In libreria il romanzo inedito di Fumiko Enchi, Saimu
Un inedito romanzo della scrittrice Fumiko Enchi intitolato Saimu, I colori della nebbia è stato tradotto in italiano da Maria Teresa Orsi e con postfazione di Daniela Moro ed è ora disponibile nelle librerie!
Questo suo nuovo romanzo, mai tradotto finora, è un libro importante: continua e si fa sempre più complessa l'esplorazione del tema della sensualità e spiritualità delle donne. Questa volta la protagonista è Tsutsumi Sano, una scrittrice sessantanovenne, che riceve in dono una speciale pergamena illustrata: Fumiko Enchi riesce attraverso la sua lingua e ai suoi personaggi a raccontare le infinite stratificazioni del desiderio e del potere femminile.
Fumiko Enchi è stata un’acclamata sceneggiatrice e scrittrice, tra le più importanti voci femminili giapponesi del periodo Shōwa. Celebre per la sua profonda indagine sulla condizione delle donne nella società giapponese, nonché sulla sessualità, il desiderio e la psicologia femminile, è stata la prima donna a vincere il prestigioso premio Noma.
Due film per ricordare Masahiro Shinoda: Under The Blossoming Cherry Trees (1975) e Demon Pond (1979)
di Marcella Leonardi
Lo scorso 25 Marzo ci ha lasciati il regista e sceneggiatore giapponese Masahiro Shinoda, tra i più grandi autori - insieme a Nagisa Ōshima, Seijun Suzuki e Shōhei Imamura, tra gli altri - della Nūberu bāgu (Nouvelle Vague) giapponese. Lo ricordiamo con due tra i suoi titoli più affascinanti.
Le recensioni sono tratte dal blog di cinema giapponese classico e contemporaneo NUBI FLUTTUANTI
UNDER THE BLOSSOMING CHERRY TREES (Sakura no mori no mankai no shita, 1975)
Un rozzo montanaro uccide le sue sei mogli per assecondare una donna affascinante che ha catturato. Man mano che il tempo passa, l’uomo si spinge a compiere crimini sempre più efferati per compiacere la sua nuova moglie, creatura sadica e necrofila.
Scritto nel 1947, all’indomani della Seconda guerra mondiale, in un paese prostrato e ridotto a sentimenti primordiali e violenti (scrisse Ozu nel 1951: “Mi dispiace, non riesco più a sentire lo stesso affetto (…). In passato quelle persone non erano senza cuore così come sono oggi”), il racconto di Sakaguchi Ango mette in scena una vicenda agghiacciante, in cui i confini tra sogno e incubo, bellezza e orrore sono labili e sfuggenti come il vento gelido che spira tra i fiori di ciliegio. Petali di sovrumana bellezza si moltiplicano sugli alberi e creano un sovraccarico sensoriale – di colori, profumi, di un delicato stormire tra i rami – che diviene per l’essere umano qualcosa di minaccioso e inspiegabile. Sakaguchi animava le sue foreste di uno spirito malvagio quanto magnifico e vago, simile a una presenza femminile di inusitata crudeltà e leggiadria, capace di liberare un desiderio pulsionale in chiunque la ammirasse. Nel racconto, il rude montanaro protagonista resta schiavo di un incanto che lo trascina nel più profondo abominio: la donna da lui catturata e presa in moglie è seducente come ciliegi in fiore, ma dominata dalla follia. Per lei, il montanaro ucciderà le sue mogli, taglierà teste, si piegherà alla vanità della donna e alle sue voglie perverse.
Masahiro Shinoda, studioso e appassionato di letteratura, profondamente interessato a trasporre forme e strutture letterarie in immagini – alla ricerca di un nuovo emerso dalle ceneri dei linguaggi tradizionali – si avvicina al racconto di Sakaguchi con rispetto, riproducendone la sequenza di eventi così come i dialoghi e le perturbanti atmosfere, frutto della psiche alterata dei protagonisti. Ma là dove Sakaguchi si prodigava in descrizioni minuziose, facendo della parola uno strumento affilato e innocente, usato nella sua nuda evidenza per mettere in scena l’orrore e la malattia insiti nell’esistenza umana, Shinoda consegna all’immagine il carico di significanza delle dense pagine dello scrittore.
Per questo motivo le sue inquadrature sono profonde e stratificate: all’interno dell’immagine lo spettatore può “muoversi” tra molteplici informazioni, soffermarsi su oggetti e indizi in avampiano, lasciar scorrere lo sguardo ai margini (spazio prediletto da Shinoda per collocarvi la presenza umana), fino a cogliere le microstorie sullo sfondo (un gatto, un personaggio, una finestra/palcoscenico sul mondo).
La bellezza della visione di Shinoda risiede in questo atto di trasformazione della pagina in una immagine/microcosmo di qualità tridimensionale. Emerge la sua ammirazione per Orson Welles, che ne influenza la scomposizione dell’inquadratura in una pluriformità esplorata da una regia osservatrice e testimone della degenerazione dell’essere umano.
Occhio voyeuristico, analitico, non di rado morboso, la macchina da presa “emotiva e pensante” di Shinoda si sofferma sul corpo della donna (la musa Shima Iwashita), ne ammira con voluttà la pelle diafana e le labbra carnose. In una scena ne spia i giochi erotici perversi con una passione feticista che è la medesima del protagonista: Shinoda indugia sui seni, sulla bocca, sui piedi pallidi e delicati capaci di scatenare l’irrazionale bramosia del marito. La densa atmosfera erotica che satura le scene è indissolubilmente legata a un sentimento di repulsione e disprezzo e l’inquietudine è accentuata dalle note dissonanti del grande compositore Tōru Takemitsu, che sollecita un continuo ritorno del rimosso sovvertendo canoni tradizionali e melodie, a favore di composizioni disarmoniche e sperimentali.
