Un romanzo corale: Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka
Non hanno mai un nome, i personaggi di Julie Otsuka. Nel suo primo, celebre romanzo (ancora inedito in Italia), When the Emperor was Divine (Quando l’Imperatore era un dio, 2002), sono una “madre”, una “figlia”, un “padre”, senza nome e senza volto perché potrebbero essere tutti i nomi e tutti i volti dei giapponesi rinchiusi nei campi di concentramento sperduti nei deserti più aridi e polverosi degli Stati Uniti. Sono, loro, i “nemici in casa”, e proprio per questo allontanati dalle città, dalle loro case, spossessati della loro vita, in nome di una paura tanto cieca quanto insensata.
È lo scavo nella memoria di una comunità, la lucida testimonianza di una discendente, ciò che sta alla base della scrittura di Julie Otsuka, nata nel 1962 negli Stati Uniti da genitori giapponesi, pittrice prima e poi, sotto l’urgenza della memoria, nel bisogno del ricordo, scrittrice.
Nessun nome neppure nel secondo romanzo, The Buddha in the Attic (2011) ora pubblicato in Italia da Bollati Boringhieri con l’evocatore titolo Venivamo tutte per mare. L’opera è infatti corale, corale il racconto di un’illusione, quella di una vita migliore in un nuovo, accogliente Paese. La speranza delle cosiddette “spose in fotografia”, donne giapponesi sposate per procura a uomini giapponesi emigrati anni prima, mariti sconosciuti in terra sconosciuta che queste donne andavano a raggiungere.
Siamo all’epoca della prima ondata emigratoria di giapponesi nell’America del Nord, all’inizio del XX secolo. Gli uomini giapponesi emigrati verso gli Stati Uniti in cerca di lavoro, fuggiti da campagne battute dalle carestie, ancora immerse in una spaventosa miseria, cercano spose nella madrepatria e inviano fotografie chiedendo alle proprie famiglie di provvedere. E le spose accorrono, nella speranza di una vita migliore, verso quel marito di cui conoscono, o credono di conoscere, almeno il volto. Sulla nave, negli spazi angusti della terza classe, le donne si raccontano le loro paure, le loro speranze, i dubbi, le incertezze, la nostalgia di casa. Si consolano fra di loro, a volte si innamorano di un marinaio o di un passeggero gentile, si pentono della decisione di partire o cercano di convincersi della fortuna di una nuova vita. Soprattutto si raccontano.
Dalla traversata dell’oceano, all’incontro con i mariti, dall’impatto con una realtà sorprendentemente dura alla disillusione, la testimonianza di queste donne è data come da una voce, unica e molteplice al tempo stesso: la voce di un “noi” declinato all’infinito sulle esperienze e le reazioni più diverse.
“Alcune di noi sulla nave venivano da Kyoto, avevano la pelle chiara e delicata, ed erano sempre vissute nella penombra delle stanze sul retro. Alcune venivano da Nara, e pregavano gli antenati tre volte al giorno, e giuravano di sentir ancora suonare le campane del tempio. Alcune erano figlie di contadini della prefettura di Yamaguchi, ragazze con i polsi grossi e le spalle larghe che non erano mai andate a letto dopo le nove. Alcune venivano da un piccolo villaggio nella prefettura di Yamanashi e avevano da poco visto un treno per la prima volta. Alcune venivano da Tokyo e avevano visto tutto […]”
La scrittura asciutta, priva di qualsiasi compiacimento, della Otsuka accompagna questa folta schiera di donne nella loro nuova vita e lo fa per mezzo di una prosa che, pur scarna, riesce ad essere lirica, a rendere vivide le immagini della vergogna, della speranza, dell’odio, della passione, della tenerezza che queste donne vissero e provarono, nel proprio corpo, sulla propria pelle. L’incontro con gli uomini e le donne americani, con i proprietari terrieri e con i bottegai, con le signore della middle class e le vicine delle baracche fra i campi è l’incontro con una realtà sconosciuta e spaventosa, è la consapevolezza della diversità, l’impatto con il razzismo. A questa quotidianità estranea e crudele non c’è modo di sottrarsi. L’ancora di salvezza, allora, l’unico legame con la propria identità è quel marito sconosciuto di cui magari non si è riuscite a riconoscere il volto al molo, tanto era vecchia la fotografia che aveva inviato in Giappone e che lo ritraeva più giovane e meno stanco, meno provato. Quel marito che da subito si era detestato, che si era rivelato violento, o freddo, o indifferente, o gentile, o premuroso. Comunque è quest’uomo a volte odiato, a volte sopportato, raramente amato, a rappresentare il tenue legame con il Giappone lontano, con il proprio mondo lasciato con dolore. L’unico individuo che, attraverso la sua esperienza, può aiutare a spiegare un sistema di vita così diverso da quello in cui si era cresciute.
Otsuka, a poco a poco, per brevi paragrafi scarni e incisivi che tanto ricordano un genere letterario classico della letteratura giapponese, lo zuihitsu[i] ci introduce nella quotidianità di queste donne, sino ad una svolta fatale: la deportazione delle comunità giapponesi in isolati campi di concentramento nel deserto, durante la seconda guerra mondiale. Così il filo del racconto si riannoda all’opera precedente della scrittrice, costituendone un’ ideale anticipazione.
Abbandoniamo così le città, i quartieri, le case, seguendo le donne, gli uomini, i bambini giapponesi, in un nuovo calvario di privazione e dolore. Ognuno dice l’addio a suo modo, lasciandosi dietro qualcosa di sé, ad esempio quel qualcosa che dà il titolo originale al romanzo, The Buddha in the Attic, Il Buddha nella soffitta. Ognuna, in quest’ora fatale ritrova il nome che l’autrice le restituisce come a volerne restituire la dignità. Così Shizue, Haruko, Chiye, Kimiko, Kiyono, Naruko e tutte le loro compagne ritrovano l’umanità nell’attimo in cui viene loro negata; “Alcuni di noi partirono piangendo. E alcuni di noi partirono cantando. Una di noi partì coprendosi la bocca con la mano e ridendo istericamente. […] Kiyono partì dalla fattoria in White Road convinta di venire punita per qualche peccato commesso in una vita precedente. Devo aver calpestato un ragno. […] Chiye partì da Glendale ancora in lutto per la figlia maggiore, Misuzu, che si era buttata sotto un tram cinque anni prima. Penso a lei ogni minuto della giornata. Suteko, che non aveva figli, partì sentendosi delusa dalla vita. […] Fumiko partì da una pensione di Courtland scusandosi per qualunque problema potesse aver creato. Suo marito partì dicendole di allungare il passo e tenere la bocca chiusa, per favore. […] Kimiko lasciò la borsetta sul tavolo della cucina, ma se ne ricordò troppo tardi. Haruko lasciò un piccolo Budda ridente di ottone in un angolo della soffitta, e ancora oggi il Budda ride.”
Rossella Marangoni
[i] Lo zuihitsu (lett. “lasciar scorrere il pennello”) è un genere letterario peculiare alla letteratura giapponese e comprende saggi diversi, pensieri o annotazioni, accumulati senza un ordine apparente o semplicemente per associazione di idee. Secondo il significato letterale, il termine permette di visualizzare una mano che traccia i caratteri col pennello seguendo liberamente i propri pensieri, quindi può essere ben tradotto con aforismi, miscellanea, pensieri sparsi, appunti, note, considerazioni, il tutto apparentemente annotato a caso.
