Cinema giapponese
La signora Oyū / Oyū-sama
La famiglia del giovane Shinnosuke gli fa incontrare Shizu, avvenente ragazza, in vista di un matrimonio. Il ragazzo è in realtà affascinato dalla sorella maggiore, Oyū, ma si tratta di un amore impossibile per i vincoli che la legano alla famiglia del defunto marito. Si rassegna quindi al matrimonio con Shizu. Ma tra i tre si creerà una sorta di triangolo amoroso.
Il film sarà proiettato venerdì 18 dicembre alle ore 19.00 presso il Centro Incontri Culturali Oriente Occidente, Via Lovanio 8 (MM2 – Moscova) nel contesto della rassegna “Viaggio nel Giappone antico e moderno attraverso il cinema”, curata da Giampiero Raganelli.
Regia: Mizoguchi Kenji
Sceneggiatura: Yoda Yoshikata
Dalla novella Ashikari (I canneti) di Tanizaki Junichirō
Fotografia: Miyagawa Kazuo
Montaggio: Miyata Mitsuzō
Musiche: Hayasaka Fumio
Con: Tanaka Kinuyo (Kayukawa Oyū), Otowa Nobuko (Shizu), Hori Yuji (Seribashi Shinnosuke), Hirai Kiyoko (Osumi), Kongo Reiko (Kayukawa Otsugi), Yanagi Eijirō (Eitaro)
Produzione: Daiei Studios
Durata: 94’
Giappone, 1951
La novella di Tanizaki è raccontata attraverso la narrazione dei ricordi del figlio di Shinnosuke e Shizu, ormai vecchio, che l’autore finge di avere incontrato. Mizoguchi e il suo braccio destro, lo sceneggiatore Yoda Yoshikata, avevano inizialmente concepito una simile struttura per il film, prevedendo tre flashback. Nelle loro intenzioni si doveva restituire il senso onirico del ricordo del passato. La casa di produzione del film, la Daiei, tuttavia impose una narrazione diretta e lineare, temendo un insuccesso commerciale.
Per mantenere una distanza con l’oggetto della storia, Mizoguchi riprende quel classicismo di cui è impregnata l’opera del grande scrittore. Ricrea un mondo che, pur situandosi nella non lontana epoca Meiji, vive come se fosse nell’antico e aristocratico periodo Heian. Concerti di koto, ventagli, cerimonie del tè rievocano lo splendore e la raffinatezza dell’età d’oro della storia giapponese, così come il riferimento al Genji monogatari, che fu riadattato proprio da Tanizaki.
La stessa Oyu è il prototipo della dama di corte, bella, elegante e raffinata, ma anche malinconica, sensuale e misteriosa. Mizoguchi confeziona un altro di quei ritratti femminili per cui è passato alla storia del cinema. Oyū è come una sacerdotessa, che veste di un kimono bianco e vive in un santuario in mezzo ai boschi. Presiede la cerimonia del tè ed esegue solennemente recital di koto. Si identifica con i simboli femminili dell’acqua e della luna. “Aveva l’aria di una vecchia bambola di Kyōto, quell’aria serena ma profumata dalla classicità, l’aria che fa pensare subito alle donne e alle concubine segregate nella corte imperiale”, così la descrive Tanizaki. Mizoguchi pone l’accento anche sul suo essere prigioniera delle regole disumane e delle convenzioni proprie di un mondo tradizionale e decadente. Ancora una volta il grande regista esprime la sua mentalità umanista e illuminista, sensibile all’istanza della parità tra i sessi.
La sorella Shizu sembra la proiezione terrena di Oyū, mancante però del suo splendore. Vive le cose con serena rassegnazione, seguendo il principio del mono no aware. Shinnosuke invece è un uomo che incarna la passività assoluta: sono sempre le donne a decidere per lui. A differenza dei personaggi maschili autoritari e dispotici, che popolano il suo cinema, Mizoguchi lo caratterizza come effeminato, privo di virilità.
Da un punto di vista stilistico questo film fa abbondante uno dei plan-rouleau, i tipici lunghi movimenti di macchina laterali, così definiti dal filosofo Gilles Deleuze. Un immagine tipica del grande regista, che ricrea l’effetto dello rotolamento, in senso orizzontale, degli emaki-mono, i tradizionali rotoli di narrativa illustrata.
Mizoguchi Kenji
Mizoguchi Kenji (1898-1956), insieme a Ozu e Naruse, fa parte di quella triade imprescindibile del cinema giapponese classico.
Inizia la sua carriera nel 1923, nell’epoca del muto, realizzando perlopiù pellicole che si rifanno al teatro shimpa, ma anche numerosi adattamenti di classici della letteratura occidentale.
Arriva, negli anni ’40 e ‘50, a concepire i suoi capolavori, dallo stile visivo lirico e rigoroso e impregnati di un umanesimo tragico.
Il suo cinema ha rielaborato, ad altissimi livelli, la tradizione estetica giapponese, riprendendo il teatro classico e la pittura. Ma è anche permeato di ideali democratici e progressisti, con una grande attenzione verso l’universo femminile sottomesso, in un mondo comandato dagli uomini.
“Come Bach, Tiziano e Shakespeare è il più grande nella sua arte”, ha scritto il critico francese Jean Douchet, mentre Jean-Luc Godard ha detto “L’arte di Mizoguchi è di provare insieme che la vita è altrove e che pure essa è lì, nella sua strana e radiosa bellezza”.
Giampiero Raganelli