TRA KAPPA, ROKUROKUBI E IKIRYŌ

 

Photo credits: hyakumonogatari.com

Yōkai. È un termine generico che indica qualsiasi mostro, spettro o creatura magica protagonista di racconti e leggende tradizionali giapponesi. Solitamente si tratta di animali antropomorfi o di esseri mutaforma, oppure ancora di strani individui in grado di padroneggiare poteri soprannaturali e arrecare danni agli esseri umani. Nella maggior parte delle narrazioni, gli Yōkai sono entità malvagie e pericolose per gli uomini, che le temono e cercano di starne alla larga, pena incontri spiacevoli, maledizioni o addirittura morte.

Esistono innumerevoli storie e leggende popolate dagli Yōkai, molto spesso raccontate ai bambini per spaventarli, intrattenerli o divertirli. Si parla ad esempio di Kappa, rane umanoidi che mangiano i più piccoli, di Rokurokubi, mutaforma che possono allungare a dismisura il proprio collo, e di Ikiryō, spiriti infestanti che perseguitano i vivi. Famose sono anche le Kitsune, entità ingannevoli che possono assumere forma di donna e di volpe, e la Yuki-Onna, una ragazza bellissima che strega gli uomini di passaggio sui monti innevati.

     ATTENTI ALLE RANE!

Offritegli un cetriolo e vi lascerà andare. è il Kappa, uno Yōkai piccolo quanto un bimbo, ma verde e squamoso come una rana. Viene raffigurato con guscio da tartaruga e becco d’uccello, sempre vicino ad un corso d’acqua perché quello è il suo habitat naturale: nella tradizione si apposta a riva del fiume e aspetta che arrivi qualche bambino da mangiare. Per capire a fondo questa rappresentazione va saputo che in epoca passata, nei villaggi giapponese era uso abbandonare i bambini nati morti alla corrente dei fiumi e lasciarli al loro destino, magari nelle grinfie di un Kappa affamato. Questa creatura del folklore però è temuta soprattutto perché rapisce bambini e animali dai villaggi, per poi annegarli e divorarli.

Allora cosa fare per rendere innocuo un Kappa? Basta regalargli un cetriolo, di cui va matto, o svuotare la depressione piena d’acqua che ha sulla testa, dalla quale trae energia vitale.

Photo credits: tradurreilgiappone.com

 

     I SENZA TESTA

Gli umani sono costantemente animati da sofferenza, odio, rammarico, invidia, gelosia, e mossi da questi sentimenti negativi commettono peccati o gravi atrocità che nella narrazione tradizionale giapponese vengono puniti in un modo singolare. Attraverso una maledizione. È quello che succede ai Rokurokubi, normali uomini e donne di giorno, spiriti in grado di allungare il collo all’infinito di notte; la testa “si stacca” dal corpo per vagare tormentata, sfogare così i suoi malesseri interiori, terrorizzando chi se la ritrova davanti al chiaro di luna o attaccando piccole prede.

I Rokurokubi non sono consci della maledizione con cui convivono, infatti si considerano esseri umani a tutti gli effetti. Peccato che a volte siano riconoscibili agli occhi degli altri grazie ad un minuscolo particolare: un livido rosso alla base del collo.

Photo credits: yokai.com

 

     STORIE DI FANTASMI

Anche il folklore popolare occidentale è popolato dai fantasmi. Basti pensare ai castelli infestati o alle case abbandonate, ambientazioni perfette per storie e film sugli spettri. Mentre i fantasmi occidentali sono le anime dei morti che non riescono a lasciare questo mondo perché hanno delle questioni in sospeso da risolvere, in Giappone gli Ikiryō sono le anime che escono dal corpo ancora vivo del proprietario per perseguitare le vittime della sua collera e del suo odio; veri e propri fantasmi viventi generati da un sentimento così cupo e radicato da non riuscire a rimanere chiuso in corpo.

Photo credits: yokai.com

 

     INGANNI AL FEMMINILE

Nel Giappone antico le donne, soprattutto quelle bellissime e misteriose, venivano associate alla malizia e all’inganno. Erano fonte di problemi per gli uomini che rimanevano ammaliati dalla loro bellezza sovraumana e perdevano la testa.

Nel folklore nipponico infatti le figure ingannevoli sono rappresentate da donne incantevoli e incomprensibili, che appaiono all’improvviso sul cammino dei viaggiatori per prendersi gioco di loro.

Tra le più famose abbiamo la Kitsune, in giapponese volpe, uno Yōkai mutaforma che si presenta come animale, ma può trasformarsi in donna e anche rendersi invisibile (la sua presenza è tradita solo dagli specchi d’acqua, dove si riflette indipendentemente dalla forma che assume).

 

Photo credits: ramen-nation.com

La Yuki-Onna, o Donna delle Nevi, è invece uno spettro pallido, vestito di bianco, con capelli neri e occhi penetranti che terrorizzano i viandanti durante le tempeste di neve nei boschi; ha il potere di confondere gli uomini fino a condurli alla morte.

Photo credits: bakemono.lib.byu.edu

 

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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GIAPPONISMO, le influenze giapponesi nell'Europa dell'Ottocento.

 

photo credits: arteworld.it

Con il termine Japonisme, o Giapponismo nella versione italianizzata, si intende definire un fenomeno diffusosi nell’Ottocento in Europa e più massicciamente in Francia: artisti e mecenati europei subirono il fascino dell’oggettistica e delle stampe giapponesi che in quegli anni raggiunsero l’Occidente in grandi quantità, influenzando lo stile artistico di grandi pittori e scultori dell’epoca, come Claude Monet, Éduard Manet, Edgar Degas, Gustav Klimt e Vincent Van Gogh.

