Un ponte dal Giappone

Per quanto da noi possa essere considerato sconveniente, in Giappone capita che all'interno di una chiesa cristiana, in occasione di una festa di Natale, ci sia il momento per dimostrazioni di arti marziali e di espressioni di altre culture.

Rachele Grassi


Jiro Dreams Of Sushi: arte e cucina si mescolano in un documentario

Jiro Ono, 85 anni, è considerato il più grande cuoco di sushi vivente, per alcuni addirittura un patrimonio nazionale giapponese. Questo anonimo vecchietto, tutti i giorni raggiunge in metro il suo ristorante, il Sukiyabashi Jiro a Tokyo, lodato anche dalla guida Michelin.

Convinto di non aver ancora raggiunto la perfezione - perché, ci dice, “nessuno sa cosa sia il top” - Jiro vive per il suo lavoro. Una vocazione, la sua: quella di essere un visionario del sushi. Ma in Jiro Dreams Of Sushi c’è di più. La trasmissione del mestiere è ancora attuale nella famiglia Ono, ecco perché il figlio di Jiro, Yoshikazu, deve fare di tutto per tenere viva la fiamma accesa dal padre, anche quando quest’ultimo non ci sarà più. Date uno sguardo al trailer del documentario di David Gelb che uscirà negli Stati Uniti nel marzo dell'anno prossimo. Speriamo di poterlo vedere presto anche da noi.

 

 


La cucina giapponese fra Arte e Religione

Arte e religione sono parte integrante della cucina giapponese sì che essa si trova a essere rappresentata negli antichi rotoli dipinti, nelle stampe, nelle opere a inchiostro degli antichi maestri Zen e nella letteratura.
Secondo i precetti buddisti non ci si può cibare di esseri viventi: da ciò la nascita, nei secoli passati, di una cucina vegetariana di tale alta classe da divenire ispiratrice di varianti, antiche e moderne, tra cui la macrobiotica e la nouvelle cuisine. Ma la religione originaria, lo Shintoismo, che cosa ci svela? Amaterasu, la dea del sole, coltivava riso e ancora oggi uno dei compiti cerimoniali dell’imperatore consiste nel trapianto rituale del primo riso dell’anno. Le offerte presentate ai templi shintoisti (dai più sacri, Ise e Izumo, a quelli minori) comprendono sin dai tempi antichi prodotti del mare come pesci, alghe, molluschi essiccati e alcuni fasci di riso del primo raccolto dell’anno.

Nel campo dell’arte si ha soltanto la difficoltà della scelta tra le innumerevoli rappresentazioni dei cibi, della cucina e dell’alimentazione, nei rotoli dipinti (emakimono), nelle pitture zen e nelle silografie. Ad esempio nel tredicesimo rotolo del Kasuga gongen genki e (del 1309) possiamo ammirare l’interno di una cucina dove cuochi e servi preparano un pasto: vi è chi taglia verdure (radice di loto), chi rimesta il cibo in una pentola, chi attizza il fuoco, chi trasporta una capace pignatta chiusa con un coperchio di legno identico a quelli ancor oggi usati, chi pulisce un tavolino laccato e chi infine dispone gli alimenti in piccole ciotole, poste su un altro tavolino fornito di un alto piedestallo centrale. Invece le zenga (pitture zen, di solito monocrome) rappresentano a volte soltanto semplici vegetali oppure, in genere, santi monaci, asceti o personaggi leggendari come Bodhidharma e alcune giungono a dipingere i suddetti venerabili resi un po’ “allegri” dal sake… .
Rape, peperoncini, melanzane e germogli di bambù così come vongole, granchi e gamberi sono addirittura rappresentati nei mon, gli stemmi circolari delle famiglie (nobili o appartenenti all’aristocrazia guerriera) che vengono anche ai nostri giorni apposti sui kimono da cerimonia.

Graziana Canova Tura, da Pagine Zen numero 18


I samurai al cinema

“Il futuro appartiene a noi”, con queste parole pronunciate dal giovane guerriero Taira no Kiyomori, interpretato dal popolare attore Ichikawa Raizo, si conclude la penultima opera del grande regista Mizoguchi Kenji, Nuova storia del clan Taira - Shin heike monogatari (1955). Si tratta di uno sfarzoso kolossal in stile hollywoodiano, che racconta un evento cruciale della storia del Giappone, la fine dell’epoca Heian, nel tardo XII secolo, e l’avvento al potere dello shōgun e della classe dei samurai, fino ad allora relegati al ruolo di semplici cani da guardia. Le parole di Kiyomori erano profetiche perché questo assetto del Giappone durò fino alla Restaurazione Meiji, iniziata nel 1868. Anche nel cinema i samurai hanno spadroneggiato a lungo e lo stesso attore Ichikawa Raizo avrebbe poi interpretato una miriadedi ruoli di samurai, nei film diretti dal regista di genere Misumi Kenji.

