Approfondimenti: La rivolta di Shimabara

La rivolta di Shimabara fu un episodio particolarmente violento della storia del Giappone, in cui persero la vita molte persone di fede cristiana. Siete curiosi di scoprire le cause di questa ribellione e cosa successe in quei giorni? Questa è una storia che non tutti conoscono.

Le cause della rivolta

Photo credits: alchetron.com

La rivolta di Shimabara ebbe luogo nell’era Tokugawa del Giappone (1600-1868), e durò ben cinque mesi, dal dicembre del 1637 all’aprile dell’anno dopo. Tutto iniziò dal discontento che serpeggiava tra i contadini della penisola di Shimabara e Amakusa, a metà degli anni ’30 del 1600.

Infatti, il popolo era stanco di dover subire le angherie dei lord locali, da cui venivano tassati in modo sproporzionato. Inoltre, gli effetti della carestia avevano fatto soffrire gli strati più bassi della popolazione, che pativano ancora la fame.

I lord locali, inoltre, perseguivano gli abitanti di queste regioni perché erano cristiani. Infatti, il bando sul cristianesimo era stato introdotto dallo shogun Toyotomi Hideyoshi nel 1587, che vedeva la fede cattolica come una “perniciosa dottrina”.

Shimabara

Photo Credits: alchetron.com

Il governo centrale, infatti, temeva che il cristianesimo potesse mettere in dubbio le basi ideologiche su cui si fondava il Giappone. Di conseguenza, tale religione poteva minare il potere politico dello shogun e aprire il paese ad un’invasione europea. Per questo motivo, durante gli anni vennero fatti crocifiggere e torturare diversi cristiani giapponesi.

All’insoddisfazione generale si unirono anche i rōnin (samurai senza padrone), non contenti delle condizioni nelle quali vivevano.

L’assedio di Hara

Shimabara

Photo Credits: wikipedia.org

L’inizio della rivolta si ebbe con l’assassinio di un magistrato locale nel 17 dicembre del 1637. Il leader della ribellione fu un giovane di sedici anni, molto carismatico, dal nome di Amakusa Shirō. I ribelli, dopo alcune battaglie, si radunarono nel castello di Hara, costruendo delle vere e proprie fortificazioni fatte di legno.

Tuttavia, ben presto le forze dello shogunato Tokugawa iniziarono l’assedio della roccaforte, il più grande da quello di Osaka del 1615. A prendere parte all’assedio fu anche il famoso spadaccino Miyamoto Musashi, in qualità di consigliere di un daimyō. Di Musashi si racconta che venne disarcionato da cavallo a causa di una pietra tiratagli da un contadino.
Le forze shogunali chiesero l’aiuto dell’esercito olandese, che gli fornì munizioni e armi di particolare potenza, come i cannoni. Tuttavia, tali armamenti non ebbero l’effetto desiderato, e anzi, i ribelli sbeffeggiarono le forze shogunali, deridendole per aver chiesto aiuto a stranieri.

L’assedio si concluse nell’aprile del 1638. I ribelli finirono a corto di cibo e furono annientati dall’esercito alleato, non senza prima aver causato ingenti perdite a quest’ultimo.

Le conseguenze

Shimabara

Photo credits: mag.japaaan.com

I 37.000 ribelli furono tutti decapitati. Tra questi vi era anche Amakusa Shirō, la cui testa venne esposta a Nagasaki per un lungo lasso di tempo, in segno di avvertimento.

Inoltre, lo shogunato sospettava che dietro alla rivolta vi fossero i cattolici europei. Per questo motivo, espulse dal paese tutti i mercanti portoghesi e rese ancora più pesante il bando sul cristianesimo. Infatti, da questo momento in poi la comunità cristiana in Giappone sopravvisse solamente grazie alla segretezza con cui venivano svolti i vari riti.

Questi cristiani venivano chiamati “kakure kirishitan”, i “cristiani nascosti”, che arrivavano a camuffare statuette cristiane con icone buddiste per non farsi scoprire dalle autorità shogunali.

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Approfondimenti: L'ultimo Samurai, la vera storia

“L’ultimo samurai”, diretto da Edward Zwick e uscito nelle sale nel 2003, ha affascinato il pubblico con la sua epica, il suo dramma e le sua atmosfera suggestiva. Ispirato ad una storia vera, la pellicola ripercorre le gesta di un militare straniero che prima viene convocato nella terra del Sol Levante per combattere dei ribelli ma che poi passa dalla parte del presunto nemico, tutto questo durante un periodo di cambiamenti sociali decisivi per la storia del Giappone. Ma quanto c’è di vero nel lungometraggio? E in cosa differisce dai fatti realmente accaduti? Scopriamolo insieme!

