Il koto, lo strumento nazionale giapponese
Il koto (箏) è uno strumento tradizionale a corde, costituito principalmente da una tavola in legno di paulonia, tredici corde e i ponticelli mobili che le sostengono. Non solo è uno strumento molto antico, ma è anche stato riconosciuto come strumento nazionale del Giappone.
L’antenato del koto, il guzheng, fece il suo ingresso in Giappone nella seconda metà del periodo Nara (710 – 794) grazie agli scambi diplomatici tra il Giappone e la Cina T’ang. Dopo la sua introduzione nel Paese, questo strumento si affermò a partire dal secolo successivo come uno degli strumenti caratteristici della musica di corte. La sua presenza nelle vite degli aristocratici dell’epoca è testimoniata da molte opere letterarie del periodo Heian (794 – 1185), come ad esempio il “Makura no sōshi” (Note del guanciale) di Sei Shōnagon, il “Genji monogatari” (La storia di Genji) di Murasaki Shikibu o lo “Heike monogatari” (Storia della famiglia Taira). In un celebre passo del “Genji monogatari”, il principe Genji si innamora di una fanciulla sconosciuta ascoltando il koto da lei suonato. È grazie a episodi come questo che dall’epoca classica in poi, la musica del koto è considerata dai giapponesi come elegante e romantica.
All’epoca dell’arrivo del guzheng in Giappone, la parola “koto” indicava in modo generico gli strumenti a corda; tuttavia, dopo l’evoluzione e differenziazione di diversi strumenti, andò a indicare specificatamente il “sō no koto” (箏のこと), utilizzato presso la corte, a differenza del “kin no koto” (琴のこと), strumento molto simile ma senza ponticelli mobili. Al giorno d’oggi nella lingua scritta i due caratteri utilizzati per designare questi strumenti sono pressoché intercambiabili per indicare il sō no koto. Il nome degli strumenti, invece, è rimasto ben distinto, permettendo la distinzione tra kin e koto.
La tavola del koto viene solitamente poggiata a terra, è lunga circa due metri e larga tra i 24 ed i 25 cm, e, nonostante sia comunemente in legno di paulonia, la sua lavorazione può essere molto diversa, anche a seconda dell’artigiano che la crea. Si possono infatti trovare esemplari con bellissime decorazioni intarsiate in avorio, ebano, madreperla, guscio di tartaruga o figure metalliche, rendendo lo strumento un oggetto molto prezioso ed elegante. Originariamente, i ponticelli erano realizzati in avorio, che oggigiorno è sostituito dalla plastica o dal legno. Le corde, invece, possono essere ricavate da materiali diversi. Quelle tradizionali sono in seta gialla e, essendo più delicate, più costose e più deperibili rispetto alla loro controparte moderna, passano spesso in secondo piano. Ciononostante, a un orecchio esperto il suono prodotto risulta di qualità migliore, perciò alcuni musicisti ne fanno ancora uso.
Tra le varie parti che compongono il koto, i ponticelli giocano un ruolo fondamentale. Spostandoli o sostituendoli con altri di altezza diversa, infatti, cambia anche la nota prodotta. Oltre a ciò, i ponticelli richiedono particolare attenzione: dato che sono fragili si consumano facilmente e potrebbero rompersi. Suonare un koto antico, inoltre, può rivelarsi ulteriormente insidioso: la superfice su cui poggiano i ponticelli potrebbe risultare usurata, rischiando quindi di spostarli o persino farli cadere quando si tocca la corda.
Dietro al koto, il suonatore suona stando in ginocchio pizzicando le corde con tre plettri, indossati sui polpastrelli delle prime tre dita della mano destra. Questi possono essere squadrati o appuntiti e vengono scelti a seconda del tipo di musica che si intende suonare dato che la loro forma influenza il suono prodotto dalla corda. Come anticipato nelle prime righe dell’articolo, il koto ha solitamente tredici corde, ma ne esistono anche altri modelli dalle diverse funzioni. Ad esempio, quelli a diciassette corde producono note più profonde e nelle orchestre solitamente fungono da bassi.
Nel terzo millennio, il koto non è stato lasciato indietro, anzi, trova spazio anche nella musica contemporanea. Sono molti infatti i musicisti e cantanti giapponesi che lo includono nella propria musica contemporanea, spaziando dal jazz al pop e alla musica sperimentale. Andando indietro di qualche decennio e spostandoci nel panorama britannico, ritroviamo il koto persino in pezzi come “Moss Garden” (1977) di David Bowie, “Take It Or Leave It” (1966) dell’ex chitarrista dei The Rolling Stones Brian Jones, o ancora “The Red Flower of Tachai Blooms Everywhere” (1979) dell’ex chitarrista dei Genesis Steve Hackett. A questi esempi si aggiunge anche l’album “Silenziosa Luna” (2008), costituito da brani del compositore italiano Carlo Forlivesi. Questi brani sono interpretati da musicisti giapponesi di koto, biwa, un liuto a manico corto, chitarra e shakuhachi, un flauto in bambù.
Il koto è quindi uno strumento dalla lunga storia e tradizione, che ha l’adattabilità di fare ancora parte dello scenario musicale giapponese e non solo, grazie alle sue caratteristiche note che ancora fanno emozionare.
Francesca Mora