Furoshiki - L'arte del packaging ante litteram
L'imballaggio attraverso l'arte del furoshiki. La stoffa quadrata, preziosa e decorata utilizzata per avvolgere doni e oggetti quotidiani.
Il termine furoshiki indica un tessuto quadrato, più o meno decorato, utilizzato per avvolgere oggetti e scatole con diverse modalità di piegature e nodi, in modo da risultare sempre diverso e innovativo, ma comunque elegante. È un oggetto che dimostra la raffinatezza e il gusto estetico così sviluppati nella cultura giapponese. Scegliere e annodare un furoshiki è diventata un’arte che si tramanda di generazione in generazione.
Nel passato, durante il periodo Nara (710-784), questo era utilizzato per fasciare gli oggetti appartenenti alla famiglia imperiale. Successivamente, durante l'epoca Heian (794-1185) il suo uso si allargò fino a comprendere il trasporto e la conservazione dei kimono, utilizzati dai nobili di corte.
Tracce storiche dell’esistenza del furoshiki esistono a partire dal periodo Muromachi (1392-1573), quando i cortigiani erano soliti portarlo con sé al grande edificio termale costruito dal generale Yoshimitsu Ashikaga. Noto con il termine di hirazutsumi, questo antenato del furoshiki serviva a contenere il cambio di abiti da indossare dopo il bagno.
La parola tuttavia non esisteva ancora; la sua nascita risale al 1600, grazie all'atmosfera dei bagni pubblici. Il furoshiki che nasce dalle parole "furo" (bagno) e "shiki/shiku" (stendere), indica un precursore del moderno asciugamano, che veniva steso a terra per sedersi. In epoca Edo (1603-1868) diviene un oggetto fondamentale per la classe lavoratrice. Lentamente le sue dimensioni cambiano, adeguandosi alle misure di qualunque oggetto si voglia donare o trasportare in modo pratico.
Il furoshiki, alla fine dell'800, cadrà nell'oblio a causa dell'avvento delle buste di plastica. I temi centrali degli ultimi anni, come l'inquinamento ambientale, portano però a una sua riscoperta. Grazie alla coscienza ecologista formatasi, diventa il simbolo dell'imballaggio ecosostenibile, visto che risulta compatto e riutilizzabile, andando a imporsi sulle buste di plastica.
Il furoshiki può essere considerato un antenato del packaging, e oggi presenta una varietà esorbitante di fantasie, dimensioni e materiali. Per i giapponesi questo risulta fondamentale visto che, secondo la loro cultura, è considerato irrispettoso regalare un oggetto che non sia adeguatamente confezionato.
Per informazioni sul corso di furoshiki del 14 dicembre cliccate qui.
Marianna Scardeoni
Un tanka alla settimana
"Si dice "ieri",
si vive "oggi", e via,
come l'acqua del fiume Domani,
sì veloci scorrono i giorni e i mesi."
"Kinō to ii
kyō to kurashite
Asukagawa
nagarete hayaki
tsukihi narikeri"
昨日といひ
今日とくらして
あすか河
流れてはやき
月日なりけり
Harumichi no Tsuraki
Un tanka alla settimana
“Le lacrime, che verso
nel desiderio di te, hanno inondato
il mio giaciglio; e così ora
mi ritrovo un segnale di rotta
eroso dalla marea dei sospiri d’amore.”
“Kimi kouru
namida no toko ni
michinureba
miotsukushi to zo
ware wa narikeru”
きみ恋ふる
涙のとこに
満ちぬれば
みをつくしとぞ
我はなりける
Fujiwara no Okikaze
"Aki no aware": la compenetrazione emotiva nell’autunno di Dolls e Little Forest
Siamo agli albori dell’XI secolo, quando la dama di corte Murasaki Shikibu compone ciò che i critici letterari contemplano come primo esempio di romanzo psicologico, nonché cardine della letteratura giapponese: ci riferiamo senza dubbio al Genji monogatari. Uno dei maggiori contributi dell’opera, che ruota intorno alle vicende amorose del “Principe Splendente”, è quello di aver riportato in auge un concetto basilare dell’estetica giapponese, il mono no aware.
Nel Genji monogatari, infatti, questo termine raggiunge la massima espressione, acquisendo una rinnovata definizione. Più che concetto estetico volto a sottolineare una bellezza che desta un coinvolgimento personale alla vista, il mono no aware assume un carattere di melancolia derivante dalla consapevolezza che ciò che si osserva sarà destinato a sfiorire.