“Mondo di sofferenza, eppure i ciliegi sono in fiore”: dalle immagini di Shinoda spira la stessa triste e crudele poesia dei versi di Kobayashi Issa (小林一茶, 1763–1828), l’orrore nei confronti di una bellezza corrotta dal male e dagli istinti. Si avverte una riflessione altra, un pensiero per un Paese che fonda la sua cultura su un’estetica squisita, di impalpabile grazia, ma cova un destino di violenza antropologica. La foresta di ciliegi in fiore osserva il male dell’uomo e lo investe del suo potere e del suo monito: la dissoluzione, con i corpi dei due amanti fagocitati in un nulla che diviene petalo soffiato dal vento.
Così come Shinoda, anche Kiyoshi Kurosawa in Charisma o Ryūsuke Hamaguchi in Il male non esiste ci raccontano di una natura aliena e gelida, dotata di un proprio “istinto” e sprezzante delle macabre miserie umane.
DEMON POND (Yasha-ga-ike, 1979)
L’insegnante Yamasawa si reca in un villaggio colpito dalla siccità alla ricerca dell’amico scomparso Hagiwara. Scopre che questi si nasconde lì e ha sposato Yuri, un’affascinante donna locale il cui destino è intrecciato con la campana del villaggio. La leggenda vuole che la campana debba essere suonata tre volte al giorno, altrimenti il Demone Drago si libererà.
Regista di punta della Nūberu bāgu, la “nuova onda” rivoluzionaria degli anni ’60, Masahiro Shinoda è ancora molto attivo negli anni ’70, un periodo fertile per la sua ispirazione fuori dal comune. Studioso di teatro classico, attratto dagli stilemi del teatro Kabuki (che così spesso ha incrociato le proprie forme con quelle cinematografiche), il regista porta a compimento, con Demon Pond, una sintesi tra la sua naturale e irriducibile propensione a un cinema “futuro” e la fascinazione nei confronti di miti e leggende tradizionali.
Tratto dall’omonima piéce di Kyōka Izumi (1913), Demon Pond allo stesso tempo esalta e nega la sua origine teatrale: Shinoda ricostruisce boschi, fiori e paesaggi in studio, mentre i cromatismi e l’uso della luce, profondamente anti-naturalistici, concorrono alla creazione di un contesto stilizzato in cui gli attori lavorano sulla gestualità rituale del corpo. Rispettando i severi dettami del Kabuki, Shinoda affida a Bandō Tamasaburō V, tra i più celebri e venerati onnagata (attore kabuki specializzato in personaggi femminili) il ruolo di Yuri/Principessa Sharayuki; e aderisce con serietà allo spirito dell’opera originale, dando vita a un dramma magico e suggestivo, al contempo raffinatissimo e popolare. Scenografie variopinte fanno da sfondo a conflitti di personaggi dal segno emotivo opposto, abbigliati in costumi tradizionali e fantastici; su tutti, trionfa la carismatica presenza di Bandō, nei cui gesti si realizza l’enigma di un femminile idealizzato e spirituale. Demone/donna di grazia irraggiungibile, l’attore materializza carnalmente i volti dipinti dall’arte Ukiyo-e; la macchina da presa lo accarezza delicatamente in primissimi piani soffusi di luce, quasi si accostasse a un mistero divino.
Ma se la messa in scena di Demon Pond è una resa alla bellezza dell’archetipo teatrale, ai suoi fondali dipinti, a uno spazio astratto di intensa sensorialità (ricco di colori, materiali, profumi, elementi primari), la regia cinematografica di Shinoda interviene a scomporne la classicità, all’insegna di una nuova esperienza percettiva.
Con una lucida operazione di distanziamento dai codici, Shinoda spezza la struttura tradizionale e interferisce con soggettive, campi lunghissimi alternati a primi piani, e soprattutto un montaggio irregolare e anti-armonico. I personaggi maschili appaiono sghembi, irrisolti, animati da una modernità che li confonde e li spinge ai margini del “fantastico”, quel regno dell’estraneo e del fiabesco in cui la figura umana è un corpo estraneo. Il bosco, animista e carico di presenze sfuggenti, è folcloristico e “falso” alla maniera di Kinoshita (evidenti i richiami alla messa in scena de La Ballata di Narayama, 1958, con i suoi paesaggi saturi); ma Shinoda esercita uno sperimentalismo profondamente diverso dalla passione di Kinoshita per le possibilità del mezzo-cinema, rivelando un occhio più severo, politico nel rielaborare il passato.
La brutalità dei suoi zoom, la consapevole contrapposizione tra l’immagine e il suo doppio (il riflesso nell’acqua), l’uso espressivo delle dissolvenze incrociate sembrano separare in modo netto il Giappone contemporaneo dalle sue proiezioni fantastiche e immaginarie. Quando il volto della Principessa Shirayuki sparisce “assorbito” dal tronco dell’albero, o ancor di più nella strabiliante sequenza dell’ascensione, in cui Shinoda mette in atto la più sfrenata visionarietà, lo spettatore diviene partecipe di una riflessione estetica non dissimile da quelle espresse da Toshio Matsumoto o Shūji Terayama (originariamente collaboratore di Shinoda). Il regista sollecita, con le sue immagini multisensoriali e stratificate, una sorta di “risveglio surrealista”: Demon Pond è cinema che taglia, scruta, sfiora la materia viva della leggenda, giungendo a interrogarsi su un presente privato del conforto dell’epica.
[Marcella Leonardi è critica cinematografica e docente. Da sempre appassionata di cinema, ha collaborato con varie testate tra cui Sonatine, Cinefilia Ritrovata, Nocturno e Otto e mezzo. Da alcuni anni si dedica prevalentemente al cinema giapponese.]
Muovere i primi passi nel mondo della lingua giapponese
Bene, ora che vi ho convinto a iniziare a studiare il giapponese illustrandovi gli aspetti più facili della lingua nel precedente articolo (che potete trovare qui), andiamo a vedere assieme come muovere i primi passi in questo mondo magico. In altre parole, da dove si parte?