Il cinema giapponese tra tradizione e modernità
Kenji Mizoguchi - Genroku Chûshingura (1941)
Per un osservatore distante
Stanno conversando dei fiori
Eppure a dispetto delle apparenze
Sono immersi in pensieri molto differenti
Ki No Tsurayuki
Con questa poesia, del poeta, di epoca Heian, Ki No Tsurayuki, inizia un saggio fondamentale sul cinema giapponese, Pour un observateur lointain di Noël Burch. L’autore dimostra i caratteri di unicità ed originalità di questa importante cinematografia, l’unica, almeno fino al 1945, non derivante dalla cultura occidentale. Solo i registi nipponici hanno saputo elaborare codici di rappresentazione filmica esclusivamente propri e profondamente divergenti dagli standard hollywoodiani che venivano adottati anche in Europa e in tutte le nazioni in qualche modo colonizzate.
Un semplice sguardo alla storia di questo paese può fornire una spiegazione. Non è mai stato invaso in duemila anni di storia, fino alla sconfitta della Seconda Guerra Mondiale, e non è mai stato soggetto ad uno status coloniale. Pur essendosi aperto all’occidente, nell’era Meiji, ha saputo usare le conoscenze tecnologiche acquisite per costruire un bastione contro l’egemonia americana. Questo è alla base dell’originalità del suo cinema e ha reso possibile l’autonomia tecnica ed economica della sua industria. Esiste del resto uno stereotipo che dice che i giapponesi non copiano, bensì adattano.
Esclusivamente nipponica è stata l’introduzione, nell’epoca del muto, della figura dei benshi. Si trattava di narratori che, posizionati ad un lato dello schermo e, avvalendosi di un’orchestra, prestavano la voce ai personaggi del film e ne commentavano la storia. Le origini sono riconducibili, nel periodo Edo, agli etoki, sorta di cantastorie che facevano uso di dipinti e strumenti musicali, e all’interno di una forma di rappresentazione, simile al vaudeville, detta yose.
Fin dagli albori, il cinema nipponico si è concentrato su due filoni principali, il jidaigeki e il gendaigeki. Il primo, una sorta di dramma in costume derivato direttamente dal teatro kabuki, si basa su di una tradizione di codici feudali risalente al periodo Tokugawa. Molte opere come il celebre Chushingura (I quarantasette ronin), o la biografia del samurai Myamoto Musashi, possono vantare numerosi adattamenti, anche ad opera di registi molto importanti come Mizoguchi Kenji e Inagaki Hiroshi. Il gendaigeki è invece un genere di ambientazione contemporanea incentrato su su storie di gente comune, sulla vita come è realmente. In questo campo alcuni registi hanno saputo esprimere un cinema intimista e poetico, basato sulla serenità insita nella semplicità. I grandi maestri sono stati Ozu Yasujiro, Naruse Mikio, grande autore di ritratti femminili, e Shimizu Hiroshi, da ricordare per la sua particolare sensibilità verso il mondo dell’infanzia.
Una peculiarità dei film giapponesi è quella di dare molta importanza alle atmosfere, alla relazione tra i personaggi e l’ambiente che li circonda. Questo riflette quel sentimento, assolutamente nipponico, che vede il mondo della natura come un’estensione dell’uomo stesso. E’ evidente nell’utilizzo degli elementi che viene fatto in molti film. Basta pensare alla scena della battaglia sotto la pioggia in I sette samurai (Shichinin no samurai, 1954), o il sole pressoché palpabile in film come Ventiquattro occhi (Nijushi no gitomi, 1954) o L’isola nuda (Hadaka no shima, 1960). Molto importante è anche il modo di trattare le stagioni. Molti titoli di film di Ozu ne costituiscono un campionario e sono un parallelo con le vicende narrate. Anche il già citato L’isola nuda si fonda sul passare delle stagioni e sui relativi cambiamenti naturali della piccola isola in cui è ambientato. Il regista Naruse Mikio ha, similmente ad Ozu, un catalogo di titoli, nella propria filmografia, che si fondano sulle nuvole: Nubi fluttuanti, Nubi d’estate, Nubi disperse.
Questa sensibilità sembra essere ancora viva nel cinema di oggi. Ne è un esempio, il film (Tokyo marigold Tôkyô Marîgôrudo, 2001), di Ichikawa Jun, in cui un fiore annuale simboleggia la caducità di una storia d’amore che dura una sola stagione.
Giampiero Raganelli
Tratto dal n. 67 di Pagine Zen
La cerimonia del tè, come esperienza sensoriale
La cerimonia del tè giapponese si svolge fondamentalmente in silenzio. Gli unici scambi di parole che avvengono tra il padrone di casa e l'ospite sono strettamente legati alle varie fasi della cerimonia e non dovrebbero turbare in qualunque modo lo stato d'animo delle persone presenti. I momenti di silenzio, oltre a favorire la concentrazione dei partecipanti, riescono ad amplificare, in particolar modo quando si pratica in mezzo alla natura, i suoni esterni ma anche gli interni come il bollire dell'acqua alla giusta temperatura che per i giapponesi ha un suono profondamente evocativo molto simile al vento tra i pini, matsukaze. Si puo inoltre notare che i suoni dell'acqua versata nella tazza da un mestolo chiamato hishaku cambiano in base alla temperatura dell'acqua.
Tutte queste piccole esperienze sensoriali non sarebbero possibili se non ci fosse la concentrazione favorita dal silenzio. Il silenzio come vuoto che riempie lo spazio di suoni che, diversamente, risulterebbero impercettibili dove regnasse il pieno, inteso come insieme di rumori. Oppure si puo affermare che alla riduzione al minimo delle sollecitazioni sensoriali corrisponda un affinamento dell'attività della coscienza. Il minimalismo sensoriale amplifica la percezione della nostra coscienza riguardo a ciò che accade e gli dà profondita di significato.
Nello svuotamento della mente è piu semplice raggiungere quella condizione di unitarietà tra corpo e spirito. In uno stato in cui la parola è ridotta al minimo, la forma di comunicazione principale è affidata al corpo che, attraverso una corretta respirazione e l'assenza di tensione, trasmette quella serenità cosi importante nell'offrire una tazza di tè.
Questo costante affinamento del nostro spirito praticato in un ambiente propizio ha senso se viene poi condiviso con il nostro prossimo, nella vita di tutti i giorni, dove le costanti sollecitazioni rischiano di sopraffarci. Lo spirito che anima lo studio della cerimonia del tè corrisponde esattamente a quello di chi pratica lo Zen.
I movimenti della cerimonia del tè, codificati in base a un senso e a un'utilità, non risultano mai gratuiti e soprattutto non ricercano mai la bellezza fine a se stessa. Tutti i movimenti del corpo sono definiti in Giappone kata, che significa forme. Quando, dopo una costante ripetizione di queste forme, esse diventano parte di noi e quindi non le sentiamo più estranee, sono definite katachi. In Giappone l'aver acquisito questa condizione, significa aver raggiunto la massima naturalezza. Non sono quindi più io che cerco di regolare i miei movimenti secondo un certo modello in quanto quel modello è diventato parte di me.
Durante tutte le fasi della cerimonia, il ritmo dei movimenti deve armonizzarsi con la respirazione. Bisogna imparare a muoversi con velocità ma senza affanno, ciò è molto difficile. La mia maestra di cerimonia del tè, Michiko Nojiri, mi dice sempre che, quando offro una tazza di tè, se non sono in grado di mantenere una respirazione lenta e profonda nel muovermi velocemente, è meglio che rallenti il ritmo dei miei movimenti.