Il quadro storico della vicenda

photo credits: wikipedia.org

Partiamo esaminando la storia vera che c’è dietro l’opera di Zwick, e iniziamo dal contesto storico in cui versava il Giappone all’epoca.

Siamo a metà del XIX secolo, e il Paese è una nazione isolata e fortemente ancorata alle tradizioni. La volontà dell’Imperatore vede il Giappone proiettato in un’era di prosperità e supremazia militare e politica assoluta, ma la sua è una visione difficile da realizzare e minata da diverse problematiche.

Tuttavia le cose cambiano quando nel 1853 l’ammiraglio statunitense Matthew Perry giunge sulle coste nipponiche con le sue navi, in un momento dove i giapponesi si stavano pian piano aprendo, ancora timidamente, all’estero, almeno sul piano commerciale. Quello che porta Perry, però, fa gola all’Imperatore, che trova una risposta ai suoi dilemmi e ai suoi piani: l’americano era infatti arrivato con navi moderne, e con la conoscenza di tecnologie e strumenti avanzati che potevano sopperire all’arretratezza giapponese. A seguito di queste novità, e dei successivi scambi con l’occidente, dal 1866 al 1869 iniziò il periodo della Restaurazione Meiji: era intenzione dell’Imperatore Mutsuhito modernizzare e industrializzare il Giappone, ponendolo in una posizione di rilevanza nello scacchiere economico mondiale come potenza capitalista.

Per portare a compimento tutto questo, si attuarono una serie di riforme e trasformazioni, tra cui quelle che vedevano una nuova casta sociale emergere a scapito di quella vecchia: un sistema di prefetture e amministrazioni locali date in mano a funzionari statali avrebbe preso il posto dello shogunato e dei samurai, privando de facto questi ultimi di tutto il loro potere e della loro autorità. Ma lo shogun Tokugawa e i suoi guerrieri erano tutt’altro che d’accordo nel venire oscurati, e da qui cominciò una ribellione e una serie di battaglie che prendono il nome di Guerra Boshin.

Jules Brunet e il suo ruolo nella Guerra Boshin

photo credits: wikipedia.org

Per contrastare i rivoltosi, l’Imperatore chiese aiuto all’Occidente, per cui al suo servizio si presentò l’ufficiale francese Jules Brunet. Questi aveva combattuto in Messico a supporto della Francia dal ’62 al ’64, ricevendo i più alti riconoscimenti militari. Esperto di artiglieria e di tattiche di ingaggio europee, fu selezionato come candidato perfetto per aiutare gli imperialisti giapponesi.

Tuttavia, col passare del tempo, Brunet si ritrovò a lottare a fianco dei Tokugawa, allenando a sua volta i samurai nell’uso delle armi occidentali e delle strategie di guerra moderne. Tutt’oggi si sa poco circa la figura del soldato francese e delle motivazioni che lo spinsero a cambiare bandiera, ma molti ipotizzano si trattasse di un idealista che, affascinato dallo spirito e dalla mentalità dei clan appartenenti allo shogun, avesse ritenuto giusto schierarsi a loro favore, contrastando quella che di fatto era una tirannia.

Jules Brunet prese parte a molte battaglie spalleggiando i Tokugawa, durante la Guerra Boshin, ma l’Impero era troppo forte. A seguito dell’editto del 1868 che scioglieva in maniera definitiva tutti i poteri e l’autorità legata allo shogun e che perseguiva ogni samurai rimasto, i ribelli continuarono a subire diverse sconfitte, sia sul campo che sul piano morale: numerosi signori feudali decisero infatti di arrendersi e passare dalla parte dell’Imperatore, ritenendo che fosse la cosa più saggia da fare non solo per la loro sopravvivenza ma anche per l’unità e il futuro prospero del Giappone.

Non potendo contare su un appoggio completo da parte della madre patria, giacché avrebbe significato una guerra tra nazioni, Brunet lasciò la terra del Sol Levante e tornò in Europa, dove avrebbe continuato la sua carriera militare coinvolto in altre campagne. Nel frattempo, l’epoca dei samurai e dello shogunato vedevano il loro tramonto.

Differenze con “L’ultimo Samurai”

photo credits: wikipedia.org

Il film del 2003 condivide alcune analogie con i fatti realmente accaduti, mentre differisce in altre cose. Questo ha portato ad aspre critiche, sia verso Hollywood sia verso l’idea stereotipata e miticizzata che gli occidentali hanno degli orientali.

