha solo una vecchia foto e un indirizzo. Ad accompagnare il bambino sarà Kikujirō, un amico di famiglia un po’ losco, che si confermerà in seguito essere uno yakuza. Tra un autostop e l’altro, lo strano duo si fa strada tra incontri inaspettati e azioni non sempre pulite per cercare di giungere a destinazione e trovare la madre di Masao.

Kikujirō e Masao in una scena del film.

In questa storia on the road, l’estate è sicuramente un elemento molto presente e caratterizzante, fungendo da motore della trama stessa, essendo il motivo per cui Masao rimane da solo in città. Inoltre, l’ambientazione estiva penetra nella storia amalgamandosi con essa. Gli elementi che rimandano direttamente all’estate sono infatti molteplici e ricorrenti: quando i due protagonisti sono ospiti di un albergo si divertono (o almeno ci provano) in piscina, partecipano a un matsuri e ai giochi tipici dei festival come il tiro a segno e la pesca dei pesci rossi, campeggiano lungo il fiume, giocano a rompere l’anguria, provano a pescare, si arrampicano sulla corda e guardano le stelle.

Kikujirō e Masao in una scena del film.

L’estate è comprensibilmente presente anche nelle campagne che Masao e Kikujirō devono attraversare. Le colture stagionali fanno da sfondo al viaggio, fino a prendere parte alle gag di cui è costellato il film, come accade nel caso delle pannocchie di mais trafugate e rivendute. Una dinamica simile si può trovare anche nella scena in cui i campeggiatori improvvisati giocano a colpire e rompere un’anguria mentre sono bendati, tipica attività da spiaggia. In quest’occasione, lo spettatore si accorge all’ultimo che l’anguria colpita da Masao è invece la testa di uno dei personaggi che, con tutto il corpo interrato sotto la sabbia, indossa la buccia del frutto come se fosse un elmetto protettivo.

La proposta di attività ricreative tipiche estive non è solo dovuta al momento temporale in cui si svolge la storia, ma ha un senso più profondo. La scena del campeggio funge infatti da tentativo degli adulti di sollevare il morale di Masao e tentare di fargli vivere un’esperienza simile, quanto più possibile, alla vacanza estiva che non ha potuto trascorrere con una famiglia biologica come invece possono fare i suoi coetanei.

Il film è un racconto dove, già a partire dal titolo, l’elemento estivo è presente in molte forme e aspetti, tanto da permeare, caratterizzare e influenzare la storia stessa di un’estate insolita ma non per questo meno ricca di emozioni.

 

Francesca Mora


Il magewappa arriva in Italia

Un altro assaggio di artigianato giapponese a Milano ci è stato offerto da Time & Style, che ha appena ospitato una mostra di oggetti realizzati con la tradizionale tecnica magewappa, la quale prevede la piegatura del legno attraverso il trattamento col vapore acqueo o la bollitura del materiale.

Time & Style è un brand di arredamento giapponese che vanta diversi showroom a Tōkyō, Ōsaka, Amsterdam e Milano, dove vengono esposti i loro prodotti di design. Questi spaziano dai mobili alle stoviglie, dalle lampade ad altri oggetti di uso quotidiano, e sono realizzati incorporando le tecniche di lavorazione tradizionali giapponesi con un gusto moderno, rispettando sempre il materiale utilizzato.

È in questo elegante contesto che è stata allestita la mostra “ODATE MAGEWAPPA Handcrafted Japanese Akita Cedar Objects for Everyday Life”. Prima di arrivare sugli scaffali di Time & Style, gli oggetti esposti si trovavano già in Italia presso l’Università degli Studi di Milano, grazie a una collaborazione con la città di Ōdate, nella prefettura di Akita, luogo d’origine della tecnica magewappa. La città giapponese ha poi voluto continuare l’esposizione, scegliendo gli spazi dello showroom come sede della mostra, che verrà poi ospitata in altre città italiane in un vero e proprio tour culturale, il quale in autunno vedrà come prossima tappa Faenza.

Il legno lavorato con la tecnica magewappa a Ōdate è tradizionalmente quello di cedro, materiale da cui sono stati ricavati tutti gli oggetti in mostra. Il legno, che conferisce all’oggetto il suo tipico aroma, presenta due caratteristiche particolari: curvatura e venature, lineari e sottili, che testimoniano il clima freddo del nord del Giappone. La curvatura, dovuta come anticipato precedentemente dalla lavorazione, viene solitamente fissata con dei ganci durante il processo di essiccazione del materiale per mantenere l’oggetto nella forma desiderata. La tecnica tradizionale prevede l’utilizzo di riso bollito schiacciato, che essendo glutinoso funge da collante, insieme a una cucitura in corteccia di ciliegio. Comprensibilmente, al giorno d’oggi il riso non viene più utilizzato e viene sostituito da un collante più resistente.

