Visitando Takamatsu 高松

 

Quando si decide di visitare il Giappone, spesso e volentieri ci si concentra sulle classiche mete turistiche: Tōkyō, perché è la capitale, nonché paradiso tecnologico per molti occidentali, e Kyōto, perché rappresenta l’essenza culturale del paese, quella brezza orientale che piace così tanto agli stranieri. Qualcuno a volte allarga i propri orizzonti concedendosi un tour più completo lungo tutta l’isola Honshū, fermandosi a Kamakura, Ōsaka e Nara. Alcuni si spingono fino alla regione del Chūgoku per fare visita al parco della pace di Hiroshima o per ammirare uno dei più rinomati simboli del Giappone, i famosi torii galleggianti del santuario Itsukushima (purtroppo quando ci andai questa porta scintoista era ben lontana dall’essere immersa nell’acqua, complice una bassa, anzi bassissima marea).

E lo Shikoku? Questa piccola isola, quarta a livello di grandezza, ha da subito catturato la mia attenzione nel momento in cui stavamo programmando il nostro tour nella parte meridionale del Giappone. Dovrà pur esserci qualcosa di interessante da vedere, visto che è una meta per milioni di pellegrini che ripercorrono i passi del giovane monaco Kukai (fondatore del buddhismo Shingon) facendo visita agli 88 templi dell’isola.

La nostra scelta cade su Takamatsu e su Naruto, entrambe sulla costa settentrionale dell’isola e ben collegate con lo Honshū. Qui è come se il tempo si fosse fermato, è come se tutto quel processo di occidentalizzazione/americanizzazione, così evidente nelle grandi metropoli, non sia mai arrivato. È un altro Giappone quello che si percepisce nello Shikoku (o forse è il vero Giappone?): Takamatsu è avvolta da una tranquilla quiete sin dalle prime luci del mattino. La stazione centrale è quasi deserta e di stranieri manco l’ombra. Gli unici “turisti” sono probabilmente altri giapponesi venuti dalla main island. Decidiamo di affidarci alla mia guida turistica che dedica alla città un quarto di pagina, un po’ poco, però è sempre meglio di niente.

Il castello di Takamatsu è immerso nel parco Tamamo, dove ogni sfumatura di verde appare in forte contrasto con lo splendore delle pietre, sistemate perfettamente in linea per tracciare i piccoli sentieri da intraprendere per raggiungere una delle sale da tè. Il castello sembra essere la versione in miniatura di quelli più famosi di Himeji e di Ōsaka, però si può percepire alla stessa maniera il potere esercitato dallo shōgun nel XVII secolo. Dal parco Tamamo decidiamo di dirigerci verso il rinomato museo delle cere - un Madame Tussaud’s giapponese che riprende minuziosamente i punti salienti dello Heike monogatari. È in questo momento che ci rendiamo conto non solo di essere le uniche turiste della città, ma di essere anche le poche persone che camminano per strada. Per fortuna lungo il nostro cammino ci sono dei konbini, dove poter chiedere informazioni, altrimenti sarebbe stato impossibile raggiungere il museo, che si trova in un posto praticamente abbandonato, ricordante più un parcheggio in periferia che una tipica meta turistica. La gentilezza dei giapponesi non smetterà mai di sorprendermi ed è uno dei tanti motivi per i quali adoro questo paese, in particolare in una città come Takamatsu, dove è ben evidente la “carenza” di turismo occidentale, gli abitanti cercano di fare del loro meglio per darci le giuste indicazioni e nel momento in cui esordiamo con la tipica frase Nihongo de daijōbu desu (“Va bene anche in giapponese”), vediamo come i loro volti e i loro occhi si riempiono di gioia e di stupore ed è in quel momento che la loro volontà di volerci aiutare diventa maggiore. Come ultima tappa decidiamo di andare al parco Ritsurin, un’immensa distesa verde dove la natura sembra aver trovato la sua tranquillità: ogni angolo del giardino è talmente perfetto, quasi da sembrare irreale. È come un’oasi pacifica, nonché un luogo ideale per lasciarsi abbandonare alla meditazione, almeno per due ore, il tempo necessario per visitare tutto il parco.

Giulia Bianco


Naruse Mikio

Enciclopedia del Cinema (2004)

di Dario Tomasi

Naruse, Mikio

Regista cinematografico e sceneggiatore giapponese, nato a Tokyo il 20 agosto 1905 e morto ivi il 2 luglio 1969. Quasi coetaneo di Mizoguchi Kenji e Ozu Yasujirō, N. ha faticato più dei suoi colleghi ad affermarsi nel mondo del cinema giapponese prima e internazionale poi e solo con il tempo la sua opera ha conquistato l'attenzione che merita. N. realizzò soprattutto degli shomingeki ("drammi sulla gente comune"), concentrandosi in modo particolare sull'universo familiare, spesso colto nella sua essenza, di là dalle contingenze storiche e sociali. Il suo cinema è innanzi tutto una straordinaria galleria di ritratti femminili, di donne che rifiutano il ruolo di vittime e si battono con coraggio per realizzare le loro aspirazioni, anche quando sanno d'essere prive di vie d'uscita. È proprio l'ammirazione del regista per questa irrazionale ostinazione a dare al suo cinema un carattere decisamente particolare. Se negli anni Trenta N. ricorse a quello stile ornamentale tipico del cinema giapponese dell'epoca, con angolazioni insolite e frequenti movimenti di macchina, negli anni Cinquanta il suo linguaggio si prosciugò, si fece più lineare, per permettere allo spettatore di cogliere con l'attenzione dovuta i gesti dei personaggi, le sfumature degli sguardi, i mutamenti d'espressione, il lavoro degli attori.