Ma andiamo con ordine. Nella pellicola, il personaggio ispirato al francese Jules Brunet è qui un ex capitano del Settimo Cavalleria statunitense, chiamato Nathan Algren. Convocato dall’Imperatore per sedare la ribellione, sia allea con i samurai e sposa i loro ideali solo dopo esser stato fatto prigioniero da loro, superando l’iniziale avversione nei confronti di Matsumoto (il leader portavoce della rivolta) e della sua gente. Il periodo in cui si colloca il racconto per il grande schermo, inoltre, si svolge nei tardi anni ’70 del 1800, quindi un decennio dopo la vera Guerra Boshin (1868 – 1869). Per finire, altri due elementi: viene omesso che parte dei samurai passarono dalla parte dell’Impero, asserendo invece che tutti andarono contro il nemico e perirono di conseguenza; non viene nemmeno indicato che anche i rivoltosi dello shogun utilizzavano armi occidentali, dato che ne L’ultimo Samurai questi ultimi combattono ancora con metodi e armi tradizionali e all’antica.

Come abbiamo visto, ci sono certe similitudini con le vicende di Jules Brunet, ma Edward Zwick ha tralasciato (volontariamente o meno, questo non possiamo saperlo) certi dettagli e si è preso delle libertà narrative. Se da una parte è normale che ciò accada per adattare al meglio una storia, anche secondo un personale gusto e una volontà di mandare un certo messaggio, dall’altra quando si tocca la storia con la ‘s’ maiuscola è bene fare attenzione a certe cose.

Come accennato prima, alcuni critici si sono lamentati proprio di questo, redarguendo la pochezza degli americani, i quali avrebbero dipinto la casta samurai come retrograda e talmente testarda da non scendere a compromessi. Questo, sempre secondo le accuse, perché il film doveva veicolare quei valori tipici e cari allo spettatore medio: onore, liberismo e sfida al progresso. A questo si aggiungerebbe anche una visione troppo pura e romantica dei samurai stessi, che in realtà, già a partire dal XVII secolo, con la conclusione delle guerre intestine al Paese, si erano disabituati alla lotta e avevano ceduto all’ozio e alla corruzione dei costumi.

Per quanto legittime e fondate possano esser state le criticità all’opera di Zwick, è sempre bene ricordare che nell’industria dell’intrattenimento bisogna arrivare a patti. Il pubblico vuole la sua parte, così come i produttori e gli azionisti. Condannare in toto L’ultimo samurai sarebbe quindi ingiusto, poiché, veridicità o meno, si andrebbe a toccare una grandiosa gemma appartenente alla settima arte, a partire dalle ottime prove attoriali, passando per una messa in scena poetica e idilliaca, per poi finire con le maestose musiche di Hans Zimmer.

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Approfondimenti: Arti Marziali tra tradizione, storia e cultura

Quando si pensa al Giappone generalmente vengono evocate nella nostra testa immagini di fiori di ciliegio, di templi shintoisti o di quei vicoli a Tokyo costellati di insegne su cui ci sono miriadi di kanji. Tuttavia è inevitabile fare anche il collegamento con gente che indossa un ”gi” dalla cintura nera e che urla mentre tira calci. In poche parole, ci vengono in mente le arti marziali. Ma perché facciamo questa associazione?

La Genesi delle Arti Marziali in Giappone

L’Asia è sempre stata la culla delle arti marziali. Dalla Cina, passando per la Corea e finendo in Thailandia. E il Giappone non è assolutamente da meno. È doveroso iniziare ricordando che la terra del Sol Levante ha quasi sempre attinto dalla Cina, in materia di arte e filosofia. Gli ideogrammi usati dal popolo nipponico si ispirano ai pittogrammi cinesi, tanto per fare un esempio, e anche in termini dottrinali si è studiato con profondo interesse il taosimo zen e il confucianesimo, integrandoli con gli insegnamenti shinto.

In questo calderone culturale ci sono anche le arti marziali. Il Giappone ha cominciato a sentirne la necessità quando sul campo di battaglia le loro armi si rompevano ed erano costretti ad usare braccia e gambe. Ecco allora che le cosiddette ”forme” e i vari stili di combattimento della Cina iniziarono a solleticarli e a sedurli, e in poco tempo, a partire circa dall’era Sengoku, i giapponesi svilupparono scuole di lotta e di pensiero marziale tutte loro, anche se inizialmente erano prerogativa della casta guerriera.

Avendo quindi origine dai samurai, le arti marziali nipponiche sono pregne di filosofia, disciplina e perizia di guerra. Analizzeremo prettamente quelle che sono le discipline più famose e diffuse, al giorno d’oggi, per meglio capire un lato del paese del Sol Levante che ha radici profonde e un’importanza da non sottovalutare.