Ecco cinque step da seguire per iniziare a studiare il giapponese con metodo:
- Hiragana & Katakana
Il sistema di scrittura giapponese è fondamentalmente composto da tre parti: due alfabeti sillabici e i famigerati caratteri derivanti dal cinese. Andiamo a vedere più in dettaglio con la frase d’esempio qui sotto:
私は ローマへ行きます。
Watashi wa Roma he ikimasu.
Le parti scritte in blu sono scritte in kanji, quelle scritte in verde in hiragana e quelle scritte in rosso in katakana. Hiragana e katakana sono quelli che abbiamo precedentemente definito come alfabeti sillabici. Ma cos’è un alfabeto sillabico innanzitutto? E’ un alfabeto composto da lettere che, al posto di rappresentare un singolo suono, rappresentano quello di una sillaba, solitamente composta da una consonante e una vocale. L’hiragana (in verde) è quello che tra i due viene utilizzato più frequentemente, in particolare per scrivere le desinenze dei verbi e le particelle. Il katakana (in rosso), invece, viene utilizzato principalmente per le parole di derivazione straniera.
Il primo e indispensabile passo per apprendere il giapponese seguendo un percorso ben strutturato, è quello di partire dallo studio dei due sistemi di scrittura dei kana: hiragana e katakana. Partire da qui è fondamentale per rendersi conto della presenza di quei lati della lingua che divergono dalla pronuncia italiana, come per esempio gli allungamenti delle vocali, per poi acquisirli.
- Saluti ed espressioni comuni
Una volta appresa la parte alla base del sistema di scrittura si può passare a imparare saluti ed espressioni comuni frequentemente utilizzate, come per esempio: “Buongiorno”, “Grazie”, “Arrivederci”, “Buon appetito”, ecc.
Vi stupirete di quanto queste espressioni non siano scontate! Infatti, spesso, anche se esiste un corrispettivo della stessa espressione in italiano, magari quella giapponese viene utilizzata in un contesto simile, ma leggermente diverso. Oppure, presumendo semplicemente che quella parola sia la diretta traduzione di quella in italiano, si vanno a perdere rilevanti sfumature di significato.
Prendiamo per esempio l’espressione いただきます (itadakimasu). Questa parola potrebbe essere superficialmente tradotta come “Buon appetito”. Tuttavia, se ci si ferma qui, si rischia di incappare nell’errore di rivolgere questa parola ad altri commensali, come faremmo in italiano. La chiave per comprendere perché sia sbagliato utilizzarla in questo modo risiede nel significato letterale della parola. いただきます infatti non ha un significato nemmeno lontanamente simile a “buon appetito”, si tratta della forma più cortese del verbo “ricevere”, perciò possiamo dire che equivalga all’italiano: “ricevo umilmente”. Questa espressione nello specifico viene, quindi, utilizzata per dimostrare la gratitudine nei confronti del cibo che si sta per consumare e anche alle persone che hanno contribuito alla creazione di tale pietanza.
- Grammatica di base
Una volta studiati i saluti e le altre varie espressioni, si può iniziare a imparare le strutture grammaticali di base della lingua. Da questo punto si può procedere in due modi diversi in base al fatto che ci si voglia affidare alla guida di un insegnante oppure no.
Farsi affiancare da un insegnante è sicuramente molto comodo e permette di concentrarsi esclusivamente sullo studio della lingua anziché preoccuparsi di come procedere. Inoltre, un insegnante potrebbe anche andare a colmare le eventuali lacune del libro di testo o adattare la spiegazione a ciascun alunno in modo tale che il concetto da apprendere risulti il più comprensibile possibile.
Il secondo metodo è quello da autodidatta, quindi quello di dedicarsi, in modo indipendente, allo studio della lingua. Ovviamente non è impossibile, anche se è normale dover affrontare qualche difficoltà in più rispetto a un percorso con un insegnante. Detto questo, ho qualche consiglio anche per te che hai deciso di affrontare questo viaggio da autodidatta. La prima cosa che mi sento di consigliarti, innanzitutto, è quella di dedicarti a un singolo libro di testo. Può sembrare un consiglio scontato, ma spesso potremmo essere attratti dall'acquisto di nuove risorse - come libri, app e iscrizioni a siti vari - perché magari le vediamo utilizzate e consigliate da qualcuno che è più avanti nel percorso di studi rispetto a noi. Tuttavia avere una moltitudine di risorse a mio avviso non fa altro che farci deviare dal percorso che già avevamo intrapreso, facendoci sentire sopraffatti dalla quantità di conoscenza che dobbiamo acquisire e dallo studio che ne consegue. In sintesi, quando ci si approccia per la prima volta alla lingua penso che sia ideale scegliere un singolo libro e concentrarsi a completarlo.
Rimane, dunque, un’ultima domanda a cui rispondere: che tipo di libro usare? I libri di testo principalmente utilizzati e consigliati per qualcuno che inizia da zero sono i seguenti:
.........................
- Minna no Nihongo (a sx)
- Genki (in centro)
- Tobira Beginning (a dx)
Il Minna no Nihongo, essendo un libro completamente in giapponese, potrebbe essere un po’ difficile da approcciare da un principiante autodidatta, tuttavia dispone di un ulteriore volume (acquistabile a parte) con le spiegazioni grammaticali approfondite e le traduzioni. Alcuni punti a favore di questo libro sono che il volume con le spiegazioni è disponibile in diverse lingue tra cui anche l’italiano e che dispone di numerosi esercizi per far pratica di ciò che si è appreso.