Tra le varie tazze utilizzate nella cerimonia del tè, la tazza raku è sicuramente una di quelle che maggiormente incarnano i principi estetici della via del tè. Queste tazze hanno la particolarita di essere estratte dal forno quando sono incandescenti. Il vuoto, nelle tazze, corrisponde a quelle irregolarita nella forma, quelle piccole rientranze che rendono ogni tazza unica e irripetibile. A ogni tazza viene inoltre attribuita una faccia o fronte, su cui solitamente si trova un'irregolarità nella forma o una sbavatura di colore. Quello, che agli occhi degli occidentali potrebbe sembrare un difetto, diventa invece motivo di interesse. Le irregolarità dovrebbero comunque essere provocate da eventi esterni e non essere deliberatamente ricercate dal proprio creatore. In ciò risiede il fascino dell'imprevisto. Se diversamente questi effetti fossero ricercati dal ceramista, risulterebbero solamente prodotti da un manierismo autoreferenziale. Anche nelle fasi di produzione della tazza, il vuoto è importante. Infatti quando la tazza viene presa dal forno, le viene tolta una certa quantita di ossigeno, inserendola in un contenitore ricolmo di foglie e segatura. Questo vuoto d'ossigeno ha un effetto molto evidente sullo smalto della tazza.
Nel 1999 andai in Giappone con la mia maestra e un gruppo di praticanti provenienti da tutta Europa. Un giorno avemmo la fortuna di essere invitati dall'attuale erede della dinastia Raku nella sua stanza del tè, adiacente al museo omonimo di Kyoto. Come segno d'amicizia verso la mia maestra, volle personalmente offrire a tutti noi una tazza di tè utilizzando sia oggetti creati da lui che altri piu antichi realizzati dai suoi avi. La stanza del tè, come tradizione vuole, non era particolarmente illuminata e quindi potei in quel frangente imparare che le tazze non si apprezzano unicamente attraverso la vista ma anche attraverso il tatto. La condizione di semioscurità mi diede quindi la possibilità di sperimentare attraverso le mie mani un'altra forma di percezione, molto piu profonda del solito. Tenere quella tazza nelle mie mani mi ha trasmesso un senso di maggiore vicinanza e intimità con essa come se si fosse trattato di qualcosa di vivente. Questa esperienza mi ha arricchito interiormente ed è rimasta viva fino a oggi nella mia coscienza.
Alberto Moro
Sukiya, Dimora del Vuoto
Tai-an (待庵) Tempio di Miyokyan
Il grande maestro del tè Sen Rikyu (1522-1591), vissuto in Giappone nel XVI secolo, diceva che la stanza del tè doveva essere simile a una capanna di paglia, rappresentare semplicemente un riparo dagli eventi naturali e, nello stesso tempo, conferire un senso di vicinanza alla natura. La stanza del tè doveva essere progettata con il preciso scopo di favorire l’elevazione spirituale di chi la frequentava.
Il termine sukiya era soprattutto usato all’epoca del maestro Rikyu, quindi durante il periodo Momoyama (1573-1603).
Oggi quando si parla di una stanza per la cerimonia del tè, si utilizza la parola chashitsu, termine che iniziò ad essere adottato a partire dal 1600. Il tipo di stanza amata da Sen Rikyu era in stile soan. Questa tipologia si ispirava alle case rustiche in cui gli aristocratici organizzavano incontri di poesia, lontani dalle turbolenze cittadine. Il modello estetico di riferimento era quello dei rifugi montani. La stanza del tè era tradizionalmente in legno e in particolare veniva apprezzato l’utilizzo del cipresso (sugi), del pino giapponese (matsu) e dell’abete giapponese (tsuga).
Per accedere alla stanza del tè bisogna camminare per un sentiero chiamato roji, come fosse un percorso di purificazione. Tutte le pietre sulle quali si cammina sono di forme diverse e distanziate in modo differente e obbligano ad osservare attentamente la direzione dei propri passi. Al termine del breve tragitto, gli ospiti sostano sotto un porticato fino a quando il padrone di casa non li invita ad entrare nella stanza del tè. Prima di entrare nella stanza del tè, tutti gli ospiti devono purificare se stessi con dell’acqua versata da un mestolo. Prima si sciacquano le mani e poi si purificano la bocca.
Dopodiché gli ospiti entrano nella stanza attraverso una porta di legno molto stretta, che misura tradizionalmente 78,8 cm di altezza e 71,5 cm di larghezza chiamata nijiriguchi. L’utilizzo di questo tipo di entrata venne introdotto dal maestro Sen Rikyu che si ispirò alla porta di una casa galleggiante di un pescatore. Per entrare nella stanza bisogna inginocchiarsi e abbassare la propria testa e il proprio corpo. Questo movimento dovrebbe predisporre l’animo dell’ospite a un approccio umile nei confronti di questa esperienza oltre a influenzare la percezione dello spazio interno della stanza, così da farlo sembrare più ampio. I samurai che desideravano entrare nella stanza del tè dovevano abbandonare le lunghe spade all’esterno, in quanto l’ingresso era così angusto da non permettere loro di portarle con sé.
Una volta entrato nella stanza, l’ospite trova davanti a sé un ambiente spoglio. L’unico elemento architettonico è il tokonoma, una sorta di nicchia, vicino alla quale si siede il primo ospite e al cui interno è appesa un’opera d’arte in forma di rotolo verticale detta kakemono. Questo oggetto può essere una calligrafia realizzata ad inchiostro da un maestro Zen o da un praticante del tè oppure un dipinto, accuratamente scelti dal padrone di casa per esprimere lo spirito che lui desidera infondere all’incontro. La calligrafia deve essere fatta da un maestro Zen o da un praticante del tè in quanto la forza e l’autenticità dell’opera stessa sta nella perfetta coerenza tra forma e contenuto. Il kakemono è senza dubbio l’oggetto più importante presente nella stanza. In passato si costruivano le stanze per adattarle a un’importante calligrafia che si possedeva e non viceversa. Nel tokonoma, si trova inoltre una composizione floreale che, secondo l’estetica della Via del Tè, deve esprimere la semplicità dei fiori di campo. Fiori che solitamente le persone non si soffermano a osservare ma che nel vuoto della stanza del tè possono ritrovare la loro profonda bellezza e dignità.
Il pavimento della stanza è ricoperto da stuoie di paglia di riso, solitamente bordate di tessuto, meglio conosciute con il nome di tatami (il modulo più comune è quello di Kyoto di 1,91 x 95,5). La misura classica della stanza del tè è i 4 tatami e mezzo. Il termine che definisce questo tipo di stanza in Giappone è yojohan. La scelta di queste dimensioni è fatta risalire a Vimalakirti, un buddista laico indiano che viveva in una stanza di circa 9 mq e si dice tradizionalmente che anche in questo piccolo spazio riuscì ad ospitare il santo Manju insieme a 84.000 discepoli del Buddha, segno che per una persona illuminata non esistono limiti dimensionali.
Le pareti sono spoglie. Solitamente i muri sono realizzati con fango misto a fili di paglia come leganti di circa 15-20 cm che non venivano ricoperti così che potessero risplendere nell’oscurità della stanza. Questa tecnica di trattare le pareti si chiama arakabe e conferisce all’ambiente un aspetto rustico.
Colui che organizza una cerimonia del tè dovrebbe ricercare con molta attenzione di mantenere, per tutti i vari momenti che la caratterizzano, dal percorso degli ospiti attraverso il giardino che porta alla stanza, alla loro permanenza fino alla partenza dopo la conclusione dell’incontro, una condizione di quiete in cui lo spirito dei partecipanti non sia turbato da inutili stimolazioni sensoriali, ma sia facilitato nel mantenere una giusta attenzione verso ciò che li circonda. Anche la gradazione luminosa nella stanza, fortemente smorzata, dovrebbe contribuire a favorire uno stato d’animo meditativo.