Fin dai suoi albori, il cinema giapponese aveva puntato sul jidaigeki, genere storico di derivazione teatrale, e in particolare sui chambara, i film d’azione con spadaccini, termine onomatopeico che indica il clangore dei duelli con la spada. Il più antico lungometraggio giapponese conservato fino ai nostri giorni, è Iquarantasette rōnin di Matsunosuke - Matsunosuke no Chūshingura (1911), il primo degli innumerevoli adattamenti del celebre dramma, che racconta della vendetta di quarantasette samurai contro il responsabile della morte del loro padrone. La più importante di queste versioni cinematografiche è quella di Mizoguchi, Storia dei fedeli seguaci dell’epoca Genroku / La vendetta dei quarantasette rōnin - Genroku Chūshingura (1941-42).Questa opera è quella che meglio rappresenta i principi del bushidō, la via del samurai, dignità, compostezza, fermezza anche nelle avverse fortune.Oltre alla serena accettazione del seppuku, il suicidio rituale, fondamentale in quest’ottica è il conflitto, tipico della drammaturgia giapponese, che si crea tra i principi di giri (dovere) e ninjō (sentimento). I rōnin sono combattuti tra il giri verso le leggi e l’Imperatore e la lealtà verso il proprio padrone defunto, che rappresenta il ninjō. La decisione cadrà inevitabilmente sul secondo. Tutto ciò senza mostrare scene di combattimento, una scelta molto diversa da quella del celeberrimo I sette samurai - Shichinin no samurai (1954), che non lesina in scene spettacolari, ma per Kurosawa è più importante la sua concezione umanista che si palesa nel finale, quando il capo dei samurai riconosce che i veri vincitori sono i contadini. Una visione invece antieroica, e picaresca, della figura del samurai, è data dal maestro Kurosawa nel dittico costituito dai chambara La sfida del samurai - Yojimbo (1961) e Tsubaki Sanjuro - Sanjuro (1962), dove protagonisti sono rōnin mercenari, non a caso ambientati nel tardo periodo Edo, epoca di pace e di declino della classe samuraica. I guerrieri diventavano burocrati dello shōgun, quando andava bene, ma molti di questi rimanevano senza impiego, come raccontato nel bellissimo Sentimenti umani e palloncini di carta – Ninjō kamifusen (1937).In questo film si narra di un rōnin, alla disperata ricerca di lavoro, dopo il suicidio del padre, commesso mediante impiccagione, grave disonore per un samurai, avendo dovuto vendere le sue spade per necessità.

Il genere jidaigeki tramontò verso la fine degli anni ’60, venendo ripreso solo di recente.Gli ultimi film di samurai prodotti sono accomunati dal fatto di raccontare la fase precedente la fine dell’epopea dei guerrieri, avvenuta dopo il periodo Edo, quando con la Restaurazione Meiji, la classe dei samurai fu sciolta. A dare inizio a questo recente filone del jidaigeki crepuscolare, è stato un grande autore come Ōshima Nagisa con il film TabùGohatto (1999). Dissacrante, come tutta la sua cinematografia, Ōshima si focalizza su elementi scomodi, qualil’omosessualità, e chiude il film con il personaggio interpretato da Kitano Takeshi, che recide un albero di ciliegio in fiore, il principale simbolo del Giappone. Un altro grande vecchio del cinema nipponico, Yamada Yōji, realizza la trilogia del samurai del tramonto, composta da Il samurai del tramonto - Tasogare seibi (2002), La spada nascosta - Kakushi ken oni no tsume (2004) e Amore e onore - Bushi no ichibun (2006). I protagonisti di questi film, anch’essi ambientati alla fine dell’era Edo, sono samurai nei quali è del tutto assente il senso di giri verso il proprio padrone, possono, anche qui, vendere la propria spada e usarne una di bambù, o essere intenti ad imparare il funzionamento dei cannoni che segnano un nuovo modo di fare la guerra. L’epopea è ormai giunta al suo termine.

