Contemplare il vuoto: spunti di riflessione attorno al giardino zen (3)
III
Se la vista di un giardino zen suscita nell’osservatore una ridda di ipotesi circa il significato da attribuire alla distesa di sabbia rastrellata piuttosto che alla scelta e alla collocazione delle pietre, possiamo a buon diritto affermare che pone a colui che lo ammira gli stessi quesiti su cui dibattono da secoli gli studiosi. Quale è il significato delle pietre e perché i gruppi sono collocati in quel particolare modo? Che significato si nasconde dietro alla distesa di ghiaia e ai disegni che i monaci vi tracciano con il loro rastrello? Per secoli gli studiosi hanno formulato tesi interpretative, più o meno plausibili, molte delle quali sono presentate nel saggio di Harold Stewart, By the Old Walls of Kyoto e, in italiano, nell’illuminante San Sen Sou Moku di Sachimine Masui e Beatrice Testini. Nelle pietre e nelle onde tracciate nella ghiaia dai rastrelli dei monaci si sono lette metafore, si è creduto di vedere montagne emergere da un mare di nubi, cuccioli di tigre affrontare i marosi, fiumi scaturire e tuffarsi in un calmo oceano, li si è interpretati come la massima realizzazione dell’esperienza del vuoto, vi si sono individuati giochi di frattali. Eppure la natura imperturbabile di questi giardini pone l’osservatore di fronte al dubbio circa il significato cui pensavano i loro creatori. E se non vi fosse alcuna spiegazione precostituita? Del resto è quello che sostiene anche un noto studioso, Itō Teiji:
“Guardando un karesansui, è quasi impossibile per noi comprendere la vera intenzione dei vecchi monaci zen. Nonostante ciò, questo giardino ha la forza di toccare il cuore dell’osservatore di oggi. Sappiamo bene che i karesansui, con la sua serenità, ci offre l’opportunità di riflettere su noi stessi. Non è facile comprendere il segreto grazie al quale i karesansui ci pone in un tale stato psicologico. Anzi, si può dire che qualunque spiegazione vada bene.”
Ma, al di là delle ipotesi, il giardino zen sembra scuotere le nostre certezze aprioristiche. Si consideri ad esempio lo stesso giardino del Ryōanji.
Prima di avventurarsi in qualsiasi interpretazione, occorre forse tenere presente l’aspetto che doveva avere in origine, come ci spiega l’architetto Hayakawa Masao:
“Anche se il giardino risale alla fine del XV secolo, differiva radicalmente dalla composizione senza alberi e senza erba che vediamo oggi, perché con tutta probabilità il centro dell’attenzione visiva del progetto originale era un gruppo di magnifici ciliegi. È documentato, infatti, che nel tardo XVI secolo il dittatore Toyotomi Hideyoshi visitò il Ryōan-ji per vedere i ciliegi in fiore e scrivere poesie. Come risultato della sua visita un albero, conosciuto come” il ciliegio di Hideyoshi”, divenne la maggiore attrazione del giardino. i resti di questo albero sono ancora visibili nell’angolo nord-occidentale del giardino, in un punto dove non disturbano seriamente la composizione. Poiché documenti che insistono sul particolare interesse delle pietre non compaiono fino al XVII secolo, possiamo dedurre che fino ad allora i ciliegi costituivano il punto focale della composizione e che le pietre ne erano sono un elemento accessorio. Dopo la morte degli alberi, forse qualcuno, scoprendo l’interesse dei gruppi di pietre in se stessi, costruì muri di recinzione in argilla e tegole a sud e a ovest, eliminò tutte le piante dal giardino eccetto il muschio che cresceva attorno alle pietre, concentrando così l’interesse sulle pietre e sulla sabbia.
Se questo è ciò che è effettivamente accaduto, l’attuale aspetto del giardino differisce profondamente da ciò che era stato concepito dal suo anonimo creatore. Ciò nonostante, il suo spirito e il suo talento artistico devono essere stati davvero grandi per aver prodotto un giardino che non merita semplicemente ammirazione, ma che appare fresco e splendido persino dopo essere stato ridotto a nient’altro che pietre e sabbia. In altre parole, il progetto del suo ideatore per la collocazione delle pietre andava al di là di ciò che avrebbero richiesto dei semplici elementi di contorno. La sua abilità rivela una raffinatezza spirituale che poteva appartenere solo a un maestro zen di grande sapienza e virtù.”