La “sensibilità (aware 哀れ) delle cose (mono 物)” delinea così una percezione che accomuna ciascun soggetto nella partecipazione emotiva alla trasformazione degli elementi naturali nel tempo. Alla base della cultura estetica, della poesia e della letteratura giapponese, questo concetto ha fortemente influenzato anche gran parte delle opere cinematografiche moderne e contemporanee.
Registi del calibro di Mizoguchi Kenji e Ozu Yasujirō, in film come Tarda primavera (Banshun, 1949) e Tardo autunno (Akibiyori, 1960), hanno tentato di suscitare l’empatia dello spettatore nei confronti dei personaggi attraverso una poetica incentrata sull’ordinarietà della vita quotidiana e l’inevitabile susseguirsi delle stagioni. E di certo, a rivelare maggiormente la sensazione di caducità, disillusione e isolamento dell’essere umano nel suo rapporto complesso con la natura è, tra tutte le stagioni, l’autunno (aki 秋).
Il capolavoro Dolls (2002), diretto da “Beat Takeshi” Kitano, ne è una chiara testimonianza. Il film si svolge su un intreccio di tre vicende che indagano il tema dell’amore. Quello rappresentato da Kitano, però, non è l’amore ardente e impulsivo che prelude a un intuibile lieto fine. Al contrario è silenzioso e all’apparenza celato, tuttavia carico di una potenzialità emotiva che sfocia in disperazione, follia e inevitabilmente violenza.
In particolare, la condizione di incomunicabilità che affligge i personaggi (tematica affrontata in modo magistrale da Michelangelo Antonioni nel cinema italiano) è evidente nel primo episodio, il più emblematico. I due “vagabondi legati”, Matsumoto e Sawako, iniziano infatti un lento cammino senza meta, quasi come unica reazione possibile a un legame ormai compromesso. E’ in questo processo di accettazione del destino che il senso di solitudine, il silenzio e la frustrazione prendono il sopravvento sulle personalità dei personaggi, indifferenti alle risa dei passanti e all’incessante scorrere del tempo.
La cura dell’altro e la dipendenza reciproca generano così un progressivo autoannullamento dei due innamorati, fisicamente legati soltanto da una corda rossa durante l’intero cammino. Nessuna possibilità di evasione, ma in fin dei conti nessuna vera intenzione. Qui l’allusione romantica del regista è riconducibile al “filo rosso del destino” (Unmei no akai ito), una leggenda popolare cinese diffusa in Giappone secondo cui ogni persona è legata alla propria anima gemella da un indistruttibile filo rosso.
Il principale riferimento culturale della pellicola, da cui la scelta del titolo, riguarda però le marionette dello spettacolo bunraku. Il film si apre infatti con una scena dell’opera teatrale I Messi dell'Inferno (Meido no hikyaku) di Chikamatsu Monzaemon. E’ proprio il drammaturgo del periodo Edo, ribattezzato lo "Shakespeare del Sol Levante", ad aver rappresentato in alcuni suoi drammi la pratica dello shinjū (心中), letteralmente il “doppio suicidio d’amore”.
La totale assenza di dialogo o di contatto fisico definisce così l’apatica fuga delle “bambole”, che percorrono le quattro stagioni tra giardini in fiore, spiagge deserte, boschi autunnali e interminabili distese di neve. E dove non riescono i personaggi nell’intento di esprimere le proprie emozioni, il compito è lasciato all’impatto visivo della natura e dei suoi colori ricorrenti, primo su tutti il rosso della foglia d’acero che percorre le vicende trasportata dal fiume, creando una perfetta analogia con il sangue sull’asfalto.
Insomma, più mono no aware di così, si muore.
L’imprescindibile legame tra essere umano e natura è tema fondamentale anche in Little Forest di Mori Jun'ichi, una miniserie basata sull’omonimo “slice of life” manga di Igarashi Daisuke. Complessivamente, l’opera è divisa in 2 parti: Summer/Autumn (2014) e Winter/Spring (2015).
Il racconto si svolge nella fittizia e circoscritta comunità di Komori (“piccola foresta”) nella regione del Tōhoku, dove la giovane Ichiko, interpretata dall’incantevole Hashimoto Ai, vive da sola in seguito all’inaspettata partenza della madre. In totale armonia con l’ambiente rurale che la circonda, Ichiko è immersa nelle tradizioni culinarie giapponesi e si dedica con meticoloso impegno a tutte le attività agricole necessarie per il proprio sostentamento. In base alle variazioni climatiche scandite dalla graduale evoluzione delle stagioni, la protagonista ci mostra la ripetitività delle azioni quotidiane nella vita agreste, come la coltivazione del riso, il taglio del legname e infine la preparazione dei piatti.