Giampiero Raganelli

Tratto dal N. 81 di Pagine Zen


Che cos’è l’Ikebana ?

L’Ikebana è l’arte tradizionale giapponese di disporre i fiori, che risale all’antichità.

Vediamone brevemente la storia.

Nasce in Cina nel periodo della dinastia Tang che allora dominava tutto il mondo orientale; all’inizio del VI secolo gli ambasciatori giapponesi, affascinati da questa cultura, introdussero nel loro paese non solo il buddismo ma anche l’usanza di offrire fiori alle divinità.

In Giappone l’arte di disporre i fiori assunse presto i connotati di una vera disciplina.

Alla base di questa evoluzione vi è il profondo rapporto tra uomo  e natura, un modo sempre nuovo e mutevole di interpretare i fiori e l’arte di comporli.

L’ikebana è l’osservazione continua della natura e  del suo ritmo stagionale, da rispettare sempre nelle composizioni, che devono essere il risultato di un equilibrio di forme dove lo spazio vuoto diventa essenziale per definire lo spazio compositivo.

Grande influenza sull’ikebana ebbe anche l’introduzione in Giappone della pratica buddista della meditazione Zen. L’Ikebana divenne allora la massima espressione di questa disciplina tanto da essere ritenuta idonea a purificare la mente e fu adattata alle esigenze marziali dei Samurai.

Fondamentale per l’estetica giapponese è creare un senso di armonia tra il vaso, i materiali e la loro disposizione nel vaso stesso.

A partire dalla metà del XV secolo, con la creazione dei primi stili classici, infatti l’ikebana non ebbe più solo un significato religioso ma diventò un’arte indipendente sempre però strettamente legata a significati simbolici e filosofici.

I primi maestri furono monaci e membri della nobiltà; poi, con il trascorrere del tempo e precisamente nel XVII secolo,  quest’arte floreale prese il nome ufficiale di Ikebana, nacquero le prime scuole, cambiarono gli stili e l’ikebana diventò un’arte  che apparteneva a tutta la società giapponese.

Una composizione di ikebana può essere formata da un solo  fiore o da diversi tipi di materiale. Elemento importante, comune a tutte le scuole di ikebana, è effettuare un’accurata ricerca nella scelta di ogni singolo ramo, foglia o fiore e far corrispondere la nostra ispirazione e visione interna con quello che vogliamo rappresentare.

Per essere in grado di realizzare una composizione di ikebana occorre apprendere in modo approfondito tecniche specifiche, indispensabili all’allievo perché l’ikebana è un’arte creativa dove la tecnica è messa al servizio della nostra fantasia e della nostra ispirazione. Per mettere in moto questo processo è inoltre necessario creare dentro di noi un momento di silenzio interiore e di serenità perché solo così si può dar vita a un rapporto individuale con ciascun elemento vegetale, conferendogli la giusta collocazione in un insieme armonioso.

Oggi l’Ikebana è un’espressione artistica, che ha saputo adeguarsi alle esigenze figurative del nostro tempo e alla richiesta di poter essere inserita nelle nostre case moderne, diventando parte integrante della vita di tutti i giorni.

Paola Piras

Study Group Venezia

www.ikebanavenezia.it

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Edoardo Chiossone, il contributo di un italiano all'epoca Meiji

Non sono molti gli studi svolti su Edoardo Chiossone: il suo lavoro in Giappone era quasi sconosciuto quando era in vita e lo rimase anche dopo la sua morte.

Chiossone nacque ad Arenzano il 20 Gennaio 1833 in una famiglia di tipografi, studiò all’Accademia Linguistica di Belle Arti, dimostrando talento particolare e qualità spiccate in disegno e incisione. Il suo interesse cominciò a rivolgersi, intorno al 1862, verso la produzione di banconote e carte valori. Egli sosteneva la tesi che il nuovo stato italiano dovesse avere una sua officina carte valori, e produrre le proprie banconote autonomamente senza dover far ricorso a ditte straniere. Il rappresentante della Banca Nazionale del Regno, incaricò Chiossone di trovare tecnici e artisti disposti a recarsi a Francoforte presso la Dondorf & Naumann per un periodo di addestramento. Egli dimostrò, una grande sete di conoscenza prorogando la partenza fissata dopo un anno, tempo insufficiente, secondo il suo parere, ad imparare completamente le tecniche necessarie per l’intero processo di produzione della carta moneta. Nel 1871 la Banca gli concesse il permesso per lavorare alla fabbricazione di una banconota per il governo giapponese, ancora conosciuta come Geruman shihei, banconota tedesca. Questo fu il primo contatto che Chiossone ebbe con il Giappone.

