Alla scoperta del buddhismo grazie ai tesori nascosti del Mao

Secondo un recente studio sui più importanti musei del mondo, vi è una quantità spropositata di opere d’arte che non vengono esposte, e che rimangono senza che nessuno possa vederle nei grandi depositi di queste istituzioni.

Ciò nasce dal fatto che a partire dal Seicento, quando le prime collezioni d’arte hanno cominciato a essere accessibili al pubblico, i musei hanno accumulato grandi quantità di opere al servizio della collettività, più di quante potessero effettivamente esporne. Così i beni acquisiti attraverso donazioni da privati o sul mercato dell’arte finiscono per rappresentare un enorme patrimonio non fruibile dal pubblico.

Per questo motivo, i musei hanno iniziato ad esporre a rotazione le opere più rilevanti, mentre quelle di nicchia tendono a non lasciare mai i depositi, a meno che non abbiano bisogno di interventi conservativi.

È questo il caso dell’esposizione al MAO, Museo d’Arte Orientale di Venezia, dal titolo “Tesori nascosti. Un’opera al mese dei depositi” che vede in mostra per un tempo limitato due sculture legate al buddhismo giapponese.

Si tratta di due statue di Kannon risalenti ad un periodo a cavallo del VII e VIII secolo in lacca dorata, recentemente restaurate, che saranno visibili al pubblico sino metà ottobre.

Entrambe le opere rappresentano la figura Avalokiteśvara, il bodhisattva della grande compassione, la cui origine è ancora tutt’oggi controversa.  Numerosi sono, infatti, i dubbi sull’esatta provenienza geografica del suo culto. La maggioranza degli studiosi ritiene che derivi dalle comunità buddhiste collocate ai confini nord-occidentali dell’India, altri invece credono che si colleghi alla tradizione religiosa iranica. Sta di fatto che, come è successo per altre figure religiose, il suo credo si è espanso fino ad arrivare negli angoli più remoti dell’Asia orientale, venendo indicato dalle popolazioni stesse con epiteti differenti, ma con un significato comune.  Avalokiteśvara, in sanscrito, Guānyīn in cinese, Gwan-se-eum in coreano, Quan Âm in vietnamita e Kannon in giapponese sono tutti appellativi che richiamano i valori della compassione e della misericordia, per cui il bodhisattva viene ricordato e venerato.

Al contrario della figura del Buddha che raggiunge l’illuminazione dopo aver esaurito il ciclo delle sue esistenze terrene, il bodhisattva è colui che sceglie di continuare a reincarnarsi per il bene degli esseri umani, spendendo per loro i propri meriti e aiutandoli a raggiungere il nirvana. Egli sacrifica sé stesso spinto dalla pietà e dall’amore verso gli uomini.

Secondo la tradizione buddhista di Nikāya, solo la sua figura può, per tale motivo, ascendere allo stato di Buddha. Gli uomini suoi discepoli, praticando per loro stessi, possono solo accedere allo stato di arhat, ovvero al nirvana, il fine ultimo della vita e luogo di estinzione di ogni dolore terreno.  Per le dottrine Mahayana, invece, ogni essere senziente è in grado di divenire Buddha, poiché possiede in sé tale natura. Essere bodhisattva, quindi, rappresenta solo un voto necessario, che, insieme alla costante pratica delle pāramitā, le virtù trascendenti, permette di raggiungere il massimo grado di illuminazione.

Nonostante la storia che si cela aldilà di queste due figure sia intrigante e ancora da chiarire, la possibilità di essere conosciuta e per le opere di essere ammirate ha un tempo circoscritto. Il “problema” dei tesori nascosti nei depositi deve ancora essere risolto, ma molte grandi istituzioni museali si stanno muovendo da questo punto di vista, pensando ad esempio a degli open storage, delle teche di vetro o scaffali scorrevoli che permettano al pubblico di fruire ugualmente in maniera più veloce delle opere depositate.

Staremo a vedere cos’altro si inventeranno, nel frattempo, però, vi invitiamo a visitare questa esposizione, la storia ora la conoscete!

 

di Amanda De Luca