Il Genki è considerato come un libro facilmente approcciabile dai principianti. La difficoltà delle lezioni aumenta progressivamente, nel libro principale sono contenute già le spiegazioni grammaticali, seppur concise e in inglese, e dispone di un workbook con esercizi basati su ciò che viene studiato nel libro. Quest’ultimo, come anche il precedente, seppur un po’ più completo è comunque stato pensato per essere utilizzato affiancato alle spiegazioni di un insegnante quindi spesso non è consigliato agli autodidatti. Su questo punto, tuttavia, mi sento di dissentire dal momento che online esistono moltissimi materiali gratuiti che possono andare a colmare questa lacuna.
L’ultimo libro, Tobira, a mio parere è quello più versato allo studio da autodidatta in quanto dispone di spiegazioni molto dettagliate sia per quanto riguarda il sistema di scrittura, sia per quanto riguarda la grammatica. Inoltre, include anche la presentazione e lo studio dei kanji alla fine di ogni capitolo. Il libro dispone anche di due workbook, uno dedicato alla grammatica e ai vocaboli e l’altro ai kanji e alla composizione scritta. L’unico punto negativo di questo libro, per uno studente autodidatta, è la difficoltà nel ricevere un feedback su esercizi come la stesura di un breve paragrafo di testo.
- Vocaboli & Kanji
Conoscere la grammatica senza conoscere un determinato numero di vocaboli è come avere una macchina, ma non la benzina per farla muovere! Perciò il prossimo step è proprio quello di iniziare a creare e ampliare il proprio vocabolario.
Per fare ciò, basta studiare i vocaboli che compaiono nelle conversazioni dei vari capitoli del libro di testo con i rispettivi kanji. Per quanto riguarda il metodo di studio, quello che consiglio di fare è di studiare attraverso l’uso di flashcards. Ma come utilizzarle?
Il primo step, se già non avete un mazzo pronto, è ovviamente quello di crearlo. Da un lato della carta andremo a scrivere la parola in italiano, mentre dall’altro la parola in giapponese in kanji, con la relativa lettura in hiragana. Una volta ultimata la creazione del mazzo di carte possiamo iniziare a studiare. Lasciando il lato con la traduzione in italiano girato verso di noi, cerchiamo di ricordare l’equivalente giapponese e lo scriviamo su un foglio (in hiragana o in kanji se stiamo studiando anche quelli). Infine girando la carta verifichiamo la correttezza della risposta che abbiamo scritto.
Prima di iniziare a studiare i kanji, consiglio di imparare a comprendere la loro origine, oltre a come funzionano e la ragione per cui hanno più di una lettura ciascuno. Questa fase preliminare sicuramente vi aiuterà a procedere più fluidamente nell’apprendimento di questi caratteri. Senza dubbio all’inizio risulterà impegnativo ricordarsi come si scrivono o come si leggono, ma più li si ripete più rimarranno impressi nella memoria.
- Fare tanti esercizi di output
Infine, per fare in modo che la conoscenza della lingua appresa attraverso le attività descritte nei punti precedenti non resti latente, è importantissimo fare tanti esercizi di output, ovvero esercizi che ci spingono a usare attivamente la lingua. Creare frasi con un determinato punto grammaticale, scrivere un paragrafo di testo riguardo a un particolare tema, cercare di utilizzare la lingua che si studia quando si parla da soli e tenere un diario, sono solo alcuni esempi di esercizi di output.
Ovviamente anche fare esercizi di input, ovvero esercizi in cui semplicemente dobbiamo coniugare il verbo o inserire una parola, è importante a suo modo, ma non aiuta effettivamente a essere in grado di produrre frasi da zero e quindi a utilizzare la lingua.
Bene, detto questo, spero che abbiate un’idea più chiara da dove iniziare ad apprendere questa magica e meravigliosa lingua!
Testo originale scritto da @redhead.sensei
Nuova apertura: Café Kitsuné, il popolare brand franco-giapponese apre a Milano
Nato 12 anni fa come naturale estensione dell’universo Maison Kitsuné - marchio di mods, etichetta discografica e galleria d'arte fondata a Parigi nel 2002 da Gildas Loaëc e Masaya Kuroki - Café Kitsuné è oggi una catena di caffetterie e ristoranti che opera in tutto il mondo. Il progetto unisce l’arte della torrefazione alla cultura dell’ospitalità, proponendo un’esperienza che fonde il minimalismo giapponese con l’energia dei caffè parigini. L’idea alla base è infatti creare un’esperienza che mescola lifestyle, design e gastronomia, che celebri il piacere di sorseggiare un caffè di qualità in ambienti che uniscono modernità e atmosfera cosmopolita.
Con una selezione di specialty coffee, dolci, torte e pasticcini ispirati alla tradizione francese e giapponese e un’estetica curata nei minimi dettagli, il brand ha rapidamente guadagnato popolarità e conquistato un ampio e fidelizzato pubblico. C’è da dire che Café Kitsuné non è solo un brand legato al caffè, ma anche una torrefazione. Nei suoi laboratori dedicati, che loro chiamano 'atelier di torrefazione', come quello di Vertbois a Parigi e di Okayama in Giappone, i chicchi vengono selezionati con cura e lavorati per esaltare ogni sfumatura aromatica, creando le miscele che poi vengono servite nelle caffetterie della maison. Oltre al caffè preparato al momento, il brand offre anche confezioni di chicchi tostati disponibili per l’acquisto.
Il celebre café si espande con il suo primo negozio in Italia, situato all'interno del Palazzo Cordusio. L'apertura è prevista per i primi giorni di Aprile.
"Ikigai: una fusione di costumi sardi e kimono"
Un ponte tra Sardegna e Giappone, uniti dalla moda e dall’arte della calligrafia. Questa l’ultima idea dello stilista quarantunenne cagliaritano Filippo Grandulli, da cui è nata la sua ultima collezione, in collaborazione con l’artista giapponese Tontoku Amagai, conosciuta in tutto il mondo. L’ha chiamata Ikigai, la sua ultima collezione, una parola nipponica che vuol dire un concetto: «La ragione di esistere, quell’impulso che ci spinge a trovare la bellezza e la realizzazione nella quotidianità», racconta entusiasta.