In quel periodo la missione diplomatica del Governo Meiji guidata da Iwakura Tomomi, viaggiava in Europa in cerca di idee, uomini e tecnologie che potessero validamente contribuire all’organizzazione del moderno Stato Giapponese,  e visitò le industrie Dondorf a Francoforte, dove si trovava appunto Chiossone. Tramite il Ministro Plenipotenziario Giapponese pervenne all’italiano l’offerta di fondare e dirigere a Tōkyō l’Officina Carte Valori nel nuovo Istituto Poligrafico del Ministero delle Finanze. Chiossone aveva già quarantadue anni, questo viaggio gli si presentava come un’occasione di riscatto e come campo ideale per dimostrare tutta la sua abilità e volontà.

Arrivò a Yokohama il 12 gennaio 1875 e due giorni dopo risultò essere immediatamente al lavoro al Poligrafico, dimostrando sin da subito la sua serietà e laboriosità. Egli aveva concordato uno stipendio sontuoso (era il doppio di quello che avrebbe percepito Antonio Fontanesi un anno dopo) e ulteriori benefici quali la casa. L’incisore genovese abitava nelle vicinanze della Legazione Italiana e trasformò la sua dimora in una specie di museo di arte giapponese, frequentato sia da viaggiatori di passaggio che da stranieri e giapponesi residenti. La chiave per comprendere il trattamento privilegiato e il ruolo fondamentale che ebbe nella modernizzazione del Giappone, è da ricercare nel rapporto che ebbe con il direttore del Poligrafico Tokunō Ryōsuke; sin dal primo momento essi ebbero stima e simpatia reciproca.

Per Chiossone non si trattò unicamente di eseguire un compito, egli aveva finalmente la possibilità di realizzare quello che era stato il suo progetto sin da quando era partito da Francoforte: fondare e gestire un centro per la produzione di carte valori che non fosse unicamente indipendente da terzi, ma che costituisse un centro di sviluppo di tecniche di stampa e una guida per tutte le aziende private. Egli insegnava le tecniche di tutti i settori attinenti alla stampa, dalla fabbricazione della carta e dell’inchiostro, all’uso della filigrana, al disegno artistico e tecnico, alla costruzione delle macchine. I suoi insegnamenti sono tutt’oggi alla base del lavoro degli artisti e dei tecnici del Poligrafico giapponese.

Nel 1876 produsse i primi francobolli moderni della storia postale del Giappone, i koban kitte. Essi sono stati riprodotti per una serie commemorativa nel 1994, affiancati al volto di Chiossone; si tratta di un avvenimento che conferma ulteriormente il valore fondamentale che ebbe il genovese per la storia del Giappone moderno: egli è stato, infatti, l’unico straniero al quale sia stato dedicato un francobollo commemorativo in terra nipponica. La prima banconota nella quale Chiossone inserì il ritratto di un personaggio fu quella da uno yen emessa nel 1878. Egli scelse il volto della mitica imperatrice Jingū, la quale regnò nel III secolo. E’ curioso osservare come le sembianze di questa imperatrice si avvicinano a quelle di una bellezza rinascimentale italiana; in seguito Chiossone cercherà di riprodurre nelle sue figure dei lineamenti un po’ più giapponesi.

Chiossone potè osservare da vicino i cambiamenti che stavano avvenendo in Giappone: egli era parte, infatti, dell’establishment Meiji, profondamente integrato e funzionale al sistema. Egli lavorò in una condizione di autentica fedeltà alle necessità della storia e ai significati della politica e fu apprezzato non solo per la sua abilità professionale, ma anche per la sua straordinaria capacità di immedesimazione culturale con il paese ospite.

Il risultato delle sue attività può essere raggruppato in tre filoni principali: i ritratti delle personalità contemporanee, le effigi storiche della cultura e della civiltà politica antica e moderna sulle carte valori, e, infine, la documentazione illustrata del patrimonio artistico del Giappone.