Nato in una famiglia di umili condizioni, N., dopo aver frequentato una scuola tecnica, entrò, all'età di soli quindici anni, negli studi Kamata della Shōchiku, dove conobbe il regista Ikeda Yoshinobu che nel 1922 lo promosse suo assistente. N. rimase tale per sei anni, prima di passare nello staff di Gosho Heinosuke e, finalmente, debuttare come regista nel 1929 con Chanbara fūfu (I coniugi Chanbara). Il film, come i molti che seguirono negli anni immediatamente successivi, si basava sulla tipica formula della Shōchiku: un'insolita miscela di slapstick e melodramma, gag e lacrime. Ne è un esempio il primo film conservato del regista, Koshiben ganbare (1931, In bocca al lupo, piccolo salariato), in cui si narrano le vicissitudini di un agente assicurativo pronto a subire ogni umiliazione pur di vendere una polizza a una ricca signora. N. si specializzò così negli shomingeki, genere cui infuse la propria personale esperienza, la sua capacità di descrivere le atmosfere degli shitamachi (i quartieri popolari) e la variegata realtà dei suoi abitanti, come per es. accade in Kimi to wakarete (1933, Dopo la nostra separazione), storia di una geisha che si vede disprezzata dal figlio a causa del suo mestiere. Dopo aver lasciato la Shōchiku nel 1934 ed essere passato alla PCL (Photo Chemical Laboratory, poi Tōhō), N. diresse nel 1935 il suo primo film sonoro, Tsuma yo, bara no yōni (Moglie, sii come una rosa), con cui ritornò a quell'equilibrio di dramma e commedia che già aveva caratterizzato i suoi film d'esordio e riuscì a conquistare l'attenzione della critica e del pubblico. Al successo di questo film seguì, tuttavia, un lungo periodo di crisi, che attraversò gli anni della guerra e quelli dell'occupazione americana, in cui N. diresse pochi film senza incidere in quasi nessuno: fra le poche eccezioni si può citare Hataraku ikka (1939, Tutta la famiglia lavora), storia di una numerosa famiglia nella quale, per sopravvivere, tutti sono costretti a lavorare, compresi vecchi e bambini. Ma con gli anni Cinquanta le cose cambiarono di nuovo e N., ritrovata la propria vena creativa, realizzò i film più importanti della sua carriera. Del 1951 è Meshi (Il pasto), sottile analisi della crisi coniugale di una coppia, alla cui sceneggiatura collaborò anche il futuro premio Nobel Kawabata Yasunari. Il film è l'adattamento di un romanzo della scrittrice Hayashi Fumiko, dalla cui opera N. trasse altri cinque film: Inazuma (1952, Il lampo), storia del rapporto di una madre con i suoi quattro figli ‒ tre femmine e un maschio ‒ avuti ognuno da un uomo diverso; Tsuma (1953, Moglie), sul tentativo di una donna di salvare un matrimonio alla deriva; Bangiku (1954, Tardi crisantemi), che vede fra i suoi protagonisti una geisha in lotta contro l'ineluttabile trascorrere del tempo; Ukigumo (1955, Nubi fluttuanti), uno dei film più apprezzati del regista, storia dell'amore assoluto di una donna per un uomo debole ed egoista; Horoki (1962, Cronaca di una vita vagabonda), biografia per immagini della stessa Hayashi. In quegli anni N. lavorò soprattutto per la Tōhō e riuscì a dar vita a un gruppo di collaboratori ricorrenti che comprendeva gli sceneggiatori Tanaka Sumie e Mizuki Yōko, il musicista Saitō Ichirō, il direttore della fotografia Tamai Masao e gli attori Takamine Hideko e Uehara Ken. Nacquero così altri film di qualità come Okāsan (1953, Madre), Ani imōto (1953, Fratello e sorella) e Fūfu (1953, Marito e moglie), tutte scrupolose indagini di microcosmi familiari, come Yama no oto (1954, Il suono della montagna), dal celebre romanzo di Kawabata, mentre con Nagareru (1956, Fluttuare) il regista disegnò il declino della tradizionale figura delle geishe ormai divenute, nel dopoguerra, semplici prostitute. Negli anni Sessanta N. realizzò ancora un buon numero di film ma, come altri registi della sua generazione, fu coinvolto dalla crisi del mondo produttivo. Da ricordare in particolare Onna ga kaidan o agaru toki (1960, Quando una donna sale le scale) e Midaregumo (1967, Nubi sparpagliate), ancora due convincenti ritratti femminili: quello della proprietaria di un bar di Ginza, il primo; di una donna incinta il cui marito muore in un incidente stradale, il secondo, che fu anche il l'ultimo film del regista. bibliografia

J. Mellen, The waves at Genji's door: Japan through its cinema, New York 1976, pp. 270-89.

A. Bock, Japanese film directors, New York 1978, pp. 99-136.

A. Bock, Mikio Naruse: un maître du cinéma japonais, Locarno 1983.

L. Interim, Mikio Naruse. Le quatrième grand, in "Cahiers du cinéma", 1983, 344, pp. 6-11.

H. Niogret, Mikio Naruse. L'agencement des emotions, in "Positif", 1984, 275.

M. Tessier, Y. Mizuki, Mikio Naruse, in "La revue du cinéma", 1984, 391, pp. 61-70.

Mikio Naruse: un maestro del cinema giapponese, Catalogo della rassegna organizzata dall'Istituto di cultura giapponese, Roma 1984.

D. Tomasi, Meshi (Il pasto), in "Cineforum", 1991, 4, pp. 62-67.

J. Magny, A. Scala, L'éclair Naruse, in "Cahiers du cinéma", 1993, 466, pp. 47-53.

B. Eisenschitz, Au-delà d'un nuage, in "Cahiers du cinéma", 2001, 553, pp. 59-61.

M.R. Novielli, Storia del cinema giapponese, Venezia 2001, pp. 91-104, 179-81.

C. Tesson, Naruse du style et des larmes, in "Cahiers du cinéma", 2001, 553, pp. 62-64.


Il canto dei carri: Saibara

Poche volte, anche in Giappone, si incontra il termine Saibara quando si guarda superficialmente alla storia della musica giapponese e spesso viene erroneamente confuso o associato ad altri repertori vocali afferenti il composito universo del Gagaku. Eppure tale tipologia di canti sono sicuramente tra i più rappresentativi e antichi della tradizione giapponese, risalenti ad origini, secondo l'ipotesi oggi più accreditata, popolari. Il termine, per quanto non con una traduzione univoca, fa riferimento infatti ai "conducenti di carri", funzionari che in epoca Heian erano principalmente addetti alla riscossione dei tributi nelle varie regioni del paese.