Anche Little Forest presenta pochissimi dialoghi, perlopiù inerenti agli incontri di Ichiko con gli amici Yūta e Kikko e con gli altri abitanti della comunità. Gran parte del parlato consiste di fatto in monologhi e descrizioni dettagliate delle ricette e dei metodi agricoli, nonché commenti conclusivi sulla riuscita o meno dei piatti. A intervallare i momenti di solitudine sono alcuni flashback, in cui la ragazza ricorda gli insegnamenti di cucina della madre, e gli autoreferenziali “itadakimasu” pronunciati prima delle degustazioni.
Nonostante lo stile pressoché documentaristico del film e la staticità generale della trama, Little Forest offre una miriade di spunti riflessivi. Innanzitutto, l’opera rimanda implicitamente alle differenze di vita tra campagna e città, un leitmotiv del cinema giapponese moderno. Ichiko mostra infatti sentimenti contrastanti riguardo al suo ritorno nel paese natale, una scelta perlopiù forzata, e rivela in varie occasioni le sue incertezze riguardo a una permanenza futura.
Accompagnato da una colonna sonora piuttosto suggestiva e da favolose immagini dei paesaggi circostanti, il film espone così il conflitto interiore della giovane nel suo delicato viaggio introspettivo alla ricerca di un posto nel mondo, nella costante riflessione su una possibile ricongiunzione con la madre.
Decisamente consigliato per gli appassionati di cucina giapponese. Come afferma Ichiko nell’episodio dedicato all’autunno, “nel periodo in cui gli alberi cambiano colore, le castagne candite diventano protagoniste”. Un invito da cogliere al volo, no?
Lorenzo Leva
Lorenzo Leva nasce a Fermo nel 1990 ed è laureato in Lingue, Mercati e Culture dell’Asia (Università di Bologna). Ha approfondito le sue conoscenze riguardanti l'economia, la cultura e la società giapponese durante un periodo di sei mesi presso la Université Paris Diderot-Paris VII di Parigi, con un Master in Asian Studies presso l'Università di Lund e un'esperienza di fieldwork presso la Waseda University a Tokyo.
Coltiva da anni una forte passione per il cinema orientale e giapponese in particolare, di cui ha analizzato l’evoluzione e le caratteristiche.
Contatti:
lorenzo.leva@gmail.com
Un tanka alla settimana
"Stacchiamo dai rami
le foglie autunnali
e portiamole via nelle maniche,
per mostrarle a chi pensa
che già l'autunno sia alla fine."
"Momojiba ha
sode ni kokiirete
mote idenamu
aki wa kagiri to
mimu bito no tame."
もみぢ葉
袖にこきいれて
もていでなむ
秋は限と
見む人のため
Sosei
Un tanka alla settimana
Indugerò ad ammirare,
prima di guardare,
le foglie d'autunno,
ché sebbene cadano come pioggia,
il fiume mai sarà in piena.
Tachitomari
mite o wataramu
momijiba wa
ame to furu tomo
mizu wa masaraji
立とまり
見てをわたらむ
もみじ葉は
雨と降るとも
水はきさらじ
Oshikoshi no Mitsune
Kintsugi - L'arte di riparare l'arte
Kintsugi (dal giapponese kin 金 (oro) e tsugi 継ぎ (riparare) è una tecnica artistica giapponese nata alla fine del 1400 con la quale si utilizza l'oro - o un altro metallo prezioso - per saldare insieme frammenti di un oggetto rotto. Dalla sua terra d'origine, il Giappone, si è rapidamente diffusa in tutto il mondo. Anche in Italia, naturalmente, è conosciuta e apprezzata. Scopriamola insieme.
Kintsugi è una tecnica artistica ideata alla fine del 1400 da ceramisti giapponesi per riparare tazze tenmoku in ceramica per la cerimonia del tè (Cha no yu). Le linee di rottura, unite con lacca urushi, sono lasciate visibili, evidenziate con polvere d’oro. Gli oggetti in ceramica riparati con l’arte kintsugi, diventano vere opere d'arte. Impreziosirle con la polvere d'oro ne accentua la loro bellezza, rendendo la fragilità un punto di forza e perfezione.