Gli abiti, applauditissimi all’ultima Fashion Week di Parigi, uniscono i costumi sardi con i kimono, cambiando, destrutturando: «La collaborazione con Tontoku Amagai è nata grazie ai social. Ho visto il suo profilo, con gradi tocchi di pennello crea magie».
Dopo il successo della sua precedente collaborazione con il fotografo giapponese SAI, che ha visto i suoi scatti di una Tokyo notturna e post pioggia trasformarsi in stampe su seta, Grandulli continua così ad approfondire il legame con il Sol Levante.
Con gli ideogrammi giapponesi Tontoku Amagai ha scritto concetti profondi e che arrivano a tutti: “amore”, “forza”, “benedizione”, “buon auspicio”, e tanti altri. «Vado in Giappone una volta l’anno, per me è una boccata d’aria, lì ho sempre trovato spirito di collaborazione ed entusiasmo. È una terra dove il bello si rivela nell’inaspettato, come un tempio dentro un grattacielo. Mi ha colpito il rispetto degli altri, un valore che sento in comune tra noi. C’è un legame speciale tra Sardegna e Giappone, siamo anche due blue zone, cioè due luoghi importanti per la longevità, con centenari da record».
Le foto degli abiti sono veri ritratti, opere di Daniele Coppi, curatore dell’immagine del marchio di Grandulli, e suo compagno di vita. Tontoku Amagai tiene mostre a New York e Madrid, e questa volta ha creato tre opere inedite, trasformate in stampe su tessuti. Anche i materiali non sono lasciati al caso: «Abbiamo scelto un tessuto leggerissimo, trattato con un effetto stropicciato, che ricorda davvero la carta alla vista e al tatt».
Gli abiti, spiega Grandulli, «reinterpretano alcuni volumi della tradizione sarda, l’abbondanza della gonna, la geometria della camicia, e li fondono con l’armonia minimalista giapponese».
Lui ha scelto una carriera in Sardegna, ormai da diversi anni. «Qui sento di poter dedicarmi con più calma e dedizione ai lavori che amo fare, la Sardegna regala tempo. Volevo fare lo stilista fin da bambino, sognavo abiti guardando un pezzo di stoffa». Ora la sua nuova collezione girerà il mondo mentre lui punta al prossimo obiettivo: «Incontrerò Tontoku presto in Giappone, e creeremo ancora insieme».
Il giapponese è davvero così difficile?
Avete mai considerato di apprendere la lingua giapponese?
Se sì e non vi siete ancora immersi in questo mondo fantastico, quasi sicuramente è perché vi siete sentiti scoraggiati dal pensiero comune che inquadra la lingua giapponese come estremamente complessa e inarrivabile. Dopo aver speso cinque e passa anni nello studio e aver acquisito due lauree (triennale e magistrale) posso finalmente affermare quello che fino ad ora ho sempre e solo ritenuto una mia opinione impopolare: il giapponese non è così difficile come si pensa! Questa, infatti, è sempre stata la mia risposta quando qualcuno, una volta scoperto il mio ambito di studi, mi chiedeva se fosse difficile imparare questa lingua.
Ovviamente non mi aspetto che mi crediate sulla parola, perciò andrò a proporvi qui sotto degli aspetti di questa meravigliosa lingua che sostengono la mia opinione. Siete pronti a lasciarvi convincere?
- I tempi verbali
Quante volte studiando un’altra lingua europea o anche solo l’inglese a scuola vi siete chiesti quanti altri tempi verbali o quante altre coniugazioni irregolari esistessero? Sono abbastanza sicura che la risposta sia: “un numero infinito di volte”. Ebbene, in giapponese questo problema non sussiste!
Innanzitutto il giapponese dispone unicamente di due tempi verbali…si avete capito bene, solo 2! Il primo è il passato, e il secondo lo possiamo chiamare non passato dal momento che è una forma che include sia il presente che il futuro. Inoltre, la forma del verbo non varia a seconda della persona ( “io”, “tu”, “egli”, “noi”, “voi”, “essi” ), in altre parole è quasi come se si parlasse sempre all'infinito. Vediamo un esempio per capire meglio:
Non passato | Passato | |
食べる | 食べます | 食べました |
Taberu | Tabemasu | Tabemashita |
Mangiare | Mangio/mangerò | Ho mangiato |
Quella che vedete nella tabella qui sopra è la coniugazione del verbo 食べる (taberu) che significa “mangiare”. Alle coniugazioni nella tabella si aggiungono ovviamente le versioni negative e la variazione in base al grado di formalità con cui ci si deve rivolgere all’interlocutore, ma, comprendendo anche quelle, il numero di coniugazioni rimane comunque infinitamente inferiore rispetto a quelle di una lingua come l’italiano.
Ma non è finita qui! Abbiamo accennato ai verbi irregolari, giusto? In giapponese anche di quelli non c’è da preoccuparsi più di tanto, perché solamente i verbi “fare” e “venire” sono irregolari e quindi gli unici di cui è necessario memorizzare le coniugazioni.
- Prestiti linguistici e parole straniere
Guardando anime o film in lingua originale sottotitolati, avete mai notato parole che hanno un suono in qualche modo familiare, come per esempio カメラ kamera, タバコ tabako o アメリカ amerika? Se sì, complimenti! Vuol dire che hai già appreso qualche parola in giapponese! Queste parole vengono chiamate 外来語 gairaigo (lett. parole di derivazione straniera), oppure più semplicemente カタカナ語 katakanago, dal momento che vengono scritte con l’omonimo sistema di scrittura squadrato: il katakana. In giapponese esistono moltissime parole che derivano dall’inglese o da altre lingue europee, proprio come quelle che abbiamo citato all’inizio del paragrafo, perciò per chiunque abbia un minimo di conoscenza dell’inglese o di altre lingue come il portoghese, il tedesco o il francese sono sicura che sia un gioco da ragazzi memorizzare questo tipo di vocaboli! Ma per dare un’idea più concreta andiamo a vedere assieme la tabella qui sotto, dove sono riportati alcuni termini in katakana affiancati alla parola originale nella lingua da cui sono stati presi e alla traduzione in italiano.