Sumo

Arti Marziali sumo

photo credits: Wikitionary.org

Risulta doveroso iniziare con lo sport nazionale del Paese, il sumo.

Nasce ad Hokkaidō, attorno al VI secolo. Ha una matrice shintoista, giacché era un tipo di lotta celebrativa che si attuava quando i raccolti risultavano abbondanti, rendendo così grazie agli déi in un modo giocoso ma dalle connotazioni comunque religiose. Altro rimando allo shintoismo è la corda che i praticanti portano come cinta, chiamata ”yokozuna”, la quale sia per forma che per materiali richiama quelle che vengono impiegate nei riti e nelle decorazioni dei templi shinto.

Se volessimo paragonarlo ad un tipo di combattimento occidentale, potremmo accostarlo al wrestling, dato che si tratta di due individui che lottano in maniera ravvicinata, cercando di sbilanciarsi in uno scontro di attrito, forza fisica e resistenza. Vince chi atterra l’avversario o chi lo butta fuori dall’arena, detta ”dohyō”. Il motivo della grossa corporatura dei combattenti si deve perciò alla necessità di resistere allo sfidante e di sovrastarlo con la propria energia e stazza.

Il sumo è amato e seguito da molti, di qualsiasi età, e tiene viva la tradizione giapponese assieme alla voglia di intrattenimento degli amanti delle arti marziali.

Kendo e Iaido

Arti Marziali

photo credits: @jiemin.lee1994 on Instagram

Il kendo è una disciplina che si rifà agli antichi guerrieri samurai, e discende dalle tecniche kenjutsu legate ai più formidabili spadaccini delle epoche passate. Si basa sul combattimento con spade di bambù (”shinai”) e i duellanti indossano un’armatura protettiva (”bōgu”). Viene insegnato a colpire alcuni punti critici del corpo, come la testa, le mani per disarmare il nemico, e le gambe per impedirne il movimento. Questo ovviamente in linea teorica e sportiva, visto che fortunatamente l’era sanguinaria degli stati combattenti è finita da un pezzo.

Ad ogni modo, il kendo è estremamente seguito e praticato, anche dagli occidentali, e molte shinai e bōgu sono frutto di un’alta abilità di artigianato nipponico, il che dà lustro tutt’ora a quelle piccole botteghe dove un tempo c’era molta più richiesta di spade e corazze di qualità.

L’altra faccia della medaglia è lo iaido. Anch’esso prevede l’utilizzo di una spada, ma è focalizzato sul colpire per primi ed impedire all’avversario di fare mosse ulteriori. È un tipo di arte molto più meditava e dove la concentrazione e una precisione letale la fanno da padrona. Generalmente, in molti praticano sia il kendo che lo iaido per forgiarsi al meglio come guerrieri spadaccini.

Il kendo e lo iaido poggiano inoltre sugli insegnamenti teorici e pratici di Miyamoto Musashi, una figura leggendaria risalente al XVI secolo. Era un abile spadaccino e un profondo conoscitore delle varie scuole di pensiero dell’epoca, e si diceva non perdesse mai un duello. Con il suo ”Libro dei cinque anelli” ha messo insieme tutto quello che aveva imparato sul campo di battaglia e dai vari maestri con i quali si era confrontato. Potremmo dire fosse la controparte giapponese dello stratega cinese Sun Tzu, un generale intelligente e scaltro che a sua volta aveva indagato sulla natura e le modalità della guerra e delle sue tecniche.

Karate

Arti Marziali

photo credits: My-personaltrainer.it

Probabilmente il tipo di arte marziale più famoso e praticato, se si considerano i seguaci oltreoceano.

Il karate nacque sul finire del XIX secolo, ad Okinawa, quando quest’ultima e altre isole vennero annesse al Giappone. La popolazione dell’allora Regno del Ryūkyū era contraria all’adesione con l’impero nipponico, per cui ideò uno stile di combattimento che permettesse di contrastare i giapponesi. Mischiarono tecniche cinesi a metodi di combattimento autoctoni, dando vita al karate che conosciamo oggi. Da lì, si sviluppò in seguito anche il judo, incentrato sulle prese e sull’adattamento ad ogni tipo di situazione.

Terminata la seconda guerra mondiale, molti americani che avevano basi per tutta Okinawa, scoprirono quest’arte marziale, e tornati in patria la fecero diffondere a macchia d’olio. Questo diede il via all’esplosione del fenomeno, che culminò negli anni ’80 quando il culto dell’esercizio fisico e l’amore per lo sport erano praticamente un’ossessione per gran parte dei cittadini statunitensi. Aggiungiamoci il contributo che diede il cinema, con toni esasperati e ispiratori (non scordandoci neanche dell’iconico Bruce Lee), e capiremo come gli stili di lotta orientali fecero presa sull’occidente.