La domanda sorge spontanea: come mai nell’Ottocento si verificò questa grossa importazione di opere provenienti dal Giappone? Quali furono gli eventi storici alla base del Giapponismo?

     “PAESE CHIUSO”

Nel 1641, lo Shōgun (comandante dell’esercito feudale) Tokugawa Iemitsu emanò un editto con il quale diede inizio al cosiddetto Sakoku, ovvero “Paese incatenato”, un periodo di chiusura semi-totale del Giappone verso gli altri paesi; un governo conservatore che limitò severamente i commerci con l’estero, permettendo l’accesso di navi straniere solo da determinati porti, e minimizzò gli scambi culturali con il resto del mondo.

Fino al 1853, quando uno degli avvenimenti più controversi della storia giapponese interruppe il Sakoku: le Navi da guerra del commodoro statunitense Matthew Perry attraccarono nella baia di Tōkyō, durante l’Epoca Edo, sancendo l’inizio di una serie di pressioni e trattative insistenti volte alla riapertura del Giappone. Fu proprio la fine del Sakoku a facilitare l’arrivo di merce giapponese in tutta Europa (e negli Stati Uniti): dalle suppellettili, alle stoffe, fino alle “immagini del mondo fluttuante”, le ukiyo-e, che affascinarono talmente tanto gli artisti dell’epoca da modificare permanentemente il loro modo di fare arte.

 

Commodoro Matthew Calbraith Perry (1794-1858)

photo credits: musubi.it

DAL MONDO FLUTTUANTE ALLE TELE FRANCESI

photo credits: thecollector.com

Durante il Periodo Edo (1603-1868), nelle città più grandi del Giappone, sì andò pian piano consolidando un nuovo ceto sociale assente dalla rigida piramide sociale che rappresentava il sistema feudale vigente: la figura del cittadino borghese, abitante dei grandi centri urbani, personaggio principale del “mondo fluttuante”, ovvero della trama socioeconomica che intesseva le grandi città. Il cittadino di ceto medio era colui che conduceva un’esistenza dissipata, rincorrendo ai piaceri della vita nella bolla illusoria ed effimera della sua città.

Le stampe Ukiyo-e erano pensate proprio per rappresentare le bellezze come i vizi di questa società: molte infatti raffigurano scene ambientate nei quartieri proibiti delle città, dove i cittadini incontravano geisha e cortigiane, altre invece raffigurano paesaggi innevati, ciliegi in fiore e la potenza del mare, altre ancora attori di teatro impegnati nelle loro performance o semplicemente scene di vita quotidiana.

Fu soprattutto grazie all’osservazione e alla collezione delle ukiyo-e che i pittori impressionisti francesi si cimentarono in nuovi stili più esotici, costellando le loro opere di personaggi orientaleggianti come geisha e samurai.

A chiusura lascio i riferimenti dei tre quadri in foto all’inizio dell’articolo, come esempio lampante del Giapponismo pittorico caratterizzato da forme essenziali, asimmetria e spesso assenza di prospettiva, colori piatti ma vivaci e contorni accentuati: Ritratto di Père Tanguy di Vincent Van Gogh, Ritratto di Émile Zola di Édouard Manet e Mary Cassatt al Louvre di Edgar Degas.

 

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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JIDAI MATSURI il "Festival delle Ere"

photo credits: japan-guide.com

Kyōto, 22 ottobre.

Le strade che conducono dal Palazzo Imperiale fino al Santuario Heian si popolano di una moltitudine di spettatori in trepida attesa. Che cosa sta per succedere?

Qualcuno, dal ciglio della carreggiata, indica un punto laggiù, verso il Palazzo Imperiale: ecco che inizia la parata! La musica di tamburi e flauti tradizionali accompagna il passaggio del famoso condottiero Oda Nobunaga, che tentò di riunificare il Giappone, del samurai filo-imperiale Sakamoto Ryōma, considerato uno dei padri fondatori del Giappone moderno, della scrittrice e poetessa Murasaki Shikibu, dama di corte durante l’epoca Heian, e di tanti altri travestimenti che celebrano il vasto patrimonio storico e artistico del Giappone.

Stiamo parlando del Jidai Matsuri, tradotto come “Festival delle Ere”, riproposto ogni anno dal 1895 per ripercorrere i periodi storici attraversati dal Giappone nei secoli in cui Kyōto era capitale dell’impero (794-1868) e non solo: un potpourri di costumi, oggetti tradizionali e personaggi che attirano ogni anni giapponesi e turisti.

photo credits: japan-guide.com

DALL’ERA MEIJI ALL’ERA HEIAN

photo credits: japanitalybridge.com

La sfilata del Jidai Matsuri è suddivisa in blocchi, partendo dai rappresentanti dell’Era Meiji (1868-1912), la più recente nel tempo, arrivando alla più antica Era Heian (794-1185), nella quale Kyōto divenne capitale sostituendo la città di Nara, per passare poi da altre epoche di mezzo come i periodi Kamakura (1185-1333), Muromachi (1336-1573), Azuchi-Momoyama (1568-1600) ed Edo (1603-1868), quando la capitale si spostò da Kyōto a Edo, nome antico dell’attuale Tōkyō.