Portato al suo massimo splendore da Minamoto no Masanobu (920 - 993), si ritrovano echi di tale genere ancora nel Genji Monogatari, grazie ad una tradizione continuata a corte, che inserì il Saibara nel repertorio vocale del Gagaku garantendone anche la sopravvivenza. Dei cinquantacinque canti oggi superstiti però soltanto sei fanno ancora parte di tale repertorio di cui soltanto due eseguiti ancora in maniera quasi stabile. Proprio il fatto di appartenere oggi ad un repertorio di origine non autoctona rende però difficile la possibilità di ricostruire la loro forma popolare, poiché rimasti soggetti, loro come molte altre composizioni, ad una riscrittura che adattò la musica e i testi alla nuova funzione di corte. Le musica ed il canto, oggi ricostruibili solo attraverso due "intavolature" musicali, si caratterizza per un allungamento vocalico con l'aggiunta di formule decorative che danno varietà al canto mentre l'orchestra è costituita dall'ensemble classico normalmente utilizzato nel Gagaku con l'aggiunta di quello che in occidente potrebbe essere chiamato "maestro di coro", Kutou, che da il tempo con il battito degli Shakubyoshi.

Edmondo Filippini


Takarazuka - una compagnia di sole donne

Il Takarazuka 宝塚 rappresenta uno dei fenomeni più affascinanti quanto misteriosi del panorama teatrale giapponese, definito spesso come un luogo eccentrico, perverso e ben distante dal mondo reale. La compagnia, composta esclusivamente da ragazze, venne fondata nel 1913 da Kobayashi Ichizō 小林一三 e, in un primo momento, nacque come un’organizzazione amatoriale con lo scopo di intrattenere i turisti nell’omonima località termale Takarazuka, una piccola cittadina del Kansai. Con il passare degli anni la compagnia si espanse in modo notevole diventando per molte giovani un ottimo escamotage per sfuggire, almeno temporaneamente, alla rigida etichetta di ryōsai kenbo 良妻賢母 (“essere una buona moglie e una saggia madre”), promossa dal governo nei primi anni del XX secolo. In verità il Takarazuka si colloca in una via di mezzo tra due estremi: da una parte offriva la possibilità a molte ragazze di intraprendere una carriera a sé stante e di uscire così dalla semplice routine, dall’altra, però, incarnò il rigore e la ferrea disciplina imposta dalla società giapponese.

Le takarasienne (così vengono definite le “attrici” della compagnia) si specializzano in ruoli maschili (otokoyaku 男役) o in ruoli femminili (musumeyaku 娘役), la cui rappresentazione è volutamente lontana dal potersi definire reale. Il Takarazuka, del resto, si pone come obiettivo quello di “vendere dei sogni” e di far trasportare lo spettatore verso un mondo onirico, grazie anche a una scenografia particolarmente sfarzosa, a costumi molto elaborati e a un ingegnoso gioco di luci.

La compagnia è suddivisa al suo interno in cinque troupe:

* la hana gumi 花組 (troupe dei fiori);

* la tsuki gumi 月組 (troupe della luna);

* la yuki gumi 雪組 (troupe della neve);

* la hoshi gumi 星組(troupe delle stelle);

* la sora gumi 宙組 (troupe del cielo).

e ognuna di esse, oltre a essere rappresentata da una coppia di cosiddette Top Star, ovvero le due takarasienne più rinomate e talentuose del momento, è caratterizzata da un proprio stile interpretativo. La yuki gumi, ad esempio, è solita mettere in scena drammi appartenenti alla letteratura giapponese, al contrario della tsuki gumi, che si è specializzata nella rappresentazione di musical occidentali.

Il Takarazuka propone ogni anno un vasto assortimento di spettacoli, che spazia dai grandi melodrammi a rappresentazioni giapponesi reinventate in stile occidentale, dai musical della golden age broadwayana a quelli tratti dalla letteratura o basati su eventi storici, ognuno dei quali si conclude con un’imponente parata, durante la quale tutte le attrici si esibiscono per l’ultima volta indossando costumi molto appariscenti.

Nonostante la compagnia sia stata definita per molti versi “eccentrica” e piena di riferimenti riguardanti la presunta ambiguità sessuale delle ragazze, in particolare nei confronti di quelle che ricoprono ruoli maschili, l’intento del Takarazuka non è mai stato quello di scandalizzare o di promuovere un comportamento amorale; al contrario il messaggio che si cerca di tramandare è quello di un puro intrattenimento teatrale che fa da cardine ai tre principi promossi da Kobayashi:

kiyoku, tadashiku, utsukushiku 清く、正しく、美しく, ovvero “Sii pura, sii onesta, sii bella!”.

Giulia Bianco

 

 


Estetica giapponese

Foto di Alberto Moro

 

Lo studio moderno di un’estetica giapponese nel senso occidentale è iniziata soltanto poco più di due secoli fa. Ma, con il termine estetica giapponese, tendiamo a significare non i presente studio moderno ma una serie di ideali antichi che includono il wabi (la bellezza passeggera e rigida), sabi (la bellezza della patina naturale e dell’invecchiamento), e yūgen (profonda grazia e sottigliezza).1) Questi ideali, e altri, sottendono molte delle norme culturali ed estetiche giapponesi su ciò che è considerato di gusto o bello. Così, mentre è vista come una filosofia nelle società occidentali, il concetto di estetica in Giappone è vista come parte integrante della vita quotidiana.2) L’estetica giapponese abbraccia ora una varietà di ideali, alcuni dei quali sono tradizionali mentre altri sono moderni e talvolta influenzati da altre culture.3)

 

Shinto-Buddismo

Lo shintoismo è considerato essere la sorgente della cultura giapponese.4)  Con la sua enfasi sull’interessa della natura e il carattere dell’etica, e la sua celebrazione del paesaggio, stabilisce il tono dell’estetica giapponese. Ciononostante, gli ideali estetici giapponesi sono prevalentemente influenzati dal Buddismo giapponese.5) Nella tradizione buddista, tutte le cose sono considerate sia evolvere che dissolvere nel nulla. Questo “nulla” non è uno spazio vuoto. È, piuttosto, uno spazio di potenzialità.6) Se prendiamo i mari come rappresentanti del potenziale allora ogni cosa è come un’onda che deriva da esso e ritorna ad esso. Non esistono onde permanenti. Non esistono onde perfette. In nessun punto, un’onda è completa, anche al suo apice. La natura è vista come un interoo dinamico che deve essere ammirato e apprezzato. Questo apprezzamento della natura è stato fondamentale per molti ideali estetici giapponesi, “arti” e altri elementi culturali. A tale riguardo, la nazione di “arte” (o il suo equivalente concettuale) è anche abbastanza differente dalle tradizioni occidentali (vedi arte giapponese).