Takeno Joo (1502-1555), un grande maestro del tè che precedette Sen Rikyu, rivolse il chashitsu, che aveva le pareti ricoperte da una carta bianca spessa e levigata (torinoko) verso nord, in modo che non risultasse troppo luminoso e che riuscisse a evidenziare la bellezza rustica degli oggetti utilizzati durante la cerimonia. Il maestro Rikyu invece era solito posizionare il chashitsu verso sud o est, in quanto ciò gli permetteva di giocare artisticamente con la mutevolezza della luce.
Rikyu riteneva inoltre che le finestre dovessero essere funzionali al dosaggio della luce e non dovessero essere concepite per veicolare lo sguardo verso l’esterno. Non utilizzò quindi nelle sue stanze una sorta di lucernario (tsukiage), amato da altri maestri, che dava la possibilità stando seduti sul tatami di ammirare la luna. Bisognava infatti per Rikyu evitare di eccitare i sensi, così da favorire una condizione meditativa come quella dello zazen, dove si raccomanda ai praticanti di tenere sempre gli occhi semiaperti, così da non focalizzare lo sguardo su alcunché. Le finestre possono essere a listelli di bambù (renjimado) e/o fatte con una sorta di reticolato (shitajimado) e la luce viene filtrata attraverso un’intelaiatura di bambù ricoperta da carta di riso non trasparente. Sia le imposte sulle finestre che gli shoji, pannelli scorrevoli interni alla stanza, potevano scorrere o essere rimossi completamente. Le imposte erano comunque utilizzate come protezione dagli eventi atmosferici.
Alberto Moro
Una bellezza pura ed effimera: simbologia della neve sulla scena
Spesso, nella poesia giapponese classica, la neve e i fiori di ciliegio si ritrovano associati: come se i fiocchi che volteggiano nell’aria invernale e i fiori spazzati dal vento fossero un’unica immagine di suprema bellezza. Questa associazione ha, nella storia della poesia giapponese, una tradizione antica. Infatti se ne registra la presenza già nel Kokin waka shū[1] in cui la tecnica del mitate, utilizzata magistralmente, favorisce l’incontro di due immagini antitetiche (perché proprie di due diverse stagioni), come i fiocchi di neve e i fiori di sakura. La tecnica del mitate è la sovrapposizione di due immagini visive, una reale e l’altra immaginaria e trova largo spazio nelle arti giapponesi, non solo in campo letterario ma anche in campo artistico.
L’associazione sakura-neve trascina con sé il riferimento a una terza immagine, quella del guerriero eroico. Se infatti il fiore di ciliegio è simbolo della bellezza effimera e della caducità delle cose del mondo,[2] la neve è portatrice di un segno di purezza, della purezza di intenti propria delle imprese eroiche, della sincerità, ovvero del makoto, che le contraddistingue. Un riferimento che rintraccia anche Ivan Morris parlando della vicenda di Saigō Takamori (1827-1877):
Il 17 febbraio lasciò con i suoi uomini Kagoshima sotto una violenta tempesta di neve. In Giappone la neve è simbolicamente associata alle imprese pure ed eroiche (i “quarantasette rōnin” attuarono la loro vendetta decisiva in una tempesta di neve e, in tempi più recenti, l’ammutinamento dei giovani ufficiali nel febbraio 1936 fu preceduto da una forte nevicata), e il fatto che l’esercito di Satsuma partisse sotto un cielo nevoso fu probabilmente interpretato come una sorta di conferma celeste sulla giustezza della loro causa.[3]
Il cerchio si chiude. I fiori di ciliegio e la neve conducono al bushi, ne esaltano, sulla scena come in altre manifestazioni artistiche, le azioni pure e “belle”, di una bellezza effimera. I fiori di ciliegio e la neve volteggiano e cadono a terra, gli uni disperdendosi, l’altra sciogliendosi, ed entrambe le immagini rimandano alla morte del guerriero.
La simbologia del bianco e della neve sembra avere una doppia valenza: significare purezza e significare la morte.
Nella cultura giapponese, infatti, il colore bianco, haku, associato al rosso o al nero assume significati contrapposti. Insieme al rosso nella combinazione kōhaku, il significato veicolato nell’immaginario di un individuo giapponese sarà quello della gioia e della celebrazione, mentre associato al nero suggerirà il lutto e occasioni dolorose. Da solo, però, il bianco è stato a lungo considerato il colore dei kami. Evoca la purezza, l’innocenza, come il biancore puro e incontaminato del washi, la preziosa carta con cui sono fatti i gohei, le striscioline bianche appese alle corde (shimenawa) che delimitano le aree sacre dello Shintō.
Anche in ambito buddhista il colore bianco assume una densità di significati di notevole portata. Massimo Raveri osserva che il bianco è il colore dell’ascesi e della morte: il monaco che sta per intraprendere un’esperienza mistica estrema come quella del sennichi kaihōgyō della scuola Tendai, lascia l’usuale tonaca nera e si riveste di bianco.[4] Bianco è anche l’abito dei pellegrini e degli asceti, di chi abbandona, anche temporaneamente, la vita quotidiana, per seguire un percorso mistico che lo spoglia della “sporcizia” del mondo e lo purifica.
Il bianco della neve, associato al manto uniforme che tutto copre, esalta maggiormente questo concetto di pulizia, di cancellazione del male.
Analogamente, nel testo del celeberrimo Kanadehon Chūshingura, dramma del 1748 scritto originariamente per il teatro delle marionette e poi adattato per il kabuki, e che riprende e sublima poeticamente per il palcoscenico la vicenda della vendetta dei quaratasette rōnin, al candore delle vesti e al biancore della neve si associano l’idea della morte e quella della purezza e della trasformazione.
Cito qualche scena a titolo esemplificativo. Nel IV atto, il riferimento al kosode bianco che è l’abito dei morti, il costume utilizzato per il seppuku, indica la preparazione di Hangan (ossia del personaggio in cui è adombrata la figura storica del daimyō Asano Naganori Takumi no kami, 1667-1701) nell’ora suprema. Inoltre, nell’ambientazione del IX e dell’XI atto la neve allude a un insieme di significati importanti nell’economia del dramma: la costanza e la pazienza nella preparazione della vendetta, la morte incombente, la purezza degli intenti e la sincerità del cuore ed infine, la purificazione che si realizza con la vendetta.
All’inizio del IX atto, ambientato nella residenza di Ōboshi Yuranosuke (ossia del capovassallo Ōishi Kuranosuke, 1659-1703, ideatore della vendetta) a Yamashina, la moglie di questi, avendolo visto rotolare una palla neve in giardino rientrando a casa, la indica al figlio Rikiya riflettendo sul significato di quel gesto che la donna interpreta in questo modo:
Otto wo hajime minna no shū wa, ima rōnin no hikage no mi, hikage ni sae okeba tokenu yuki, isogu koto wa nai to iu okokoro de arō wai no.” 夫を始め皆の衆は、今浪人の日陰の身、日陰にさえ置けば解けぬ雪、急く事はないというお心であろうわいの。[5] (Mio marito e tutti gli altri ora sono rōnin, gente che sta nell’ombra. La neve, se la si tiene all’ombra, non si fonde: per questo non occorre aver fretta, non bisogna essere precipitosi.)
In questo caso la neve sarebbe una metafora della pazienza, nelle parole della moglie di Yuranosuke.
Verso la fine di quello stesso atto, Yuranosuke rivela il suo piano di vendetta a un altro personaggio e lo fa per prima cosa mostrandogli due mucchi di neve in giardino:
Shōji sararito hikiakureba, yuki wo tsuganute sekitō, gorin no katachi wo futatsu made, tsukuri tateshi wa Ōboshi ga, nariiku hate wo arawaseri. 障子さらりと引き明くれば、雪を束ねて石塔の、五輪の形を二つまで、造り立てしは大星が、成り行く果てを顕わせり。[6] (Spalanca agevolmente gli shōji, e appaiono due monumenti funebri che Ōboshi ha modellato con neve pressata in forma di gorin, esprimendo in essi la fine imminente.)