 

 

Il ruolo di ritrattista ufficiale

La fama di ritrattista di Chiossone si diffuse rapidamente nell’alta società giapponese, come dimostrano i numerosi ritratti eseguiti. Sfogliando un qualsiasi libro che tratti dell’epoca Meiji è inevitabile ritrovare i personaggi principali del periodo, ritratti con le somiglianze che gli aveva dato loro Chiossone. Nel 1872 si manifestò in Giappone
l’intenzione di mutare l’aspetto dell’Imperatore, infatti uno degli obiettivi della Restaurazione Meiji era renderlo visibile affinchè si affermasse il potere della nuova classe politica. Nell’Ottocento era consuetudine in Giappone per i capi di stato scambiarsi fotografie al pari dei biglietti da visita; l’assenza di immagini aggiornate dell’Imperatore era motivo di imbarazzo per i suoi funzionari di corte.

Il ritratto più famoso dell’Imperatore Meiji del 1888 chiamato Go-shin-ei (letteralmente “ritratto imperiale”), che la gente allora considerava una vera fotografia, in realtà era la copia fotografica di un disegno talmente realistico da essere scambiato per una fotografia. Fu Edoardo Chiossone a concepire, nel gennaio del 1888, quel ritratto, e fu Riyo Maruki, uno dei più noti fotografi del tempo a Tōkyō, a riprodurre l’opera di Chiossone sotto la sua stessa direzione. La realizzazione del Go-shin-ei richiese un lungo tempo di elaborazione a causa appunto della ritrosia dell’Imperatore nell’essere fotografato. L’imbarazzo causato dalla situazione spinse il capo del Consiglio a escogitare una strategia: l’unico modo per raggiungere il fine sarebbe stato di concepire un ritratto all’insaputa dell’Imperatore. Durante una visita imperiale Chiossone preparò alcuni schizzi durante l’ora del pasto, osservando di nascosto il volto, la postura e il modo di conversare, prendendo appunti sin nel minimo dettaglio. Tutti rimasero particolarmente colpiti dal lavoro di Chiossone e decisero di mostrarlo all’Imperatore, il quale diede il permesso a utilizzare la nuova “fotografia” nei rapporti diplomatici con i rappresentanti stranieri.

Il metodo che egli utilizzò nel disegnare il ritratto, fu quello di sintetizzare le innumerevoli espressioni fugaci e mutevoli di una persona, catturate dal vivo, nella costruzione di un’immagine simbolica della figura umana che andasse oltre le semplici espressioni. Chiossone infatti attinse a un repertorio tipologico peculiare della sua “europeità”, soprattutto nella scelta della sedia sulla quale fare sedere l’Imperatore e della posizione da fargli assumere. Quando egli, tuttavia, eseguì gli schizzi, riuscì solamente a ritrarre il volto e in minima parte il corpo del sovrano. Per questo motivo Chiossone stesso decise di farsi fotografare in divisa militare con le medaglie appuntate sul petto; in seguito, utilizzò questo scatto come modello per riprodurre il corpo dell’Imperatore, il quale risultò stranamente prestante per un giapponese dell’epoca.

Il contributo alla catalogazione delle opere giapponesi e le collezioni Chiossone

Nel 1879 il Poligrafico organizzò un viaggio di ispezione sui beni culturali giapponesi; infatti negli ambienti governativi era nata la preoccupazione che la mancata documentazione sul patrimonio culturale nipponico favorisse l’esportazione incontrollata di oggetti d’arte, soprattutto di quelli antichi. La squadra del Poligrafico, guidata da Tokuno e affiancato da Chiossone, era composta da undici tecnici e il percorso stabilito era lungo e difficoltoso. I risultati furono però positivi: essi riportarono ben 200 disegni e 510 fotografie che vennero raccolti in una serie di album e di litografie dal titolo Kokka Yoho (Fragranza della Nazione). Si tratta del primo grande repertorio illustrato del patrimonio culturale giapponese, nel quale Chiossone riversò un enorme impegno.

Ma non è l’unica eredità lasciataci da questo personaggio eclettico.

Nel testamento dell’11 gennaio 1898, redatto tre mesi prima della morte, Edoardo Chiossone stabilì che la sua intera collezione andasse all’Accademia Linguistica di Belle Arti di Genova, affinchè ne curasse la pubblica esposizione. Il 30 ottobre 1905 Vittorio Emanuele III Re d’Italia inaugurò il Museo d’Arte Giapponese “Edoardo Chiossone”, il quale rimase in quella sede fino al 1940. A causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale il patrimonio museale fu imballato e sfollato a spese e cura del Comune di Genova che, nel dopoguerra, ne divenne il proprietario. Nel 1948 esso deliberò la progettazione e la costruzione di un apposito edificio, da destinare a sede stabile del Museo. La collocazione del Museo all’interno del parco della Villetta Di Negro è ottimale: si trova proprio al centro di Genova mantenendo nel frattempo una posizione appartata e panoramica.