 

Wabi-sabi

Articolo principale: Wabi-sabi

Wabi e sabi si riferiscono a un attento approccio alla vita quotidiana. Nel corso del tempo i loro significati si sono sovrapposti e sono convertiti fino a unificarsi in Wabi-sabi, l’estetica definitiva la bellezza delle cose “imperfette, impermalenti e incomplete”.6) Le cose in bocciolo o le cose in decadenza sono più evocative del wabi-sabi delle cose in piena fioritura perché suggeriscono la transienza delle cose. Mentre le cose vengono e vanno, presentano segni del loro andare e venire e questi segni sono considerati belli. In questo, la bellezza è uno stato alterato della consapevolezza e può essere vista  nel mondano e nel semplice. Le firme della natura possono essere così sottili che solo una mente tranquilla e un occhio coltivato le possono discernere.7) Nella filosofia Zen esistono sette principi estetici per raggiungere il Wabi-Sabi.8

 

Fukinsei: asimmetria, irregolarità; Kanso: semplicità; Koko: fondamentale, patinato; Shizen: senza pretese, naturale; Yugen: grazia sottilmente profonda, non ovvia; Datsuzoku: slegato dalle convenzioni, libero; Seijaku: tranquillità.

 

Ciascuna di queste cose si trovano in natura ma possono suggerire virtù del carattere umano e appropriatezza del comportamento. Ciò, a sua volta suggerisce che la virtù e la civiltà possono essere instillate attraverso l’apprezzamento e la pratica delle arti. Quindi, gli ideali estetici hanno una connotazione etica e pervadono molta della cultura giapponese.9)

 

Miyabi

 

Articolo principale: Miyabi

 

Miyabi è uno degli ideali estetici giapponesi tradizionali più antichi, anch se non prevalente come l’iki e il wabi-sabi. Nel giapponese moderno, la parola è tradizionalmente tradotta con “eleganza”, “raffinatezza” o “cortesia” e talvolta si riferisce a un “rubacuori”.

 

L’ideale aristocratico di Miyabi richiedeva l’eliminazione di tutto quello che era assurdo o volgare e la “limatura delle maniere, della dizione e dei sentimenti per eliminare tutta la rozzezza e crudezza così da raggiungere la massima grazia”. Esprimeva quella sensibilità alla bellezza che è la pietra miliare dell’epoca Heian. Miyabi è spesso strettamente connesso alla nozione di Mono no aware, una consapevolezza agrodolce della transienza delle cose e così si pensava che le cose in declino presentassero un gran senso di miyabi.

 

Shibui

Articolo principale: Shibui

Shibui (aggettivo), shibumi (nome) o shibusa (nome) sono parole giapponesi che si riferiscono a una particolare estetica o bellezza della bellezza semplice, sottile e non vistosa. Originatosi nel periodo Muromachi (1336-1392) come shibushi, il termine si riferiva in origine a un gusto amaro o astringente, come quello di un kaki non maturo. Shibui mantiene ancora questo significato letterale e rimane l’antonimo di amai, che significa “dolce”. Come altri termini estetici giapponesi, quali iki e wabi-sabi, shibui si può applicare a un’ampia varietà di soggetti, non solo all’arte o alla moda. Shibusa include le seguenti qualità essenziali: 1) gli oggetti shibui appaiono un insieme semplice ma includono sottili dettagli, quali la trama, che bilanciano la semplicità con la complessità. 2) Questo equilibrio di semplicità e complessità garantisce il fatto di non stancarsi di un oggetto shibui ma di trovare costantemente nuovi significati e una bellezza arricchita che provoca la crescita del suo valore estetico nel corso degli anni. 3) Shibusa non deve essere confuso con wabi o sabi. Benché molti oggetti wabi o sabi siano shibui, non tutti gli oggetti shibui sono wabi sabi. Gli oggetti wabi o sabi possono essere più severi e talvolta esagerare le imperfezioni intenzionali in una tale misura che possono apparire artificiali. Gli oggetti shibui non sono necessariamente imperfetti o asimmetrici, benché possano includere queste qualità. 4) Shibusa cammina su un filo teso fra concetti estetici contrastanti quali elegante e rozzo o spontaneo e controllato.

 

Iki

Articolo principale, Iki (ideale estetico)

Iki è un ideale estetico tradizionale in Giappone. La base dell’iki si pensa si sia formato fra la classe mercantile urbana (Chōnin) a Edo nel periodo Tokugawa. Iki è un’espressione della semplicità, sofisticatezza, spontaneità e originalità. È effimero, diretto, misurato e inconsapevole. L’iki non è esageratamente raffinato, pretenzioso, complicato. L’iki può significare un tratto personale o un fenomeno artificiale che presenta la volontà o la consapevolezza umana. L’Iki non è utilizzato per descrivere fenomeni naturali ma può essere espresso nell’apprezzamento umano della bellezza naturale o nella natura degli essei umani. L’espressione iki è utilizzata generalmente nella cultura giapponese per descrivere qualità che sono esteticamente attraenti e quando è applicata a una persona, a quello che fa o ha, costituisce un grosso complimento. L’iki non si trova in natura. Mentre analogamente a wabi-sabi in quanto disdegna la perfezione, l’iki è un termine ampio che abbraccia varie caratteristiche relative alla raffinatezza con gusto. Le manifestazioni di gusto della sensualità possono essere iki. Etimologicamente, l’iki ha una radice che significa puro e non edulcorato. Comunque, comunica anche una connotazione di un appetito nei confronti della vita.10)

 

Jo-ha-kyū

Jo-ha-kyū è un concetto di modulazione e movimento applicato a un’ampia varietà di arti tradizionali giapponesi. Approssimativamente tradotto con “inizio, interruzione, rapido”, inferisce un ritmo che parte lentamente, accelera e quindi finisce velocemente. Questo concetto si applica agli elementi della cerimonia del tè giapponese, al kendō, al teatro tradizionale, al Gagaku e alle forme di verso collegato collaborative tradizionali renga e renku (haikai no renga):11)

 

Yūgen

Lo yūgen è un importante concetto nell’estetica tradizionale giapponese. La traduzione esatta della parola dipende dal contesto. Nei testi filosofici cinesi, da cui è stato tratto il termine, lo yūgen significa “tetro”, “profondo” o “misterioso”. Nella critica della poesia waka giapponese, è stato utilizzato per descrivere la sottile profondità delle cose che sono solo vagamente suggerite dalle poesie ed è anche stato il nome di uno stile poetico (uno dei dieci stili ortodossi delineati da Fujiwara no Teika nei suoi trattati).