Ultime Considerazioni

Per il Giappone, quindi, le arti marziali sono di fondamentale importanza, perché racchiudono parte della loro storia ma anche un’ampia parentesi che lo ha saputo mettere in contatto con l’Ovest, sia a livello culturale che commerciale. Per molti non è solo uno sport, ma anche uno stile di vita, una filosofia, un modo per scoprire se stessi e per migliorarsi tramite la disciplina e l’esercizio. Una realtà che ha saputo incantare milioni di persone, e che è una delle colonne portanti della società del paese del Sol Levante.

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Approfondimenti: lo Shintoismo

Lo shintoismo. La religione più diffusa in Giappone, il fulcro della spiritualità di una terra e di un popolo a stretto contatto con la natura e le tradizioni. Ma qual è la storia che si cela dietro questa dottrina? Scopriamolo assieme!

Un Breve cappello introduttivo e storico

shintoismo

photo credits: tsunagujapan.com

A dire la verità, ”religione” è un termine improprio per definire lo shintoismo. Non abbiamo infatti né testi sacri ufficiali né veri e propri dogmi di riferimento. I giapponesi credenti e praticanti non sono vincolati da nessuna regola o imposizione di sorta, e sono liberi di vivere la propria intimità spirituale come meglio credono. Tra l’altro non è cosa rara che molti shintoisti aderiscano anche ad altre religioni come l’induismo, l’islamismo o il cristianesimo, quest’ultimo particolarmente diffuso nella terra del Sol Levante. Si nota quindi una certa flessibilità e omogeneità per quanto riguarda la sfera shintoista, accomunata e rafforzata dalla tipica curiosità della gente nipponica che la spinge a contaminarsi con l’esterno, provando costantemente cose nuove e accorpandole con le proprie usanze.

Ad ogni modo, parrebbe che lo shintoismo si sia diffuso durante le ultime fasi del periodo Jōmon (il quale spazia indicativamente dall’1000 a.C fino al 300 a.C). Nel corso dei secoli lo shintoismo ha giocato un ruolo fondamentale nel contribuire a dare un’identità e una storia al Giappone, che cercava di affermarsi come paese con alle spalle una forte storia di miti e leggende. Questo perché ambiva a divenire una potenza militare e politica che aveva il diritto di supremazia proprio in virtù delle sue origini divine. Perciò, assieme al Kojiki e al Nihongi (un insieme di antiche memorie e annali), le dottrine shinto contribuirono a uniformare la nazione a livello culturale e sociale, ampliando la conoscenza filosofica per mezzo di un’integrazione di studi sul taosimo, il buddismo e il confucianesimo, e legittimando l’autorità dell’onnipotente figura dell’imperatore.

Il cuore dello Shintoismo: Kami, concetto di sacro e natura

Ma in cosa consiste esattamente lo shintoismo? Partiamo dal significato della parola. ”Shin” vuol dire ”divinità”, mentre ”to” (che sarebbe ”do” in lingua moderna) si traduce con ”via”. Per tanto lo shintoismo è la via degli dèi. Questo che significa, esattamente? E chi sono queste divinità?

Secondo la mitologia, nell’universo regnavano cinque entità primordiali, da cui nacquero a loro volta Izanagi e Izanami. Questi due, rispettivamente fratello e sorella, crearono un’isola e un insieme di arcipelaghi: Nihon, il Giappone. A seguito della loro discesa sulla terra, generarono centinaia e centinaia di esseri simili a loro, i ”kami”, e tra questi è importante ricordare Amaterasu, dea del sole e spirito tra i più potenti nella cosmogonia assieme a Tsukuyomi e Susanoo. Si pensa che la stirpe imperiale abbia avuto origine dalla prole di Amaterasu stessa, ed è per questo motivo che la discendenza e la figura dell’imperatore sono sacre. Ciò, al contempo, rende il kami dell’astro diurno il più venerato e importante in assoluto.

shintoismo

photo credits: theculturetrip.com

Ci siamo dunque imbattuti nel termine ”kami”. Difficile tradurlo, specie per via della concezione spirituale che abbiamo noi occidentali. Tuttavia con ”kami” si indica ciò che è molto vicino a un dio, ad una presenza sovrannaturale. Secondo lo shintoismo queste creature sono invisibili e vivono nel nostro stesso mondo, ma in un piano di esistenza differente. Similmente al pantheon greco, hanno sentimenti molto umani, e sono suscettibili alle preghiere e alle offerte che si fa loro. Molti di questi, vengono identificati in luoghi naturali o in fenomeni atmosferici, e da qui la concezione di sacro che i giapponesi hanno della natura.