Il Festival delle Ere è un viaggio nel tempo che ricopre oltre 1000 anni di storia, tra kimono sfarzosi, armature e katane da samurai del periodo feudale, danze, canti e discipline sportive, ad esempio il tiro con l’arco a cavallo. I figuranti si impegnano per mesi nei preparativi del festival, studiando nei minimi dettagli la parte da interpretare durante la parata.

photo credits: en.japantravel.com

SPIRITI IMPERIALI A SPASSO PER LA CITTÀ

I simboli sacri del Jidai Matsuri sono i mikoshi, santuari portatili importantissimi per il culto shintoista poiché unico mezzo per il trasporto di spiriti divini.

Durante il Festival delle Ere i mikoshi vengono adoperati per contenere gli spiriti di Kanmu e Kōmei, il primo e l’ultimo imperatore a governare dal Palazzo Imperiale di Kyōto. Per tutto l’anno, gli spiriti dei due imperatori albergano all’interno del Santuario Heian; l’unica ricorrenza in cui possono apparire per le strade della città e incontrare l’odierno popolo giapponese è proprio il Jidai Matsuri, quando vengono trasportati in processione all’interno dei mikoshi da figuranti preposti al ruolo, per poi fare ritorno alla loro dimora abituale fino al 22 ottobre dell’anno successivo.

photo credits: giapponeinpillole.com

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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MOMIJIGARI: Autunno fa rima con foliage.

photo credits: inspiringvacations.com

Autunno fa rima con foliage.

Le foglie degli alberi si tingono di colori vivaci, regalando al mondo paesaggi incantevoli, intrisi di una magica atmosfera autunnale; i viali, i parchi e i marciapiedi si ricoprono di foglie cadute dai rami, dipingendo le strade di giallo, arancione, rosso e marrone; lo scalpiccio divertito dei più piccoli si mescola alla meraviglia e gli adulti ne approfittano per rilassarsi ammirando i colori dell’autunno.

In Giappone il rapporto tra esseri umani e natura è profondamento simbiotico, legato alla filosofia Shintoista, ovvero al culto autoctono del Giappone. Per questo non stupisce che l’atto di osservare le foglie d’autunno e ricercare i paesaggi più suggestivi abbia un nome: Momijigari.

Momijigari si scrive con i kanji di “foglie rosse” e “caccia”, quindi letteralmente è la caccia alle foglie rosse, un rituale che consiste nel visitare insieme ad amici e parenti i siti più caratteristici quando le foglie cambiano colore. Proprio come in primavera per l’Hanami (“guardare i fiori di ciliegio”), anche per il Momijigari esistono previsioni metereologiche ad hoc per sapere in tempo reale dove vedere il foliage migliore.

photo credits: jrailpass.com

IL PASSATEMPO DEI LETTERATI

La storia del Momijigari ha origini antiche ed aristocratiche. Risale infatti all’Epoca Heian (794-1185), il periodo di massimo splendore della corte imperiale giapponese, quando i nobili si dilettavano leggendo, componendo poesie o discorrendo di temi filosofici circondati ed ispirati dalla natura autunnale.

Si tratta di un passatempo così radicato nella cultura nipponica da essere descritto addirittura in opere del calibro di Man’yōshū e di Genji Monogatari, rispettivamente, la prima raccolta di poesie giapponesi giunta a noi e il più famoso romanzo di epoca Heian.

CONSIGLI PAESAGGISTICI E… CULINARI

Kyōtō e Nikkō possiedono sentieri e scenari rinomati per godersi il Momijigari.

A Kyōtō, la Camminata dei Filosofi parte dal tempio del Ginkakuji, il Padiglione d’Argento, per arrivare al Santuario Wakaoji. Tra ottobre e novembre passeggiare lungo questo sentiero significa perdersi tra le chiome di aceri rossi che, nei giardini, imitano i colori accesi degli edifici in legno della zona.

Nikkō invece è meta autunnale per chi vuole scappare dalla frenesia della metropoli e rifugiarsi tra i templi incastonati nei boschi di aceri rossi della regione.

A proposito di acero rosso, albero simbolo del Giappone… avete mai sentito parlare della tenpura di foglie d’acero? Una speciale frittura giapponese ottenuta friggendo le foglie con olio di sesamo zuccherato, dopo averle lasciate per un anno immerse in acqua e sale. Da provare assolutamente!

photo credits: ilgiornaledelcibo.it

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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Tsukimi, il festival della Luna e il Coniglio lunare

Avete mai sentito parlare del Tsukimi o del Jugoya?

photo credits: asiancustoms.eu

Queste parole si riferiscono all’usanza tradizionale giapponese di celebrare la Luna e il raccolto autunnale.  In Giappone si ritiene che la luna più bella dell’anno sia quella autunnale, visibile durante il plenilunio di settembre, noto come plenilunio del raccolto o harvest moon: la luna piena più vicina all’equinozio d’autunno. Ma non solo per il Giappone, questo periodo è speciale in tutta l’Asia: in Cina si celebra la Festa di Metà Autunno, in Giappone si osserva la luna Tsukimi , mentre in Corea si festeggia Chuseok, la festa della Luna del Raccolto.

E quest’anno la festa dello Tsukimi cade il 29 settembre, proprio questo venerdì.

 

Tsukimi e Jugoya

I due termini giapponesi vogliono sottolineare i festeggiamenti che comprendono la Luna e l’equinozio d’autunno.

Jugoya è una parola che intende la quindicesima notte dell’ottavo mese nel calendario lunare, usato nella tradizione giapponese, nella quale cade la Luna piena più vicina all’equinozio autunnale, mentre Tsukimi è la parola utilizzata per chiamare il festival giapponese della Luna, e significa letteralmente “Guardare la Luna”.