Lo yūgen suggerisce che al di là di quello che possa dirsi non è un’allusione a un altro mondo.12) Riguarda questo mondo, questa esperienza. Tutti questi sono portali per lo yūgen:

“Guardare il sole immergersi dietro alla collina rivestita di fiori. Camminare in un’immensa foresta senza pensiero di ritorno. Stare in piedi sulla spiaggia e osservare una barca che scompare dietro alle isole in lontananza. Contemplare il volo delle anatre selvatiche viste e perse fra le nuvole. E le sottili ombre del bambù sul bambù.” Zeami Motokiyo

Zeami è stato il creatore della forma d’arte drammatica del teatro Noh e ha scritto il libro classico sulla teoria drammatica (Kadensho). Utilizza immagini della natura come metafora costante. Ad esempio, “la neve in una coppa d’argento” rappresenta il Fiore della Tranquilllità”. Lo yūgen si dice significhi “un senso profondo e misterioso della bellezza dell’universo… e la triste bellezza dell’umana sofferenza”.13)  È utilizzato per riferirsi all’interpretazione di Zeami della “raffinata eleganza” nella performance del Noh.14)

 

Geidō

Il geidō si riferisce alla modalità delle arti giapponesi tradizionali: il Noh (teatro), il kadō (disposizione giapponese dei fiori), lo shodō (calligrafia giapponese), il Sadō (cerimonia del tè giapponese) e lo yakimono (ceramica giapponese). Tutte queste modalità presentano una connotazione etica ed estetica e apprezzano il processo della creazione.9) Per introdurre la disciplina nel training, i guerrieri giapponesi seguivano l’esempio delle arti che sistematizzavano la pratica attraverso forme prescritte chiamate kata – pensate alla cerimonia del tè. L’allenamento nelle tecniche di combattimento incorporava le modalità delle arti (Geidō), la pratica nelle stesse arti e l’instillare i concetti estetici (ad esempio, lo yūgen) e la filosofia delle arti (geido ron). Ciò portò a tecniche di combattimento diventate conosciute come arti marziali (anche oggi, David Lowry dimostra in “La spada e il pennello: lo spirito delle arti marziali”, l’affinità delle arti marziali con le altre arti). Tutte queste arti sono una forma di tacita comunicazione e possiamo rispondere ad esse apprezzando questa tacita dimensione.

 

Ensō

Articolo principale: Ensō

 

Ensō è una parola giapponese che significa “cerchio”. Simbolizza l’Assoluto, l’illuminazione, la forza, l’eleganza, l’Universo e il vuoto; può essere preso anche a simbolo l’estetica stessa giapponese. I calligrafi buddisti Zen possono “credere che il carattere dell’artista sia pienamente esposto nel modo in cui disegna un ensō. Alcuni artisti praticheranno il disegno di un ensō quotidianamente, come una sorta di esercizio spirituale.”15)

 

L’estetica e le identità culturali giapponesi

A causa della sua natura, l’estetica giapponese ha una rilevanza più ampia di quella solitamente accordata all’estetica in Occidente. Nel suo illuminante libro, 16) Eiko Ikegami rivela una storia complessa di via sociale in cui gli ideali estetici diventano centrali per le identità culturali giapponesi. Lei dimostra come le reti nelle arti performanti, la cerimonia del tè e la poesia abbiano forgiato tacite pratiche culturali e come la gentilezza e la politica siano inseparabili. Sostiene che ciò che in Occidente è normalmente disperso, come l’arte e la politica, sono stati e sono nettamente integrate in Giappone..

Dopo l’introduzione delle nozioni occidentali in Giappone, gli ideali dell’estetica wabi sabi sono stati riesaminati con i valori occidentali, sia dai giapponesi che dai non giapponesi. Pertanto, le recenti interpretazioni degli ideali estetici inevitabilmente riflettono le prospettive giudeo-cristiane e la filosofia occidentale.17)

 

Gastronomia

Molti criteri estetici giapponesi tradizionali si manifestano, e sono discussi come parti, dei diversi elementi della cucina giapponese.18)

 

Kawaii

 

Articolo principale: Kawaii

Fenomeno moderno, dagli anni Settanta la graziosità o kawaii, (letteralmente amabile, grazioso o adorabile) è diventato un importante criterio estetico della cultura popolare giapponese, dell’intrattenimento, della moda, del cibo, dei giocattoli, dell’aspetto personale, del comportamento e del manierismo.19)

Come fenomeno culturale, la graziosità è sempre più accettata in Giappone come parte della cultura giapponese e dell’identità nazionale. Tomoyuki Sugiyama, autore di “Cool Japan” ritiene che la “graziosità” sia radicata nella cultura giapponese che ama l’armonia e Nobuyoshi Kurita, professore di sociologia alla Musashi University a Tokyo, ha dichiarato che “carino” è un “termine magico” che abbraccia tutto ciò quello che è accettabile e desiderabile in Giappone.20)

 

Traduzione di Mariella Minna


Iki (ideale estetico)

 Iki, è un ideale estetico tradizionale in Giappone. La base dell’iki si pensa si sia formata fra i cittadini comuni (Chōnin) a Edo nel periodo Tokugawa. Iki è talvolta compreso male come se indicasse semplicemente “qualsiasi cosa di giapponese” ma è in realtà un ideale estetico specifico, distinto dalle nozioni più eteriche di trascendenza o povertà. In quanto tale, i samurai, ad esempio in quanto classe, essere tipicamente considerati privi di iki (vedi yabo). Allo stesso tempo, i singoli guerrieri sono rappresentati spesso nell’immaginazione popolare contemporanea come incarnanti gli ideali dell’iki come maniera semplice ed elegante e con una sincerità schietta e incrollabile. Il termine si diffuse nei moderni circoli intellettuali attraverso il libro La struttura dell’”iki” (1920) di Kuki Shūzō.