I due gorintō di neve alluderebbero qui, viene detto in una battuta, al desiderio di Yuranosuke e del figlio di “scomparire come neve”[7] una volta vendicato il loro signore con l’uccisione del suo nemico: ancora una volta la neve è associata alla morte incombente.
E se nei manufatti del periodo Edo, come tessuti e stampe, i fiocchi di neve sono utilizzati come simbolo di purezza e di trasformazione, ciò accade anche sulla scena del Chūshingura, in cui nel IX e nell’XI atto è previsto che il palcoscenico sia ricoperto da una stoffa bianca che rievochi il candido manto. Ciò è vero soprattutto nell’atto finale del dramma in cui sotto una copiosa nevicata si realizza la vendetta, e la neve sembrerebbe avere il ruolo di purificare dal sangue contaminante del sacrificio.
La neve che tutto ricopre è anche simbolo di rinascita, di trasformazione, che annuncia la vita che si rinnova sotto il candido mantello che ricopre ogni cosa. Presente copiosamente nella produzione artistica giapponese come un imprescindibile segno stagionale, la neve ha una parte rilevante anche sulle scene, quindi. L’effetto “neve” nel kabuki, infatti, è volutamente reso in ogni sua sfumatura: dal segno grafico (i fiocchi di carta che piovono sul palcoscenico) a quello sonoro, ricco di una insospettabile suggestione, come ci ricorda lo studioso Kawatake Toshio: “Il suono della neve è interessante. In natura la neve cade senza rumore, ma la sua caduta diretta è espressa dall’ōdaiko. Il suono di questo tamburo è prodotto usando “bastoni da neve” piuttosto spessi e corti, che sono ricoperti alle estremità con palle di cotone per dare, insieme a un tocco gentile, un suono basso, morbido. Nel frattempo, da un lungo cesto aperto e sospeso sul palcoscenico, scendono volteggiando fiocchi di neve di carta. Ora sono prodotti in tanti quadrati da una macchina, ma i migliori sono i “triangoli di neve”. Mi sembra che, anche cineticamente, la forma triangola si adatti meglio a fluttuare e a danzare come neve.”[8]
È evidente che, nel caso dell’XI atto del Chūshingura, la neve non è interpretabile solo come un imprescindibile elemento stagionale. Ad essa è attribuibile una molteplicità di significati a cui non paia azzardato aggiungerne uno di particolare rilevanza, nel caso del dramma in questione. Se ritorniamo al Kokin waka shū originato però, occorre ricordarlo, in un clima culturale del tutto diverso, troveremo un waka particolarmente significativo:
Yuki furite
toshi no kurenuru
toki ni koso
tsuini momijinu
matsu mo miekere.
雪ふりて年の暮れぬる時にこそつゐにもみぢぬ松も見けれ。
Solo alla fine dell’anno/quando la neve stende/la bianca coltre/risalta agli occhi/ il verde perenne del pino.[9]
In questo componimento poetico, nato molti secoli prima del Kanadehon Chūshingura, in un contesto storico-culturale assai differente, la presenza della neve, elemento effimero, esalta per contrasto la perennità di ciò che nasconde: quelle virtù umane come la costanza e la fedeltà cui il pino sembra alludere. Virtù apprezzate ancora a distanza di tempo e coltivate ancora con tanta cura negli anni del Chūshingura.
Rossella Marangoni
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[1] E in particolare nei seguenti componimenti poetici: I-6, 7, 9, 60, II-75, VI-323, 324, 330, 331, VII-363. Cfr. Kokin waka shū. Raccolta di poesie giapponesi antiche e moderne, a cura di Sagiyama Ikuko, Milano, Ariele, 2000.
[2] Ben esemplificato dal seguente componimento poetico: “Utsusemino yo ni mo nitaru ka hanazakura saku to mishi ma ni katsu chirinikeri. A questo mondo umano/effimero somiglia/il fiore di ciliegio:/lo vedo sbocciare e intanto/ecco, sta già sfiorendo.”, SAGIYAMA Ikuko (a cura di), Kokin waka shū, cit., p. 102.
[3] I. MORRIS, “L’apoteosi di Saigō il grande” in La nobiltà della sconfitta, Milano, Guanda, 1983, pp. 255-256.
[4] Massimo RAVERI, Il corpo e il paradiso, Venezia, Marsilio, 1992, p. 41.
[5] Kanadehon Chūshingura 仮名手本忠臣蔵, edizione critica a cura di Hattori Yukio, Tōkyō, Hakusuisha, 1994, p. 233 (la traduzione è mia).
[6] Kanadehon Chūshingura 仮名手本忠臣蔵, edizione critica a cura di Hattori Yukio, cit., p. 258 (la traduzione è mia).
[7] “Jikun ni tsukaezu keyuru to iu okokoro no ano yuki. 二君に仕えず消ゆると言うお心のあの雪。(Non servirete un secondo signore, ma intendete sparire come quella neve.), Kanadehon Chūshingura 仮名手本忠臣蔵, edizione critica a cura di Hattori Yukio, cit., p. 259 (la traduzione è mia).
[8] KAWATAKE Toshio, Japan on stage,Tōkyō, 3A Corporation, 1990, p. 114.
[9] SAGIYAMA Ikuko (a cura di), Kokin waka shū, cit., p. 241.
Kuniyoshi No Neko - i Gatti di Kuniyoshi
Utagawa Kuniyoshi (1797-1861) è uno degli ultimi, più interessanti artisti di ukiyoe, le silografie notissime in occidente anche come “stampe del mondo fluttuante”. Oltre ad aver prodotto stampe del genere che tutti conoscono, ritratti di persone, di attori, rappresentazioni storiche e così via, Kuniyoshi è noto per le raffigurazioni di gatti. Nella sua casa ne vivevano, amati e coccolati, sempre cinque o sei, che gli offrivano ispirazione per le più varie scene di vita quotidiana.
I gatti personificavano e rappresentavano lo spirito dell'abitante di Edo dell'epoca: spensierato e sempre alla ricerca di nuovi piaceri. La ricca classe mercantile di quella che è oggi la capitale Tokyo, preoccupava per la crescente, pericolosa, prosperità le autorità cittadine che cercarono di tenere a freno le tendenze scialacquatrici dei mercanti o dei ricchi borghesi con una serie di leggi suntuarie (riforme dell'era Tenpoo, 1830-1844). Questi regolamenti proibivano anche i piaceri più innocui, dai fuochi artificiali ai kimono sfarzosi per giungere fino alle stampe.
Vennero bandite anche le rappresentazioni di attori del teatro kabuki e delle più famose geisha che per anni erano stati i soggetti preferiti degli artisti dell'ukiyoe. Ormai erano ritenuti pericolosi per la morale pubblica. Kuniyoshi trovò il modo di aggirare le leggi e di far divertire il suo pubblico rappresentando attori, cortigiane, personaggi storici o leggendari sotto forma di gatti. In alcuni casi assunse anche lo pseudonimo Gobyokai, il maestro dei cinque gatti. Naturalmente produsse anche stampe nelle quali l'animale è semplicemente un gatto, che gioca con l'orlo del kimono della padrona o che si fa da lei accarezzare, tenuto amorevolmente in braccio. La carriera di Kuniyoshi prosperò grazie alle sue splendide rappresentazioni di paesaggi, figure mitiche ed eroi spavaldi, ma anche a quelle del gatto: un affascinante specchio dell'imprevedibilità della natura umana.