Siccome i kami sono presenti praticamente dappertutto, l’intero mondo in cui viviamo è sacro, per gli shintoisti. Alberi, fiumi, montagne, insetti, persone e pietre vengono rispettate e viste come elementi del divino. Non è un caso che la maggior parte dei luoghi di culto shinto sia collocata in spazi naturali o ricchi di verde. La natura infatti è armonia e purificazione, il lato lucente e positivo della vita.

Praticare e sentire lo Shintoismo

La peculiarità di chi segue e pratica la dottrina shintoista è che non si persegue la ricerca di una verità assoluta. Si vive il tutto secondo una personale indagine dei sentimenti e nel rispetto del prossimo. Molta attenzione viene data alla famiglia e al rendere onore agli antenati (che a loro volta diventano kami a tutti gli effetti, in questo caso denominati ”ujigami”). Molte famiglie, se possibile, hanno un piccolo giardino che curano, perché, come spiegato prima, il verde richiama l’armonia divina. In aggiunta o alternativa si possiedono piante, una fra tutte il bonsai casalingo.

Alla luce di quanto osservato fino ad ora, possiamo notare la triplice essenza dello shintoismo: animista, perché rispetta la natura; spirituale, perché venera kami e ujigami; nazionalista, poiché si ha del territorio giapponese la massima considerazione. Proprio circa quest’ultima voce, è importante sottolineare e ricordare ancora una volta come lo shintoismo abbia aiutato il Giappone ad avere un’identità e ad affermarsi. Anche in epoca di guerra, come accadde durante il secondo conflitto mondiale, lo shintoismo divenne religione di stato, atto a valorizzare l’imperatore e a rendere incontestabile ogni suo ordine e ogni sua volontà.

Per quanto riguarda la pratica, il luogo di culto principale è denominato ”jinja”, un tempio dove è possibile pregare e fare delle offerte. Tale struttura è preceduta da un torii, l’iconico portale (tendenzialmente rosso) che sancisce l’entrata in un’area sacra, e il percorso che conduce agli altari è da percorrere come gesto di purificazione. Una volta lì, si mette una moneta in una scatola, si suona una campana, si battono le mani due volte per richiamare a sé le attenzioni dei kami, si recita una preghiera o si esprime una richiesta e infine si battono nuovamente le mani.

jinja

photo credits: (via Instagram) @o.t.hide

Ci sono inoltre giorni particolari di festa chiamati ”matsuri” in cui per le strade si venerano i kami e gli antenati, tra sfilate, carri e vivacità generale. Oppure, nel privato, si possono allestire dei kamidana, mensole su cui sorgono altarini dove poter pregare le divinità, accendendo incenso e offrendo acqua, sale o riso.

Dal 1946, la Jinja Honcho (un’associazione dei templi shintoisti) amministra quella che è ormai una chiesa a scala gerarchica a tutti gli effetti, e si occupa della preservazione e promozione culturale e storica della religione più diffusa e importante del Paese.

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Approfondimenti: IKIGAI, la ragione di vivere

L’ikigai, ossia la ragione di vita che ci spinge ad alzarci dal letto ogni giorno, carichi di entusiasmo e guidati dalla nostra vocazione. Ma come arrivare a ciò? Come capire per cosa siamo stati messi al mondo? Scopriamolo insieme studiando meglio questo concetto tipico della filosofia giapponese!

Ikigai mood

photo credits: (via Instagram) @daisukephotography

Dare un senso alle nostre mattine grigie e noiose può risultare davvero difficile. Questo non solo perché spesso rimaniamo ingabbiati in una poco esaltante ma necessaria routine lavorativa, ma anche per via del fatto che non sappiamo bene cosa vogliamo veramente. E da una parte non è colpa nostra, dal momento che siamo distratti e costretti dal tran tran quotidiano, e l’unica cosa che facciamo una volta tornati a casa è buttarci sul letto, in attesa del mattino successivo. Ma non possiamo neanche negare che evitare di porci gli interrogativi giusti e indagare meglio su noi stessi sia sbagliato. Non possiamo trascurarci. Così come nutriamo il nostro corpo con il cibo, altrettanto dovremmo fare con la nostra anima e la nostra mente.

Cosa vuol dire Ikigai?

”Ikigai” è una parola composta, come spesso accade con il giapponese, ed è caratterizzata da ”iki” (vivere) e ”gai” (scopo, ragione). Ecco il motivo per cui molte volte questo pensiero viene inteso come ”la ragione di vivere”. Per la gente del Sol Levante, quella della ragione di vita è una faccenda seria, giacché determina chi siamo, la nostra felicità e il nostro contributo che offriamo alla società. Di conseguenza è importante capire qual è il ruolo che ci compete e cosa ci gratifica davvero.