Set di bicchieri e contenitore, courtesy Time & Style.

La tecnica magewappa veniva inizialmente impiegata per produrre lunchbox o bicchieri per il sakè, ma oggi le applicazioni sono molto varie: si possono creare non solo diversi tipi di contenitori, ma anche vassoi, piatti e portafrutta, dimostrando quanto questa tecnica, antica più di quattrocento anni, abbia ancora molto da dare e dimostrare.

Set di piatti dalla bottega Kurikyu di Akita, courtesy Time & Style.
Portafrutta, courtesy Time & Style.

Gli oggetti in mostra derivano da cinque laboratori diversi di magewappa, tutti con base a Ōdate. Questi puntano a mantenere viva la tradizione, non solo producendo oggetti esteticamente belli, ma soprattutto cercando di educare un pubblico sempre più vasto ad apprezzare la ricerca, il materiale, la storia che sta dietro a essi, sia intesa come radici che come tempo impiegato per la realizzazione. Inoltre, i laboratori non solo puntano alla preservazione del magewappa, ma ne indagano nuove e moderne sfaccettature, ad esempio impiegando colorazioni a contrasto con il colore naturale del legno o realizzando pattern sulla sua superficie, gettando le fondamenta per una nuova evoluzione e reinterpretazione del magewappa di Ōdate.

Tazze dipinte parte della mostra, foto dell'autore.

La sopravvivenza dell’artigianato è un problema generale e impellente, che emerge criticamente in tutto il Mondo. Per questo, gli sforzi in atto per contrastare la perdita di know-how e cultura, che stanno alla base di queste tecniche, sono sempre maggiori, come dimostra l’impegno della città di Ōdate nel far conoscere questa sua tradizione unica e preziosissima.

 

Francesca Mora


Il kakigōri, la granita giapponese simbolo dell’estate

Chi usufruisce dei media giapponesi ha probabilmente già incontrato il kakigōri, uno dei dessert più riconoscibili, soprattutto in estate. Questo dolce viene preparato tritando finemente il ghiaccio temperato che poi viene servito con sciroppi e guarnizioni di diverso genere e gusto.

La parola “kakigōri” significa letteralmente “ghiaccio tritato” e deriva da “bukkakigōri” (“ghiaccio su cui viene versato lo sciroppo”), termine del dialetto di Tōkyō. Ciononostante, il dessert è conosciuto anche con altri nomi, come ad esempio “natsugōri” (“ghiaccio estivo”) o “kōrimizu” (“acqua ghiacciata”). La parola “natsugōri” si può anche scomporre in “na” (7), “tsu” (2) e “go” (5), motivo per cui il 25 luglio è chiamato Kakigōri no Hi, il giorno del kakigōri.

Altre varianti sono ad esempio “karigane”, utilizzata a Okinawa o “kachiwari”, tipica della regione del Kinki. In Hokkaidō spesso si usa anche la parola “shābetto”, derivata da “sorbet”.

Kakigōri con sciroppo al matcha, foto di Chris 73, Wikimedia Commons

Consumare cibi freddi durante le calde estati giapponesi non è però un’esclusiva contemporanea: il kakigōri veniva mangiato ben prima che fossero inventati congelatori e frigoriferi. Si può infatti ritrovare un suo antenato persino nel periodo Heian (794 - 1185). La scrittrice e dama di corte Sei Shōnagon ne fa menzione nel capitolo (dan) 42 del Makura no sōshi (“Note del guanciale”, compilato intorno all’anno Mille), annoverando questo dolce tra le “cose eleganti”.

Il passo è il seguente:

“Cose eleganti. Una bambina che porta una veste bianca su una sottoveste rosa antico. Le uova di oca selvatica. Versare sciroppo di linfa d’edera su ghiaccio tritato e servirlo in una ciotola di metallo nuova. Un rosario buddhista con perle di cristallo. I fiori del glicine. La neve che cade sui fiori di pruno. Un bambino grazioso che mangia ad esempio le fragole.”

In un’epoca dove il solo modo per avere a disposizione il ghiaccio d’estate era quello di riuscire a conservare la neve e il ghiaccio raccolti in inverno, il kakigōri era una rara prelibatezza e poteva essere gustato solamente dagli aristocratici. Probabilmente per questo Sei Shōnagon lo considerava qualcosa di non comune e particolarmente raffinato.