 

Tsukimi, il festival della Luna

La tradizione dello Tsukimi nasce nell’Epoca Heian, influenzata dall’usanza del festival autunnale cinese dell’élite aristocratica, che si ritrovava per ascoltare musica e recitare o comporre poesie al chiaro di luna. Solo nel 1600 questa celebrazione passo dall’essere festeggiata unicamente dall’aristocrazia giapponese al diventare parte della tradizione popolare, nella quale non si festeggiano più solo le arti musicali e letterarie, ma anche la festa del raccolto autunnale, dove il riso veniva offerto agli Dei come ringraziamento.

Lo Tsukimi entrando a far parte delle tradizioni esistenti giapponesi, prese ad essere una festa piuttosto solenne. Questo portò alla creazione di cibi tradizionali per l’evento, il più famoso lo Tsukimi dango un tipo particolare di gnocco di riso, rotondo e bianco che celebra la bellezza della luna, e si dice che porti felicità e buona salute nell’anno successivo se mangiato durante la notte di luna piena; delle decorazioni particolari, come ad esempio il susuki, o erba della pampa, posta nel luogo dove si osserverà la luna, perché si crede difenda l’area dal male; e anche visite al santuario, bruciare incenso nei templi e offrire cibo agli Dei.

Inoltre questa festa, celebrando la Luna, porta alla luce una credenza giapponese che posiziona i conigli come abitanti del suolo lunare, e noi, di Giappone in Italia, che abbiamo come simbolo della nostra associazione un coniglio siamo pronti a spiegarvi nei dettagli da dove nasca questa credenza.

 

Il Coniglio lunare

I giapponesi non sono gli unici a credere nella presenza di questi animali sulla luna, anche i cinesi e i coreani condividono la stessa idea dove, “non sia l’uomo a camminare sulla Luna, ma i conigli”.

La più antica testimonianza del mito del coniglio lunare risale al Periodo dei regni combattenti dell’antica Cina (453 a.C. al 221 a.C), nel quale viene menzionata la credenza per la quale sulla Luna, insieme ad un rospo, si troverebbe un coniglio occupato a sminuzzare nel suo pestello le erbe per l’immortalità.

Tuttavia questo mito narra solo della sua presenza sul satellite terrestre, mentre solo leggendo il Śaśajâtaka, un racconto buddhista, si può scoprire come questi piccoli animali siano arrivati così lontano.

Il racconto narra di quattro amici animali, una scimmia, una lontra, uno sciacallo ed un coniglio che, nel giorno sacro buddista di Uposatha (dedicato alla carità e alla meditazione) decisero di cimentarsi in opere di bene. Avendo incontrato un anziano viandante, sfinito dalla fame, i quattro si diedero da fare per procacciargli del cibo; la scimmia, grazie alla sua agilità, riuscì ad arrampicarsi sugli alberi per cogliere della frutta; la lontra pescò del pesce e lo sciacallo, sbagliando, giunse a rubare cibo da una casa incustodita. Il coniglio invece, privo di particolari abilità, non riuscì a procurare altro che dell’erba. Triste ma determinato ad offrire comunque qualcosa al vecchio, il piccolo animale si gettò allora nel fuoco, donando le sue stesse carni al povero mendicante. Questi, tuttavia, si rivelò essere la divinità induista Śakra e, commosso dall’eroica virtù del coniglio, disegnò la sua immagine sulla superficie della Luna, perché fosse ricordata da tutti.

È quindi grazie al suo spirito virtuoso e caritatevole che il coniglio arrivò sul suolo lunare.

Da questo racconto nacquero, con il tempo diverse versioni, con protagonisti a volte diversi, ma sempre con il medesimo finale, una divinità celeste che porta o pone la figura del coniglio sulla Luna.

Ad esempio ecco un’altra versione, una leggenda giapponese che racconta:

“Molto tempo fa, il Vecchio della Luna decise di visitare la Terra. Si travestì come un vecchio mendicante e chiese a Saru (scimmia), Kitsune (volpe) e Usagi (coniglio) un po‘ di cibo. Saru, la scimmia, si arrampicò su un albero e gli portò qualche frutto. Kitsune, la volpe, andò ad un corso d’acqua e gli afferrò un pesce. Ma Usagi, il coniglio non trovò nulla per lui da mangiare, se non l’erba. Così, invece, Usagi chiese al mendicante di accendere un fuoco. Dopo che il mendicante costruì il fuoco, Usagi vi saltò dentro e si offrì come pasto. Improvvisamente, il mendicante si trasformò di nuovo nel Vecchio della Luna e salvò Usagi dalle fiamme. E gli disse: “Usagi-san, non farti del male per causa mia. Dal momento che sei stato il più gentile di tutti, io vi porterò indietro sulla luna a vivere con me.”

Ed è tramite questi racconti dal contenuto educativo e testi mitici, che si è arrivati a credere che la luna sia abitata da conigli il cui lavoro è schiacciare erbe per l’immortalità o altri ingredienti, come ad esempio il riso per creare il tipico dolce giapponese chiamato mochi, anche perché il termine mochizuki in giapponese significa luna piena, ma suona anche come la parola per preparare i mochi, “mochizukuru”.