I manufatti comprendono dipinti, sculture buddiste, oggetti archeologici e in bronzo, monete, lacche, porcellane, maschere teatrali, armi e armature, strumenti musicali, abiti, e una delle maggiori collezioni di dipinti, stampe e libri illustrati ukiyo-e.  Accanto all’ingresso è esposto il busto bronzeo che ritrae Edoardo Chiossone, copia dell’originale ancora oggi collocato nei giardini dell’Officina Carte e Valori di Tōkyō.

Federica Mafodda


Ennesime inesattezze della stampa sul Giappone

Riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Sono socia dell’AIRC dal gennaio 1991, codice 2296047P e scrivo a voi perché ho ricevuto e letto il numero di Fondamentale (allegato al Corriere della Sera, Sette, il 10.11.11) dedicato a “I più buoni del mondo - Il meglio della cucina internazionale”.
Sono ogni volta sorpresa (ma ormai dovrei essere preparata) e dispiaciuta per l’imprecisione e l’inesattezza di ciò che si scrive su un argomento che conosco bene: il Giappone. Se questa superficialità è alla base di tutto ciò che troviamo sui giornali, allora non c’è da credere a nulla di ciò che dicono e conviene smettere di leggerli e usare meglio il nostro tempo.
Mi chiedo anche se gli articoli dedicati sul fascicolo a India, Cina  e così via contengano altrettanti errori.
Sarebbe bene che le persone incaricate di scrivere su argomenti a loro poco noti non si fidassero troppo di internet (che offre possibilità di conoscenza, ma anche bufale tremende) e cercassero di documentarsi, oltre che di far controllare a esperti della materia prima di mandare alle stampe. Il lettore in genere crede “come Vangelo” ciò che legge su giornali e riviste e quindi contribuisce al propagarsi di notizie errate.
Si dà il caso che io mi dedichi agli studi giapponesi dal 1966, abbia vissuto in Giappone quasi sei anni, sia laureata in lingua e letteratura giapponese e sia autrice di quattro libri sulla cucina di quel Paese (di cui uno sulla cucina vegetariana zen). Ogni volta che leggo notizie approssimative o inesatte vengo colta da scoramento perché questi scritti vanificano il lavoro di tutti noi amici e studiosi del Giappone, che ci dedichiamo da anni a sfatare leggende metropolitane, idee preconcette, frasi fatte e luoghi comuni sparsi a piene mani sulla carta stampata o in televisione (recentissima: Benedetta Parodi, “scrittrice di cucina” (!) che vende milioni di copie, ha presentato con grande enfasi in una sua trasmissione, un VERO cuoco giapponese, che si è poi rivelato essere un brasiliano di origine cinese!
Non ne possiamo più.Leggere di più

Il tè e il kimono

Dalla prima volta che ho visto una presentazione del Tè, sono stata sicura che il kimono ne facesse parte. Il bel tessuto, l’intricato obi e le maniche fluttuanti hanno contribuito alla mia prima esperienza del Tè. Quando ho iniziato a prendere lezioni di Tè, ho chiesto alla mia insegnante alla prima lezione quando avrei indossato il kimono. Lei mi ha inizialmente vestito con lo yukata e con un semplice obi. Poi mi ha vestito con un kimono più formale per il mio primo Hatsugama e mi sono sentita davvero bella ma avevo paura di muovermi o di respirare.

Un giorno mi disse che era arrivato il momento di vestirmi da sola. Appoggiò tutto sul letto nella camera in cui ci si cambiava. Lottai con esso. Anche appoggiare il rigido tabi ai miei piedi ci fece lottare e sudare. Non ricordavo cosa legare dove e c’erano più strati di biancheria intima, tutti avvolti e legati. Desiderai aver prestato maggiore attenzione quando la mia insegnante mi vestiva. Indossare l’obi fu così difficile. Mi sentivo un tacchino legato. Non potevo respirare perché avevo legato tutto troppo stretto e non riuscivo a vedere né a raggiungere con le mani per far fare all’obi quello che volevo. Mi ci vollero 3 ore e mezza ma alla fine camminai fuori dalla stanza e la mia insegnante non disse nulla. Mi disse soltanto che la lezione stava finendo e di togliermi di nuovo tutto.Leggere di più