 

Interpretazione

Iki, essendo emerso dalla mondana classe dei mercanti giapponesi, può apparire in qualche modo un’espressione più contemporanea dell’estetica giapponese dei concetti quali wabi-sabi. Il termine è utilizzato comunemente nelle conversazioni e per iscritto ma non esclude necessariamente altre categorie di bellezza.

 

Iki è un’espressione di semplicità, sofisticatezza, spontaneità e originalità. È effimero, romantico, diretto, misurato, audace, brillante e inconsapevole.

 

Iki non è esageratamente raffinato, pretenzioso, complicato, vistoso, abile, civettuolo o generalmente carino. Allo stesso tempo, l’iki può esibire qualsiasi di questi tratti in maniera brillante, diretta e impassibile.

 

Iki può significare un tratto personale, o un fenomeno artificiale che mostra la volontà o la consapevolezza umana. L’Iki non è utilizzato per descrivere i fenomeni naturali ma può essere espresso nell’apprezzamento umano della bellezza della natura o nella natura degli esseri umani. Murakami Haruki (nato nel 1949), che scrive in uno stile chiaro e senza fronzoli – a volte sentimentale, fantastico e surreale – è descritto come un’incarnazione dell’iki. In contrasto, Kawabata Yasunari (1899-1972) scrive in una vena più poetica, con un’attenzione più vicina al “complesso” interiore dei suoi protagonisti, mentre le situazioni e le ambientazioni presentano una sorta di wabi-sabi. Ciò detto, le differenze stilistiche possono tendere a distrarci da una soggettività emotiva similare. In realtà, l’iki è fortemente legato alle tendenze stilistiche.

 

Iki e tsū

L’ideale indefinito del tsū si può dire riferisca a una sensibilità altamente coltivata ma non necessariamente solenne. La sensibilità Iki/tsu resiste essendo stata costruita all’interno del contesto di regole ultra specifiche sul che cosa potrebbe essere considerato volgare o gretto.

L’iki e lo tsu sono considerati sinonimi in determinate situazioni ma lo tsu si riferisce esclusivamente alle persone, mentre l’iki può riferirsi anche alle situazioni/oggetti. In entrambi gli ideali, la proprietà di raffinatezza non è accademica per natura. Lo tsu coinvolge talvolta un’eccessiva ossessione e la pedanteria culturale (ma non accademica) e in questo caso, differisce dall’iki che non sarà ossessivo. Lo tsu è utilizzato, ad esempio, per sapere come apprezzare adeguatamente (mangiare) le cucine giapponesi (sushi, tempura, soba ecc.). Lo tsu (e qualche stile iki) può essere trasferito da persona a persona sotto forma di “consigli”. Mentre lo tsu è più focalizzato sulla conoscenza, potrebbe essere considerato superficiale dal punto di vista dell’iki, dal momento che l’iki non può essere raggiunto facilmente con l’apprendimento.

 

Iki e Yabo

Termine principale: Yabo

Yabi è l’antonimo di iki. Busui, letteralmente “non-iki”, è sinonimo di yabo.

 

Iki e Sui

Nell’area del Kansai, l’ideale del sui è prevalente. Sui è rappresentato anche dall’ideogramma “..”. Il senso di sui è simile all’iki ma non identico e riflette varie differenze regionali. Anche i contesti del loro utilizzo sono diversi.

 

Note

1. Gallaher, John. Geisha. A unique World of Tradition. Elegance and Art. p. 8

 

Traduzione di Mariella Minna


Mai mai scorderai, l'attimo, la terra che tremò

Con queste parole, sulle note di una indimenticabile sigla, arriva nel 1986 in Italia una delle serie che più ha lasciato il segno nell'immaginario collettivo e nel panorama dell'animazione degli ultimi trent'anni: Ken il Guerriero, in lingua originale Hokuto no Ken, letteralmente il pugno di Hokuto.

Già in quel periodo la TV italiana aveva trasmesso serie caratterizzate da personaggi cupi e violenti, come Devilman, l'Uomo Tigre e Bem. I ragazzi italiani quindi non erano del tutto a digiuno di scene di sangue o di violenza. Ken il Guerriero però era diverso.

E colpì tutti al cuore.

In un mondo futuristico post-atomico, Kenshiro, l'uomo dalle sette stelle, l'erede della divina scuola di Hokuto, inizia il suo cammino in un mondo in preda al caos. Alla ricerca della sua amata Julia, andrà in aiuto dei più deboli per difenderli dai soprusi dei più forti, per ridare al mondo la pace e agli uomini la speranza.

La storia di Ken infatti narra in maniera estremamente delicata e profonda l'eterna lotta tra il bene e il male. Racconta di un Buono che non è solo buono ma è umano, ama e uccide, soffre e lotta perché nessuno soffra più. Un personaggio all'apparenza molto freddo e schivo che non esita a schiacciare il nemico se merita di morire, ma è pronto a sacrificare la propria vita per l'amore stesso.

I temi dell'amore, della giustizia, della pace e dell'onore, raccontati attraverso una violenza continua, il sangue e la sofferenza (altri temi molto cari ai manga giapponesi), hanno portato la serie di Ken ad acquisire la fama che ancora oggi lo accompagna. Tutte le storie dei  personaggi principali della serie gravitano attorno all'amore che muove ogni cosa, l'amore che unisce un uomo e una donna, che lega due amici, o una madre al figlio. Anche i più crudeli avversari di Ken in punto di morte si pentono ed esprimono il rimpianto e la disperazione per non essere stati amati, e per avere rinunciato nella loro vita ad ogni forma d'amore.