Cosa ne pensate, questo venerdì osservando la luna cercherete la figura di un coniglio intento a lavorare?

photo credits: asiancustoms.eu

 

Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia

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L’ARTE CULINARIA GIAPPONESE: RAPPRESENTAZIONE DEL CIBO NEGLI ANIME e MANGA

Gli appassionati sanno che anime e manga non sono solo meri prodotti di intrattenimento. Si tratta di veri e propri strumenti per veicolare pillole di cultura giapponese fuori dai confini nipponici, in modo leggero ed accessibile a tutti. Storia, religione, consuetudini sociali, abitudini quotidiane, sport e… cucina!

Il cibo diventa l’espediente perfetto per avvicinare un pubblico vasto e curioso alle tradizioni del Sol Levante. L’arte culinaria giapponese, con i suoi sapori ricchi e delicati, assume un ruolo di primo piano nella narrazione, arrivando addirittura ad essere la protagonista di alcune opere.

Ciò che propongo in questo articolo è un itinerario gustativo attraverso vari titoli, per scoprire come viene rappresentata la cucina giapponese all’interno del mondo ormai conosciutissimo di anime e manga.

FOOD WARS! – SHOKUGEKI NO SOMA

photo credits: wikipedia.org

Piatti giapponesi presentati e rivisitati in chiave gourmet. Cultura culinaria nipponica e occidentale si fondono per ottenere sapori paradisiaci, capaci di suscitare un piacere quasi erotico in chi li assaggia.

Food Wars – Shokugeki no Soma” (Sōma delle battaglie culinarie) è un’opera completamente dedicata alla buona cucina e alla cura necessaria per maneggiare gli ingredienti e concludere al meglio le preparazioni.

La rappresentazione grafica dei piatti cucinati dal protagonista Sōma e dai suoi amici è assai curata e le spiegazioni delle tecniche di preparazione così appassionanti da rendere Food Wars uno dei più completi Cooking Anime, manga degli ultimi tempi. Dall’omurice al furikake, dal chazuke al curry, fino al bentō: i classici della cucina orientale vengono reinventati, accrescendo ogni volta la conoscenza culinaria del fruitore (ed anche il suo appetito!).

Carry rice omuraisu

photo credits: shokugekinosoma.fandom.com

 

ONE WEEK FRIENDS

photo credits: images.mubicdn.net

Noi italiani sappiamo bene che il cibo è convivialità, gioia di gustare insieme un buon piatto, una scusa per relazionarsi e stringere legami; prepararlo per gli altri è un gesto d’affetto.

One week friends” ci trasmette lo stesso messaggio: Kaori e Yūki consolidano la loro particolare amicizia proprio durante la pausa pranzo sul tetto della scuola, condividendo l’immancabile bentō, il cestino del pranzo che studenti e lavoratori giapponesi mangiano fuori casa. Kaori impara piano piano quali sono i gusti del suo nuovo amico e inizia a preparare il bentō anche per lui, a partire dal tamagoyaki, una frittatina giapponese arrotolata su sé stessa che appare spesso nei cestini del pranzo di anime e manga.

In One week friends il cibo suscita ricordi sopiti, intreccia storie e contribuisce a mantenere intatti legami che altrimenti si spezzerebbero.

 

bentō

photo credits: myanimelist.net

 

KAGUYA-SAMA: LOVE IS WAR

photo credits: imdb.com

Kaguya-sama: love is war” è una commedia romantica, non certo incentrata sul tema food. Al suo interno però non mancano riferimenti divertenti e ben congeniati alla cultura culinaria nipponica, in particolar modo a due capisaldi: il ramen e il kōcha, o tè nero, che diventano intermezzi simpatici per stemperare il ritmo della narrazione. Chika, personaggio bizzarro dai capelli rosa, si rivela essere una dei 4 Mostri Sacri del ramen, e attraverso la sua figura scopriamo le tecniche da veri intenditori per assaporare questo piatto a base di brodo, noodles e verdure. Lo stesso avviene per il kōcha: durante il festival scolastico la protagonista Kaguya serve un tè nero impeccabile a due fanatici estimatori di ramen e tè, eseguendo magistralmente i vari passaggi di pesatura e filtraggio alla base dell’arte del tè.

 

Ramen

photo credits: i.ytimg.com

 

LA VIA DEL GREMBIULE – LO YAKUZA CASALINGO

photo credits: wikimedia.org

E se cucinare fosse un metodo per cambiare vita e redimersi?

La Via del Grembiule” è la storia spassosa di Tatsu, Drago Immortale della Yakuza che decide di abbandonare gli ambienti mafiosi per dedicarsi anima e corpo al lavoro di casalingo a tempo pieno. Sono numerose le scene in cui il protagonista si muove con maestria davanti ai fornelli, cucinando pietanze tipiche e torte di compleanno per sua moglie, mentre frequenta corsi di cucina insieme alle signore del vicinato e sceglie meticolosamente i prodotti in sconto al supermercato, armato della sua amata Carta Fedeltà. Nel frattempo si occupa delle faccende domestiche e cerca di convertire i suoi vecchi alleati e rivali mafiosi alla dura vita del casalingo.

Qui l’arte culinaria giapponese rappresenta un medium di rottura degli schemi sociali giapponesi e degli stereotipi di genere, azzardando che anche l’uomo più temibile della Terra può occuparsi di compiti spesso e volentieri attribuiti alla casalinga, come la cucina.

FRUITS BASKET

photo credits: animeclick.it

Fruits Basket”, cioè il cesto di frutta. Un’opera in grado di utilizzare il cibo come metafora di vita e lanciare un messaggio importante: ci sarà sempre spazio per te da qualche parte, quindi non convincerti di valere meno degli altri.