Giapponese | Lingua d’origine | Italiano |
カメラ kamera | Camera (inglese) | Fotocamera/macchina fotografica |
タバコ tabako | Tabaco (portoghese) | Sigarette |
バス basu | Bus (inglese) | Autobus |
ドイツ doitsu | Deutsch (tedesco) | Germania |
ピザ piza | Pizza (italiano) | Pizza |
Come potete notare, anche se non sono completamente uguali alla parola italiana corrispondente, sono tutti termini in qualche modo comprensibili o facilmente intuibili.
- Assenza di genere e di numero
In italiano, come voi tutti sapete, i sostantivi hanno un genere e variano in base al numero. Questo vuol dire che il sostantivo “sedia” per esempio è femminile e di conseguenza richiede l’articolo femminile adeguato “la” al posto che “il”. Inoltre se diciamo “sedia” intendiamo “una sedia”, il sostantivo è nella forma singolare, mentre la forma plurale è “sedie”. Ecco tutto questo in giapponese non succede. Le parole non sono né femminili né maschili e di conseguenza non hanno bisogno di un articolo che rispecchia questo aspetto. Inoltre, non esistono forme diverse per lo stesso sostantivo, che indicano se la forma è singolare o plurale. In altre parole いす isu, può essere tradotto sia come “sedia” che come “sedie”, tutto si basa sul contesto in cui è detta la frase. Facciamo un esempio:
Hai invitato cinque amici a casa tua e noti che al tavolo ci sono solo quattro sedie, così dici ad uno dei tuoi amici:
椅子持ってきてくれますか。
Isu mottekite kuremasuka?
In questo caso possiamo tradurre la frase con: “Potresti portarmi la sedia?”. Ma nel caso in cui al tavolo non ci siano le sedie, dicendo la stessa frase si può intendere “Potresti portarmi le sedie?”.
Questo aspetto della lingua è indice di una struttura grammaticale più semplice.
- Pronuncia
A mio parere il fatto di essere italiani, o meglio, il fatto di saper parlare l’italiano, risulta sicuramente come un vantaggio per quanto riguarda la pronuncia della lingua giapponese. Infatti in giapponese non esistono suoni che l’italiano non abbia già, fatta eccezione per l’”h aspirata”. Inoltre, le vocali si pronunciano esattamente come in italiano e non variano di pronuncia pur restando scritte allo stesso modo, come per esempio succede in inglese. Un altro punto in comune è che anche in giapponese esistono le doppie e che si pronunciano esattamente come in italiano. L’unica differenza degna di nota sono gli allungamenti delle vocali, che esistono anche nella nostra lingua, ma non giocano un ruolo così importante come in giapponese. Infatti la differenza tra la parola おばさん obasan “zia” e la parola おばあさん obaasan “nonna”, per esempio, è solamente l’allungamento di una vocale! Tutto sommato però, possiamo dire che la pronuncia giapponese sia regolare e simile ai suoni già presenti nell’italiano.
Questi sono i motivi sulla cui base affermo che il giapponese non è così difficile come si pensa. Prima di lasciarci, tuttavia, vorrei fare un piccolo disclaimer. Con quello che ho scritto in questo articolo, non intendo dire che imparare il giapponese sia una passeggiata. Ovviamente anche il giapponese, come qualsiasi altra lingua straniera, ha i suoi aspetti un po’ più ostici. Quello che però volevo trasmettere a tutti voi è che quegli aspetti vengono bilanciati da altri aspetti positivi, come quelli che abbiamo visto in questo articolo.
Bene, detto questo, spero di avervi convinto e di rivedervi nel blog di settimana prossima dove andremo a vedere assieme come muovere i primi passi verso la padronanza del giapponese.
Testo originale scritto da @redhead.sensei
Anime Cult Speciale sulle Locandine degli Anime
L'articolo è tratto dal sito corriereNERD
Nel mondo dell’animazione giapponese, l’arte delle locandine ha sempre avuto un ruolo fondamentale nel catturare l’essenza di un film e nel renderlo indimenticabile per i fan. A febbraio 2025, Sprea Edizioni celebra questa tradizione con l’uscita del quinto volume della collana Anime Cult Special, un’edizione che promette di entusiasmare i collezionisti e gli appassionati di anime. Il nuovo volume è interamente dedicato alle “Locandine degli Anime”, raccogliendo quasi 50 locandine originali a grandezza naturale, pronte per essere staccate, incorniciate e conservate.
Questo volume si distingue non solo per la qualità della proposta, ma anche per la varietà e l’importanza delle opere che raccoglie. Tra le locandine, infatti, non mancano i capolavori di Hayao Miyazaki, come Il mio vicino Totoro e La città incantata, che sono diventati veri e propri simboli della cultura popolare giapponese. Accanto a questi, ci sono anche i grandi classici di Leiji Matsumoto, come Capitan Harlock e Galaxy Express 999, che hanno segnato un’epoca e influenzato generazioni di appassionati.
Ma cosa rende questo volume così speciale? Innanzitutto, le locandine presenti non sono semplici riproduzioni, ma veri e propri chirashi a grandezza naturale. I chirashi sono dei piccoli poster distribuiti gratuitamente durante le campagne promozionali dei film o agli eventi, e rappresentano una forma unica di arte pubblicitaria. Questi piccoli gioielli, che spesso riproducono l’immagine del poster del film sul lato anteriore e contengono informazioni varie sul retro, sono una parte fondamentale della cultura giapponese. La loro dimensione ridotta e il loro carattere effimero li hanno resi oggetti da collezione molto ricercati, e il volume di Sprea Edizioni offre ai lettori l’opportunità di ammirarli nella loro forma originale, a grandezza naturale.