Per avere un quadro chiaro di tutto questo è fondamentale conoscere noi stessi, e chiederci: ”cosa mi rende felice?” e ”in cosa sono bravo?”. Nel corso della nostra vita veniamo sottoposti a miriadi di mansioni, ma poche stimolano la nostra creatività e la nostra reale natura. Ci vengono insegnati e perpetrati un sacco di ideali e modi di vivere, ma in fondo in quasi nessuno di questi ci rispecchiamo. Allora che fare? Avere il coraggio di seguire le proprie passioni, di dedicarsi ad un’attività che ci piace al cento per cento, ecco cosa. Certamente è un percorso in salita, che richiede coraggio e anche un pizzico di fortuna, al giorno d’oggi. Tuttavia, ne va della nostra essenza, della nostra vocazione, e se il risultato è l’appagamento e l’entusiasmo, allora il gioco vale la candela.

L’autorealizzazione, la gioia e il tramutare i propri sogni in realtà sono alla base dell’Ikigai. Molto spesso, infatti, ci si può imbattere in una schematizzazione grafica di questo pensiero, dove tutti questi concetti si fondono in molteplici cerchi gli uni inanellati agli altri, a testimonianza del legame che intercorre tra loro, e di come non si possano scindere se vogliamo ottenere la felicità.

Ikigai

photo credits: Ikigai-Soluzioni.it

I collegamenti con l’Antica Grecia

D’altra parte anche nell’antica Grecia menti illuminate come quella di Platone avevano teorizzato un modello di città e stato ideale dove il meccanismo sociale funzionava solo quando ogni cittadino svolgeva i compiti cuciti su misura per lui, seguendo le sue inclinazioni artistiche e tecniche. E come scordarsi di una delle più famose massime confuciane che recita: ”se ami quello che fai, non sarà mai un lavoro”. È quanto mai opportuno, quindi, cercare sempre di fare quello per cui ci si sente vivi, perché fa bene a noi stessi e a chi ci sta intorno. E soprattutto perché dà un senso e uno scopo ai nostri giorni, facendoci alzare dal letto traboccanti di quell’energia e motivazione che può cambiare il mondo.

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Approfondimenti: Hanami, l'ammirare i fiori

Tutti abbiamo sentito parlare di Hanami almeno una volta nella vita.
La primavera è alle porte e assieme al clima sereno e alla natura che torna a rinverdire gli spogli alberi, anche noi torniamo ad essere allegri e sorridenti. L’hanami è una tradizione giapponese che si celebra in questo periodo, e se volete saperne di più venite con noi e continuate a leggere per scoprire tutte le curiosità su questa ricorrenza!

Cos’è l’hanami

hanami sakura

photo credits: wikipedia.org

La celebrazione dell’hanami coincide con l’inizio della fioritura, in un lasso di tempo che va da marzo fino a maggio inoltrato. Il significato della parola ‘hanami’ viene tradotto con ‘guardare i fiori’, dove forse ‘guardare’ può essere sostituito con ‘ammirare’.

Sì, perché quella dell’hanami è una vera e propria usanza atta ad ammirare la bellezza degli alberi in fiore, in particolare dei ciliegi (sakura): i giapponesi amano perdersi a contemplare i bianchi e rosei petali di questa pianta, e spesso accompagnano le loro visite ai parchi con dei picnic all’ombra degli alberi più famosi del Sol Levante.

Ciò che suscita l’interesse del popolo nipponico nei confronti di tale festività e dei sakura, non è solamente lo splendore estetico di questi ultimi, ma anche il significato profondo che c’è dietro tutto ciò. Il ritorno colorato e radioso di madre natura durante la primavera simboleggia un ciclo che ci ricorda che dopo il grigiore e la tristezza dell’inverno segue sempre una stagione più felice e tranquilla. Allo stesso modo, tuttavia, anche quei mesi passeranno, per lasciare nuovamente spazio a tempi più difficili.

L’hanami insegna quindi a riflettere sulla caducità della vita, sulla bellezza passeggera, sulla ciclicità degli eventi di cui facciamo parte. Dobbiamo saper apprezzare quei fugaci momenti di quiete e meraviglia, ritenendoci fortunati.