Vorrei concludere l’articolo proprio con due storie raccontate in Fruits Basket, nelle quali l’onigiri (polpetta di riso giapponese con ripieno di vario tipo) ha un ruolo allegorico e centrale.

La prima riguarda i ricordi d’infanzia della protagonista, quando veniva derisa dai suoi compagni di scuola durante il gioco fruits basket, corrispettivo del nostro ‘lupo mangiafrutta’; invece di un frutto, le veniva affibiato l’onigiri, in modo che non potesse essere chiamata e quindi non potesse partecipare nel vivo del gioco. Ecco qui che l’onigiri diventa metafora di esclusione.

La seconda è il racconto dell’onigiri ripieno di umeboshi (prugne disidratate salate): immaginiamo ogni essere umano come un’onigiri con la sua umeboshi incastonata sulla schiena. Tutti gli altri possono vederla tranne il proprietario. Allora quest’ultimo, che però riesce a vedere a sua volta le prugne degli altri, si convince di valere meno. Ciò che non sa, è che anche lui ha la sua umeboshi: basta soltanto trovare qualche amico che glielo ricordi.  Ecco qui che l’onigiri diventa metafora di inclusione e l’umeboshi metafora del valore di ciascuno di noi.

 

Onigiri

photo credits: cookaround.com

Testo di Martina Condello, martinacondello.cm@gmail.com

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JIDŌHANBAIKI, i distributori automatici per ogni occasione

photo credits: arabnews.jp

Le vending machine sono così popolari e famose in Giappone che persino il protagonista dell’anime “Jidōhanbaiki ni umarekawatta boku wa meikyo wo hokou” ‘Sono rinato come distributore automatico, e ora vago per labirinti’, è rinato come un distributore automatico in un nuovo mondo.

Ma ora tornando al tema principale, come mai le jidōhanbaiki, vending machine in inglese e distributore automatico in italiano, sono così popolari in Giappone?

Chiunque faccia una piccola ricerca prima di un viaggio in Giappone può scoprire che i distributori automatici sono tra le prime comodità che il paese offre, secondi solo ai konbini, convinient store.

La loro fama è motivata da diversi fattori, uno di questi la loro presenza nel territorio. Di fatti i distributori sono presenti su tutto il suolo giapponese, dalle grandi città alle città rurali, una realtà possibile anche al basso tasso di criminalità registrato nello stato. La varietà dei loro prodotti, in pase all’azienda produttrice e al periodo dell’anno, che predilige bevande fresche durante le stagioni più calde e propone bibite calde nel periodo invernale, fa sì che i distributori riescano a soddisfare le esigenze di ogni persona.

Ho introdotto il discorso portando l’esempio delle bibite, poiché queste sono le jidōhanbaiki più comuni che si possono trovare dal 1960, data dall’introduzione massiccia della moneta da 100 yen. Tuttavia, storicamente parlando la prima jidōhanbaiki fu prodotta nel 1888 da Tawaraya Koshichi e vendeva tabacco.  Un’altra sua opera rivoluzionaria uscì nel 1904, un distributore automatico che vendeva francobolli e cartoline, con anche la funzione di buca per le lettere.

 

photo credits:plaza.rakuten.co.jp

Con il passare del tempo e grazie l’introduzione di nuovi metodi di pagamento, le tipologie di distributori e i prodotti che mettono a disposizione sono aumentati.

Partirei dal presentare quei prodotti che sono comuni anche qui nei distributori italiani. Già precedentemente presentati abbiamo i distributori di bibite, che in Italia troviamo solo come prodotti freschi, poi abbiamo i distributori di sigarette o prodotti da tabacchi e i distributori di snacks. Tutti distributori comuni nell’utilizzo quotidiano.

In Giappone però è possibile comprare anche bibite alcoliche tramite una semplice vending machine, come magari una bella birra fresca. Rimanendo sempre su alimenti che possano alleviare il caldo perché non prendere un bel cono gelato?

Se invece preferite un pasto più sostanzioso ci sono sempre distributori che vendono nuddles che siano questi ramen, udon, mazesoba, tsukesoba e tanto altro, ce n’è per tutti i gusti! È possibile comprare anche cibi dal gusto più europeo come una bella pizza o paella oppure darsi a qualcosa di più esotico come il loco moco, un piatto hawaiano composto da riso, hamburger, uovo e salsa gravy. E cos’è un buon pasto senza un dolce, perché oltre al gelato sarà possibile prendere anche un qualcosa di un po’ più sfizioso.

Ma il contenuto dei distributori automatici non si ferma solo a prodotti alimentari, in base al quartiere in qui ci si trova si possono trovare action figures, carte da gioco e libri o manga in quelle più comuni, ma andando a controllare i distributori più nascosti chissà cosa si potrebbe trovare, magari proprio la cravatta che avete dimenticato di indossare per il vostro importante colloquio.

 

photo credits: web-japan.org

Le jidōhanbaiki non vi stupiranno solo per il loro contenuto, ma anche per la loro innovazione tecnologica, dagli schermi touch fino al distributore automatico realizzato in collaborazione con un’azienda di cosmetica che utilizza l’IA, questo analizzando il volto dei clienti proporrà loro il prodotto più indicato per la loro fisionomia e carnagione.