La scelta di celebrare le locandine di anime non è casuale: queste opere d’arte hanno avuto un impatto significativo nel definire l’immaginario collettivo legato agli anime. Ogni locandina racconta una storia visiva che, pur nella sua immediatezza, racchiude tutta la magia, l’emozione e la potenza visiva che caratterizzano i film d’animazione giapponesi. Non è solo un oggetto da appendere alla parete, ma una finestra su un mondo ricco di emozioni e di estetica senza tempo.
Questa edizione speciale è disponibile sia in formato cartaceo che digitale, offrendo così a tutti gli appassionati, ovunque si trovino, la possibilità di collezionare e apprezzare queste straordinarie locandine. Con il volume che arriva a febbraio 2025, Anime Cult Speciale: Locandine degli Anime si prepara a diventare un must per ogni amante dell’animazione giapponese e per chiunque voglia approfondire la propria passione per l’arte che ha fatto la storia di tanti titoli leggendari.
In definitiva, il quinto volume di Anime Cult Speciale non solo celebra l’arte delle locandine giapponesi, ma porta con sé un pezzo di storia che ogni vero fan non vorrà lasciarsi sfuggire. Con la possibilità di staccare, incorniciare e conservare queste magnifiche opere, questo volume si propone come un tributo all’iconicità che ha reso immortali i titoli anime che amiamo. Non resta che aspettare l’uscita e prepararsi a rivivere la magia delle locandine degli anime!
È arrivato il nuovo numero di Pagine Zen!
È uscito il nuovo numero di PAGINE ZEN, ricco come sempre di approfondimenti e curiosità!
Pagine Zen nasce nel 2001 ed è stato pubblicato fino ad oggi in modo continuativo, per 135 numeri.
Ogni nuovo numero viene spedito a vari Dojo e ad Associazioni di cultura asiatica, Università del territorio italiano e viene anche distribuito in vari matsuri e feste giapponesi.
Ecco quali saranno gli argomenti che PAGINE ZEN andrà ad approfondire nel numero 135:
-L’ultimo shōgun
Tokugawa Yoshinobu
Maria Teresa Orsi
Con approfondimento al link: Approfondimento
-Shimenawa
Sacri intrecci tra noi e le Divinità
Matteo Rizzi
Con approfondimento al link: Approfondimento
-裂古破今 Strappare il passato
Giapponese: Rekko hakon - Cinese: Liè gǔ pò jīn
Calligrafia di Bruno Riva - shodo.it
-I fondamenti del Buddhismo
o del tentativo di chiarirne i punti nevralgici
Lorenzo Lombardo
Con approfondimento al link: Approfondimento
-I surimono di Hokusai
Alcuni esempi dalla mostra a Palazzo Blu di Pisa
Eleonora Lanza
Con approfondimento al link: Approfondimento
-Il culto dei sacri monti in Cina
Fabio Smolari
www.daoyin.it - www.facebook.com/daoyinitalia - www.instagram.com/daoyinitalia/
Con approfondimento al link: Approfondimento
-Il Drago Cinese
al Museo d’Arte Orientale di Venezia
Francesca Capretti
Con approfondimento al link: Approfondimento
-La trasmissione del sapere nelle Arti Marziali del Giappone
Christian Russo
shinobido.it/ - tinyurl.com/christianrussobooks
Con approfondimento al link: Approfondimento
-Corea
Folklore, miti e leggende
Jinelle Vitaliano
Con approfondimento al link: Approfondimento
Per accedere a tutti gli 8 approfondimenti e a "Leggi online Pagine Zen" il link è: https://temizen.zenworld.eu/
San Valentino in Giappone e il White Day!
Come in tutto il resto del mondo, in Giappone il 14 febbraio si festeggia il giorno di San Valentino バレンタインデー. Nel paese del Sol Levante però la ricorrenza ha preso un valore un po’ diverso dalla nostra, oltre ad avere varie usanze peculiari.
Bisogna innanzitutto comprendere che il Giappone, non essendo un paese particolarmente influenzato dal Cristianesimo, si cominciò a festeggiare il giorno di San Valentino solamente durante il secolo scorso.
Mentre qui è considerata un’occasione per gli innamorati di passare una giornata romantica insieme ed eventualmente scambiarsi reciprocamente dei regali, in Giappone di solito, durante questa giornata, è solamente la ragazza a regalare qualcosa al proprio amato, quasi sempre dei cioccolatini, acquistati o confezionati da lei stessa.
Il modo in cui la pratica di regalare cioccolato si sia sviluppata in Giappone non è, in realtà, ben chiaro: ci sono varie teorie al riguardo, tra cui, per esempio, che è si è diffusa grazie a Kunio Hara della Mary Chocolate Company, agenzia dolciaria di Tokyo, che si inventò la frase “Una volta l’anno, San Valentino è il giorno in cui le donne possono confessare il proprio amore con il cioccolato”. Questa frase si rivelò successivamente un’interpretazione sbagliata di una lettera che Kunio ricevette da un collaboratore stanziato a Parigi in cui il suo Socio parlava di come la festività venisse festeggiata in Occidente. Kunio, leggendo la lettera, si rese conto che, portando questa tradizione anche in Giappone, avrebbe potuto vendere più cioccolato, non realizzando però che in realtà aveva compreso male la lettera ricevuta e le usanze occidentali.
Altre fonti invece sostengono che questa pratica sia dovuta al movimento di liberazione delle donne, oppure semplicemente sia cominciata per imitare gli stranieri e promuovere le vendite dolciarie.