Essendo destinati alla meditazione, o forse, meglio, alla disciplina, nessun sentiero percorre i giardini secchi, piuttosto, devono essere mezzo di contemplazione della natura. Sono allora disposti in maniera tale che non vi si deve sentire una volontà umana: devono al tempo stesso simboleggiare e rappresentare la natura. Ma questa è solo una delle ipotesi interpretative che si possono fare, ammirandoli. In realtà, qualsiasi conclusione può apparire fuorviante e nessuna speculazione sarà, se ci si attiene allo spirito dello Zen, adeguata. Perché, anche se si trovano nei monasteri, i giardini zen non hanno che una debole colorazione religiosa. Per gli adepti dello zen, l’arte non può trasmettere la Verità. Non è che attraverso la meditazione e le attività manuali che si può accedere alla Conoscenza. Così, è progettando un giardino o prendendosene cura ad esempio rastrellandone la superficie o ripulendola dalle foglie cadute dagli alberi delle vicinanze che si pratica lo Zen.
La testimonianza del maestro zen Shunmyō Masuno (nato nel 1953), autore di numerosi giardini in Giappone, in Indonesia e in Europa, suffraga l’ipotesi di uno stretto rapporto fra creazione di un giardino e pratica religiosa. Egli afferma: “Musō Kokushi disse: “Non vi sono vantaggi o svantaggi nel giardino in sé; essi si trovano nel cuore-mente delle persone.” Significa che è più importante il cuore che cerca il dō, la Via, nell’atto di creare il giardino, piuttosto che la tecnica per realizzarlo. Ciò che io perseguo è ciò a cui Musō Kokushi mirava nel creare il giardino. Quando progetto un giardino penso sempre che quel momento è per me un momento di allenamento. Non cambierò mai questo atteggiamento. […] Quando creo un giardino, il risultato non supera mai le mie capacità. Il giardino realizzato è il mio essere in quel momento, l’insieme dei miei allenamenti fino ad allora. Il giardino è un’altra immagine di me stesso, lo specchio del mio cuore. Se penso a cose volgari, il giardino diventa volgare. Se io sono immaturo, il giardino risulta immaturo. […] Non solo, ma anche quando osservo il giardino di un vecchio maestro, riesco a vederne solo quanto il livello delle mie capacità mi permette di vedere. Quando visito lo stesso giardino dopo un po’ di tempo, c’è sempre qualche nuova sensazione e l’emozione di nuove scoperte. Per me, creare il giardino e ammirare il giardino è sempre un momento di allenamento, e qualsiasi luogo è dōjō.”
Se resta oscuro il pensiero degli antichi maestri all’origine della creazione dei giardini, ci è però possibile far ricorso alle idee dei progettisti contemporanei per cogliere l’essenza del giardino giapponese nel nostro tempo.
Per Shunmyō Masuno, ad esempio, i punti essenziali del giardino giapponese contemporaneo, e di quello zen in particolare, sono:
- Spazi vuoti; con un’attenzione non solo alle forme degli elementi collocati ma anche allo spazio che li circonda. È attraverso gli spazi vuoti che il designer comunica ciò che vuole trasmettere.
- Auto-espressione di colui che li progetta, del suo io interiore.
- Egualitarismo. Tutti i componenti del giardino sono scelti per completarsi a vicenda, senza gerarchie. Ad ognuno è demandato di esaltare le proprie qualità e quelle degli altri elementi (alberi, rocce, cespugli). Anche le costruzioni, anche gli uomini sono visti come parti del giardino e della natura. Si tratta di una relazione simbiotica in cui ogni elemento concorre a esaltare l’altro.
- Impermanenza. Il giardino come luogo per fare esperienza dell’impermanenza. Per contemplarla.
- Rispetto. In ogni cosa, secondo lo Zen, è presente la natura-di-buddha. Il progettista avrà cura di rispettare ogni elemento e di essere grato per l’opportunità che gli viene data di permettere a ogni elemento di esprimersi.
Rossella Marangoni
www.rossellamarangoni.org