Graziana Canova Tura, da Pagine Zen numero 30
"Addio a questo mondo e alla notte": i valori paralleli di giri e ninjo e il doppio suicidio d'amore.
Nel Giappone sotto il dominio degli shōgun Tokugawa (1603-1868) il matrimonio all’interno della classe dei guerrieri era fortemente condizionato dalle alleanze fra clan, mentre nelle città e nelle campagne vi era maggior libertà di scelta. Ma se nelle campagne, poiché non vi erano sanzioni morali al riguardo, ogni tipo di unione era accettato e le coppie potevano unirsi liberamente, nelle città i matrimoni d’amore (ren’ai kekkon) erano fortemente scoraggiati e ciò portava spesso gli innamorati al doppio suicidio d’amore (shinjū), una pratica che venne messa fuori legge sotto lo shōgun Yoshimune (al potere dal 1716 al 1745), ma che continuò a essere presente nelle cronache e ad essere al centro di molti drammi teatrali.
Se il matrimonio d’amore era ampiamente scoraggiato ciò è dovuto al fatto che presupponeva che l’interesse del singolo prevalesse sull’interesse della famiglia, cosa inammissibile secondo la morale prevalente durante il periodo Tokugawa. L’individuo doveva sottomettersi alle necessità e alle scelte della famiglia, questo ovviamente era causa di forti conflitti interiori. L’individuo, infatti, non si sarebbe mai messo contro i propri genitori. Il disagio, però, era diffuso. Nelle classi benestanti era possibile per un uomo sposare una donna che gli veniva imposta dal padre e intrattenere poi relazioni extraconiugali con donne, spesso cortigiane o geisha, che finiva con il mantenere. Ma non sempre ciò era possibile. Ecco che allora si sviluppò l’idea del contrasto giri-ninjō (dovere-sentimento) che tanto ebbe posto nella letteratura e nel teatro dell’epoca.
Benché si presenti a volte la tentazione di attribuirlo esclusivamente ai rapporti umani vissuti nella shitamachi, la città bassa del popolino, il ninjō, ovvero l’insieme dei sentimenti umani, delle passioni, delle inclinazioni personali che animano l’individuo, era vissuto inevitabilmente da ogni uomo nelle relazioni interpersonali (ninjō significa letteralmente “sentimenti verso l’altro”), così come il giri, ovvero le obbligazioni sociali, una nozione istituzionalizzata durante l’epoca feudale. Non adempiere al giri, obbligazione che poteva coinvolgere anche persone dello stesso livello sociale, portava inevitabilmente non solo alla perdita di fiducia della persona con cui si aveva contratto il debito, ma anche a una stigmatizzazione generalizzata del proprio comportamento e all’isolamento dalla comunità. Conseguenze intollerabili per qualsiasi individuo. Da qui nasce quella tensione interiore, quel conflitto fra due spinte centrifughe che portano il soggetto a scelte drammatiche e fatali, come accade, spesso, ai protagonisti dei drammi del teatro delle marionette jōruri e del teatro d’attori kabuki, drammi che, nella maggior parte dei casi, non facevano che rielaborare episodi della cronaca.
Occorre però avere ben presente la distinzione fra la natura del concetto di giri presso i chōnin (ossia la popolazione urbana, costituita perlopiù da mercanti e artigiani) e presso i bushi. Il concetto di giri, cioè di un ideale morale da perseguire nei rapporti con gli altri individui, si andò modificando nel corso del periodo Tokugawa. Il giri per i bushi coincideva sia con il dovere di lealtà nei confronti del proprio signore (ideale meglio espresso dal termine chūgi), sia con l’iji, l’orgoglio e il rispetto per se stessi. Col tempo si applicò il giri a regole morali già esistenti e questo ne modificò la natura. Ogni classe sociale aveva le sue norme di corretto comportamento ed era obbligata dal giri a compiere le proprie funzioni scrupolosamente. Ma il giri era importante soprattutto per la classe dei samurai. E all’epoca il concetto di giri era profondamente imbevuto di bushidō e adempiere alle richieste del giri era diventato l’ideale più elevato del guerriero: ricevendo uno stipendio, il bushi incorreva nell’obbligazione di dare la sua vita, se necessario, per il suo signore. Collegato a questo principio era l’obbligazione di fare qualunque sacrificio per ripagare una gentilezza o per onorare un impegno. Accettando un favore o dando la sua parola, il samurai impegnava il proprio onore e impegnava la propria reputazione.
Ma anche un chōnin era sottoposto ad altrettanti doveri legati alla propria classe, quella dei mercanti e degli artigiani, che richiedevano lo stesso impegno incondizionato. Ma, mentre l’opinione pubblica avrebbe accordato la propria simpatia a un chōnin che si fosse suicidato piuttosto che adempiere a un obbligo che contrastava i normali sentimenti umani, un bushi, nello stesso caso, avrebbe patito la più grave onta, perché un guerriero non poteva esitare davanti al proprio dovere, né poteva permettersi di mostrare debolezza o dolore.
Quindi occorre distinguere fra i soggetti sottoposti al conflitto giri-ninjō e tener presente che la percezione di tale conflitto mutò nel corso del tempo. Addirittura, per lo storico della letteratura Katō Shūichi, il rapporto giri-ninjō sembra rappresentare una falsa dicotomia. Lo studioso giapponese, infatti, sostiene che ci si trovi in presenza sì di un duplice sistema di valori, ma che questi attengano a due ambiti ben distinti: omote (esterno) e ura (interno), o, anche, facciata/lato nascosto, anche questa una dicotomia utilizzata frequentemente nel campo della cultura giapponese. Questi ambiti non interagiscono e la loro esistenza parallela era favorita dalla capacità dei giapponesi del periodo di far coesistere norme comportamentali imposte dalle autorità (quali le obbligazioni sociali), e i sentimenti e le emozioni interiori, senza che gli uni invadessero il campo degli altri. Katō illustra così la sua opinione al riguardo:
“Giri (che vale “obbligazione”) è il valore “esterno” (omote) e codice di comportamento di rinuncia, mentre ninjō (“sentimento”) è interiore (ura) e si richiama alla voluttà delle sensazioni. Ciò non significa che ci sia una netta frattura tra gli ideali dell’omote e la realtà dell’ura. Erano ambedue presenti: il confucianesimo predicava il giri e un’etica di autocontrollo; il teatro e i romanzi esaltavano il ninjō e proclamavano il diritto al piacere. Da una parte vi era l’esigenza dell’ordine sociale, dall’altra le spinte emotive del singolo. Norme esterne di comportamento da una parte, valori interiori dall’altra. Le norme esterne, garantite dalla pressione del potere delle autorità samuraiche, rimanevano pur sempre esteriori, non venivano interiorizzate dal singolo per rimpiazzare il ninjō o per contrapporsi ad esso. Allo stesso modo il ninjō non fu mai portato all’esterno e codificato come norma di comportamento sociale. Si può dire che questa coppia di valori procedesse in parallelo, soddisfacendo a necessità diverse. I bushi non erano insensibili al ninjō, i chōnin non poterono mai liberarsi del tutto dal giri, ma la differenza sta nel modo in cui ciascuno di questi due valori veniva trattato nelle opere nelle quali essi si identificavano.”[1]
Comunque lo si interpreti, il conflitto fra dovere e sentimento caratterizzò la vita giapponese durante il periodo Tokugawa e influì anche sulla letteratura e il teatro che attinsero a piene mani dalla cronaca.