L’arte kintsugi vede la sua origine in Giappone nel periodo Muromachi, sotto lo shogunato di Ashikaga Yoshimasa (1435-1490). Yoshimasa ruppe una delle sue tazze tenmoku che venne affidata a ceramisti cinesi che la cucirono, seguendo le linee di rottura, con graffe in ferro. Furiosa fu la reazione dell'ottavo shogun quando vide la sua tazza così rovinata. I maestri ceramisti giapponesi cercarono di mettervi riparo usando l'estetica del wabisabi e i materiali a loro disposizione. Per incollare i pezzi rotti del tenmoku venne usata la lacca urushi; le linee di rottura vennero ricoperte con polvere d'oro. Il risultato ottenuto fu apprezzato da Yoshimasa: la sua tazza non solo era stata riparata ma aveva preso una vita nuova, carica delle sue imperfezioni e proprio per questo ricca di bellezza: era diventata unica.
Kintsugi è una tecnica complessa: abbisogna di elevata manualità e di precisione, nonché calma e pazienza. I materiali usati sono la lacca urushi, estratta dalla pianta autoctona Rhus Verniciflua (tomoko), farina di riso o di grano, polvere d'oro, bronzo e argento. Il processo di essiccazione della lacca, che viene usata e come collante per la ceramica e come collante per la polvere d'oro, avviene nel muro, un ambiente caldo (20°) con umidità relativa intorno al 70-90%. Il tempo di essiccazione varia da tre giorni a una settimana. Le linee di rottura prima stuccate e carteggiate, vengono rifinite con lacca urushi rossa a pennello su cui si lascia cadere la polvere d'oro.
L'arte kintsugi non è solo un concetto artistico ma ha profonde radici nella filosofia Zen; partendo dal wabisabi, tre sono i concetti in essa racchiusi: mushin, impermanenza (o anicca) e mono no aware. Mushin, senza mente, è un concetto che esprime la capacità di lasciare correre, dimenticando le preoccupazioni, liberando la mente dalla ricerca della perfezione. Anicca si traduce con impermanenza; l'esistenza, senza eccezioni, è transitoria, evanescente e inconstante: tutte le cose sono destinate alla fine. Accettare tale condizione è avere un approccio sereno e consapevole della vita.
Mono no aware, empatia verso gli oggetti, è una malinconia triste e profonda per le cose; apprezzandone la loro decadenza si arriva ad ammirarne la bellezza.
Chiara Lorenzetti
https://www.kintsugi.chiaraarte.it
Un tanka alla settimana
"La montagna d'autunno
offre foglie radiose
al dio del viaggio,
ed io pure, che ci vivo,
mi sento viandante."
"Aki no yama
momiji wo nusa to
tamukureba
sumu ware sae zo
tabikokochi suru"
秋の山
もみぢをぬさと
たむくれば
住む我さへぞ
旅心地する
Ki no Tsurayuki
Intervista a Hiromi: "La mia casa è il palcoscenico"
Hiromi Uehara è una delle pianiste giapponesi più famose e apprezzate. Autrice di uno stile jazz personalissimo, si distingue - oltre per la capigliatura "esplosiva" - per l'energia che mostra sul palco e per il suo uso assolutamente non convenzionale dello strumento pianoforte. L'abbiamo raggiunta nel backstage del Blue Note di Milano, in occasione del suo concerto dello scorso 7 ottobre, per farle qualche domanda e conoscerla meglio. Ecco cosa ci ha raccontato!
Ciao, Hiromi! Benvenuta su Giappone in Italia. Come stai?
Bene! Grazie per l'intervista!
Iniziamo subito. Sei venuta tante volte a suonare in Italia. Cosa ne pensi del nostro paese? Com'è suonare qui?
È davvero un paese meraviglioso. C'è tanta passione per la musica, che dimostrate continuamente. Il pubblico italiano è molto emotivo e caloroso e questo lo si sente sul palco. In più in Italia avete un'ottima cucina. Musica e cucina sono le mie due più grandi passioni, quindi è proprio il paese che fa per me. [ride]
Come sta andando il tour con Edmar Castañeda?
Sta andando benissimo. Sai, quando la gente sente parlare di un duetto di piano e arpa, prima di sentirci suonare, spesso si chiede "Piano e arpa? Insieme? Cosa possono offrire?". È davvero una combinazione unica, che molte persone non hanno mai avuto modo di ascoltare. Poi, quando arrivano allo show, si sorprendono di quello a cui stanno assistendo. Probabilmente non si aspettano che un'arpa possa venire suonata in quel modo. Nemmeno io me lo immaginavo prima di conoscere Edmar. [ride] Ed è stupendo assistere alle loro reazioni. Prima sono quasi shockati, poi lo stupore lascia spazio alla gioia. È quello che succede quando si scopre qualcosa di totalmente nuovo. Come in un'avventura.
Quando è iniziata la vostra collaborazione?