Durante il periodo Edo (1603 - 1868), invece, divenne estremamente popolare. Nei kōriya (“negozi del ghiaccio”) si riusciva a produrre questa importante materia prima, rendendone quindi possibile un consumo su più larga scala. Dal periodo Meiji (1868 - 1912) le tecniche di creazione, conservazione e taglio del ghiaccio si evolvettero ulteriormente, avvicinando di molto il kakigōri dell’epoca al dessert che conosciamo oggi. Bisognerà però aspettare l’inizio del periodo Shōwa (1926 - 1989) affinché il kakigōri cominci a diventare un simbolo dei piaceri estivi delle persone comuni grazie a una diffusione ancora maggiore dei kōriya e a un’offerta di sciroppi più ampia.

Macchine per tritare il ghiaccio di periodo Shōwa, Shōwa Era Lifestyle Museum di Kitanagoya, foto di Evelyn-rose, Wikimedia Commons

Al giorno d’oggi gli sciroppi più comuni sono quelli derivati dalla frutta come quello alla fragola, all’arancia, al melone, ma sono anche diffusi sciroppi più particolari come quello alla cola, all’acqua zuccherata, al matcha, al caffè e persino all’umeshu, un liquore alle prugne. Le varie combinazioni sono comprensibilmente pressocché illimitate, ma vale la pena menzionare le versioni con l’aggiunta di frutta o gelato, con guarnizioni di noccioline, latte condensato o l’“uji-kintoki”, che unisce sciroppo al matcha e marmellata di fagioli rossi (chiamati anche “kintoki”, da qui il nome) come guarnizione finale. Molto popolare è anche la variante “shirokuma” (orso bianco/polare), tipica della prefettura di Kagoshima (l’omonima città che ne fa da “capoluogo” è gemellata con Napoli), nel Kyūshū, che prevede guarnizioni con piccoli mochi, frutta, pasta di fagioli rossi e latte condensato.

Kakigōri shirokuma, foto di Hajime Nakano, Wikimedia Commons

Il kakigōri è quindi un dessert dalle radici antiche e facilmente adattabile ai prodotti tipici e ai gusti di ognuno, grazie alle molteplici varianti e combinazioni. Non ci si stupisce che sia quindi riuscito a guadagnarsi un posto speciale tra i cibi preferiti per combattere le calde e umide estati giapponesi.

E voi, avete mai mangiato il kakigōri? Raccontateci la vostra esperienza!

 

Francesca Mora


LE FORME DELLA POETICA CLASSICA

La poesia tradizionale giapponese si è sviluppata in epoca classica, in forma scritta, orale e cantata, dapprima influenzata dalla poesia cinese ed in seguito esplorando forme inedite, come il Tanka e l’Haiku.

IL TANKA

Nel romito borgo di montagna
ove la candida neve
stende una spessa coltre –

pur in chi vi dimora
si dilegua, forse, il tepore dell’animo.

しらゆきの
ふりてつもれる
山ざとは
住む人さへや
思きゆらむ

Questo è un esempio di Tanka (短歌, letteralmente "poesia breve") ovvero un componimento in versi diffusosi all’incirca nel periodo Nara (710-784 d.C.) e precursore del più famoso Haiku. Si tratta di poesia caratterizzata da una struttura in 5 versi, di metrica 5+7+5+7+7, dove i numeri corrispondono alle sillabe di ogni rigo. I primi tre versi compongono la prima strofa, mentre la seconda contiene gli ultimi due settenari. Ovviamente nella traduzione italiana tale schema si perde, ma nella versione giapponese è possibile ritrovare la suddivisione corretta se si ha dimestichezza con la lettura degli ideogrammi, come nell’esempio di cui sopra.

Le tematiche predilette dai compositori di Tanka sono legate soprattutto allo scorrere del tempo, alla natura e alla caduca bellezza delle cose (il concetto filosofico di Mono no Aware): si insiste sui numerosi parallelismi tra le condizioni stagionali della natura e i mutamenti dell’animo umano, come si può leggere nel componimento riportato ad inizio articolo, dove la spessa coltre di neve invernale raffredda anche i sentimenti degli uomini.

