Una tradizione vivificante: per una introduzione al teatro giapponese
Foto di Flavio Gallozzi
Il panorama teatrale giapponese si muove su un percorso caratterizzato da una duplice direttrice: il primato della rappresentazione sulla scrittura drammatica e la coesistenza di una grande tradizione classica in cui sono conservate forme antiche (il nō, il kyōgen, il kabuki e il jōruri) e di una ricerca tutta contemporanea di nuove forme della rappresentazione: dallo shinpa e dallo shingeki o “nuovo teatro” sviluppatesi fra la fine del XIX secolo e la prima metà del secolo successivo, alle avanguardie della seconda metà del XX secolo, sino agli esperimenti della scena contemporanea, la commistione dei generi, l’interesse per forme nuove della rappresentazione che devono molto alla televisione e alla cultura pop.
Il teatro giapponese è un teatro di performance, un teatro in cui il gesto, la forma codificata dalla tradizione (il kata), la corporeità dell’attore, il suo gioco sulla scena hanno la meglio sulla parola, sul testo. Questo è vero almeno sino alla fine del XIX secolo, quando le opere teatrali iniziarono ad essere apprezzate anche per il valore intrinseco del testo e scritte per la lettura e non solo per la rappresentazione. Tuttavia i costumi sfarzosi del teatro classico, le scene rutilanti del teatro popolare, tutto concorre ad esaltare la figura dell’attore, la sua fisicità, il suo fascino.
L’origine del teatro in Giappone è ascrivibile al mito e va collegata al mondo del sacro. La prima rappresentazione è infatti quella che compie una dea, Uzume, la cui danza sfrenata incuriosisce la dea del Sole, Amaterasu, rinchiusasi per dispetto in una caverna e spinta dalla curiosità ad uscire per ammirare lo spettacolo. La pantomima lasciva della dea ottiene il ritorno della luce nel mondo e scatena il riso nel consesso dei kami celesti.
Il teatro è allora in primis una faccenda che riguarda gli dei. Ma questa danza mitica è ripresa e rivissuta nelle antiche danze cerimoniali che si compivano all’interno dei recinti dei santuari shintō. Diventa allora, la rappresentazione, luogo di incontro fra l’uomo e il divino. Nel corso dei secoli le danze acquisteranno via via un carattere profano e di puro intrattenimento, una faccenda di scimmie (sarugaku) che sberleffano e muovono al riso. Finchè comparirà una forma depurata, raffinata di rappresentazione, il nō, che accoglierà le istanze del pensiero buddhista e caricherà i gesti, i passi e la declamazione di significati profondi e di storie di spiriti inquieti, di fantasmi, di creature che vivono sospese fra il mondo degli uomini e l’aldilà. In un perenne dialogo fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Mentre lo sberleffo del kyōgen, l’interludio comico che si incunea fra i drammi nō all’interno di una giornata di rappresentazioni, resuscita lo spirito irriverente delle antiche danze.
Saranno poi le forme classiche a venire, il teatro della marionette jōruri prima e il kabuki poi, a farsi carico delle esigenze di divertimento di un nuovo pubblico, quello del popolino delle città. Non più o non solo i racconti epici di guerrieri morti in preda all’ira, di spiriti vendicativi, di principesse possedute dal demone della gelosia, ma drammi domestici, storie d’amore contrastato, episodi della cronaca cittadina rielaborati per il palcoscenico ed esaltati da attori venerati come idoli. Il teatro è ormai divertimento profano.
I nuovi generi che compariranno sulle scene giapponesi a partire dal periodo Meiji (1868-1912) non si sostituiranno alle grandi forme classiche ormai codificate dalla tradizione. La compresenza di passato e futuro, in Giappone, caratterizza anche il panorama delle arti performative, come molti altri ambiti. La capacità di rinnovare i linguaggi passa anche dall’utilizzo costante del serbatoio della tradizione come di una linfa vivificante.
Rossella Marangoni