Ci siamo conosciuti nel 2016 a Montreal, dove ci siamo trovati a condividere il palco. Era la prima volta che lo vedevo e sono rimasta a bocca aperta sentendolo suonare. E anche per lui è stato lo stesso. Mi ha sentito suonare per la prima volta ed è rimasto molto sorpreso. Ci siamo scambiati i contatti con la promessa di suonare insieme poi in futuro. Un mese dopo, avevo uno spettacolo al Blue Note di New York, così l'ho invitato a suonare come special guest. Si è creata una connessione magica così ci siamo detti "dobbiamo assolutamente andare in tour insieme!".
Pensi anche che la musica che suonate abbia finito per influenzarvi reciprocamente?
Oh, sì. Naturalmente. È normale quando passi tanto tempo con una persona influenzarsi a vicenda.
La tua musica è molto ricca e variegata. Si possono riconoscere tantissime influenze. Quali sono le tue maggiori fonti di ispirazione?
Ce ne sono troppe! [ride] Tutti quelli che ci sono sui muri del Blue Note, hai visto le foto? [ride] [Ndr: Hiromi si riferisce alle gigantografie di numerosi musicisti jazz che adornano le pareti del locale]. Vedi, tutte le volte che ascolto della musica, imparo qualcosa di nuovo. I primi due pianisti che ho ascoltato, quando a otto anni prendevo lezioni di pianoforte, sono stati Errol Garner e Oscar Peterson. Entrambi mi hanno insegnato un'importante lezione, quando si parla di improvvisazione. Sono anche andata in tour con Peterson, anche se non abbiamo mai suonato insieme. È stata una grande emozione.
Puoi descriverci il tuo processo creativo? Da cosa trai ispirazione per nuove idee, quando stai scrivendo dei nuovi brani?
Tento di scrivere nuova musica tutti i giorni, proprio come se stessi tenendo un diario. È come se la mia musica fossero le parole del mio diario. Voglio sempre scrivere e così cerco continuamente nuove esperienze che possano emozionarmi e che possano essere fonte d'ispirazione.
Hai intenzione di collaborare con altri artisti in futuro?
Naturalmente. Non so ancora chi sono destinata a incontrare o quando, ma so che saprò riconoscerlo all'istante non appena inizierà a suonare. E quando inizieremo a collaborare è come se suonassimo insieme da sempre.
Sei sempre in tour in giro per il mondo, viaggiando da un continente all'altro. In che modo questo stile di vita influenza la tua sfera personale?
La mia vita personale? Ma la trascorro tra hotel e aerei. [ride]. Non posso certo dire che sia una vita facile, sempre in viaggio. Ma amo esibirmi nei miei show, è il momento in cui mi sento più viva. Ogni volta che salgo su un palcoscenico diverso, appena vedo il mio pianoforte, è come se fossi a casa mia. È una sensazione che cerco di trasmettere anche a chi mi ascolta. Voglio poter dire al mio pubblico "Benvenuti a casa di Hiromi!".
Ultima domana. Sei giapponese: pensi che la cultura o la tradizione musicale del tuo paese abbiano mai influenzato la tua musica?
È una cosa a cui non ho mai pensato. Sicuramente non cerco di inserire artificiosamente nella mia musica elementi che possano far dire "è una pianista giapponese" ma, allo stesso tempo, penso che ci siano delle caratteristiche intrinseche alla mia musica che derivano dal mio "essere giapponese" e che la gente riconosce come tali. Per esempio, quando incontro una persona nuova, mi inchino. Ma non è per far vedere che sono giapponese, ma semplicemente perché sono giapponese e inchinarsi è una conseguenza. Sono fatta così. La "giapponesità" è dentro di me e di conseguenza nella mia musica, anche se non voglio inserirla forzatamente. Dovete solo trovarla! [ride] Non voglio né nascondere, né mettere in mostra la mia giapponesità. Sono così. Sono Hiromi.
Grazie per quest'intervista, Hiromi. È stata davvero interessante. Vuoi lanciare un messaggio ai nostri lettori prima di salutarci?
Ogni cultura è straordinaria e ogni cultura è differente. Ad esempio, l'Italia e il Giappone sono estremamente diversi, ma ci sono tanti aspetti in comune. Dobbiamo cercare di mettere in evidenza gli aspetti migliori di ogni cultura.
Un tanka alla settimana
"Soffia il vento
e cadono le foglie d'autunno
nell'acqua sì limpida
che pur le fronde sospese
si riflettono tremule sul fondo."
"Kaze fukeba
otsuru momijiba
mizu kiyomi
chiranu kage sae
soko ni mietsutsu."
風ふけば
落つるもみぢば
水きよみ
ちらぬかげさへ
底に見えつつ
Oshikoshi no Mitsune