Photo credits: bottegadinazareth.com

L’HAIKU

古池や
蛙飛びこむ
水の音

Vecchio stagno
Una rana si tuffa
Rumore d’acqua

Sicuramente più conosciuto, l’Haiku, abbreviazione dell’espressione haikai no ku (俳諧の句, letteralmente "verso di un poema a carattere scherzoso") è una forma di poesia tradizionale giapponese che ha acquistato l’importanza ancora oggi riconosciutale grazie alla figura di Matsuo Bashō (1644-1694 d.C.), pseudonimo di un illustre poeta e monaco vissuto nel periodo Edo (1603-1868) che fece dell’haiku il suo cavallo di battaglia. Infatti è suo l’haiku preso ad esempio sopra: componimento brevissimo, consta soltanto di 3 versi rispettivamente di 5-7-5 sillabe, per cui risulta criptico ed evocativo. Anche l’Haiku, similmente al Tanka, riprende le sensazioni di cui il poeta fa esperienza nel suo esercizio di contemplazione della natura, proponendo una visione del mondo in cui uomo e natura sono in continuo e simbiotico divenire.

Photo credits: www.laquartacorda.it

 

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com


OSOUJI: LA PULIZIA DELL’AMBIENTE E DELL’ANIMO

 

La lingua giapponese è ricca di termini con significati alternativi nascosti: basti pensare a Bimyou 微妙, letteralmente “delicato, lieve”, che nella pratica esprime il senso di incertezza che proviamo quando qualcosa non ci convince tanto. Così come tutte quelle singole parole intraducibili in italiano se non attraverso un’espressione articolata, ne cito alcune:
– wabisabi わびさび: filosofia di vita per cui ci si concentra nel trovare la bellezza nelle imperfezioni della vita e nell’accettare l’ordine naturale di crescita e declino, l’accettazione della caducità e dell’imperfezione
– mono no aware 物のあわれ: vivere un momento di gioia e spensieratezza con la consapevolezza che questo momento sia destinato a finire
– natsukashi 懐かしい: nostalgia “positiva”, rievocare i ricordi con gioia
– shoganai しょうがない: ciò che non può essere evitato e per cui non c’è niente da fare, se non accettare la situazione
– noroke のろけ: il modo in cui una persona parla costantemente e con affetto della persona che ama

e come sappiamo ce ne sarebbero tanti altri.

Il termine Osouji 大掃除 si posiziona proprio all’interno di questi gruppi di parole che non sono traducibili fedelmente dalla lingua di partenza in quanto posseggono un significato ignoto al mondo esterno; è come se il contenuto semantico di una parola fosse latente, una descrizione superficiale generale sotto la quale si cela un significato intimo.

Osouji 大掃除 significa letteralmente “pulizia”/”pulizia della casa”. Nella cultura giapponese, “osouji” è una tradizione associata al periodo tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, durante la quale le persone puliscono le loro case per il nuovo anno. Naturalmente si tratta di una pulizia profonda tendente alla perfezione, non parliamo di un momento ordinario. Quest’usanza porta con sé un chiaro significato intrinseco: pulire per dare spazio ad un nuovo inizio, purificare e preparare simbolicamente l’ambiente circostante (e perché no, anche sé stessi), attraverso un momento di dedizione personale per accogliere tutte le energie positive che il nuovo anno prospetta.

Photo credits: https://www.borderlink.co.jp/magazine/2356/

Questa tradizione antichissima, che risale al periodo Heian (794-1185), è rimasta invariata fino ai nostri giorni grazie al suo insegnamento sempre attuale: lasciare il passato alle spalle per aprirsi a nuove opportunità. È una pratica che spinge lateralmente a riflettere sugli errori passati per imparare da essi e ricominciare con forza, lasciando andare ciò che non serve più nella vita e diffondendo una sensazione di purificazione non solo dell’ambiente ma soprattutto nel corpo e nella mente.

 

Testo di Giulia Rizzetto, giulia.rizzetto@gmail.com

https://www.giapponeinitalia.org/wp-content/uploads/2023/05/2023-Evento_CampsiragoResidenza.pdf

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IL SUMO: LO SPORT NAZIONALE DEL SOL LEVANTE

Il sumō (相撲, sumō, lett. “strattonarsi”) è la disciplina sportiva nazionale del Giappone, trattata come un vero e proprio rituale e come tale impregnata di spiritualità shintoista. Si tratta di un combattimento corpo a corpo tra due lottatori, detti in lingua giapponese rikishi, che si sfidano all’interno di un ring, il dohyō, con l’obiettivo di spingere l’avversario fuori dall’area designata o costringerlo a toccare il terreno con una qualsiasi parte del corpo che non sia la pianta del piede.