Il messaggio di Kenshiro è un messaggio di pace, dell'importanza di amare il prossimo e, pur di proteggerlo, di non arrendersi di fronte a nulla – ad ogni costo. Il fatto che la violenza e la morte siano all'ordine del giorno nello scenario in cui si muove l'eroe è funzionale al suo percorso. Più le prove sono ardue, più il delitto è efferato, maggiormente il sacrificio di Ken assume contorni epici e quasi messianici: non a caso viene spesso chiamato il Salvatore.

Verso la metà degli anni '90, in un panorama televisivo che non era ampio come l'attuale e con la diffusione capillare di Internet ancora da venire, le forti immagini e situazioni proposte dalla serie – unite a episodi di cronaca nera in cui venne tirata in ballo la cattiva influenza di Ken sulle giovani menti – hanno spaventato reti televisive e genitori preoccupati, che reputarono la serie diseducativa e fonte di comportamenti antisociali. Sull'onda emozionale, le continue repliche sulle piccole emittenti locali venne interrotta più o meno bruscamente. Qualche anno dopo venne riproposta sulla neonata La7 ma pesantemente censurata e rimaneggiata nelle scene più cruente. Inutile dire che il successo non fu lo stesso; le nuove generazioni avevano già trovato altri eroi.

Sia quel che sia il personaggio di Ken divenne in poco tempo un'icona tra i più giovani e la sua storia, negli anni, è stata seguita e amata da più di tre generazioni. Il mondo del manga e dell'animazione deve un tributo a Buronson e Hara per aver creato un mito, non tanto per le soluzioni grafiche (comunque di rilievo) o per i dialoghi brillanti e profondi, quanto per aver creato un personaggio e una storia che parlano in maniera unica di valori universali e immortali. Un'opera che nel suo complesso rimarrà a lungo una pietra di paragone per chi ama, fa e legge fumetti.

 

Alessandro Castrati

Hokuto no Ken

 

1° edizione Manga:                                             1° trasmissione Anime (prima e seconda serie):

Autori: Buronson - Tetsuo Hara                           Studio: Toei Animation -Fuji Tv  (1984 -1988)

Ed. Shueisha (1983 -1988)

 

Ricordiamo con l'occasione che domani, domenica 13 maggio, continua l'evento Japan Sundays organizzato presso WOW Spazio Fumetto di Milano. Rimandiamo al nostro sito per ulteriori informazioni.


Kodomo no hi, la festa dei bambini

 Il 5 maggio è kodomo no hi (chiamato, tradizionalmente, tango no sekku), il giorno dei bambini. Cerimonie e feste in cui si augurano felicità e prosperità a tutti i maschietti si tengono in tutto il Giappone.

Nelle case vengono esposte armature o kabuto (elmi) a scopo beneaugurante, affinché i ragazzi sviluppino uno spirito guerriero forte e salutare. Le cosiddette gogatsu ningyō, le bambole di maggio, sono esposte su una piccola piattaforma a tre gradini su cui vengono sistemati un’armatura, un elmo, un tamburo e altri simboli dell’arte della guerra secondo la tradizione dei bushi. A volte la statua di un cavallo accompagna l’armatura: anticamente, infatti, la giornata era anche chiamata “festa del cavallo” poiché questo nobile animale simboleggiava nell’immaginario tradizionale le caratteristiche della mascolinità, del coraggio e della forza.

Durante kodomo no hi si appendono sulle porte di casa foglie di iris e di artemisia in segno di augurio e si prendono bagni caldi nelle vasche in cui galleggiano petali e foglie di iris affinché le foglie di questa pianta, la cui forma allungata e appuntita ricorda quella di una spada, instillino lo spirito combattivo di un guerriero in chi si vi immerge. Del resto la festa era anticamente chiamata anche shōbu no sekku, festa dell’iris. Anticamente era tradizione, nella prefettura di Hyōgo, nel Giappone centrale, di strappar fuori dalla terra delle radici di iris (shōbu) e sistemarle accuratamente in una corona verde facendone emergere due rizomi, simili alle corna di un toro. Si regalavano poi queste corone naturali ai maschietti che, indossandole per la giornata, avrebbero ottenuto la forza caratteristica di quell’animale.

Un altro costume legato a questo giorno di festa  è quello di  mangiare polpettine di riso avvolte in foglie bambù e chiamate chimaki e dolci di riso ripieni di pasta di fagioli azuki e avvolti in foglie di quercia, chiamati kashiwa mochi.

Ma un’altra tradizione legata a questa festa connota in senso fiabesco il paesaggio giapponese agli inizi di maggio.

Fuori dalle case, infatti, si espongono pali di bambù che recano stendardi colorati a forma di carpa (koinobori), tanti quanti sono i figli maschi e di grandezza proporzionata all’età dei ragazzi di casa. Tradizionalmente vanno legati a un pennone, detto fukinagashi, una carpa nera, rappresentante il padre, detta magoi, una carpa rossa per la madre, chiamata higoi e carpe più piccole, una per ogni figlio. La carpa che risale la corrente è infatti simbolo di resistenza e di forza e i ragazzi devono imitarla, affrontando con coraggio e ottimismo le difficoltà della vita.

Anche se è ormai molto raro che vengano utilizzate carpe di carta dipinte a mano mentre è capillarmente diffuso l’uso di carpe di cotone stampato e di nylon, non è difficile ancora ammirare, soprattutto nel Giappone rurale, carpe in cotone dipinte a mano di varie dimensioni e in bellissimi colori. Questi stendardi dalla forma particolare, che agitano la coda al minimo alito di vento, costituiscono un elemento caratteristico del paesaggio giapponese in questo scorcio di maggio e restano a lungo nella mente del viaggiatore come un’immagine di giocosa bellezza.

Rossella Marangoni

Sarà possibile ammirare un corredo di guerriero per la festa dei bambini durante la manifestazione Japan SunDays, che prevede dimostrazioni ed esposizioni di arti tradizionali giapponesi e che si terrà domenica 6 maggio presso WoW Museo del Fumetto di Milano, in viale Campania 12. Orario di apertura: 15-20. Ingresso libero.