La storia

hanami

photo credits: wikipedia.org

Quella dell’hanami, tra l’altro, è una tradizione molto antica e legata a doppio filo con gli alberi di ciliegio. Infatti, verso primavera, se c’era stato un buon raccolto, si era soliti piantare un sakura in onore del favore dei kami (le divinità del Giappone) e a testimonianza della fertilità e della ricchezza dei campi. Inoltre, il petalo di ciliegio, nella sua bellezza e nel fatto che prima o poi cade staccandosi dal ramo, è considerato perfetto. Questo lo ha reso protagonista di numerosi emblemi appartenenti a samurai, individui che a loro volta venivano reputati perfetti, in quanto valenti guerrieri che trovavano la propria realizzazione nella morte in battaglia, cadendo, appunto.

Da allora imperatori e gente normale hanno continuato a venerare e a rispettare i sakura, trovando nell’hanami l’apice di questa ammirazione. Oggi tale ricorrenza si celebra persino oltreoceano, e in Giappone il bollettino meteorologico avverte dove e quando avverranno le fioriture più abbondanti e suggestive del Paese.

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Approfondimenti: Kaizen, l'arte del cambiamento

Per chi di voi non sa cosa significhi la parola o il concetto di Kaizen, oggi andiamo a vederlo meglio!

Si dice che tra le uniche cose certe, nella vita, ci sia il cambiamento. E prima o poi, tutti noi ci andiamo incontro. Volenti o nolenti, che si tratti di uno stravolgimento del regime alimentare o di inseguire un sogno che avevamo nel cassetto.
Che sia per libera scelta o perché ci ritroviamo spalle al muro, arriva il momento di prendere una decisione e cambiare per il meglio. Ed è esattamente questo il significato della parola ‘kaizen’, in giapponese: un cambiamento buono, migliore.

Tuttavia, la strada che porta a questo traguardo può essere difficile, e se non abbiamo la giusta forma mentis e l’adeguata preparazione, il passo che ci spinge a gettare la spugna è breve. Qual è il segreto, quindi? Semplice, procedere per piccoli passi.

kaizen

photo credits: Wikipedia.org

I concetti fondamentali del Kaizen

Credere di riuscire a dare una svolta decisiva ed efficace alla nostra vita in breve tempo e con effetti immediati è sbagliatissimo. Chi si adopera avendo questo in testa si ritrova a fallire in men che non si dica. Quante volte, ad esempio, ci siamo detti: ‘Va bene, dopo le feste inizia la dieta e mi iscrivo in palestra’? E via ad imporci delle regole severissime da seguire subito e tutte assieme, come svegliarsi presto, fare estenuanti allenamenti, evitare certi tipi di cibo, e così via.

Nella maggior parte dei casi questa routine e queste rigide imposizioni non fanno altro che affaticarci più del necessario e scoraggiarci, perché non siamo in grado di sopportarne il peso tutto in una volta.

La chiave del kaizen è avanzare un piccolo trionfo dopo l’altro, senza fretta. Conviene quindi dividere il percorso che conduce al proprio obiettivo in piccole tappe, partendo dalle cose più semplici per poi arrivare in maniera naturale a quelle più complesse. Questo è tipico anche della filosofia shintoista, la quale sostiene che la vera energia di tutti gli esseri viventi è al culmine quando parte dal basso, dalle radici, fluendo gradualmente verso l’alto.

kaizen

photo credits: nationalday.com

I Benefici

Tenendo bene a mente che il processo di miglioramento di noi stessi è costante e non finisce mai, dobbiamo impegnarci ogni giorno ad essere sempre meglio, anche quando il nostro goal iniziale è stato superato.

I benefici del kaizen si faranno sentire tanto nel privato (con l’appagamento e la realizzazione personale, utile a combattere lo stress) quanto nell’ambito professionale. Questo tipo di pensiero si è diffuso in Giappone subito dopo il termine del secondo conflitto mondiale, portando marchi come Toyota a fiorire e a trovare un posto rilevante nel mercato. Alla base del successo dell’azienda, infatti, c’è stato l’aver seguito il kaizen, risolvendo i problemi analizzandoli a fondo e cercando di trovare una soluzione consona e non forzata dalle logiche aggressive della produzione di massa attuate dalla concorrenza, la quale non dialogava con i propri clienti e non riusciva a capirne le vere esigenze.
Solamente attraverso un’umile e attenta analisi introspettiva Toyota è riuscita a creare un metodo di lavoro personale e vincente e ad instaurare con i suoi stessi dipendenti un rapporto fatto di dialogo, comprensione e crescente capacità di problem solving. Un ambiente lavorativo sereno, ordinato e senza barriere gerarchiche ha portato colossi come Google, al giorno d’oggi, ad essere tra le più rinomate compagnie per via della sua mentalità aperta e del suo approccio creativo.

Questo a dimostrazione di come il cambiare mentalità anche nelle aziende porti ad enormi benefici, oltre che ad un benessere fisico e mentale.

photo credits: motto-jp.com

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