Spesso, infatti, il conflitto era talmente insopportabile che l’individuo sceglieva la morte pur di uscire dal vicolo cieco in cui si sentiva intrappolato. Nella maggior parte dei casi si trattò di doppio suicidio, o suicidio d’amore, denominato shinjū 心中(il significato originario era “prova di fedeltà, prova d’amore”), vale a dire del suicidio di due amanti impossibilitati a realizzare il loro sogno d’amore. Il doppio suicidio certo rappresentava un sussulto di ribellione, un rifiuto di assoggettarsi all’omologazione generale, alle imposizioni sociali e, come tale, riscosse sempre la comprensione, la simpatia, la partecipazione dei chōnin. La scelta della morte per una coppia di chōnin rappresentava un’azione ben diversa dalla scelta di morte di un bushi, per il quale la morte non simboleggiava altro che l’ideale di sacrificio, di dedizione totale al proprio signore e, in ultima analisi, anche il proprio orgoglio. Ma questa mistica della morte era assolutamente estranea alla mentalità dei cittadini del periodo Edo: la morte è allora solo l’unico mezzo per vedere trionfare la loro passione e per uscire dal conflitto insanabile fra individuo e società, fra obblighi sociali e sentimenti umani. Inoltre occorre vedere alla base di questo atto anche la presenza di un concetto buddhista, quello di onri edo ossia “odiare e lasciare questa sporca terra” e di gongu jōdo, vale a dire il desiderio di rinascere nella Terra Pura, nel paradiso del Buddha Amida, la cui devozione era diffusa fra il popolino.
Gli shinjū furono numerosissimi nel corso di tutto il periodo Edo, ma la pratica non venne mai definitivamente abbandonata, e se ne registrano esempi ancora nel XX secolo. Certo è che lo shogunato si rese ben presto conto del potenziale di ribellione costituito da questa pratica e lo represse ferocemente. Non solo lo shinjū fu proibito dallo shōgun Yoshimune, ma addirittura si proibì, nel 1722, qualsiasi opera che esaltasse simili episodi, la cronaca di casi veri e persino l’utilizzo della parola “shinjū”. Questo non scoraggiò autori come il grande drammaturgo Chikamatsu Monzaemon (1653-1724) che sublimò poeticamente due episodi di cronaca nei suoi capolavori Sonezaki shinjū (Doppio suicidio a Sonezaki, 1703) e Shinjū ten no Amijima (Doppio suicidio celeste a Amijima, 1720).
La mano del potere si abbatteva implacabile su chi sceglieva la via dello shinjū. L’editto contro il doppio suicidio venne affisso nel punto di maggior passaggio del Giappone, il Nihonbashi (il “ponte del Giappone”), nel cuore di Edo: nel caso di morte per entrambi gli amanti, veniva disposto che il loro corpo non venisse sepolto. Se restavano solo feriti, occorreva curarli e, una volta ristabiliti, sarebbero diventati hinin, posti al di fuori della società, emarginati. Nel caso fosse sopravvissuta la donna, sarebbe stata imprigionata, mentre se fosse stato l’uomo a sopravvivere, sarebbe stato messo a morte. A tal scopo fu eretta un’edicola proprio presso il Nihonbashi: lì sarebbero state esposte, per tre giorni, le teste degli sfortunati che, sopravvissuti, avevano dovuto subire la pena capitale.
Rossella Marangoni
* Questo testo è legato alla conferenza "Storie di amore e morte nel teatro kabuki e nel teatro delle marionette".
Giorni d'Asia: Giappone. Abbiategrasso, Castello Visconteo, sabato 4 febbraio, ore 14.30.
Il Cinema giapponese e la sua derivazione teatrale
Nella cinematografia nipponica sono frequenti le opere basate sulla commistione tra il linguaggio cinematografico e quello teatrale, forse proprio a causa del rapporto di filiazione che lega queste due arti, come si è visto. In occidente non mancano esempi di questo tipo,Dopo la prova (1984) di Bergman,L’ultimo metrò di Truffaut o Vanya sulla 42ª strada (1994) di Malle.
Sono però episodi più sporadici. Il teatro kabuki ha trovato molte espressioni al cinema. Una di queste è La ballata di Narayama (Narayama bushikô, 1958) di Kinoshita Keisuke, tratto dal romanzo di Fukazawa Shichirô, storia di un arcaico villaggio di montagna. Il film palesa la sua struttura teatrale già dalla scena iniziale, con un kurogo che batte un gong. E per le scenografie stilizzate, palesemente. Si può vedere solo in Cinemascope, il formato ideale perché ricalca la scena del kabuki. Dallo stesso romanzo è stata realizzata, nel 1983, una versione molto diversa, naturalistica ed estremamente cruda, a opera di Imamura Shohei. Nel mondo del kabuki è ambientato Storia dell’ultimo crisantemo (Zangiku monogatari, 1939) di Mizoguchi Kenji, incentrato sulla carriera di un onnagata, l’ interprete tradizionale di ruoli femminili. Nel film ci sono tre maestose scene teatrali, che si pongono in un rapporto dialettico con la vicenda narrata. Un simile approccio è anche quello di La vendetta di un attore (Yukinojo henge, 1963), remake di un film del 1935, realizzato da Ichikawa Kon, il regista famoso in occidente per L'arpa birmana. Anche qui è protagonista un onnagata, che vuole uccidere tre uomini per vendetta. Memorabile la prima scena teatrale iniziale, dove i fondali si confondono con paesaggi reali, e in cui vengono enunciati i protagonisti del film, che si trovano tra il pubblico.
Sul teatro bunraku è incentratoDoppio suicidio ad Amijima (Shinjô: Ten no Amijima, 1969) di Shinoda Masahiro, regista che aveva fatto studi universitari sul teatro tradizionale. Tratto dal grande drammaturgo Chikamatsu Monzaemon, il film vede la presenza scenica dei kurogu, che guidano le azioni dei personaggi. Indubbiamente la pellicola più estrema, tra quelle giocate tra teatro e cinema, come evidente dal prologo che vede dei burattinai intenti a realizzare i pupazzi di quelli che saranno i personaggi in carne e ossa. Idea questa ripresa nel bellissimo Dolls (2002) di Takeshi Kitano. Anche il teatro nô ha avuto strascichi al cinema come in un’altra opera di Mizoguchi, I racconti della luna pallida d’agosto (Ugetsu monogatari, 1953). E’ una storia con elementi fantastici che seguono i dettami del nô, quali la struttura tripartita negli elementi jô (inizio), ha (sezione media più complessa), kyû (veloce conclusione), e i ruoli tipici del waki, il viandante, e dello shite, il personaggio che si rivela un fantasma in cerca di vendetta. Quest’ultima figura è una donna, Wakasa, truccata come una maschera nô e vestita come un personaggio nô. Anche Kaidan (1965) di Kobayashi Masaki, racconta storie di spiriti, che si basano sugli stessi archetipi narrativi. Come La ballata di Narayama, anche questo film fa uso di fondali irreali che creano un’atmosfera artificiosa. Per realizzare la sua versione del Macbeth, Trono di sangue (Kumonosu jô, 1957), Akira Kurosawa si basa sulla tecnica del nô. E'evidente nella figura di Asaji, corrispettiva di Lady Macbeth, che è sempre immobile, ieratica, inespressiva proprio come nel nô, dove gli attori comprimono la loro energia, e sono in grado di produrre emozioni molto intense con gesti quasi impercettibili. Lo scrittore Mishima Yukio, che aveva scritto molto per il teatro nô, nel suo unico approccio al cinema da regista, Yûkoku (1966), utilizza lo spazio vuoto e astratto di una scenografia nô, per ambientare la sua storia di seppuku. Da citare infine la rappresentazione di nô all'aperto, nell'elegiaco L’uomo che dorme (Nemuru otoko, 1996) di Oguri Kôhei, che accompagna la dipartita di un personaggio. E’ un teatro che mescola realtà e visione, vita e morte.