 

Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia

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Lo Yukata l’abito tradizionale estivo giapponese

photo credits: guidable.co

Lo yukata è una tipologia di vestiario più semplice rispetto a quella del kimono, composta solo da tre elementi: la veste, con il nome di yukata, la cintura, con il nome di obi, e i geta, i sandali di legno tradizionali. Rispetto al kimono possiamo vedere l’assenza del juban (sottoveste, biancheria del kimono) e delle tabi (calze). Questo è dovuto al fatto che in principio lo yukata era nato per essere indossato dai nobili durante bagni di vapore per proteggere la loro pelle e asciugane il sudore.

La funzione si può comprendere osservando l’antica l’etimologia della parola. La parola yukata era composta dal termine yu “湯” (acqua calda) e katabira “帷子” (indumento semplice di seta), che uniti in yukatabira “湯帷子” sono traducibili in italiano con la parola ‘accappatoio’, con la specifica che fosse possibile indossarlo dopo o durante il bagno. Tuttavia, con il passare del tempo la scrittura del termine si è semplificata fino a divenire quella che conosciamo noi oggi, composta da una differente coppia di kanji, quali yu “浴” (bagnarsi) e kata “衣” (indumento), ma mantenendo lo stesso senso di fondo un indumento da bagno.

Inizialmente nati quindi, come indumenti da bagno per nobili gli yukata divennero vestiario comune grazie alla loro produzione in cotone nel periodo Edo (1603-1867) e solo in anni più recenti, alla fine del periodo Showa (1926-1989), divennero gli abiti tradizionali da indossare nel periodo estivo, per far visita ai templi o santuari, per essere indossati durante i festival e la sera.

Anticamente lo yukata era di differenti colori in base a quando doveva essere indossato. Solitamente in casa si indossavano yukata semplici e dai colori chiari, come il bianco, mentre per uscire si preferiva indossarne di color indaco anche per via dell’odore dalla colorazione, che creava un repellente naturale per insetti. Oltretutto gli yukata venivano usati al massimo delle loro potenzialità, dopo essersi rovinati erano indossati come pigiami, e quando anche questi non erano più in condizioni ottimali, venivano trasformati in fazzolettini ed in fine stracci per la casa.

Oggigiorno indossare lo yukata è diventata anche una questione di stile. Le fantasie più popolari tra le ragazze sono floreali di colori sgargianti, mentre le donne adulte preferiscono indossarne con motivi più semplici, ma sempre dai colori vivaci. Gli yukata indossati dagli uomini tendono a colori scuri, quali il blu e nero, monotono e dalle lavorazioni classiche. Perché sì, nonostante quando si pensa allo yukata si immagina una ragazza vestita con un elegante abito dai colori brillanti, questo è anche un classico indumento maschile.

È possibile non solo per i giapponesi, ma anche per i turisti vivere l’esperienza di indossare e farsi fotografare in uno yukata mentre si camminare per le strade delle città, grazie a tutti i negozi che ti permettono di prenderli in prestito o li vendono. Tuttavia, se doveste recarvi in Giappone durante il periodo autunnale o invernale, mesi un po’ freddi per fare quest’esperienza, non c’è da preoccuparsi, li potrete indossare negli ryoukan, pensioni in stile giapponese. Difatti queste pensioni mettono a disposizione dei loro clienti lo yukata, sia per muoversi all’interno dello stabile che per andare a fare quattro passi grazie all’ausilio di giacche pesanti quali hanten o chabaori.

photo credits: yamanami-online.jp

 

Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia

https://www.giapponeinitalia.org/wp-content/uploads/2023/05/2023-Evento_CampsiragoResidenza.pdf

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L’Obon, la festa giapponese delle lanterne e non solo

photo credits: zenpop.jp

L’Obon è generalmente conosciuta come la festa delle lanterne. Quest’ultime venendo liberate sulle superfici d’acqua, creano degli scenari molto suggestivi. Tuttavia, di questa festività che viene celebrata in Giappone da più di 500 anni, c’è molto di più che delle lanterne galleggianti!

L’Obon è il nome con cui viene chiamata una delle festività tradizionali nazionali giapponesi più importanti, la quale vuole festeggiare gli spiriti degli antenati. Viene svolta durante il periodo estivo, solitamente intorno al 15 di agosto. Non vi è una data precisa per tutto il territorio giapponese, anzi questa varia da prefettura in prefettura.

Il nome Obon “お盆” ha le sue origini dai termini buddisti Urabone “盂蘭盆会” ed Urabon “盂蘭盆”, i quali possono essere tradotti in italiano con ‘festa delle lanterne’. Per quanto riguarda il termine bon “盆” in italiano è tradotto con la parola ‘vassoio’, parola che può rimandare all’idea di offrire qualcosa a qualcuno.

Ma in cosa consiste effettivamente questa ricorrenza?

A differenza del nostro Giorno dei Morti, il 2 novembre, nel quale si compiangono i nostri cari deceduti, andandoli a visitare al cimitero e portandogli mazzi di fiori, l’Obon vuole celebrare la visita degli antenati e di coloro che abbiamo amato.

Prima dell’inizio delle celebrazioni dell’Obon le famiglie vanno in visita a casa dei loro familiari e da lì danno inizio ai preparativi per l’arrivo degli spiriti. Si parte dalla ohaka-mairi “お墓参り” (visita alla tomba) con la pulizia della tomba di famiglia. Dopodiché bisogna occuparsi delle offerte di dolci e frutta da porre di fronte all’altare di famiglia, che solitamente è presente in ogni casa giapponese.