La teoria più popolare però è sicuramente quella legata alla Morozoff Confectionery, pasticceria di lusso di Kobe, che già nel 1936 aveva pubblicato un annuncio sul giornale con lo slogan “Invia cioccolato al tuo Valentino [la persona amata]”, e questa è la prima testimonianza in assoluto in Giappone della celebrazione della giornata. Il giornale su cui questo è stato pubblicato, il “The Japan Advertiser”, era però in inglese, e quindi era indirizzato solamente agli stranieri residenti nel paese del Sol Levante che erano già familiari con la pratica. Nonostante ciò, si pensa comunque che questo sia stato il primo tassello per la diffusione della celebrazione della festività. La piazza davanti alla stazione di Mikage, la più vicina alla vecchia sede principale della pasticceria, oggi si chiama “Piazza di San Valentino”. Inoltre, nel 1992 la città di Terni, luogo del martirio del santo, ha dato in dono alla città di Kobe la “Statua dell’Amore”, come riconoscimento del luogo di nascita della celebrazione di San Valentino in Giappone.
Oggigiorno in realtà, però, le donne che regalano il cioccolato non lo fanno solo al proprio amato o spasimante, ma anche ai propri amici, ai propri cari e persino ai colleghi.
Esistono quindi varie “categorie” di cioccolato: il Giri-choko 義理チョコ, “cioccolato dell’obbligo”, generalmente cioccolatini a basso prezzo e qualità, che vengono regalati a colleghi di lavoro, compagni di classe e conoscenti. La società giapponese è collettivista, e questo fa sentire le persone in obbligo di conformarsi il più possibile, e ciò si riflette anche in questa pratica, che fa sentire le donne in dovere di spendere tempo e denaro per fare questi regali. Negli ultimi anni l’usanza del Giri-choko è stata criticata molto e ormai si fa sempre meno.
Poi c’è il Tomo-choko 友チョコ, “cioccolato dell’amico”, cioccolatini regalati agli amici stretti, donati con sentimenti veritieri di affetto.
Il più ambito e conosciuto però è sicuramente il Honmei-choko 本命チョコ, ovvero “cioccolato del prediletto”. Questo è il cioccolato che si regala solamente alla persona che si ama veramente, e si usa sia per esprimere l’amore verso il proprio partner, sia per fare una vera e propria dichiarazione amorosa. Il cioccolato che viene regalato in questa occasione viene spesso preparato minuziosamente e confezionato in casa, oppure comprato in una pasticceria di lusso.
Recentemente, questo “rito” non viene effettuato solo dalle ragazze: pur rimanendo sempre la maggioranza, in generale è un gesto fatto da chiunque voglia esprimere i propri sentimenti nei confronti di un’altra persona.
Ci sono anche altre categorie di cioccolato meno conosciute, come il Jiko-choko 自己チョコ, “cioccolato autonomo”, che si acquista e si consuma da soli, pratica sempre più diffusa dopo il 2010, oppure l’Oshi-choko 推しチョコ, in cui i giovani postano sui social foto di dolci e regali che darebbero al proprio idolo o celebrità preferita se potessero passare la giornata insieme.
In Giappone c’è però un’altra festività legata al giorno di San Valentino, il White Day ホワイトデー.
Avviene il 14 marzo, esattamente un mese dopo la celebrazione precedente. Gli uomini che hanno ricevuto il Honmei choko, se ricambiano i sentimenti della spasimante, per dimostrare il loro affetto dovranno regalarle cibi come il cioccolato bianco, i marshmallows e caramelle, accompagnandoli con accessori bianchi come borse, fiori, creme e biancheria intima: questo perché in Giappone si suol dire che gli uomini dovrebbero regalare qualcosa che valga circa tre volte il prezzo del regalo ricevuto a San Valentino, secondo la regola del sanbai gaeshi (三倍返し, “ritorno triplo”).
Anche questa festa è nata da una campagna pubblicitaria di un’azienda dolciaria, la Ishimura Manseido, che nel 1977 ha invitato gli uomini a comprare i marshmallow, chiamandola appunto Marshmallow Day マシュマロデー. L’Associazione Nazionale dell’Industria Dolciaria ha poi attribuito nel 1978 il nome attuale di “White Day” alla giornata e il suo ruolo di “risposta” ai regali di San Valentino.
Da allora, questa festività si è diffusa anche in altri paesi dell’Asia orientale, infatti si festeggia anche in Cina, Corea, Taiwan, Vietnam e altri.
Complessivamente però, si tende a festeggiare e spendere sempre meno per queste due giornate, criticate negli ultimi anni sia da un punto di vista sociologico, con ruoli di genere che mutano continuamente, sia da un punto di vista economico, considerata talvolta uno spreco di soldi essendo una festività puramente commerciale, soprattutto nel paese del Sol Levante.
"Oltre Sushi e Origami", il programma radiofonico dedicato al Giappone
"Oltre Sushi e Origami" è un programma radiofonico di Vinyl Sound Radio, webradio di Brescia, che trasmette in tutta Italia.
È una rubrica tutta a tema Giappone della durata di due ore circa, che va in onda la domenica alle 17.00 sul canale della radio raggiungibile dal sito https://www.vinylsoundradio.com o dall'app gratuita scaricabile su tutti gli store (e in replica tutti i giorni a diversi orari).
Ogni settimana un tema differente e ampiamente approfondito sulla cultura, la storia e le usanze giapponesi, raccontato da un'italiana, Haru, che ha vissuto in Giappone e che conosce molto bene la lingua e tiene tutt'ora diversi contatti con il paese. Al termine di ogni puntata anche una piccola lezione di lingua giapponese, con il focus su tre termini scelti tra quelli utilizzati durante la puntata.
Temi trattati: scuola, cucina, treni, matsuri e feste, ricorrenze, tattoo, arti, origami, ecc.
Ogni settimana viene creato anche il podcast di ogni puntata, che rimane poi disponibile insieme ai precedenti, per sempre sul canale dedicato della radio e sui principali motori di podcast come Spotify, Apple Podcast, Amazon Music e altri.
https://www.spreaker.com/podcast/vinyl-sound-radio-oltre-sushi-e-origami--6330515
Orario: DOM 17.00 (nuova puntata settimanale)
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