 

Photo credits: http://www.giapponepertutti.it

La particolarità del sumō è la stazza dei rikishi, che si sottopongono ad un rigido stile di vita per mantenere la corporatura richiesta, e lottano sul dohyō coperti solo dal mawashi, un vistoso perizoma che indica il rango di chi lo indossa in base al colore e al materiale di fattura. Sono riconoscibili anche per la loro particolare pettinatura a chignon. 

 

Photo credits: http://www.mondojapan.net

Il dohyō invece si compone di una parte a terra ed una aerea.

La zona a terra, che ospita il match, è costituita d’argilla e delimitata da balle di paglia; prima di ogni incontro, il terreno d’argilla viene cosparso di sale, elemento purificatore nella visione shintoista. La zona aerea sovrasta il ring e ricrea nelle sembianze un tempio shintoista con pendagli e struttura a baldacchino.

 

Photo credits: http://it.wikipedia.org

LA DURA VITA DI UN LOTTATORE
I rikishi professionisti vivono in ritiro presso le palestre dove si sottopongono ogni giorno a faticose sessioni di allenamento e dove vengono seguiti sul piano alimentare in modo che assumano più di 20.000 kcal giornaliere, riuscendo così a mantenere l’adipe in eccesso che li contraddistingue. La pietanza preferita di un lottatore di sumō è il Chankonabe (ちゃんこ鍋) parola composta da “chan” (ちゃん), termine che indica la dieta dei rekishi, e dall’abbreviazione di “nabemono” (鍋物), ovvero un piatto della cucina giapponese composto da una grossa pentola di brodo dashi posta al centro del tavolo in cui i commensali possono immergere gli ingredienti che preferiscono, come carne, verdure ecc. In pratica, uno stufato ipercalorico e nutriente che viene servito con riso e birra.

 

Photo credits: http://: www.zojirushi.com

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

https://www.giapponeinitalia.org/wp-content/uploads/2023/05/2023-Evento_CampsiragoResidenza.pdf

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KOMOREBI: luce che filtra tra gli alberi

 

Prova, caro lettore, a immaginare un luogo dove ogni angolo è avvolto dalla pace e dall’armonia in una fresca mattina d’inizio autunno. Un luogo dove gli unici suoni percepibili sono il mormorio dell’acqua che scorre, il fruscio delle foglie mosse dal vento e i propri passi sulla pietra. Un luogo dove si possa alzare lo sguardo e vedere il komorebi, la luce che passa attraverso le chiome degli alberi appena tinte di kojo, una parola che indica il rosso tipico delle foglie degli aceri d’autunno.

 

Questi sono alcuni dei detagli che ricordo del Tenjuan garden, un giardino a Kyoto. Fu costruito nel 1337 su richiesta del quindicesimo capo sacerdote del tempio buddhista, ma fu distrutto durante il periodo di conflitti interni chiamato Sengoku (quindicesimo – sedicesimo secolo). La costruzione attuale risale al 1602. Non è possibile vistare il tempio ma solo il giardino, che rimane comunque una piccola gemma tra le varie attrazioni della città, spesso non citata nelle guide.

 

È diviso in due lati, est e ovest. Il percorso costeggia l’edificio, passa sotto un torii e attraverso un bosco, finendo con un laghetto con ninfee. Nella prima parte a est si calpestano muschio e ghiaia e si arriva al lato sud percorrendo un piccolo ponte, mentre a sinistra si possono osservare le canne di bambù che coronano uno stagno. Più avanti il vialetto, fatto di piccoli massi posati nell’acqua, vi porta a un laghetto più grande. Sul lato ovest l’acqua è coperta da decine di ninfee e, lungo un argine, le carpe nuotano pacifiche. Alle spalle del lago c’è l’ala principale del tempio, coperta in parte dagli aceri.

 

Per la prima volta mi è sembrato che tutte le preoccupazioni che affollano la mia mente nell’inconscio, come in una piazza del mercato il sabato mattina, fossero molto lontane, piccole, non meritevoli della pena e dell’attenzione che gli davo. La città era lontana e avrei potuto passare ben più dell’ora trascorsa ad ascoltare i rumori dell’acqua e del vento, rapita e assorta. Quando posso ritorno con la mente a quel momento e sto meglio subito, ricordandomi che non posso esercitare il controllo su tutto e che sono in grado di trovare una soluzione a molti dei miei crucci. Non mi sono serviti oggetti o soldi per sentirmi in pace. Mi è bastato un giardino, l’acqua e il vero silenzio.

 

Testo e foto di Valentina Zucchelli

https://www.giapponeinitalia.org/wp-content/uploads/2023/05/2023-Evento_CampsiragoResidenza.pdf

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