IKEBANA Antica Arte Tradizionale Giapponese di Disporre i Fiori - Abbiategrasso
Abbiategrasso, 3/5 febbraio 2012 Giorni d'Asia: Giappone
Setsubun : profumo di primavera
L’ikebana nasce dall’osservazione umile e attenta della natura: guardare con amore i petali di un fiore, la venatura di una foglia, l’erba che si piega al passaggio del vento.
La bellezza dell’ikebana nasce dall’armonia di linee, colori e volumi che si sviluppano nello spazio compositivo, esaltando alcuni aspetti della cultura giapponese: il vuoto, che non è assenza ma punto di partenza per ogni cosa; l'asimmetria, che sottolinea l'aspetto spontaneo e vitale della natura; i cicli stagionali, che trasmettono il sentimento di precarietà, tutto cambia e si trasforma in un ciclo continuo. La collocazione ternaria di pochi, essenziali elementi è impostata su regole precise e proporzioni fisse tra vaso, rami e fiori. L’uso di fiori in differenti momenti di fioritura simboleggia il ciclo vitale, effimero e transitorio: il fiore sbocciato rappresenta il passato, il fiore semiaperto il presente, il bocciolo è simbolo del futuro.
L’offerta di fiori alle divinità ha origine in India e con il Buddhismo, attraverso Cina e Corea, raggiunge il Giappone nel VI secolo d.C. dove diventa disciplina. Iniziata come arte ieratica e cerimoniale, oggi rappresenta un’armoniosa fusione di estetismo e poesia, espressione artistica, frutto e riflesso della cultura giapponese.
Verso la fine del 1800, con l’apertura del Giappone al mondo occidentale, nasce l’ikebana moderno. Il maestro Unshin Ohara per valorizzare i nuovi fiori d’importazione occidentale, più grandi e colorati, pensò di disporli in particolari vasi bassi e poco profondi entro i quali le composizioni potevano espandersi in larghezza e introdusse l’uso di speciali supporti che permettevano una maggiore creatività pur nel rispetto delle antiche regole compositive. Nacque cosi lo stile ‘Moribana’ adottato, in seguito, anche dalle altre scuole di ikebana.
L’ikebana ha saputo adeguarsi alle tendenze figurative del nostro tempo: diventa una ricerca di grafismo, colori e volumi, facile da inserire nella nostra vita quotidiana.
In concomitanza con Giorni d'Asia : Giappone si celebra la festa del primo giorno di primavera secondo il calendario cinese, per i giapponesi SETSUBUN.
Il 3 febbraio si cacciano i demoni, ovvero le influenze negative dell'inverno spargendo fagioli di soia arrostiti al grido “Oni wa soto, fuku wa uchi!” (Fuori i demoni! Dentro la fortuna!). Questo lancio è detto mame maki. In segno benaugurale alcune persone, quando rientrano in casa dopo essere state al santuario shinto per il mame maki, mangiano tanti fagioli quanti gli anni che
compiono nell’arco dei successivi dodici mesi: un modo per attirare la fortuna.
Anna Massari Master
OHARA SCHOOL OF IKEBANA
CHAPTER IKEBANA OHARA MILANO
La cultura del cibo in Giappone
La cultura del cibo ha un’antichissima tradizione in Giappone, ed è legata in modo particolare alle stagioni e a una natura che rende questo Paese così affascinante, ma lo colpisce anche in modo incredibilmente devastante.
Il popolo del Sol Levante ha sin dall’antichità usufruito di tutti i beni che la natura offre: vegetali, pesci e altri animali. I precetti della religione buddhista hanno però nei secoli limitato il consumo di carne. L’uso quotidiano di vegetali d’ogni tipo, foglie, fiori, radice, erbe selvatiche, alghe e prodotti di origine non animale ha quindi permesso ai giapponesi di sviluppare una straordinaria varietà di piatti legati ai prodotti locali e al momento della vita della terra durante le tradizionali 24 stagioni (nijūshiki) di 15 giorni che dividevano l’antico anno agricolo secondo il calendario lunare. L’estetica della disposizione sul piatto è considerata fondamentale per l’apprezzamento dei cibi e, poiché la secolare tradizione di sobrietà fa utilizzare tutto ciò che è commestibile, persino l’alimento più povero viene trattato come prezioso e servito nel modo più elegante possibile.
I piatti, le ciotole e i contenitori del cibo vengono scelti con accurata attenzione perché si armonizzino con esso, ma creino nel contempo un piacevole contrasto di colore e di forma. Le regole estetiche sono tante, ma basterà assorbirne alcune per poter dare un tocco in più alla nostra cucina quotidiana.
Molti grandi scrittori, nipponici e stranieri, hanno descritto le sensazioni uniche provocate dall’arte gastronomica giapponese ai cinque sensi dell’essere umano: vista, tatto, gusto, odorato e perfino udito. Nella bibliografia che segue ho indicato alcuni libri in cui gli autori hanno, colpi di fulmine espresso la fascinazione subita all’incontro con la cultura del cibo in Giappone, a volte amori a prima vista, colpi di fulmine che si sono poi evoluti in amori di tutta una vita.
Graziana Canova Tura
Bibliografia:
Fondamentale per chi voglia conoscere il Giappone in tutti i suoi aspetti:
- MARAINI Fosco, Ore giapponesi, Milano, Corbaccio, 2000, pp. 524 (1° ed. 1956).
Poi
- BARTHES Roland, L’impero dei segni, Torino, Einaudi, 1984, pp. 135.
- CALZA Gian Carlo, Stile Giappone, Torino, Einaudi, 2002, pp. 213.
- MARCHESI Gualtiero e VERCELLONI Luca, La tavola imbandita. Storia estetica della cucina, Bari, Laterza, 2001, pp. 226.
- PARISE Goffredo, L’eleganza è frigida, Milano, Adelphi, 2008, pp. 169 (1° ed. 1982).
- PASQUALOTTO Giangiorgio, Yohaku, Padova, Esedra, 2001, pp. 157.
- RICHIE Donald, A Taste of Japan, Tokyo, Kodansha, 1985, pp. 112.
- TANIZAKI Jun’ichirō, Libro d’ombra, Milano, Bompiani, 1982, pp. IX-117.
- TSUCHIYA Yoshio, A Feast for the Eyes. The Japanese Art of Food Arrangement, Tōkyō, Kodansha, 1985, pp. 166.
- Cucina zen
- DŌGEN – Uchiyama Rōshi, Istruzioni a un cuoco zen, Roma, Ubaldini, 1986, pp. 133.
- EIHEI DŌGEN, La cucina scuola della Via, trad. e a cura di Jisō Forzani e p. Luciano Mazzocchi, Bologna, Ed. Devoniane, 1998, pp. 125.
- HOOVER Thomas, La cultura zen, Milano, Mondadori, 1981, pp. 252.
- TSUJI Kaichi, Zen Tastes in Japanese Cooking, Tōkyō, Kodansha, 1972, pp. 207.
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CANOVA TURA Graziana
- Il Giappone in cucina, Nuova edizione riveduta e aggiornata, Milano, Ponte alle Grazie, 2006, pp. 397 (1° edizione, Mondadori, 1994, pp. 350 – esaurito)
- La cucina zen, Milano Xenia, 1998, pp. 183.
- Giappone (collana cucina etnica), Milano, Fabbri, 1999, pp. 120.
- Sushi, Milano, Fabbro, 2000, pp. 71.