Basta mettere i fiori dentro il vaso

 

Il chabana è spesso difficile e mi intimidisce abbastanza perché in realtà non ci sono molte regole, linee guida e procedure. Bisogna farlo e guardare i risultati, ripetendo di volta in volta.Il modo in cui sono disposti i fiori dice molto del padrone di casa.Attraverso la sua scelta dei fiori, del vaso e della disposizione, vediamo nel suo cuore.

Spesso, abbiamo poche scelte di fiori in inverno ma ora c’è abbondanza di fiori tra cui scegliere. Ne servono solo alcuni. Talvolta si è fortunati e gli abbinamenti si producono da soli. Ad esempio, ho avuto molto piacere per la disposizione di questo mese per la dimostrazione del tè del Giardino Giapponese di Portland.

Sono uscita di mattina presto nel mio quartiere per cercare i fiori per il chakai. Un mio vicino ha un’azalea molto grossa e gli ho chiesto se potevo raccoglierne qualcuna.Dopo aver ottenuto il permesso, ho visto questo ramo a cascata e l’ho portato nella stanza del tè per disporlo.

I fiori hanno una sfumatura leggermente rosata verso i bordi dei petali. Il ramo a cascata era sottostante il livello dell’apertura e il gambo era piuttosto corto e il vaso di bambù era perfetto. L’ho messo con attenzione nel vaso per guardarlo. Non ho fatto nient’altro dopo di ciò.  Non l’ho agitato, non l’ho ridisposto, non l’ho spuntato. I fiori e le foglie erano ancora umidi per la pioggia mattutina e la disposizione, benché un po’ selvatica, aveva un aspetto piuttosto innocente.

In questo caso la lezione per me è iniziare a disporre il chabana ancora prima di aver tagliato i fiori. Cercare e cercare i fiori e immaginare in quale vaso dovrebbero stare. Prima scegliere i fiori e poi il vaso.

Tradotto dal blog di Sweet Persimmon da Mariella Minna


L’iki e la modernità

 

L'”Iki” e la “modernità”, applicati al Kimono, sono difficili da spiegare – ma nella misura in cui la differenza fra i due termini esiste in maniera definitiva nel mondo del Kimono, questi due termini devono essere compresi se si deve parlare del Kimono o saperne qualcosa.

L’”Iki” nel caso del Kimono non significa la stessa cosa di una “persona chic” o avere “un bell’aspetto”. Fra le donne che indossano il Kimono, i termini  “Iki “ e “Shibui” e “moderno” sono utilizzati spesso. A parte da “moderno”, questi sono termini non applicati generalmente agli abiti in stile occidentale. Una rigida interpretazione di questi termini sembrerebbe renderli  l’antitesi del “moderno”, ma non è così dal momento che tali termini possono essere applicati al Kimono dei giorni nostri.

L’”Iki” non è in nessun modo qualcosa di vecchio. In ogni età, l’”Iki” esiste in una maniera adeguata a quell’epoca. Così, l’”Iki” è qualcosa che consente a una donna al passo coi tempi che può essere molto “moderna”, di dar abilmente vita a un’emozione che potrebbe a tratti essere considerata antica.

Da ciò possiamo dire che l’”Iki” non è in nessun modo qualcosa da considerare separata dalle mode. Al contrario, quello che è di moda può essere considerato “Iki”, Altrimenti, l’”Iki” diventerebbe meramente antico e fuori moda.

Ritengo che esempi del genere possano essere trovati in altri luoghi che nel Kimono giapponese. Direi che esiste fra gli uomini e le donne di tutto il mondo. L’attrice vamp americana Mae West è un’attrice “Iki”. La pistola e i pantaloni aderenti del dinoccolato cowboy americano, l’espressione delle mani parigine, la camminata di un inglese – tutto ciò è vicino a quello che trasmette il termine “Iki”.

Fra le donne giapponesi, ce ne sono alcune con le unghie pittate di rosso che indossano Kimono con il colletto nero. O quelle che indossano un Kimono a strisce sottili di antico design in maniera moderna.Queste sono le donne che raggiungono un effetto con un tocco di antico nel mezzo della regolarità o della moda prevalente.

Un altro termine applicato al Kimono giapponese è “Shibui”.

“Shibui” o “Shibusa” è una sensazione tipicamente giapponese. C’è quella famosa poesia haiku:

Furuike ya Kawazu tobikomu Mizu no oto.”

Tradotta letteralmente significa: “In un antico lago salta una rana – il suono dell’acqua.”

A meno che il significato di questa breve poesia possa realmente essere compreso, gli stranieri possono trovare difficile apprezzare il senso del “Shibusa”.

Applicato al Kimono, il termine “Shibusa” può essere spiegato al meglio con un Kimono di alto livello chiamato “Tsumugi”. A prima vista, questo è un tessuto dall’aspetto monotono. Comunque, per ottenere il colore e il motivo, ciascun singolo filo viene selezionato e tessuto a mano. Sia la sensazione che la trama hanno profondità. Senza essere vistoso, è autenticamente “Shibui”.

Perché, allora, consideriamo “Shibui” l’Haiku “In un antico lago salta una rana – il suono dell’acqua”? È perché un mondo di profondità è stato scoperto in una scena che la maggioranza delle persone considererebbe ordinaria e comune e forse addirittura la ignorerebbero, e perché è stato cristallizzato in una poesia cioè in ultima analisi in arte.

Ciononostante, dare semplicemente forma al luogo comune non è necessariamente “Shibui”.

Lo “Shibui” è in realtà un gusto lussuoso. È opposto a un tentativo di apparire migliori al fine di attrarre l’attenzione. È il valore inaspettato di qualcosa che non attira l’attenzione a distanza, qualcosa che appare splendido solo quando viene preso in mano per un’ispezione più da vicino. Invece di una eleganza esteriore, è una eleganza interiore.

Dal punto di vista dell’abbigliamento, “Shibusa” è forse più britannico nell’emozione di quanto non sia americano.

È solo naturale che qualcosa come il Kimono, cha ha una lunga tradizione dietro di sé, abbia sia lo “Shibusa” che l’”Iki”. E questi devono trovarsi non soltanto nel motivo e nel colore ma anche nella maniera di indossare per rendere il Kimono inusuale fra gli stili di abbigliamento del mondo.

Keiichi Takasawa

Traduzione di Mariella Minna