In aggiunta, in alcune prefetture del Giappone vi è anche la tradizione di disporre lo shoryo-uma “精霊馬” (spirito del cavallo), che consiste nel prendere un cetriolo e una melanzana e infilzarle con quattro stecchini. Il cetriolo diventa la rappresentazione del cavallo che aiuterà gli antenati ad arrivare velocemente verso casa, mentre la melanzana diventa la rappresentazione della mucca che riaccompagnerà con calma gli spiriti nel loro mondo.

photo credits: grapeejapan.com

Con il primo giorno dell’Obon si da il benvenuto agli spiriti degli antenati, accendendo dei piccoli fuochi che prendono il nome di mukaebi “迎え火” (fuochi di benvenuto). Inoltre, vengono accese anche delle lanterne, le chochin “提灯” per guidarli nel loro rientro verso casa.

In queste giornate è comune per le famiglie visitare il tempio o richiedere a dei preti buddisti di eseguire un servizio memorativo davanti all’altare di famiglia.

Oltre alle visite al tempio e le cerimonie commemorative, è usanza andare ai festival tenuti dalle città, dove è possibile vedere eseguita la bonodori “盆踊り” (danza dell’Obon), visitare delle bancarelle e mangiare street food.

photo credits: otakusjournal.it

Il terzo giorno, alla conclusione dell’Obon, verranno di nuovo accesi dei fuochi che prendono il nome di okuribi “送り火” (fuochi di saluto), per illuminare la strada e rendere la partenza degli spiriti più sicura.

L’Obon è una festività che è variata e mutata nelle sue tradizioni durante il tempo, ma il suo spirito è rimasto sempre lo stesso, celebrare e ricordare con affetto i nostri antenati e le persone che sono state a noi care.

 

Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia

 

https://www.giapponeinitalia.org/wp-content/uploads/2023/05/2023-Evento_CampsiragoResidenza.pdf

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L'anguilla un piatto estivo che porta fortuna

photo credits: skywardplus.jal.co.jp

In Giappone sin dal Periodo Nara (710-749) si racconta come l’anguilla sia uno dei migliori cibi contro il caldo estivo, di come questo cibo grasso e ricco di vitamina A aiuti l’alleviamento della fatica e migliorare l’appetito per contrastare la calura estiva, che causa a molti di sentirsi male.

Servita grigliata, bagnata da una salsa buonissima di cui sappiamo avere come base la salsa di soia e nulla di più, per via di come i suoi ingredienti sono tenuti segreti dai vari ristoranti che la servono. Viene poi servita su un letto di riso bianco, prendendo il nome di unadon. Termine che si crea all’unione delle parole giapponesi unagi (anguilla) e donburi (ciotola), che può anche identificare una tipologia di cibi giapponesi caratterizzati da una ciotola contenente riso sulla quale vene posto un ingrediente, come in questo caso.

Questo cibo che per la sua pesantezza potremmo non vedere collegato ai leggeri e freschi cibi estivi deve la sua fama ad una festività del periodo Edo che lo ha reso il suo piatto principale. Tale festività prende il nome di Doyō no ushi no hi che in italiano possiamo tradurre con ‘Il giorno del bue di metà estate’, è una festività basata sul calendario lunare e sui suoi dodici animali dello zodiaco. Il ‘Giorno del bue’, secondo tra i dodici animali dello zodiaco, cade in quello che viene definito doyō, i 19, 18 giorni prima del cambio di stagione, che in questo caso è nel mese di luglio, per questo tradotto con ‘metà estate’ in italiano.

Il collegamento tra il piatto a base di anguilla e la festività non si sa bene come sia nato, se sia davvero dovuto alla ricchezza dei nutrienti dell’anguilla o per altri motivi, tuttavia, vi vorrei proporre oltre ad una motivazione nutrizionale, quella che potremmo definire una divertente leggenda.

Si narra infatti che sia stato un certo Gennai Hiraga ad aver suggerito questa usanza nel periodo Edo. Un giorno il Sig. Gennai ricevette la visita di un negoziante che aveva paura di non riuscire più a vendere le sue anguille nel periodo estivo. Gennai ci pensò su e come soluzione gli propose di pubblicizzare la vendita dell’anguilla durante il Giorno del Bue, poiché mangiare qualcosa che inizi con la ‘U’ durante questa festività avrebbe portato molta fortuna.

Ora per noi una frase del genere ha tanto senso quanto chi ci consiglia di guardare il sole quando non riusciamo a starnutire, ma bisogna tenere in conto che in giapponese il Giorno del Bue si dice Ushi no hi e che la parola anguilla in giapponese si dice unagi; quindi, mangiare anguilla il Giorno del Bue è proprio uno di quelle pietanze perfette per diventare fortunati a quanto viene affermato dal Sig. Gennai.

Che questa storia sia davvero alla base di una tradizione che persiste fino ad oggi, lo lascio decidere a voi. Sicuramente dal periodo Edo la festività e il piatto culinario si sono legati molto, tanto che tutt’ora in Giappone dall’inizio di luglio è possibile trovare volantini e cartelli che pubblicizzano l’arrivo del Doyō no ushi no hi e per le strade si può già sentire il dolce profumo dell’anguilla alla brace coperta dalla sua deliziosa salsa, che ti invita ad entrare nei negozi per mangiarla.

Un esempio di volantino pubblicitario. Photo credits: threaf.com

 

Articolo di Elena Ferrario, Stagista presso l’Associazione Giappone in Italia

https://www.giapponeinitalia.org/wp-content/uploads/2023/05/2023-Evento_CampsiragoResidenza.pdf

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